"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

201 | aprile 2023

97888948401

Verso una storia naturale dell’arte

Aby Warburg davanti a un rinascimento indoamericano

Salvatore Settis*, con ”Reperti scartati” (Postilla 2023) 

English abstract

La storia del viaggio di Aby Warburg in New Mexico e Arizona, che per molto tempo è stata poco più di una curiosità erudita, è ormai conosciuta molto bene, e lo sarà ora ancor di più grazie alla mostra delle foto di Warburg e al libro che la accompagna, entrambi a cura dell’Istituto Warburg (Cestelli Guidi, Mann 1998). Tuttavia, essa può essere raccontata in molti modi diversi. La versione più diffusa e corrente, che si basa soprattutto sulle notizie fornite dalla biografia intellettuale di Warburg scritta da Gombrich, si può riassumere più o meno così: nel 1895 Warburg, che aveva 29 anni e aveva già pubblicato alcuni dei suoi studi più famosi (in particolare, quelli su Botticelli e sulle feste fiorentine del 1589), si recò in America per ragioni familiari e poi, spintovi da curiosità intellettuali nate durante visite a istituzioni americane (specialmente la Smithsonian) e incontri con antropologi, intraprese il suo viaggio nel South-West. Vi raccolse vario materiale, in particolare fotografie e disegni (suoi e di bambini indiani), ma anche ceramica e oggetti rituali, che portò poi con sé ad Amburgo, e mostrò le sue fotografie in alcune occasioni, sia ad Amburgo che a Berlino. Molti anni dopo (il 21 aprile 1923), quando era in cura nella clinica di Ludwig Binswanger a Kreuzlingen sul Lago di Costanza, Warburg tenne una conferenza in cui utilizzava il materiale raccolto in America. Essa aveva lo scopo di dimostrare a se stesso e al suo medico che egli aveva recuperato la salute mentale (e perciò poteva essere dimesso e poteva tornare agli studi e alla vita attiva). La scelta del tema sarebbe perciò strettamente autobiografica: il controllo sulle forze della natura esercitato dagli Indiani mediante il simbolo e il rito sarebbe una sorta di metafora del recuperato controllo sulla propria psiche. Questa interpretazione si accompagna spesso a una visione dell’opera di Warburg come fortemente condizionata da fobie e idiosincrasie personali, e per questo isolata, marginale e irripetibile. Così raccontata, la storia del viaggio di Warburg risulta confinata fra i suoi iuvenilia, o marginalia: essa ha scarso o nessun rapporto col suo lavoro di storico dell’arte e della cultura, è un’escursione da antropologo dilettante, da fotografo dilettante, da ricco turista europeo in terreni esotici e ancora non di moda. 

Questo statuto ‘basso’ (marginale, da dilettante, non scientifico) del lavoro di Warburg sulla cultura Hopi, in contrasto con quello ‘alto’ dei suoi lavori sul rinascimento italiano, su Dürer o su Lutero, sembra confermato dal fatto che Warburg non solo non pubblicò in vita nulla su temi indoamericani, ma lasciò sulla prima pagina del suo dattiloscritto una nota, datata agosto 1923, in cui espressamente ne vietava la pubblicazione. Nonostante ciò, il suo testo fu pubblicato (postumo): prima in una versione abbreviata, in inglese, nel “Journal of the Warburg Institute” del 1939, e più tardi in una traduzione italiana da una versione più ampia (“aut aut” 1984); il testo originale tedesco comparve solo nel 1988 (Berlino, Wagenbach), con una eccellente postfazione di Ulrich Raulff (questa versione, purtroppo senza aggiornamenti nemmeno bibliografici, è stata recentemente riproposta in italiano da Adelphi). Infine, nel 1995 Michael Steinberg ha curato un’edizione inglese seguita da un’ampia postfazione (Cornell University Press).

Anche Steinberg ha una sua storia da raccontare: secondo lui, Warburg era così interessato a raccogliere materiali sugli Hopi perché “sentiva un parallelo fra gli Hopi e gli Ebrei come primitivi in un mondo in espansione, definito dalla modernizzazione economica, tecnologica e culturale. Si può parlare qui di primitivismo non solo in relazione agli Ebrei dei villaggi polacchi – di cui Steinberg ha trovato alcune fotografie nell’archivio di Warburg – ma anche ai residui ritualistici presenti nelle pratiche della comunità ebraica di Amburgo” (Steinberg 1995, 86). Ancora una volta, un’interpretazione in chiave autobiografica; tanto più che, secondo Steinberg “Warburg non riusciva, o forse rifiutava, di scegliere” fra “la posizione dell’osservatore e decodificatore di immagini” e quella dell’osservato; e perciò tendeva a riconoscere negli Hopi degli elementi ‘primitivi’ propri del suo orizzonte di ebreo amburghese. Inoltre, secondo Steinberg: “Warburg deve aver pensato a un parallelo fra la condizione degli Indiani d’America in quanto minoranza etnica negli Stati Uniti e la condizione degli Ebrei nella Germania imperiale”. Ora, non c’è alcun dubbio che, come ha mostrato specialmente Charlotte Schoell-Glass, Warburg raccogliesse materiali sull’antisemitismo crescente, e anzi che la sua giustificata ossessione per questo tema fosse fra le cause della sua malattia mentale (Schoell-Glass 1998); ma se ci fu una sua identificazione con gli Hopi, non credo che sia stato per questo; e l’atteggiamento ben noto di Warburg durante la guerra mondiale mostra bene che egli si identificava, semmai, proprio con la Germania imperiale.

Ben più interessante è un’altra versione della storia, quella di Ulrich Raulff nella sua bella postfazione all’edizione tedesca (ora in italiano nel libro Adelphi che ho citato). Raulff ha collegato la visita di Warburg nei villaggi Pueblos con la ricerca che vi facevano negli stessi anni etnologi e antropologi americani (coi quali Warburg fu in personale contatto), e ha suggerito inoltre un possibile nesso del suo interesse per l’arte degli Indiani con quello per l’arte contemporanea, e con analoghe curiosità per le bambole katchina manifestate da artisti europei. I disegni di bambole katchina di Emil Nolde avrebbero dunque qualcosa in comune, sul piano del gusto, non solo con le bambole katchina che Warburg portò ad Amburgo dal suo viaggio americano, ma anche col suo gusto per l’arte contemporanea, in particolare l’ammirazione per Franz Marc. Questa direzione suggerita da Raulff è molto importante; tuttavia, un vero e proprio interesse degli artisti europei per le bambole katchina comincia solo negli anni Trenta, coi Surrealisti e le collezioni di André Breton e Max Ernst, e anche i disegni di Emil Nolde (che fanno parte di una serie Kunstäußerungen der Naturvölker), per quanto precoci, datano solo al 1911-12, sedici anni dopo il viaggio di Warburg a Walpi e a Oraibi. Infine, la sua ammirazione per Franz Marc (che emerge anche in testi del 1917-18) è in ogni caso successiva all’almanacco del Blaue Reiter (1912). È dunque chiaro che l’interesse di Warburg per le espressioni artistiche degli Indiani Pueblos è parallelo (cronologicamente) all’interesse manifestato dagli artisti per le arti extraeuropee, ma non specificamente per quella dei Pueblos; inoltre, esso naturalmente non era finalizzato alla ricerca di nuovi modelli per la produzione artistica. 

