Bruno Roberti
"Della stessa stoffa dei sogni". Morfologie e migrazioni di The Tempest
a Miranda
Allo stesso modo però la sua teatralità sembra azzerarsi in un vuoto scenico scarnificato in una morfologia primigenia, come un teatro mentale, un ‘foro interno’, cavo e risonante: la scena potrebbe essere la mente di Prospero e i personaggi sarebbero personae, maschere di un io polimorfo, e l'azione assumerebbe i caratteri di una psicomachia, un combattimento spirituale, in cui la dinamica dei personaggi attiene ai vari aspetti di un solo complesso psicofisico in trasformazione. E l'isola, se la si intende come I-land, terra dell'io, potrebbe essere l'interiorità, in magica metamorfosi, di un essere che deve riacquistare la sua regalità. È forse questa la ragione profonda per cui in anni recenti artisti di cinema e di teatro hanno pensato a una Tempest come una paradossale ‘polifonia a una sola voce’, e dunque alla capacità dell'io di farsi altro da sé, di accogliere, come in un rito di possessione, spiriti e presenze, incarnarle in modo da generare, con le forze degli elementi che dal cosmo si specchiano nel nostro interiore, una creazione che possa avere la forza di una comunità, un io che diventa noi, e insieme è capace di produrre armonia. Derek Jarman, che in seguito realizzerà una versione filmica del testo su cui ritorneremo, pensò da ragazzo a una messinscena in cui un Prospero folle e prigioniero dà voce a tutti i ruoli:
Derek Jarman, durante gli anni universitari al King's College, lavorò ad alcuni disegni per una immaginaria produzione alla Roundhouse – venue d'avanguardia resa celebre, negli anni '60, dalle performance del Living Theatre – nella quale un Prospero impazzito, e imprigionato dal fratello Antonio, avrebbe fatto tutte le parti. Gran parte del teatro sarebbe stata allagata, e il pubblico avrebbe trovato posto su un’isola magica fatta di rocce d'argento gonfiabili [...] parlò di questo progetto con John Gielgud, il quale, ironia della sorte, nel 1991 avrebbe interpretato il ruolo di Prospero nel film di Peter Greenaway, pronunciandovi, almeno inizialmente, tutte le parti. (Colaiacomo 2000, p. 145)
Un fotogramma da Prospero's Books (1991) di Peter Greenaway
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Giulio Camillo Delminio, disegno per il Teatro di memoria (1550)
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Il testo, dice Lombardo, è come fosse scritto con la voce, la sua polimorfia inscrive una istanza spettatoriale e di ascolto, come se il pubblico fosse inscritto e creato da essa, e in tal senso i personaggi della Tempesta mentre sono attori di una azione ne sono al contempo spettatori, e la ‘memoria’ di un teatro come il Globe, in cui una tale circolarità è inscritta nello spazio stesso, viene come rifluita nel Blackfriars, dove fu rappresentato The Tempest, una boite rettangolare la cui scatola già preannunciava il teatro all'italiana con le sue illusioni. La genialità del testo shakespeariano consiste in questo inglobare, compresa la lezione illusionistica ma ‘di piazza’ del gioco delle maschere nella commedia dell'arte, in cui confluiva (e ciò è presente a Eduardo nei richiami barocchi di una lingua napoletana che trova radici nel fiabesco colto-popolare del Basile) anche la tradizione della féerie seicentesca (e del resto i richiami a Napoli e alle maschere già barocche nel testo shakespeariano è insistito, tanto che sia Strehler che Eduardo assimilano Stefano e Trinculo alle maschere, vuoi di Brighella e vuoi di Pulcinella, secondo la tradizione dell'arte tanto veneziana che napoletana):
Una lingua antica e nuova, remota e contemporanea, che produce l'effetto medesimo che l'uso del dialetto siciliano produce nell'Opera dei Pupi – un'esperienza che questa versione certamente ricorda, e che è stata ribadita dalla rappresentazione fattane con le marionette Colla. (Lombardo 2008, p. 235)
Diceva Eduardo nelle sue Lezioni di teatro: “Io accuso la società in cui viveva Shakespeare. Come poteva fare? Come avrei potuto fare io durante il fascismo, se non far ridere il pubblico e poi in ultimo ammannirgli un capovolgimento dell'azione e mostrargli la tragedia?” (in Lombardo 2008, p. 228). La materialità è simbolicità, l'artigianato semplice è potente magia: “Rimediate coi vostri pensieri alle nostre imperfezioni. Dividete un solo uomo in mille parti e create una armata immaginaria [...] sono i vostri pensieri che ora debbono addobbare i nostri re” (Shakespeare nel prologo dell'Enrico V). La suprema verità è la suprema finzione, diceva ancora Eduardo: “Oggi purtroppo gli attrezzi di cartapesta non si usano più: impera la plastica e sui palcoscenici del mondo tutto è lucido e veristico, niente più è ingenuo, indicativo, teatrale. Io però li uso ancora, ed essi svolgono ancora la loro funzione di simboli teatrali.” (Lombardo 2008, p. 230). L'oggetto, l'attrezzo di scena, il segno teatrale risale alla scenografia mentale che in Shakespeare lascia allo spettatore la libertà di ripercorrere lo spazio con l'immaginazione, per cui la parola, la voce, per forza di suggestione si fanno immagine, e questa vive tutta la sua ambiguità sulla soglia tra reale e onirico, tra spettatore e attore, tra spettacolo e azione viva.
