"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

210 | marzo 2024

97888948401

CCCP e СССР

Il mito sovietico italiano, da Cavriago a Berlino

Gian Piero Piretto, intervista a cura di Christian Toson

English abstract

Turisti fotografano i mosaici della stazione della metropolitana moscovita Majakovskaja. Anni Ottanta, Boris Kavkašin, Valerij Christoforov, TASS.

Christian Toson | Potrebbe raccontarci, attraverso la sua esperienza personale, professionale e accademica, com’era il mito dell’Unione Sovietica in Italia, in riferimento all’ambiente culturale dei CCCP?

Gian Piero Piretto | Vorrei cominciare con un episodio. Ho scelto di studiare russo perché negli ultimi anni di liceo era uscito in traduzione il Maestro Margherita di Bulgakov. Mi ero follemente innamorato di questo romanzo, e visto che avevo già deciso di studiare lingue straniere, ho deciso di aggiungere anche un esame di russo. Ma quando l’ho comunicato ai miei genitori c’è stata perplessità in famiglia, che è andata avanti per anni. In seguito, ho portato i miei genitori a Mosca e Leningrado. Era il 7 novembre 1986 (Anniversario della Grande Rivoluzione Socialista d’Ottobre), e come stranieri abbiamo avuto un posto di privilegio per assistere alla sfilata che confluiva verso la piazza Rossa. Siamo stati quasi un’ora in piedi, al freddo, per mantenere la posizione in attesa che iniziasse la sfilata. Mio padre, che non era mai stato né comunista né filosovietico, alla fine di quelle tre ore gelide, in piedi, aveva le lacrime agli occhi e mi ha detto: “Se non li avessi visti con i miei occhi, non l’avrei mai creduto. Tu me l’hai raccontato mille volte, ma loro ci credono! Loro ci credono! Non crediamo più in niente”. Questo detto da uno che non era mai stato comunista, ed era rimasto deluso dalla Democrazia cristiana. A Mosca però aveva le lacrime agli occhi di fronte a questa manifestazione popolare. Negli ultimi anni mi sono occupato con gli studenti di studiare strategie di ottenimento del consenso, di gestione delle emozioni etc. e cito sempre questo episodio.

Quella non era la seconda lacrima di Kundera, non la facile commozione compiaciuta perché ci commuoviamo con gli altri: quella di mio padre era una lacrima autentica di fronte a una manifestazione di fede. E che fosse religiosa o politica poco importava, ma era qualche cosa che lo ha colpito. Era l’anno 1986, tre anni dopo sarebbe crollato tutto. Però, una festa del 7 novembre poteva ancora suscitare una reazione così in una persona abbastanza preparata. Tramite me, ovviamente, mio padre sull’URSS qualche cosa aveva acquisito, ma ripeteva: “Me lo hai raccontato mille volte, ma non ci avrei creduto se non l’avessi visto con i miei occhi”. È stata anche questa l’Unione Sovietica.

CT | Rispetto a questa immagine, come è cambiato in quegli anni il mito dell’Unione Sovietica in Italia?

GPP | Ci ho pensato parecchio in questi giorni e, preparandomi all’incontro con voi, mi sono anche riletto l’articolo di Tondelli che era uscito su “L’Espresso” (Punk, Falce e Martello, novembre 1984) e ripubblicato di recente su “Linus” nel numero dedicato ai CCCP (n. 705 del febbraio 2024) e mi è sembrato che tutte le prove che lui cita a favore dell’interesse per il mito sovietico fossero in realtà manifestazioni di interesse nei confronti della nuova Unione Sovietica che andava delineandosi sempre più. In particolare, Tondelli cita due film americani: Gorki Park (Gorky Park, 1983, regia di Michael Apted) era stato famosissimo anche perché tratto dal romanzo di Martin Cruz Smith. L’altro in italiano si chiamava Mosca a New York (titolo originale Moscow on the Hudson, 1984, regia di Paul Mazursky).

Il primo è un film che per la prima volta parla di delitti anche a Mosca, di traffici tra i servizi segreti, quindi si interessa dell’Unione Sovietica, ma non è il solito mito sovietico (la conquista spaziale, l’eguaglianza, l’amicizia dei popoli, tutta la retorica dei decenni precedenti), ma è di interesse per una nuova realtà che avrebbe portato poi con il crollo dell’Unione Sovietica a quel momento di infatuazione da parte dell’Occidente per un nuovo paese che finalmente assomiglia a noi, dove succedono le stesse cose – dal consumismo alle competizioni di bellezza, i centri commerciali e tutto il resto. L’altro film in questione, Moscow in the Hudson, è la storia di un sassofonista sovietico che arriva a New York e decide di chiedere asilo politico, quindi di scappare dall’URSS: e anche questo non è un grosso contributo al mito sovietico così come era stato inteso.