La storia che proverò ora a raccontare – o meglio a ri-raccontare, perché ne ho già parlato, anche se in forma meno elaborata, a Berlino nel luglio del 1992, al XXVIII congresso internazionale di storia dell’arte, è molto diversa da queste (cfr. S. Settis, Kunstgeschichte als vergleichende Kulturwissenschaft: Aby Warburg, die Pueblo-Indianer und das Nachleben der Antike, in Künstlerischer Austausch / Artistic Exchange. Akten des XXVIII. Internationalen Kongresses für Kunstgeschichte, Berlin, 15.-20. Juli 1992, hrsg. V.T.W. Gaethgens, Berlin 1993, 39-158). Sosterrò che le riflessioni di Warburg sulla cultura Hopi sono strettamente organiche al suo lavoro di studioso, e anzi lo illuminano; che egli, per quanto certo non si sentisse un antropologo professionale, riteneva tuttavia di aver trovato fra gli Hopi una chiave vincente per intendere almeno tre problemi che dominavano la sua ricerca professionale: quello della sopravvivenza, o rinascita, delle forme antiche (Nachleben der Antike), quello del rapporto generativo e legittimante che lega il rito – nei suoi aspetti performativi – alle immagini e alla loro tradizione, e infine quello del ruolo della creazione artistica nella definizione della cultura umana.

1 | Hemis Katchina in un luogo di riposo, doppia esposizione ritratto di Aby Warburg, Oraibi, maggio 1896.

Prima di tutto, se è vero che Warburg non pubblicò in vita nulla sul suo viaggio fra gli Hopi, non è meno vero che i suoi continuatori diretti, Fritz Saxl e Gertrud Bing, inclusero il testo di Kreuzlingen fra gli inediti di Warburg che dovevano essere presto pubblicati. Come si sa, i primi due volumi delle Gesammelte Schriften di Warburg, col titolo Die Erneuerung der hednischen Antike, furono pubblicati con la data 1932, ma in realtà all’inizio del 1933, dunque alla vigilia della presa del potere da parte dei nazisti, e del trasferimento della Biblioteca Warburg a Londra. L’abitudine invalsa di citare Die Erneuerung der heidnischen Antike come le sue Gesammelte Schriften è non solo tecnicamente scorretta, ma sviante: ‘chiude’, senza dirlo espressamente, il corpus degli scritti di Warburg, che al contrario doveva continuare con altri volumi, anche se ciò non avvenne a causa del forzato trasferimento a Londra e di tutte le difficoltà di adattamento che ne conseguirono. Ma nelle prime pagine del I volume Saxl tracciava il programma dei volumi successivi: il III doveva essere un’edizione di Mnemosyne, il IV doveva contenere “le conferenze e articoli di scienza della cultura”; dovevano seguire ancora due volumi, e infine, come VI, il catalogo della Biblioteca. Nelle stesse pagine, Gertrud Bing dava un’idea del contenuto degli inediti da pubblicare: “Fra di essi si trovano studi di cui in questi due primi volumi si pubblicano solo brevi riassunti, come quelli su un antico inventario mediceo, sull’“Ingresso dello stile anticheggiante nella pittura del Rinascimento” e sulle “Migrazioni delle divinità antiche”; ma anche conferenze più tarde e del tutto inedite, sul significato storico-religioso delle danze col serpente degli Indiani, sull’antichità italiana nell’età di Rembrandt, sui francobolli come veicolo per la rappresentazione del potere politico”. Sebbene né Saxl né Bing abbiano poi messo in atto questo piano, la pubblicazione del testo di Kreuzlingen nel Journal dell’Istituto Warburg ne costituiva chiaramente un primo passo; il secondo fu la pubblicazione in traduzione italiana del testo sull’Ingresso dello stile anticheggiante nella pittura del Rinascimento, nel volume La rinascita del paganesimo antico, curato da Gertrud Bing (1966). Inoltre, già nel 1930 (a un anno dalla morte di Warburg) Saxl aveva tenuto nella Biblioteca ad Amburgo una conferenza, Warburgs Besuch in Neu Mexico, più tardi pubblicata nelle Lectures (1957), e lo aveva fatto davanti a un pubblico speciale, quello del XXIV congresso internazionale degli americanisti, che Warburg, in vita, aveva invitato nella propria Biblioteca (in questo stesso numero di Engramma pubblichiamo il testo della conferenza di Saxl nella versione inglese del 1957 e nella traduzione italiana pubblicata in “aut aut” nel 1984).

Per Saxl e per Bing dunque, il testo di Warburg NON era marginale: meritava di essere pubblicato come gli altri inediti, meritava di essere considerato come una parte significativa del suo lavoro di storico della cultura. Ma come stavano le cose per Warburg stesso? Prima di tutto, come ho detto, egli già nel 1897 tenne tre conferenze, commentando le fotografie degli Hopi (la prima, il 10 febbraio del 1897, all’American Club – il titolo del manoscritto è The Pueblo Indians – la seconda, il 16 marzo 1897, alla “Gesellschaft zur Förderung der Amateur-Photographie in Hamburg”, la terza poco dopo davanti a un analogo pubblico a Berlino). Inoltre, nel 1898, in una mostra di Amburgo dal titolo Das Kind als Künstler, presentò con brevi note i disegni dei bambini indiani (che dovevano poi avere un’importanza notevole nel testo di Kreuzlingen); e nel 1902 donò al Museum für Völkerkunde di Amburgo la propria collezione di circa 120 oggetti indoamericani. Intanto, fin dal 1896-97 egli aveva proposto al pastore mennonita Henry Voth, che aveva incontrato a Oraibi, una pubblicazione congiunta su alcuni riti indiani (così Cestelli Guidi 2002; Cestelli Guidi 2003). Le conferenze del 1897 possono sembrare, per le sedi in cui furono fatte, meramente di circostanza e ininteressanti, anche per il tono riduttivo con cui ne parla Gombrich:

All he did on his return to Hamburg was to present the objects he had bought to the Ethnological Museum and to give a lecture to the Photographic Society, showing his snapshots from the trip (Gombrich 1970, 92).

Inoltre, il fatto stesso che Gombrich tratti in due capitoli distanti e separati del suo libro (il V e l’XI) il viaggio del 1895 e la conferenza del 1923 (per quanto naturalmente giustificato dall’ordine cronologico) può favorire l’impressione che quel viaggio fu qualcosa di occasionale, e la conferenza ne fu sì la ripresa, ma solo come reazione alla malattia mentale.

Possiamo correggere quest’impressione prima di tutto ricordando che anche alla conferenza del 1923 (ora nota come Schlangenritual, “Il rituale del serpente”) Warburg diede un titolo volutamente dimesso: Bilder aus dem Gebiet der Pueblo-Indianer in Nord-Amerika. In piena continuità con i primi tentativi del 1897, la conferenza si presentava dunque come una serie di immagini commentate. Ma da alcuni testi di Warburg abbiamo informazioni dirette sulle sue intenzioni. In una lettera ai genitori da Santa Fe, egli insiste sull’importanza di studiare le connessioni fra la cultura vivente degli indiani Pueblos e i manufatti che si rinvenivano nelle rovine abbandonate di antichi insediamenti dei loro progenitori; e ciò perché, dice:

Decisamente vedo nella comprensione profonda della vita e dell’arte di un popolo ‘primitivo’ un correttivo validissimo nello studio di qualsiasi produzione artistica (Lettera del 14 dicembre 1895, WIA GC/27729).