La condizione dell'attore diventa metafora di quella dell'uomo proprio nel senso che il suo dramma (il suo paradosso) di essere sospeso tra la vita e il palcoscenico è il dramma stesso dell'uomo che si trova a dover vivere in uno stato di perenne ambiguità, in un mondo di cui non sa distinguere, come in Le voci di dentro o Questi fantasmi, le linee che separano la realtà dalla finzione, o dal sogno (così come accade ai personaggi della Tempesta shakespeariana, che il teatrante Prospero ha calato nella follia). (Lombardo, 2008, p. 232)
Nell'oltrepassare la soglia del mio camerino debbo lasciare fuori la porta tutto quello che non riguarda la mia presa di contatto con il pubblico (...) acchiappare e tenere stretto nella mano quell'incanto fragile e potente, quell'armonia dello spirito con la materia, quella sostanza di cui sono fatti i sogni, che per me è il teatro (Lombardo 2008, p.236).
Anche da Jarman il conflitto fertile tra lingua e setting viene evocato in termini alchemici, come una sorta di design alchimistico, che addirittura rimanda a una illustrazione ricorrente in alchimia, l'evaporazione della materia da un lato e la sua ricaduta in forma di rugiada, e dall'altro l'incarnazione dello spirito, il condensarsi dei suoi vapori, processo di sublimazione: “Sempre, nei film tratti da Shakespeare, lingua e setting cozzano fra di loro: lo spirito si trasforma in materia di ghiaccio e viene giù come grandine” (Colaiacomo 2000, p. 146). Si tratta, come si diceva, e per stessa ammissione di Jarman, di un precipitato alchemico, che prende forma appunto da una tempesta alchemica, visionaria e magnetica insieme, ed è lo stesso set inteso come abitacolo, spazio sigillato, a farsi luogo deputato “del precipitare di parole e setting in design cinematografico: la magia è ulteriore, ribadito sigillo in The Tempest di Jarman” (Colaiacomo 2000, p. 150).
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Miranda guarda nel simbolo ermetico di mercurio
in The Tempest (1979) di Derek Jarman |
Il film del 1979 è girato nella residenza di campagna di Lord Leigh, Stoneleigh Abbey, che Jarman trasforma in un vero e proprio ‘oratorio ermetico’, in un gabinetto alchemico, un athanor che diventa lo studio di Prospero, ricettacolo di simboli alchemici prelevati dalla Occulta Philosophia di Cornelio Agrippa. Jarman ha dichiarato che:
"Il cinema è lo sposalizio della luce con la materia – una congiunzione alchemica. Le mie letture dai maghi rinascimentali – Dee, Bruno, Paracelso, Fludd e Cornelio Agrippa – hanno contribuito a evocare la pellicola di The Tempest. I segni magici che Prospero tracciava sulle pareti del suo studio venivano dalla Occulta Philosophia di Cornelio Agrippa [...]. Sullo scrittoio di Prospero stava aperta la mia copia secentesca della Occult Philosophy: la prima edizione inglese dell'opera." [...] I segni magici che [Jarman nel suo film The Tempest] fa disegnare a Prospero sulle pareti del suo studio sono infatti parte integrante del design del film. Sono simboli, ma anche immagini in movimento. Sono moving pictures: ossia spazio e tempo in un'unica soluzione. (Colaiacomo 2000, pp. 150-151)
Come gli stessi spiriti, fluttua, abita tra immagini. [...] La sua non è conoscenza ma mania, possessione. Una mania che comanda di convocare immagini, di dare corpo a cose senza corpo. [...] Egli non è mai radicato in un luogo, sta sempre dietro una moltitudine di veli. Non riusciamo a vederlo, perché l'ebbrezza della sua Arte lo avvolge e nasconde. [...] La Tempesta è nostra contemporanea, come e più di quanto può essere contemporanea la grande arte [...] è un'opera complessa, e in essa non vi è un senso ma una polifonia di sensi che può essere resa, figurata, soltanto dalla musica. (Aresu 2006, pp. 105-108)
Alla corte del re di Sicilia, Leonte, Paolina agisce precisamente come un mago ermetico. Nell'Asclepio appartenente al Corpus Ermetico c'è un dialogo in cui Ermete descrive la magia religiosa mediante la quale si supponeva che gli antichi sacerdoti egizi infondessero la vita nelle statue delle loro divinità, con vari riti e pratiche, tra cui l'accompagnamento musicale. (Yates 1979, p. 84)
Vi è qualche ulteriore recondito o esoterico significato nella caverna, che induce a chiedersi se il simbolismo rosacrociano, o qualcosa di simile ad esso, potesse già essere in circolazione [...]. Il simbolo centrale della Fama è la caverna o cripta in cui si ritrova una cosa da lungo tempo perduta, la tomba di Christian Rosencreutz. (Yates 1979, p. 85)
In questo caso l'isola-teatro del mondo, l'isola-mondo-io, la comunità singolare-plurale si configura come un circuito di sguardi che è precipuamente cinematografico: l'isola si fa schermo e tavola su cui muovere i pezzi (la scacchiera è anche una tavola di montaggio). Ciò esplica come il linguaggio, e il montaggio di attrazioni che percorre l'isola shakespeariana, attenga a una particolare magia, quella che implica l'istanza spettatoriale in quanto epopteia, partecipazione a un rito misterico, ermeneutica decifratoria di segni che si depositano nel buio e vengono improvvisamente illuminati. L'isola archetipica, l'isola degli inganni si fa specchio di un tragitto di conoscenza, incrocio di sguardi, di istanze di sguardo: “Il suo linguaggio [dell'isola archetipica] è misterioso, elusivo, ingannevole; caratterizzato da suoni e segni arcani, perturbanti; contraddistinto da geroglifici, crittogrammi, mappe, che si fatica a leggere, decifrare, decodificare” (Perosa 1996, p. 13).
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George Innes, The Storm 1 (1870)
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“rappresentava un tentativo di purificare la natura corrotta e ripristinare nelle creature l'unità perduta che le saldava alle Idee originarie. Shakespeare doveva senz'altro essere a conoscenza del significato alchemico implicito nella parola tempesta: con questo termine si designava infatti il processo di condensazione col quale si eliminavano le impurità del vile metallo, agevolandone la trasformazione” (Mebane 1994, pp. 226-227)
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La quarta tavola del Mutus Liber
nell’edizione di La Rochelle (1677)
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E si dipana un processo psicanalitico di individuazione (secondo l'analogia junghiana tra processo analitico e alchimia); allora la percezione cambia, l'audiovisualità si fa strumento di ri-conoscimento: “nella sua immaginazione il fragore dissonante della tempesta si trasforma miracolosamente in una musica soave. La tempesta diventa un canto misterioso che sussurra ad Alonso il segreto della sua anima” (Melbane 1994, p. 232).
Dopo una grande tempesta, e in contrasto con essa, veniamo introdotti nella pacifica atmosfera della casa di Cerimone. Il dottore, così ci racconta, ha sempre coltivato le scienze mediche e ha appreso le segrete proprietà dei metalli, delle pietre, delle piante, giudicando che la virtù e il sapere possano fare d'un uomo un dio. [...] I marinai portano a questo buon medico una cassa, gettata sulla riva dalla tempesta, che, aperta, rivela Taisa, in apparenza morta. Ma Cerimone si accorge che in lei può ancora esserci vita, ordina che si accenda il fuoco e prepara dei medicamenti. Riscalda il suo corpo e dispone perché si suoni della musica. In breve tempo Taisa riprende a muoversi, ricomincia a sbocciare in lei il fiore della vita. (Yates 1979, p. 82)
La rugiada dei Saggi raffigurata su un quadrilobo della Cattedrale D’Amiens
L'isola delle voci è il regno dell'arbitrario, e le mille lingue che vi si parlano non lasciano raccapezzare [...]. L'isola come luogo del meraviglioso e insieme, una volta scoperta, della punizione e della sofferenza [...]. Del resto, le Bermude della tradizione elisabettiana diventano da un lato isole della calma e dell'idillio, ma dall'altro appaiono, ai viaggiatori così come a Shakespeare, still-vext, abitazione di diavolo, isole incantate sempre in tempesta, squassate da uragani. [...] Anche Sir Walter Raleigh, che in The Discovery of Guaiana (1596) annuncia di aver trovato il Paradiso, le vedeva circondate da un mare infernale di tuoni, lampi e tempeste, gli uragani come deità furiose di Walcott. [...] Le isole delle scoperte geografiche perpetuano la dualità incanto/perdizione, meraviglioso/sofferenza, liberazione/prigionia. (Perosa 1996, pp. 16-17)
Non c'è altro luogo come l'isola dove il motivo o il problema del linguaggio, dell'uso stesso delle lingue – parlate o scritte, vocali o geroglifiche, crittografiche o mappali – compaia con tale frequenza ossessiva. (Perosa 1996, p. 29)
La persistenza del linguaggio altro o l'insorgenza di crittogrammi, geroglifici, mappe, costituiscono il raccordo ovvero il legame fra la realtà, sia pure letteraria, dell'isola e la sua natura o proiezione metaforica, fra il fenomenologico e il metafisico, fra il senso ostensibile e quello recondito: insomma fra metonimia del fatto e metafora del profondo. (Perosa 1996, p. 30)
Sia ad Ariele che a Calibano, Prospero insegna la lingua veicolare [...] ma fa pullulare tutta l'isola, specie dopo l'arrivo dei naufraghi, di voci e lingue, in una sorta di Babele. (Perosa 1996, p. 32)
The Tempest è allora un testo-tessuto dei sogni dove i naufraghi ricostruiscono i sensi arcani, dentro una scrittura polisensoriale, fisica e psichica. L'arcana bellezza del testo coincide con l'isola, altrettanto indecifrabile, enigmatica:
È la stessa lingua fatta di suoni e idiomi un po' misteriosi, insieme paradisiaca e infernale, nobile e selvaggia – in ultima analisi incomprensibile – [...] lingua polisemica che esprime i terrori della notte, i rumori misteriosi della natura e i sogni sfuggenti dell'immaginazione. (Perosa 1996, p. 37)
L'ordo della mappa-isola è il suo ornamento vivo, il modo serpentino con cui i segni si compongono e si scompongono in immagini viventi. Una natura erratica e labirintica di una cartografia che si dipana come schermo:
Elemento di raccordo fra l'arcano dei luoghi (e dei linguaggi) e l'imposizione di un ordine, il punto di sutura fra immaginazione e ratio. La mappa manifesta la bivalenza, la tensione verso il mistero, e insieme verso la sua soluzione. (Perosa 1996, p. 38)
Tra radure incantate, mappe connesse alla conformazione del territorio-linguaggio dell'isola, in questa terra dei sogni e dei desideri che diventano reali, nella loro natura profonda, “la lingua delle fiabe e delle fole si mescola intimamente a quella della realtà, senza alcunché di artificiale perché è primigenia” (Perosa 1996, p. 39). Lo spirito dell'isola, il suo genius loci, la sua estrema essenza, è un che di volatile e insieme di terrigeno e radicato; l'isola-madre e matrice di incanti è le sue voci frammentate, la sua “comunicazione sospesa e interrotta”, connessa fra il prima e il dopo, pervasa di una impermanenza paradossale che eppure permane e si espande come un sentire; è una geografia di emozioni (secondo la definizione di Giuliana Bruno nel suo Atlante delle emozioni, in cui il nesso cinema-paesaggio viene percorso nella direzione di una ‘filosofia delle immagini’).
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Edward Burne-Jones, An Angel playing a flageloet (1878)
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Il riferimento all'alchimia per The Tempest trova rispondenza anche nel fatto che da più parti è stata richiamata una figura dell'epoca che, come mago-alchimista in rapporti con Elisabetta I, traluce in filigrana nel personaggio di Prospero: ci riferiamo a John Dee, cui alludono anche i due film di Jarman e di Greenaway (e Jarman traduce in immagini filmiche lo ‘specchio magico’, la sfera cristallina di visione attribuita a Dee, in un altro film che incrocia l'Inghilterra contemporanea dei punk con quella elisabettiana: Jubilee, 1978). Ma il gesto magico contiene in sé anche il nesso esotismo-esoterismo, le due facce complementari di una sapienza ancestrale e primitiva e di un sapere futuro. A proposito dell'uso di saperi magici africani, ma anche attinenti allo zen o alle cerimonie coreane, presente in una messinscena del testo a opera di Peter Brook (1990) è stato notato che:
La magia di Prospero, con cui Shakespeare termina la sua opera e il Rinascimento compie il suo declino, può funzionare per ogni spettatore occidentale come operazione immaginaria. Perché mai la magia africana, poco familiare allo spettatore europeo, dovrebbe essere più pertinente del ricordo dell'alchimia, che ancora abita l'universo mentale dell'Occidente? (Banu 1994, p. 59)
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Peter Brook durante le prove di The Tempest (1990)
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Il Globe Theatre ricostruito a Villa Borghese, Roma
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Prospero procura di realizzare una fusione armonica tra la dimensione naturale e quella sovrannaturale, fusione simboleggiata dalle nozze tra il cielo e la terra nella rappresentazione allegorica. [...] l'armoniosa danza viene interrotta da “uno strano, confuso e sordo brusìo” (IV, I, 138) e in quel momento fatidico, Shakespeare rivela i limiti dell'arte di Prospero. Costringendo Prospero a por fine allo spettacolo, in cui manifestava il potere evocativo delle sue arti magiche per far fronte alla congiura ordita da Calibano. (Mebane 1994, p. 222)
In un cambiamento di prospettiva, una mutazione di scena, una rotazione di sguardo, un movimento dei punti di vista scandito per sequenze, proprio come in un film, ciò che appariva come una punizione si rivela come una salvazione. Il "sortilegio del mare" cantato da Ariel è insieme illusione teatrale, operazione alchemica (l'Aquaster alchemico, il bagno alchemico di trasmutazione, il bagno del re e della regina), opera di magia e allegoria barocca (la navigatio occulta, metafora dell'iter iniziatico-esistenziale, palingenesi marina), e soprattutto disciogliersi delle immagini nei corpi e viceversa, esattamente l'operazione del dispositivo ripresa-proiezione del cinema, in cui gli 'spiriti' attori agiscono dietro il velario del mondo-isola:
A cinque braccia sul fondo/ tuo padre è sepolto/ son fatte coralli le ossa/ due perle son fatti i suoi occhi/ ma nulla di lui va disperso/ ché un sortilegio del mare/ lo va tramutando in qualcosa/ di ricco e strano. (I, II, 397-402)
GONZALO
Oh come l'erba, intorno, fresca e rigogliosa e verde, appare...ANTONIO
Già, una terra bruciata.[...]