Andare fra i Pueblos, dunque, per correggere il modo di studiare il Rinascimento. Ma in che senso? Cerchiamo la risposta nelle sue conferenze sul viaggio americano tenute immediatamente dopo, nel 1897. In quella di Berlino, egli afferma:

Ecco le ragioni che hanno indotto me, in quanto storico dell’arte, a visitare precisamente i gruppi di Indiani Pueblos in New Mexico e Arizona: prima di tutto, che in quella cultura si può riconoscere meglio che in tutte le altre la connessione fra idee e rappresentazioni di una religione pagana e produzione di arte figurativa; e poi anche che nella loro cultura si può trovare un ricco materiale per studiare il problema della nascita di un’arte simbolica.

Qui dunque il giovane Warburg afferma esplicitamente che si è recato fra gli Indiani “in quanto storico dell’arte”, per imparare lì qualcosa che potesse riuscire utile al suo lavoro. Capiamo meglio perché da un passo della conferenza di Amburgo dello stesso 1897:

Mentre ero a Washington, dalle pubblicazioni della Smithsonian Institution mi fu chiara l’esistenza di connessioni specifiche fra la produzione artistica dei Pueblos di oggi e la loro civiltà antica-pagana (che è stata modificata, ma non profondamente influenzata, dall’intermezzo spagnolo). Tali connessioni offrono un contributo della massima importanza alla comprensione, sul piano etnologico, della questione dell’origine dell’opera d’arte, e in particolare alla storia delle forme ornamentali.

A questo fine, continua, nel suo viaggio egli volle comprendere “le concezioni degli Indiani e il modo come si riflettevano nella loro arte”, e inoltre “raccogliere alcuni esempi della loro arte, soprattutto ceramica e oggetti rituali”.

Questi passi rendono molto chiaro che, per il giovane Warburg, quella fra gli Indiani d’America non fu un’escursione da dilettante, ma una ricerca di materiali per risposte radicali a domande radicali. Secondo la mia versione della storia, dunque, la conferenza di Kreuzlingen non fu solo una reazione autocurativa alla propria malattia mentale, ma ebbe il valore di un energico heri dicebamus, di un ritorno al lavoro dopo la dura parentesi della malattia. Questa non è una mia congettura, ma corrisponde precisamente a quanto Warburg scrive in appunti presi nel 1923 stesso:

Mi pare che questa conferenza sembrerà ai medici che mi curano un sintomo consolante della mia intatta capacità di comunicare. Ma essi non capiranno quella che è per me la cosa più sorprendente e gratificante: questa conferenza rappresenta in realtà una diretta continuazione e perfezionamento della mia attività di ricerca, per come l’avevo cominciata prima della malattia.

È naturale che, per riprendere la propria attività di studio dopo la malattia, Warburg scegliesse un tema che considerava importante per la sua attività di studio; chi considera la conferenza di Kreuzlingen come null’altro che un sintomo della sua guarigione si mette dal punto di vista dei suoi medici, non da quello dello storico. A questa ‘ripresa del lavoro’ si collegavano dunque, in piena continuità, i suoi immediati eredi, Saxl e Bing, quando inclusero il testo di Kreuzlingen fra gli inediti da pubblicare. Nello stesso senso testimonia infine il fatto che Warburg nei suoi ultimissimi anni progettasse un nuovo viaggio in America, dove intendeva completare Mnemosyne, specificamente per mettere in parallelo “il rapporto con l’Antichità in Italia e l’Antichità presso gli Indiani d’America” (così in un appunto del 1927, pubblicato da Philippe-Alain Michaud), dichiarando in una lettera ai fratelli (citata da Steinberg) “che il lavoro sugli Hopi era centrale nello sviluppo delle sue ricerche”: il viaggio non avvenne perché Binswanger lo sconsigliò, ma Warburg (in una lettera resa nota da Ulrich Raulff) scrisse che il suo atlante “sarebbe riuscito mille volte migliore se avessi potuto partire” (Michaud 1998).

Riassumiamo: a quanto ci dice Warburg, egli intraprese il suo viaggio fra gli Indiani d’America precisamente in quanto storico dell’arte, e le riflessioni che ne trasse dovevano avere per lui il valore di un potente correttivo nello studio della storia dell’arte; il rapporto con l’antichità pagana nell’arte italiana trovava fra gli Indiani delle analogie significative e illuminanti; la cultura Hopi mostrava meglio di ogni altra la connessione fra riti pagani e arte figurativa; infine, era possibile comprendervi meglio che altrove “la questione dell’origine dell’opera d’arte”. Ma dobbiamo ora domandarci: un correttivo, rispetto a che cosa? E come doveva funzionare questo correttivo? Quali erano gli strumenti intellettuali per rinnovare lo studio dell’arte europea riflettendo su riti e ceramiche amerindiane?