GONZALO[…] son queste nostre vesti: le quali pur essendo state, come furono infatti, inzuppate di mare, conservano ciononpertanto la loro freschezza e il lustro, come se invece che dalla salsedine marina or ora dal tintore uscite fossero. (II, I, 53-68)
Smith parlò addirittura di Giordano Bruno come l'inventore del cinema, durante una lezione concitata, ma divertente, tenuta a Yale nel 1965, citando la tesi di De immenso, innumerabilibus et infigurabilibus secondo la quale c'è un numero infinito di universi, ciascuno dei quali possiede un mondo analogo con alcune piccole differenze, una mano sollevata nell'uno è abbassata nell'altro, così che la percezione del moto è un atto della mente che rapidamente segue un certo corso tra un numero infinito di questi fotogrammi, e in questo modo li anima [...]. Smith inquadra il suo lavoro nella tradizione storica dell'illusionismo magico, rifacendosi a Robert Fludd, che usava gli specchi per animare i libri, e ad Athanasius Kircher che lanciava incantesimi con una lanterna magica. (Sitney 2003, p. 8)
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Il pianeta Altair 4 de The Forbidden Planet (1956)
di Fred Mc Leod Wilcox |
L'emergere dell'isola ha a che fare con il suo immergersi, la superficie attiene al suo abisso, abisso superficiale che si fa appunto superficie di proiezione: è la figura del mare, che è tenebre ma anche velario, stoffa onirica, onda di trasmissione delle immagini, schermo d'acqua su cui si riflettono le nubi e che, quando queste si squarciano, assumono la luccicanza del sole che si nasconde dietro la nuvola, l'iridescenza luminosa che funge da ri-velazione. Continente perduto, Atlantide sommersa, l'isola di Prospero, come l'isola della fata di Poe, ha due lati: uno in luce e uno in ombra, è bivalente: “una estremità è di dorata bellezza, l'altra della più nera oscurità” (Perosa 1996, p. 14). L'isola dei morti, apparsa al pittore Arnold Böcklin, può anche essere liberatrice, aprirsi al mondo quando si dischiude la prigione dell'io, degli egoismi, e ci si apre all'altro, che è il nostro spettro di rifrazione, come avviene nel finale della Sonata di spettri strindberghiana.
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Arnold Böcklin, terza versione de L'isola dei morti (1883 )
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John William Waterhouse, Miranda (1916)
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L'isola, terra dell'io profondo, le cui radici sono abissali e plurali, diventa teatro e campo di battaglia, luogo di una psicomachia, dove affondare significa anche risalire verso il cielo dopo avere subito una purgazione che parte dai corpi e investe le anime. È, per The Faerie Queene di Spenser, “fertile di false delizie, di appagamenti sensuali che sono figura della morte”, ricorda “appunto la duplice, ambivalente natura: vi si esplica la magia buona del riscatto e della redenzione, ma anche la magia nera della perdizione, spesso strettamente congiunte” (Perosa 1996, p. 19). L'isola della Tempesta diventa la scoperta del ‘nuovo mondo’ per Miranda, colei che è tutt'occhi a mirare i mirabilia, il cui sguardo si dischiude sul mondo a 360 gradi, e diventa il Paradiso Terrestre per Ferdinando, cui viene assegnato il compito di connettere eros e conoscenza, fede e amore: “Essa è però soprattutto, e per tutti, isola della prova, della perdita d'una vecchia identità e della riconquista d'una nuova, dove tutto è legato all'uso, all'imposizione e alla distruzione del linguaggio” (Perosa 1996, p. 19).
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John Everett Millais,
Ferdinando lured by Ariel (1849) |
L'altrove è bivalente, l'isola magica può essere una terra da redimere, una terra desolata la cui magia è quella di instaurare un processo di reviviscenza e delinea “un paesaggio fisico e mentale totalmente altro, diverso [...] luoghi incantati perché desolati e allucinati [...] caratterizzati da segni e linguaggi altri, misteriosi, criptici e geroglifici (Perosa 1996, pp. 20-21). Nelle epigrafi poste da Melville a The Enchantadas (1854) appaiono brani su isole favolose e magiche di The Faerie Queene. Le Galapagos sono come una “landa stregata, un deserto incantato, una terra di nessuno che inganna gli occhi” (Perosa 1996, p. 21). Terre del silenzio dove è possibile tuttavia ascoltare voci ancestrali, come le plaghe turbinose del Lear shakespeariano, in preda alla bufera degli elementi e alla follia. La ‘pazzia’ delle isole viene rintracciata da Erasmo, e si ripercuote come visione:
In isole costruite ad arte, si ritrova o si proietta quella saggezza che non è del mondo. A partire dall'Utopia di Tommaso Moro (1516), all'isola vien fatto di parlare il linguaggio di un Altrove mentale che è proiezione di una razionale – fin troppo razionale – configurazione (sperata) del mondo, di un desiderio di elevata saggezza, che solo altrove o nel non-luogo della mente appare possibile o ipotizzabile. (Perosa 1996, p. 25)
Il calore imitato del sole, i cannocchiali, le case del suono, delle false apparizioni e illusioni scientificamente indotte – si pone quasi come creazione rivale rispetto alla realtà del mondo. L'organizzazione scientifica delle invenzioni d'ogni tipo crea un regno di sogno. (Perosa 1996, p. 26)
Nell'immensa solitudine si scopre simbiosi; nel primitivo desolato si rivelano miracoli e meraviglie, elfi e folletti popolari assieme ai simboli dell'anima mundi yeatsiana [...] si aprono le prospettive delle storie meravigliose come linguaggio altro. (Perosa, 1996, p. 23)
SEBASTIANO
Mah, forse si metterà nel taschino quest'isola e la porterà a casa al suo bambino: come una mela.(II, I, 87-92)
The Tempest procede verso una comunità della grazia, e il palcoscenico vuoto alla fine, svuotato delle apparizioni magiche, fa sentire un ‘fiato amico’ che infonde realtà all'opera, con il soffio spiritale, ed è l'intercessione richiesta al pubblico da Prospero. La clemenza donata agli altri da Prospero viene restituita dal pubblico al mago che si mostra nudo, che abdica ai suoi incantesimi, perché (il pubblico) lo aiuti a proiettare quell'incantesimo capace di trasportare il mondo dalla presente Età del Ferro alla mitica Età dell'Oro, mercé la miracolosa trasfigurazione dell'arte teatrale, come ebbe a dire Giorgio Strehler, artefice di due allestimenti-chiave della Tempesta nel Novecento teatrale, a trent'anni di distanza e in due date cruciali rispetto al crollo-ricostruzione di mondi anche sociali e politici: il 1948 e il 1978.