L’insoddisfazione per la storia dell’arte come disciplina, nel modo in cui era insegnata e praticata nelle università europee, è Leitmotiv degli scritti e degli appunti di Warburg; ma a questa insoddisfazione doveva corrispondere per lui un profondo rinnovamento. Esso non prese mai la forma di un compiuto progetto, ma se ne possono indicare varie approssimazioni, in particolare due: la prima è l’abbozzo di un Bildungsroman epistolare (circa 1900), scritto a quattro mani con l’amico olandese André Jolles, dove, attraverso il rapporto con la figura emblematica della Ninfa, venivano contrapposte due figure fittizie, due ‘tipi’ opposti della recezione dell’opera d’arte: l’intenditore, concentrato sul mero godimento estetico, e il filologo, proiettato verso la dimensione storica e sociale dell’opera d’arte (quest’ultimo era, nel gioco delle parti, il ruolo di Warburg, mentre Jolles ricopriva l’altro ruolo). Il secondo tentativo è una lettera (1903) ad Adolph Goldschmidt, in cui Warburg traccia una sorta di quadro generale degli storici dell’arte, suddividendoli in due gruppi: da un lato, gli “storici dell’arte entusiastici […], che però alla fin fine hanno il temperamento di un buongustaio”, e sono i creatori di una “panegyrische Kunstgeschichte” (come Justi, Morelli, Venturi, Berenson); dall’altro, gli esploratori di una “storia dello stile in quanto determinato dai condizionamenti di forze sociali che impongono specifiche forme”: qui l’elenco comprende Wölfflin, Vöge, Schlosser, Wickhoff e lo stesso Warburg, differenziati fra loro a seconda di quali ‘condizionamenti’ avevano ritenuto più significativi. La polemica contro le varie forme di “ästhetisierende Kunstgeschichte” non vuol dire però in nessun modo che Warburg neghi o sottovaluti le qualità estetiche dell’opera d’arte. Si può anzi dire con Martin Warnke che Warburg “ha avuto fin troppa fede nella forma estetica, al contrario dell’opinione di molti storici dell’arte, secondo cui, per mancanza di sensibilità estetica, egli avrebbe mostrato insufficiente attenzione ad essa” (Warnke 1980). Il nucleo iniziale da cui si dipana il lavoro di Warburg è l’emozione (o la risposta) estetica di fronte alle immagini: un sentimento umano universale e importante, del quale egli intese cercare la fonte e il valore, ma prescindendo dallo statuto dell’‘arte’ nella società contemporanea, e cioè dall’‘artisticità’ come valore. Proprio perché vedeva chiaramente il problema della qualità nell’arte, Warburg ne cercava una spiegazione radicale, che come tale doveva liberarsi dal linguaggio degli ‘entusiasti’. Nella risposta estetica dell’uomo moderno, egli riconosceva un nocciolo intimo e remoto, proprio della natura umana, e perciò identico a quello che caratterizza le reazioni alle immagini (e al mondo) dell’uomo primitivo: un nucleo incandescente, che all’origine – nelle fasi più antiche della storia umana – faceva delle immagini uno degli strumenti per l’orientamento dell’uomo nel mondo, per la sua faticosa ricerca di un equilibrio attraverso il controllo dell’altro-da-sè, e che si è perpetuato, per così dire filogeneticamente, fino a noi, trasformandosi profondamente. Ora, secondo l’insegnamento del suo maestro di Bonn, Hermann Usener, ritrovare quel nucleo originario corrispondeva a un processo propriamente ‘etimologico’. Questo è il quadro che dà senso al suo interesse, cruciale, per il Nachleben der Antike, e più in generale per il problema delle ‘riprese’ di formule e stili, a distanza di secoli: questo processo permette infatti di riconoscere l’autenticità della creazione estetica originaria mettendola alla prova mediante la sua capacità di agire profondamente su artisti e osservatori dopo secoli di oblio. Questo processo può essere descritto come un’alternanza, altamente drammatica, di perdita di significato, a cui corrisponde l’irrigidirsi in formule, e riacquisto di significato, a partire dalle formule che erano sembrate, per secoli, inerti e morte. Questa improvvisa riappropriazione di un antico patrimonio artistico (per esempio, nel Rinascimento fiorentino) non si può spiegare se non attraverso un processo simpatetico, un atto di Einfühlung che implica una sorta di pulsione etimologica, la riscoperta del significato (cioè delle emozioni connesse) dietro la rigidità della formula ormai fuori uso. Il modello che Usener aveva usato nei Götternamen (un libro fondamentale per capire Warburg) andava applicato alla storia dell’arte: la divinatio etimologica poteva scoprire le radici dell’esperienza religiosa collettiva nei nomi degli dèi; e il nuovo storico dell’arte preconizzato da Warburg (stavolta sí in modo autobiografico) doveva similmente scoprire nelle immagini (in particolare nelle Pathosformeln) l’originario nucleo di emozione da cui erano scaturite. Ma Usener è di capitale importanza per capire Warburg anche per un’altra ragione: come ha scritto Saxl, Warburg “imparò in America a guardare alla storia europea con gli occhi di un antropologo […] e fu proprio in quanto scolaro di Usener che egli intraprese il suo viaggio americano”. Il filologo classico Hermann Usener, professore a Bonn negli anni in cui Warburg vi era studente, aveva praticato precocemente un metodo comparativo che guardava a Greci e Romani in confronto con altre culture (in particolare, con usanze ‘primitive’), con grande scandalo dei filologi benpensanti. La comparazione con altre civiltà per comprendere quella che costituisce l’oggetto principale dei propri studi: questo faceva Usener con l’antichità classica, questo fece Warburg col rinascimento italiano. La comparazione col ‘primitivo’ non è per lui occasionale, ma finalizzata a intendere la fonte di quel nucleo incandescente di emozione estetica, l’arte in statu nascendi, l’arte senza storici dell’arte e senza salotti borghesi; la sua storia dell’arte, in quanto Kulturwissenschaft, può e deve essere ‘estetica’, ma non può e non deve essere ‘estetizzante’. Al tempo stesso, la procedura della comparazione, in quanto richiede l’immersione in un’altra cultura, crea la distanza dall’oggetto dei propri studi che porta a una forma superiore di comprensione: è questo lo ‘sguardo antropologico’ di cui parla Saxl. In un appunto del 1923, Warburg formula così le ragioni del suo viaggio americano:

Davanti alla storia dell’arte estetizzante mi aveva preso un vero e proprio senso di disgusto. Mi pareva chiaro che trattare le immagini da un punto di vista formale, senza considerarle un prodotto biologicamente necessario, a metà fra la religione e la pratica artistica, riducesse la storia dell’arte a uno sterile chiacchierio.

Questa ‘necessità biologica’, che è propria dell’uomo e non di questa o quella civiltà, di produrre immagini è senz’altro una buona formula per caratterizzare il progetto di Warburg. Egli cercava fra gli Hopi materiale di comparazione per costruire una fondazione antropologica della risposta estetica, o una storia naturale dell’arte, basata sull’individuazione di un nocciolo espressivo ‘forte’ delle immagini, che potesse costituire un filo continuo dall’arte ‘primitiva’ a quella ‘civilizzata’, e servire sia a spiegare il problema delle ‘riprese’, e in particolare del Nachleben der Antike, sia l’emozione estetica; in ultima analisi, anche la qualità artistica, e perfino l’odiata “storia dell’arte estetizzante”. In questo senso, l’esperienza diretta, sul campo, dell’arte Hopi valse per Warburg come un potente correttivo: perché la comparazione, l’approccio antropologico, poteva aggiungere alla storia dell’arte una dimensione nuova e promettente.

Credo di aver così risposto a due domande: perché Warburg riteneva lo studio dell’arte dei Pueblos ‘un correttivo’ alla propria storia dell’arte, e quale era lo strumento (la comparazione) che rendeva ‘operante’ questo correttivo. Vediamo ora come Warburg operò, e quale ruolo ebbero rispettivamente nelle sue riflessioni il rito e l’arte figurativa. Il fatto che buona parte della sua conferenza sia dedicata a descrivere danze rituali, e che il suo titolo corrente sia ormai Il rituale del serpente non deve farci dimenticare che (come risulta dai testi citati del 1897) l’arte figurativa, in particolare la ceramica e gli oggetti rituali, erano al centro dell’interesse di Warburg, e il rito era evocato e studiato per spiegare la funzione e la lunga durata del simbolo nella sua espressione figurativa.

Proviamo ora a ripercorrere il suo lavoro da questo punto di vista: come lo studio di uno storico dell’arte europea che, seguendo l’esempio di Usener, cercava in una cultura ‘primitiva’ (che aveva l’enorme vantaggio di produrre arte, ma non storici dell’arte) la radice della creazione artistica come ‘necessità biologica’ dell’uomo, e lo faceva includendo nel suo orizzonte il rito e le immagini. I testi del 1897 che ho citato sopra ci serviranno come chiave di lettura del viaggio di Warburg iuxta sua propria principia: lo studio dell’arte Hopi, e in particolare del suo sistema decorativo, aveva nei suoi studi una precisa funzione: doveva ‘servirgli’ per affrontare, con sguardo etnologico, problemi più generali: la nascita di un’arte simbolica, la connessione fra rito e immagine, il rapporto fra la cultura Hopi del suo tempo e quella dei loro remoti antenati pagani, prima di ogni influsso cristiano.

Quando Warburg mise piede sul suolo americano, egli non sapeva nulla dei Pueblos. Aveva però qualche curiosità (forse connessa ai suoi interessi per l’astrologia) per i calendari degli indiani Dakota, dipinti su pelli di bisonte; e si recò prima al Peabody Museum di Cambridge per vederli. Di qui andò poi alla Smithsonian Institution di Washington, e fu qui che trovò “le basi scientifiche e il senso dello scopo del proprio viaggio”: venne a sapere che pochi anni prima, sulla Mesa Verde nel Colorado, erano stati scoperti per caso e poi scavati degli insediamenti precolombiani ricchi di ritrovamenti archeologici. Gli indiani che fornivano la manodopera dello scavo designarono gli abitanti di quei villaggi distrutti col nome di Anasazi (tutt’ora in uso), una parola della lingua Navajo che vuol dire ‘Antenati dei Nemici’; gli Hopi dicevano infatti che in quei villaggi avevano vissuto i loro antenati, che non appartenevano alla stirpe Navajo (i Navajos avevano invaso quelle terre solo più tardi). La prima descrizione scientifica del ritrovamento era stata offerta solo due anni prima del viaggio di Warburg in un libro dell’archeologo svedese Gustav Nordenskjöld: fu a Washington, con questo libro in mano, che Warburg decise il suo viaggio (Nordenskiöld 1893). Aveva scoperto che esisteva un’antichità americana, da poco riemersa (in una lettera ai genitori parla di una “Pompei americana”), e voleva studiare come si rapportavano ad essa gli Indiani del suo tempo.