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Prospero (Tino Carraro) e Ariel (Giulia Lazzarini) nella Tempesta di Giorgio Strehler (1978)
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L'isola-teatro, per Strehler quanto per Brook, è tanto più magica quanto più si mostra in uno spazio nudo e mette a nudo i suoi semplici incantesimi che non hanno bisogno più della bacchetta magica, ma di un modo nuovo di percepire il mondo, e di cambiarlo. Ciò viene annunciato fin dall'inizio, con una sorta di circolarità, dal momento in cui (quasi come una esemplificazione del concetto di "naufragio con spettatore", indagato dall'omonimo libro di Hans Bloomemberg) Prospero sottopone come a un sonno ipnotico regressivo la figlia Miranda, la quale ha appena visto, quasi medianicamente, testimoniando la sua empatia spettatoriale, lo ‘spettacolo’ del naufragio. Ma quella visione è destinata ad approdare a una meraviglia finale, che è anche iniziale, inaugurando a new world.
MIRANDA
Oh meraviglia! Quante creature leggiadre! Bella è l'umanità/ Splendido mondo nuovo, che ha in sé creature come queste!PROSPERO
Sì, un mondo ancora nuovo, per te(V, I, 181-84)
Edward Burne-Jones, Sleeping Beauty (1871)
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Miranda-mirando l'amore, mira, guarda e s'innamora, è fatta, ha persino il nome per vedere a prima vista. Ha gli occhi aperti sul mondo: ecco la defiizione di Miranda. E nello stesso tempo è meravigliosa, [...] femminile da ammirare. (Strelher 2007, p. 340)
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Ariel ninfa marina, Prospero magnetizzatore, la figlia pupilla magica. Ma il regista tiranno che tende ad asservire le sue creature-attori a sua volta è una maschera. È il volto nascosto dell'ipnotizzatore che tende a incatenare ai suoi voleri l'ipnotizzato: ma l'ipnosi, come il cinema, incatena, ferma lo spettatore-ipnotizzato immettendolo in un gioco di maschere, di persone, di spersonalizzazione-impersonazione, è la dialettica della possessione; allora si comprende come l'altro che va incatenato e scatenato è lo spirito che ci possiede, che ci fa accedere alle visioni, ma che anche ci cura, ma quello spirito ci abita: siamo noi stessi, tutti, nell'isola e nella tempesta, sono lo stesso-altro di Prospero.