Le tappe del viaggio di Warburg corrispondono a un progressivo focalizzarsi del suo interesse di ricerca. Prima di tutto, si recò alla Mesa Verde, ospite di quei Wetherill che ne erano stati i primi scopritori; poi andò verso sud, e partendo da Santa Fe e Albuquerque visitò vari villaggi (pueblos) degli Indiani, sia nel New Mexico che in Arizona; dopo due mesi in California, tornò fra i Pueblos, visitando i villaggi Hopi di Walpi e Oraibi (aprile-maggio 1896). A tre miglia da Walpi, Jesse Walter Fewkes, un archeologo della Smithsonian Institution, aveva scavato solo pochi mesi prima (nell’estate del 1895) le rovine di un antico villaggio, Sikyatki (Casa Gialla), ricchissime di ritrovamenti ceramici. Il primo rapporto di scavo fu pubblicato solo nel 1898, ma Warburg aveva già potuto vedere a Washington (grazie a Cyrus Adler, bibliotecario della Smithsonian Institution) una parte dei materiali; altri ne vide e (ciò che è ancora più importante) ne comprò sul posto. Questi vasi appartengono a quello che si chiama oggi lo stile ceramico “Sikyatki polychrome”, e si data fra il XV e il XVII secolo. C’era davvero dunque una “Pompei americana”: ma c’era anche molto di più.

Nel villaggio di Hano, abitato dai Tewa (cioè da un piccolo gruppo etnico che si era rifugiato presso gli Hopi della Prima Mesa nel 1702, per sfuggire alla cristianizzazione forzata dopo la rivolta dei Pueblos del 1680), la ceramica era ed è ancora – come anche presso gli Hopi – arte femminile. Una ceramista di quel villaggio, di nome Nampeyo, avendo visto per caso frammenti di ceramica antica, decise di trarne ispirazione, e modificò radicalmente il suo stile personale, trasformandolo nel senso di quello dei propri antenati di tre-quattro secoli prima (il suo nome, Nungbe-yong significa “Serpente-di-sabbia”). Fino a pochi anni fa si credeva che ciò fosse avvenuto dopo gli scavi di Sikyatki: questa versione dei fatti si basava sul resoconto di Fewkes, secondo il quale Nampeyo avrebbe chiesto a lui il permesso di copiare da frammenti ceramici scoperti nel suo scavo. In realtà, come ha dimostrato Barbara Kramer (che ha dedicato a Nampeyo un libro [1996] e una voce sul Grove Dictionary of Art), dai diari di un antropologo scozzese, Alexander Stephen, risulta chiaramente che già nel 1892 Nampeyo “traeva i propri disegni da frammenti di vasi antichi”. Inoltre, Robert Ashton ha proposto di riconoscere lo stile di Nampeyo in alcuni vasi che risultano in una collezione privata dal 1888 (Ashton 1976). Anche se quest’ultimo punto non può essere provato in modo conclusivo, risulta comunque chiaro che gli scavi di Sikyatki non fecero che dar forza a una tendenza che Nampeyo aveva elaborato alcuni anni prima, certo sulla base di rinvenimenti occasionali di ceramiche antiche. Già dallo studio di Ruth Bunzel sui vasai Pueblos (Bunzel 1929) risulta che questo non fu un fenomeno isolato. Nella sua lunga vita (c. 1860-1942), Nampeyo fu a sua volta imitata da altre donne, e ne nacque rapidamente tutta una produzione di vasi ‘all’antica’, che non erano falsi, perché quasi nessuno è una copia puntuale di un vaso antico, ma riadoperavano gli antichi motivi, entrando intimamente nella loro logica decorativa. Per distinguerlo dallo stile Sikyatki, gli archeologi chiamano questo stile Sikyatki revival. Secondo Bunzel:

Davanti all’ampio spettro di motivi decorativi dello stile di Sikyatki, le ceramiste Hopi sono conoscitrici raffinatissime. Anche se i loro vasi sono spesso piuttosto rozzi e sempre fatti in fretta, sono però capaci di scegliere invariabilmente i loro disegni dai vasi Sikyatki di più alta qualità.

Ancora al tempo della visita di Ruth Bunzel, Nampeyo era la figura dominante di questa nuova tendenza stilistica ‘antichizzante’:

Nampeyo, che ha fondato la nuova scuola di ceramica e ne è ancora la rappresentante principale, ha una fortissima personalità. Lo stimolo al suo stile venne, è vero, da qualcosa di esterno, ma il suo gusto infallibile e la sua vitale sensibilità riuscirono a vitalizzare dei modelli che potevano anche restare lettera morta. Nampeyo non copiava i modelli Sikyatki: piuttosto, la sua immaginazione ricreava il senso Sikyatki della forma.

Questo massiccio revival dell’antico era un problema anche per la Bunzel, che non conosceva Warburg, né certo aveva in mente il Nachleben der Antike nell’Italia del Quattrocento. L’etnologa intervistò un certo numero di donne Hopi che lavoravano, nella scuola di Nampeyo, nello stile “Sikyatki revival”, chiedendo loro quali fossero le loro fonti d’ispirazione. Le risposte indicano tre fonti: (1) l’insegnamento della madre; (2) disegni comparsi in sogno; (3) vasi antichi, che le donne dichiarano di andare a cercare, dopo la pioggia, nelle rovine di Sikyatki. Naturalmente, “when Hopi potters dream designs, they are always in the accepted Sikyatki manner”. Ancora una volta, la risposta chiarificatrice viene da Nampeyo: “When I first began to paint, I used to go to the ancient village and pick up pieces of pottery and copy the designs. That is how I learned to paint. But now, I just close my eyes, and see designs, and paint them”. Insomma, è l’immagine mentale (talvolta descritta come “sogno”) che guida la mano delle donne Hopi: l’immagine mentale, a sua volta, è il prodotto di una profonda assuefazione con le ceramiche antiche di Sikyatki. Warburg non era fra i fotografi che nel 1895 assistettero alla Danza del Serpente e poi si recarono in casa di Nampeyo; anzi, come si sa, alla Danza del Serpente egli non poté mai assistere. Si recò però sulla Prima Mesa pochi mesi dopo, e vi acquistò fra l’altro ceramiche di Nampeyo, quasi certamente da lei stessa (ancora oggi, le donne Hopi e Hano vendono i loro vasi sulla soglia di casa). È importante notare che i circa cento vasi che egli portò con sè ad Amburgo sono (come già risulta dall'inventario della donazione, 1902) in parte provenienti dallo scavo di Sikyatki, in parte invece di fabbrica recente, e fra questi ci sono eccellenti esemplari della mano di Nampeyo. Dato che la bibliografia sugli Hopi e quella su Warburg sono in scarsissima comunicazione fra loro, i vasi di Warburg non sono citati nella recente monografia della Kramer: secondo lei, i primi vasi documentati di Nampeyo sono quelli alla Smithsonian Institution comprati nel luglio 1896 da Walter Hough, alcuni mesi dopo il viaggio di Warburg: di fatto dunque fu lui il primo ad acquistare vasi di Nampeyo nel suo “revival style”.

Anche da un altro punto di vista, la bibliografia sugli Hopi induce a leggere con occhio diverso il testo di Warburg. Come ho già ricordato, egli invitò alcuni scolari Hopi a fare disegni in cui c’era un fulmine. Il suo commento introduttivo (“dubito che la scolarizzazione renda giustizia all’immaginifica anima degli indiani”) può parere il paternalistico scetticismo di un turista europeo; ma esso riflette in realtà l’aspra lotta che gli Hopi proprio in quegli anni avevano ingaggiato contro l’obbligo scolastico (specialmente ad Oraibi), dividendosi in due fazioni, ‘Friendly’ (che includeva il capo di Oraibi, Lololoma) e ‘Hostile’. Fu inviata a Washington una delegazione (ne faceva parte anche il fratello di Nampeyo, Tom Polacca), che raggiunse un accordo per mandare a scuola i bambini; ma al ritorno Lololoma fu imprigionato e deposto dagli ‘ostili’, e ne nacque una lunga serie di conflitti, con l’intervento di un distaccamento di soldati e poi della cavalleria americana, finché la comunità si spaccò in due e gli ‘ostili’ fondarono il nuovo villaggio di Hotevilla. L’argomento degli ‘ostili’ era lo stesso echeggiato da Warburg: “i bambini devono stare a casa, perché solo nel villaggio possono imparare i riti e le cerimonie, come avviene da generazioni e generazioni”.

Ma torniamo ai vasi di Nampeyo. Nel 1896, Warburg si trovò davanti a una produzione non ancora classificata: ma, per la scelta degli oggetti che egli fece, non può esservi dubbio che si rese perfettamente conto che il ‘nuovo’ stile implicava una consapevole ripresa dell'antico, cosa che del resto Fewkes può avergli fatto notare (visto che lo scrisse nei suoi rapporti di quell’anno). Ecco dunque che cosa intendeva quando diceva che la “storia delle forme ornamentali” dei Pueblos meritava di essere studiata, in particolare nelle connessioni fra l'antica età pagana (precolombiana) e il presente. Per dirla in breve, Warburg – proprio mentre rifletteva sulle radici profonde, ‘biologiche’ dell'arte, e sulle ragioni delle riprese di motivi antichi a secoli o millenni di distanza – era capitato inaspettatamente sulla scena di un rinascimento indoamericano. Il terreno specifico per una comparazione ‘alla Usener’ era dunque lì pronto: in ambo i casi (e Warburg lo scrive esplicitamente) una produzione di età pagana, un intermezzo cristiano (in New Mexico, le missioni fra gli Indiani), e finalmente un momento di ‘rinascita’ dei motivi antichi. L’intento comparativo è evidente fin dal principio:

Uno sguardo ad analoghi aspetti del paganesimo europeo ci indurrà alla fine a porci la seguente domanda: fino a che punto una concezione pagana del mondo, come quella che sopravvive presso i Pueblos, ci fornisce un indice dell'evoluzione dall'uomo pagano-primitivo a quello moderno in Europa, passando attraverso i pagani dell'antichità classica.

A uno sguardo comparativo, la donna Hopi che ricrea dopo secoli il senso delle forme Sikyatki non è molto diversa da Bertoldo o da Botticelli, che ricreano all’antica la Nascita di Venere o una battaglia. Qui come lì, il problema era come antichi simboli pagani, irrigiditi dall'uso e caduti nell'oblio, possano essere rivitalizzati; come un intermezzo cristiano non spenga del tutto un'antica capacità di percepire e di ricreare il simbolo; infine, come lo sguardo di un artista sappia riconoscere, facendolo proprio, il nucleo intimo di una creazione di molti secoli più antica.

L’ornato dei vasi Sikyatki (ma anche di quelli di Nampeyo e delle sue compagne) include, secondo convenzioni disegnative di grande precisione ed eleganza, simboli tratti dal mito e dal rito: lo zig-zag del fulmine, talora congiunto col serpente, gli uccelli da preda, e così via. Fu per indagare (e spiegare) la permanenza o la ripresa di questi simboli e di questi significati che Warburg si concentrò sui riti: e perciò la maggior parte della sua conferenza del 1923 è dedicata a descrivere la danza del serpente (ma anche quelle delle antilopi e del mais, a cui Warburg aveva assistito di persona): la funzione è analoga a quella dei suoi studi dedicati alle feste di corte a Firenze, come ha sottolineato recentemente anche Philippe-Alain Michaud. Poiché le immagini e il simbolo sono usate e tramandate nel rito, esso è al tempo stesso il luogo della creazione del linguaggio ornamentale-simbolico e il luogo della trasmissione e della tradizione. Il fatto che Warburg, nel testo della conferenza, si sia concentrato sui rituali, spiega come mai nessuno abbia finora prestato la minima attenzione ai vasi che egli aveva raccolti (che pure sono ancora conservati, e in parte esposti, ad Amburgo), e su quello che ho chiamato il Nachleben der Antike indoamericano. Non so se un più disteso discorso su questi punti rientrasse nei piani di Warburg: certo è però che se ne trovano tracce molto precise anche nel testo della conferenza di Kreuzlingen. Vediamole:

(1) Le decorazioni della ceramica ci pongono subito davanti al problema vero e proprio del simbolismo religioso [...]. Ornamenti all'apparenza puramente decorativi hanno in realtà un significato simbolico e cosmologico [ed.it. Adelphi 1998, traduzione Carchia, Cuniberto, 11, 13].

(2) Caratteristica dello stile dei disegni su queste ceramiche è la riduzione dell'immagine a forma araldica. Per esempio, un uccello viene scomposto nelle sue componenti essenziali, fino a diventare una rappresentazione astratta di tipo araldico, un geroglifico che non va tanto guardato quanto "letto". Abbiamo qui uno stadio intermedio fra immagine realistica e puro segno, fra riproduzione della realtà e scrittura [ed.it. Adelphi 1998, traduzione Carchia, Cuniberto, 15, 17].

 (3) Gli scavi di Fewkes hanno provato con assoluta certezza che esisteva una tecnica vascolare più antica, indipendente da influssi spagnoli, caratterizzata precisamente dai motivi araldici dell'uccello, ma anche dal motivo del serpente, che presso i Moki [altro nome degli Hopi, ora in disuso], come in tutti i riti religiosi, è venerato come il più vitale dei simboli di culto. Tale serpente appare ancora oggi sul fondo dei vasi moderni, esattamente come su quelli preistorici trovati da Fewkes [p.16, ed.it. Adelphi 1998, traduzione Carchia, Cuniberto, 19].

È precisamente a questo punto che, per individuare il significato del serpente e di altri animali nelle rappresentazioni cosmologiche, Warburg si volge (come abbiamo detto) al rito. Il fatto che egli ponga al centro dell'attenzione la danza del serpente (a cui non aveva assistito), più che quelle di cui era stato testimone si spiega dunque chiaramente con l'importanza che egli annetteva al valore simbolico del serpente, nel rito come nella decorazione ceramica, e al fatto che esso gli permetteva di passare agevolmente a figure e Pathosformeln del mito e dell'arte classica: Laocoonte ucciso dai serpenti, ma anche le Menadi o Asclepio. Il rito Hopi e quello greco permettevano così di individuare un terreno comune; i motivi solo apparentemente decorativi dei vasi Hopi acquistano lo status e la pregnanza di Pathosformeln, e la loro ripresa ad opera di Nampeyo e delle sue compagne prende l'aspetto di un Rinascimento indoamericano. L’identificazione del serpente col fulmine, presupposto simbolico della danza del serpente, da un lato permette il ‘controllo’ degli agenti atmosferici mediante rituali appropriati (in cui il serpente, e non il fulmine, è manipolato e dominato dall'uomo); dall'altro lato, proprio la pregnanza simbolica del serpente-fulmine lo fa entrare nel repertorio figurativo dei Pueblos: tappeti, vasi, pitture con la sabbia. In tutti questi casi, l'immagine del serpente, che per il suo alto grado di stilizzazione potremmo scambiare per ‘decorativa’, ha una fortissima carica funzionale: conserva traccia del percorso dalla magia alla scienza, dalla superstizione alla religione, dal simbolo mentale all'arte figurativa.