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Eleanor Fortescue Brickdale, Prospero and Ariel (1899)
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“Un padre racconta alla figlia come arrivarono sull'isola misteriosa. Ma poi si capisce che Prospero ha quasi ipnotizzato Miranda” (Strelher 2007, p. 340). Allora Miranda, fedele al suo nome, vede, e ciò ci fa vedere, ci incorpora in una visione tridimensionale, il suo vedere-sentire è come quello figurato in un film come Avatar, la fibra (ottica e sensitiva) di un albero empatico ed emozionale che ci fa essere tutti, noi-altri, in relazione reciproca. “Dormiti!” “Sei sveglia? Non dormi? Non dormire!”: sono ingiunzioni ipnotiche in negativo, quando Prospero copre Miranda con il suo mantello-tela-schermo. Scrive Strehler: “C'è un brivido di dissolvimento, verso dove? Nel nulla? La battuta del sogno: Tutto si scioglierà... è prefigurata in una catastrofe? Ha il brivido della dissoluzione e delle catastrofi scientifiche, umane? O il brivido del cosmico?” (Strelher 2007, p. 341). Strehler infatti immagina un ‘falò delle maschere’, che poi non metterà in scena:
Alla fine un fuoco che brucia sul palcoscenico: un falò. Le maschere che bruciano nella notte. Un fuoco rituale. Una lampadina lucente che brilla, sola, nel vuoto del palcoscenico nudo sul fuoco che si spegne e la cenere. (Strelher 2007, p. 342)
Rappresentazioni italiane di The Tempest, tranne quella con le marionette di Podrecca del 1921, non se ne ricordano per tre secoli, fino alla metà circa del Novecento, a parte, appunto, adattamenti musicali. Una insistita fama di irrappresentabilità deriva dall'aura di mutazioni sceniche come dalle inverosimiglianze fantastiche del testo shakespeariano, eppure la semplicità nuda e primitiva della scena-isola così come la scrive Shakespeare, il suo modo di piegare la "stoffa dei sogni" con la stessa innocenza con cui un bambino si abbiglia, si maschera con stracci e pezze per giocare a ‘fare finta’, balza agli occhi. Allora cos'è che mette paura della Tempesta, rispetto alla sua rappresentabilità? Evidentemente proprio il suo andare oltre il teatro, il suo porre fine alle illusioni e insieme il suo aprirsi verso un'altra dimensione che, a partire dai semplici materiali umani del teatro, dia accesso all'invisibile, evochi le ombre, gli spiriti, i demoni, gli angeli e li susciti, a partire dal fuori della scena/natura, dentro di noi, come in uno specchio. È un testo insondabile, dice Strehler, ma si potrebbe dire polimorfico, una struttura universale che si trasmuta secondo la molteplicità dei livelli e degli echi, tendenti, questo è vero, all'infinito, e in tal senso inesauribile. Testo magico che muta sotto i nostri occhi, è avvicinabile al Flauto Magico, come si sorprende lo stesso Strehler: “Insomma è una situazione estremamente analoga a quello che ho vissuto per il Flauto Magico” (Strehler 2007, p. 5). Nella prima edizione strehleriana della Tempesta, andata in scena il 5 giugno del 1948:
La misteriosa isola shakespeariana sorgeva nel mezzo del laghetto dei cigni del Giardino di Boboli [...] nella parte più alta della piccola isola, davanti alla statua del Giambologna, si apriva la caverna di Prospero e, da sopra la grotta, scendevano, durante il masque del IV atto le divinità, gli spiriti, le ninfe. (Anzi 2008, p. 222)
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Canne di bambù riempiono lo spazio nello spettacolo in
The Tempest di Peter Brook (1990) |
La 'O' di legno elisabettiana, isola simbolica di roccia e di legno, isola fantastica, deserta e abitata da spiriti, ma anche reale come le Bermuda misteriose battute dai vortici di vento, diventa protagonista nello spettacolo di Peter Brook, che allestisce una sorta di giardino secco, una terra desolata, dove ci si aspetterebbe un re pescatore, il re ferito di una waste land, ma poi è uno straordinario attore di colore, Sotigui Kouyate, a fare Prospero, il quale suscita, come altro-doppio, protesi della sua potenza, un altro Ariel nero, Bakary Sangaré: e il gioco si ri-vela, si tratta di una magia degli spiriti che ha una matrice in un'Africa, antica e nuova insieme, primigenia e innocente, come ancestrale e saggia.
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Sotigui Kouyaté come Prospero in The Tempest di Peter Brook
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Un giorno il consueto tappeto fu tolto scoprendo un rettangolo ben preciso che verrà successivamente ricoperto di sabbia e segnato con canne di bambù. Nell'angolo alla destra di chi guarda, si alza una pietra grezza. L'immagine è quella di un giardino secco dei templi di Kyoto, giardini che pur basandosi sulla natura la limitano alla sabbia e alla pietra. (Banu 1994, p. 173)
Il giardino secco appartiene in egual misura al mondo reale e a quello dello spirito [...] Brook conserva questa ambivalenza, poiché è Prospero, il saggio riconciliato con il mondo, a dominare l'isola secca. (Banu 1994, p. 173)
La Tempesta invita a guardare un giardino secco in cui i solchi del rastrello non hanno la sicurezza delle onde tracciate dal celebre Ryoan-ji, ma spesso tornano su se stessi immaginando una galassia di cui la sabbia sarebbe il riflesso: Prospero si trova al centro di un cerchio stabile. (Banu, 1994, p. 174)
Esaminando alcuni elementi strutturali dell'opera di Shakespeare (l'uso del tempo e dello spazio, le tecniche di costruzione drammaturgica, la presenza nelle sue opere di molti punti di vista, la qualità della lingua shakespeariana, ecc.) Lemaitre arriva a individuare nella sua drammaturgia dei principi estetici analoghi a quelli del cinema. [...] Shakespeare sarebbe quindi un autore visivo, nella cui opera si può individuare un orientamento non letterario, ma precinematografico. [...] altre tecniche pre-cinematografiche impiegate da Shakespeare sono la moltiplicazione dei punti di vista (analoga alla soggettiva cinematografica) e l'uso del montaggio parallelo in due o più linee dell'intreccio. (Quarenghi 2002, pp. 41-42)
Nella hall il regista nota il ritratto di una giovane donna dall'espressione interessante, e domanda chi sia. Si sente rispondere che 'Oh sì, è la regina Elisabetta, la Regina d'inverno, per la quale La Tempesta era stata rappresentata, in una sera d'inverno del 1612 [...] la giovane principessa Elisabetta, figlia di Giacomo I, la quale andò in sposa al principe di Boemia' (Colaiacomo 2000, p. 147).