In epigrafe al suo saggio sulle profezie di origine pagano-ellenistica nell'età di Lutero (1920), Warburg aveva usato due versi del Faust di Goethe (Atto II, vv. 7742-43):

Es ist ein altes Buch zu blättern:
Vom Harz bis Hellas immer Vettern!

[È un vecchio libro da sfogliare:
dallo Harz alla Grecia, sempre parenti!]

Nel Faust, i versi sono posti in bocca a Mefistofele, nell’episodio della Notte di Valpurga: Mefistofele conversa con le Lamie (figure in bilico fra la mitologia classica e l’immagine medievale delle streghe), e poi con Empusa, personaggio prelevato dal seguito di Hekate, che lo apostrofa come ‘Vetter’ (‘cugino’); al che egli replica, ironicamente, che è una vecchia storia, che streghe e diavoli se ne trovano dappertutto, e che tutti si somigliano. Nell'uso che ne fa Warburg le parole del Faust indicano tutt'altro, una ‘parentela’ fra la Germania (rappresentata dal massiccio dello Harz) e la Grecia, una linea di continuità fra le antiche superstizioni pagane e le profezie dell'epoca di Lutero. Con Witz tipicamente warburghiano, l’assimilazione della Germania alla Grecia antica viene al tempo stesso riaffermata e (mediante il riferimento al contesto originario) messa alla berlina.

La scena cambia pochi anni dopo (e sono gli anni della malattia mentale e della degenza in clinica), quando gli stessi versi tornano, in forma modificata, nella conferenza sul rituale del serpente:

Es ist ein altes Buch zu blättern:
Athen-Oraibi, alles Vettern

[È un vecchio libro da sfogliare:
Atene-Oraibi, tutti parenti]

Questo motto, come è chiaro, presuppone non solo i versi di Goethe, ma anche l'uso che lo stesso Warburg ne aveva fatto nello studio sull’età di Lutero. Col punto esclamativo è scomparsa anche la Germania, e ogni traccia di scherzo; Atene sta per la Grecia, il villaggio di Oraibi (dove Warburg era stato) per tutti i Pueblos; e per ragioni metriche, ma forse non solo, Atene è passata al primo posto. L'affinità fra la Germania moderna e la Grecia antica ha fatto luogo – come in tutto il saggio sul rituale del serpente – all'affinità fra la Grecia antica e un altro paganesimo, quello amerindiano. Sulla traccia di Usener, i Greci si dispongono qui sul versante dei ‘selvaggi’, di una radicale alterità da comprendere più viaggiando fra i pagani di Oraibi e assistendo ai loro riti che studiando in una biblioteca europea.

Alexander von Humboldt aveva rilevato (1860) che i più antichi rapporti sugli Indiani d'America somigliavano ai racconti degli antichi Greci sugli Sciti e gli Africani, “onde le tribù americane rappresentano per l'Europa, nella loro primitiva semplicità, una specie di antichità della quale noi siamo però quasi contemporanei”, e Raulff ha tracciato all'indietro nella sua postfazione la genealogia di quest'idea. Ma per Warburg le forme ornamentali dei Pueblos non furono solo una ‘antichità contemporanea’: egli seppe leggervi una precisa stratificazione culturale, che nella sequenza pagano-cristiano-rinascita era comparabile a quanto era accaduto in Europa. Burckhardt, studiando il Rinascimento italiano, si era domandato “se non ne esistano importanti paralleli storici; in breve, altri Rinascimenti”, e li aveva cercati fra gli Ebrei dopo l’esilio e nella Persia sasanide. La scelta di Warburg fu di cercare questo parallelo sul campo, fra gli Hopi. Dei tre problemi che ho citato all'inizio, dunque, il Nachleben der Antike fornisce il terreno specifico della comparazione; il rapporto fra rito celebrato e immagine rappresentata è di reciproca legittimazione, e si radica nella necessità religiosa e culturale del simbolo; infine, la tensione fra le valenze religiose del simbolo e la sua rappresentabilità apre la strada a una ‘storia naturale dell’arte’ come “esigenza biologica, a metà strada fra religione e pratica artistica” comune a tutta l’umanità. 

Ma se era la comparazione specifica che doveva dare fondamento scientifico alla teoria, è l'istanza di autenticità (etica prima che scientifica) che innesca la ricerca. In questo davvero Warburg è fratello di artisti a lui contemporanei: l'acquisto di un quadro di Franz Marc, Die blauen Pferde, si accompagna al suo giudizio, secondo cui Franz Marc era, con Dürer, uno dei due artisti che “hanno trovato nel proprio stile, per le proprie figure interiori, una forma di rappresentazione dettata dalla necessità di natura”. La sua assidua ricerca di un intimo nucleo dell'arte che corrisponda ai sentimenti e alle emozioni degli artisti più che agli ‘entusiasmi’ dei critici può essere commentata con le parole di August Macke nel Blaue Reiter: “Idee inafferrabili si manifestano in forme afferrabili. Afferrabili mediante i nostri sensi, come Stella, Tuono, Fiore: come forma”. E ancora: “Le gioie, i dolori dell'uomo, dei popoli, stanno dietro le iscrizioni, le immagini, i templi, le cattedrali, le maschere”. L’intimo pathos che scuote la vita dell'uomo era per Warburg (come per Macke) esprimibile attraverso le forme e le formule. La ‘storia naturale dell'arte’ che Warburg sta cercando di costruire è dunque al tempo stesso storica e strutturale: secondo le sue stesse parole, “una ricerca comparativa tesa all’‘indianità’, eternamente uguale a se stessa, della desolata anima umana”.

Reperti scartati (Postilla 2023)

Nella primavera 1991, fui per qualche mese, per invito di Martin Warnke, Warburg Professor nell’università di Amburgo, dove tenni alcune lezioni nel mio approssimativo tedesco. Fu allora che cominciai a lavorare a uno scritto che sarebbe poi comparso (col titolo “Kunstgeschichte als vergleichende Kulturwissenschaft: Aby Warburg, die Pueblo-Indianer und das Nachleben der Antike”) nel volume Künstlerischer Austausch / Artistic Exchange. Akten des XXVIII. Internationalen Kongresses für Kunstgeschichte, Berlin, 15. -20. Juli 1992, herausgegeben von Thomas W. Gaehtgens, Berlin Akademie Verlag, 1993, 139-158, e di cui approntai e in parte pubblicai in seguito altre versioni (anche in italiano*). 

In questi scritti, ho avanzato l’ipotesi, in cui credo ancora, che la danza del serpente (a cui peraltro Warburg non poté assistere, come è arcinoto) non era il cuore (o almeno non il solo) dei suoi pensieri in quel frangente. Pensavo, e penso ancora, che egli ambisse a intavolare un più complesso parallelo fra ‘rinascite’ indoamericane e Rinascimento (in particolare fiorentino). E che in questo contesto il risorgere di modelli assai più antichi nella decorazione ceramica (grazie soprattutto a Nampeyo) fosse per lui molto importante, anche se marginale nel testo della sua conferenza di Kreuzlingen. Insomma, penso che per lui il ritorno di modelli figurativi e/o decorativi a distanza di secoli fosse una faccia della medaglia, l’altra faccia essendone i rituali – danze etc. – proprio come le feste fiorentine rispetto all’arte figurativa. Facile congettura è che, se avesse avuto vita più lunga, avrebbe forse sviluppato questo aspetto, mettendo a frutto (forse anche nell’Atlante?) i pezzi della sua collezione; e forse anche a indagare ulteriormente questi e altri aspetti era teso il suo desiderio, ben documentato negli ultimi suoi anni di vita, di fare un secondo viaggio americano.

Era dunque importante per me vedere se, nella sua collezione, vi fossero solo ceramiche “Sikyatki revival” (cioè di Nampeyo e imitatrici successive, ultimi del sec. XIX), o anche Sikyatki, quattro o cinque secoli più antiche. Essere ad Amburgo era un’occasione troppo preziosa per perderla: perciò andai al Museum für Völkerkunde e chiesi di vedere i materiali già nella collezione di Aby Warburg, di cui (mi pare) nulla era esposto. Gli appunti che presi allora non li trovo, ma dall’agenda risulta che passai in quel Museo almeno il pomeriggio del 23 luglio 1991 dalle 14:00 in poi (non giuro che quel pomeriggio sia stato il primo, né il solo). Fu allora che mi venne detto (non ricordo se me lo avesse in qualche modo anticipato Martin Warnke) che una parte almeno di quei materiali era da poco rientrata da un deposito (per sfuggire ai bombardamenti) in zona poi ricaduta in territorio DDR, ed era ora di nuovo accessibile nella Germania riunificata. Mi fu però concesso di prender visione di tutto il materiale, che in parte era entro scatole da trasporto, con i frammenti ceramici (ma c’erano anche katchinas, di cui non mi occupavo in quel momento) imballati entro ritagli di giornali; non sono più certo della data dei giornali (durante la guerra, quando i frammenti ceramici furono spediti fuori Amburgo, o al momento del rientro dall’ex-DDR?). Vidi abbastanza, con l’aiuto di una curatrice del Museo di cui non ricordo il nome, da esser certo che quella mia ipotesi poteva stare in piedi; e non ho mai pubblicato a modo questo discorso semplicemente perché mi mancava (e mi manca) una competenza adeguata di quella ceramica, e più in generale di quella cultura.

Il recente catalogo della mostra chiusasi ad Amburgo lo scorso gennaio 2023 Lightning Symbol and Snake Dance. Aby Warburg and Pueblo Art dà sostegno a quanto ho qui scritto: dalla collezione di Warburg vengono infatti sia vasi ora classificati come “Late Sikyatki Polychrome” (c. 1550-1629), alle pagine 284-5, cat. nr. 145, sia vasi del “Sikyatki Revival” (c. 1895), che Warburg potrebbe aver comprato dalla stessa Nampeyo (vedi, nello stesso catalogo, 290-291, cat. nr. 148). Sia detto fra parentesi che vasi simili, e molto più recenti, acquistai poi io in una mia visita a Oraibi e Hano (c. 1994-5), da una vasaia discendente – così mi disse – dalla stessa Nampeyo: ma questa è un’altra storia. Anche in una mia visita successiva, avvenuta intorno al 1998, trovai in vendita gli stessi vasi, ma sempre secondo i sistemi decorativi di Nampeyo, che a loro volta erano diventati ormai vecchi di cent’anni.

*Pubblichiamo qui, in una versione rivista e integrata con la “Postilla 2023”, il testo di una conferenza che l’autore ha tenuto a Ferrara, Siena, Parigi e Los Angeles e poi pubblicato nel volume Aby Warburg. Gli Hopi. La sopravvivenza dell’umanità primitiva nella cultura degli indiani dell’America del Nord, a cura di Maurizio Ghelardi, Torino 2006, VII-XIII.

Riferimenti bibliografici
  • Ashton 1976
    R. Ashton, Nampeyo and Lesou, “American Indian Art Magazine” 1, 3 (Summer 1976), 24-33.
  • Bunzel 1929
    Ruth Bunzel, The Pueblo Potter: A Study of Creative Imagination in Primitive Art, New York 1929.
  • Cestelli Guidi 2002
    B. Cestelli Guidi, Il viaggio di Aby Warburg in America in presa diretta: una lettura attraverso le sue fotografie, in M. Bertozzi (a cura di), Aby Warburg e le metamorfosi degli antichi dei, Ferrara 2002, 239-251.
  • Cestelli Guidi 2003
    B. Cestelli Guidi, La collection pueblo d’Aby Warburg, 1895-1896. Culture matérielle et origines de l'image, in A. Warburg, Le Rituel du serpent. Récit d’un voyage en pays pueblo, introduction par J.L. Koerner, textes de F. Saxl (1930) et de B. Cestelli Guidi, tr. fr. de S. Müller, P. Guiton, Paris 2003.
  • Cestelli Guidi, Mann 1998
    B. Cestelli Guidi, N. Mann, Photographs at the Frontier: Aby Warburg in America 1895-1896, London 1998.
  • Michaud 1998
    P.A. Michaud, Aby Warburg et l’image en mouvement, suivi de A. Warburg: Souvenirs d’un voyage en pays Pueblo, 1923, Projet de voyage en Amerique, 1927, deux textes inédits traduits par S. Muller, Préface de G. Didi-Huberman, Paris 1998, 247-286.
  • Nordenskiöld 1893
    G. Nordenskiöld, The Cliff Dwellers of Mesa Verde in Southwestern Colorado, Pottery and Implements (translation of Ruiner af Klipponingar I Mesa Verdes Canons), Chicago and Stockholm, 1893.
  • Schoell-Glass 1998
    C. Schoell-Glass, Aby Warburg und der Antisemitismus. Kulturwissenschaft als Geistespolitik, Frankfurt am Main 1998.
  • Warnke 1980
    M. Warnke, in W. Hofmann, G. Syamken, M. Warnke, Die Menschenrechte des Auges: über Aby Warburg, Frankfurt am Main 1980, 53-84.
English abstract

We publish here the text of a lecture the author gave in Ferrara, Siena, Paris, and Los Angeles and later published in the volume Aby Warburg. Gli Hopi. La sopravvivenza dell’umanità primitiva nella cultura degli indiani dell’America del Nord, edited by Maurizio Ghelardi and published by Aragno. Salvatore Settis argues how Warburg's reflections on Hopi culture are consistent with his scholarly work, especially for three fundamental thematic nuclei of his research: the survival, or rebirth, of ancient forms (Nachleben der Antike), the relationship between ritual and its images, and the role of artistic creation in defining human culture. In addition to this important essay, we publish the afterword, Reperti Scartati. Postilla (2023), in which Settis recalls the day in 1991 when he saw the materials of Aby Warburg's collection in the Museum für Völkerkunde in Hamburg, recently returned from a storage in a former GDR area, where they were kept to prevent bomb damage.

keywords | Aby Warburg; Pueblos; Hopi; Ruth Bunzel; Hermann Usener; Nampeyo.

Per citare questo articolo / To cite this article: S. Settis, Verso una storia naturale dell’arte. Aby Warburg davanti a un rinascimento indoamericano. Con ”Reperti scartati” (Postilla 2023), “La Rivista di Engramma” n. 201, aprile 2023, pp. 161-178 | PDF of the article 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2023.201.0006