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Affiche del film The Tempest (1979) di Jarman con il simbolo di mercurio
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Versione esotica di The Tempest (2011) al Montgomery College
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Uno dei 'pesci-diavolo' della tradizione folklorica dello Stretto di Messina
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L'arte di Antonio è evidentemente malvagia, una forma di goetia che indebolisce la vita della società anziché rinvigorirla. [...] L'arte di Prospero rende la natura conforme ai disegni razionali e spirituali della realtà e quindi alla provvidenza. Essa rinnova l'unità che vincola le comunità umane, mentre la goetia si adopera per distruggere quel vincolo, conferendo un potere illegittimo a un unico individuo. (Melbane 1994, p. 243)
Fattosi esperto nell'arte di concedere grazie o negarle; dal promuovere alcuni e del rimuovere altri di troppo spicco, si dette a rinnovare le nomine tra la gente stata già mia – mie creature, dico – o a sostituirle, e altre a crearne dal nulla. E avendo ambe le chiavi e dell'ufficio e degli ufficiali, accordò nel mio Stato i cuori di tutti sul tono più gradito al suo orecchio: fu insomma, l'edera che nascose il mio tronco principesco, succhiandone tutto l'umore vitale. (Prospero a Miranda, I, II, 79-87)
Il dramma [The Tempest] si conclude con l'avvertimento che la nostra vera natura si realizza solo se si riconoscono e si assoggettano le forze oscure presenti in ogni individuo. Solo a tale condizione, il nostro destino potrà essere compiuto e forse anche trasceso. [...] Una delle conquiste più alte del teatro shakespeariano è la capacità di riconoscere le forze distruttive insite nell'anima umana assieme alla facoltà di poterle trascendere. (Mebane 1994, pp. 245-246)
Anzi 2008
P. Colaiacomo, The Tempest di Derek Jarman, in Shakespeare al cinema, a cura di I. Imperiali, Bulzoni, Roma 2000, pp. 145-ss.
H. Lemaitre Shakespeare, le cinéma imaginaire et le précinéma in Shakespeare nel cinema, a cura di P. Quarenghi, Roma 2001, pp. 175-181
S. Perosa, L'isola, la donna, il ritratto, Bollati Boringhieri, Torino 1996
Quarenghi 2002
P. Quarenghi, Shakespeare e gli inganni del cinema, Bulzoni, Roma 2002
P. A. Sitney Visionary Film in Harry Smith American Magus/Moderno Alchimista a cura di P. Igliori, Arcana Pop, Roma 2003, pp. 7-9
Bruno Roberti
Such stuff as dreams are made on. Morphologies and migrations of The Tempest
Materializations of animic conditions, incarnations of elemental spirits, apparitions magically evoked on a theatrical 'tabula' whose mutations seem to project different stages of perceptive transformations: the playing of The Tempest flows, and is reflected, in the perturbating dream of a cinema-to-come, interwoven with imaginative stuff.
The island is both a magical circle and a space that consolidates onlookers' instances with the artifice of creation, in a context that slides magic over science, technics over imagination, thus corroborating the mental space of an imaginative morphology, finally able to become prophecy on a future, confluence of times, utopia of a community.
The essay undertakes a double journey, in which morphology becomes migration, shipwreck, return, both actual and symbolic.
A centripetal journey: towards the 'eye of the storm' of a text which contains multiple refractions, dissolved in a mise en abyme of the rhetorics of representation: from alchemy (related to the hermetic world of an Elizabethan magician such as John Dee), to the Theater of Memory (the constructions of Giulio Camillo, Giordano Bruno, Robert Fludd that projected active images punctually arranged in space, as shown by Frances Yates' studies) to the visions of a new world, between geographical discoveries and scientific experiences, up to a political background, primarily focused on a new concept of the relationship with the other and on a process of metamorphosis of the social body.
A centrifugal journey: towards the power of a text which has given rise to a number of versions and variations, from music to literature and cinema, to theater itself. The essay considers examples in cinema, starting from the "elective affinities" with shakespearean universe by a film-maker as Derek Jarman, whose cinema moves between alchemical visions and pictorial-erotic lightings; the essay also retraces the encounter with the text that stage-masters of the 20th century, from Strelher to Eduardo to Brook, lived in a mirror-like attitude, giving body to Prospero's skills as a 'director', within the invention of a theatrical language that, once again, casts the play beyond itself, in an area of threshold between theater and life, between past and present.
The essay extends on five trajectories: "Voices and images: cinemantics of The Tempest", "Magical and alchemic theater of memory", "The island-screen: filmic metamorphosis", "The stuff of dreams: setting of imaginary theaters", "Space of the other and of the elsewhere: further possible worlds of The Tempest"
keywords | The Tempest; Morphology; Migration; Shipwreck; Theatre of Memory.