Potrei aggiungere, se mi concedete un momento autoreferenziale, altre esperienze personali di quegli anni (metà anni Ottanta). Quando insegnavo all’Università di Bergamo tenevo un corso di lingua attraverso la cultura presso il laboratorio linguistico, e recuperavo in occasione dei miei viaggi sovietici ogni possibile materiale sonoro che potesse aggiungersi agli obsoleti manuali che ancora circolavano, compresi dischi, canzoni, musica, etc. Mi era venuta l’idea di proporre a Radio Popolare di Milano una trasmissione di musica sovietica che era stata prontamente accettata e mi hanno messo al fianco di Sergio Ferrentino, che era un maestro di radiofonia – io non avevo alcuna competenza né di mixer né di tempi radiofonici. Per tre anni saremmo andati avanti con questa trasmissione che proponeva non soltanto il mito russo e sovietico, quindi il coro dell’Armata Rossa e le canzoni politiche, oppure gli strazianti e meravigliosi canti popolari, ma dava riscontro anche delle nuove realtà: audiocassette di rock non ufficiale, rock proibito, l’aerobica sovietica. Proponevo anche le canzoni delle colonne sonore delle commedie musicali staliniane degli anni Trenta, ovviamente leggendo in chiave critica quelle forme di propaganda e di creazione di realtà virtuali e lontane. Questo aveva portato, all’interno della radio, a un certo scombussolamento, perché lo zoccolo duro di Radio Popolare non vedeva di gran buon occhio le nostre uscite e questa nostra leggerezza nell’approccio alla cultura sovietica. Viceversa, chi era un pochino più aperto mi permise di mettere lo zampino nelle trasmissioni, dal jazz sovietico al folk sovietico, i bambini sovietici, le trasmissioni gay del martedì (sì, ci sono i gay anche in Unione Sovietica). Dalla piccola nicchia di quella radio e col mio modestissimo apporto abbiamo quindi offerto un contribuito ad allargare il discorso su quello che è stato. Fino ad arrivare poi alla satira, addirittura a un programma pseudo-cabarettistico.

In parallelo, diedi alle stampe per CLUP una Guida di Mosca e Leningrado (Milano, 1986) che proponeva, inedita per l’epoca, sicuramente inedita in Italia, la possibilità di andare in giro da soli per Mosca e per Leningrado; quindi, staccarsi dai gruppi e muoversi in quelle città che fino allora erano, in conseguenza del mito, intoccabili, nel bene e nel male. Volevo rompere quell’idea che sono guai se ti sposti perché ti portano in Siberia, e di non fidarsi ad andare in metropolitana da soli. Questa guida aveva avuto un notevole successo e a decenni di distanza ho saputo che era arrivata fino all’Unione Sovietica, dove aveva suscitato parecchia curiosità, e potrei raccontare molti aneddoti su come poi sarei stato anche avvicinato da persone, non dico agenti del KGB, ma comunque figure ufficiali che venivano a Milano e con delle scuse cercavano di avvicinarmi per capire chi fosse colui che aveva scritto questa guida.

CT | Ci sembra che l’immagine dell’Unione Sovietica che proponeva lei in Italia si distaccasse molto da quella ufficiale. In che modo questo era legato con i cambiamenti culturali in atto in URSS?

GPP | Il momento io lo vedrei più in questa chiave: avviciniamoci a un paese con possibilità nuove, e caso mai decostruiamo i vecchi miti, anche quelli che sembravano intoccabili da parte di chi aveva una fede politica orientata in quella direzione; ma anche approfittiamo di queste possibilità e scopriamo che cosa ha da dire questa nuova realtà. Io con i miei studenti avrei fatto dei viaggi organizzati appositamente, preparandoli su materiali diversi: in quegli anni comparivano riviste nuove assolutamente inaudite. C’era la possibilità di reperire materiali di ogni genere sottobanco. Era sempre stato possibile ma non c’era più quel terrore di matrice staliniana. All’interno del paese la decostruzione del mito sovietico era cominciata già dagli anni Settanta.

Soprattutto i giovani, già da quegli anni, non sopportavano più l’imbacuccata e arcaica presenza della retorica e della propaganda e avevano acquisito un atteggiamento che io ho sempre definito come a-sovietico più che anti-sovietico, sintetizzabile in un: noi dichiariamo di non crederci più, non abbiamo alcuna aspirazione politica di demolizione delle politiche sovietiche, anzi, la politica proprio non ci interessa. Patto di reciproca non aggressività con il regime, noi facciamo le cose nostre senza venire troppo alla luce o dare fastidio, e voi ci lasciate vivere in pace.

Forse l’elemento che può meglio caratterizzare questo stato di cose era stata l’apertura del famoso Rock Club a Leningrado che gli stessi servizi segreti avevano organizzato per concentrare tutti gli amanti del rock in un solo spazio. Concedendo loro questo territorio, li potevano tenere d’occhio. I musicisti erano ben lungi dall’essere così creduloni, quindi andavano al Rock Club, ma in parallelo continuavano le attività nelle cantine e in luoghi alternativi.

Quindi all’interno del paese la ricostruzione era cominciata già prima. In Occidente, secondo me, è arrivata nella prima metà degli anni Ottanta; poi c’è stato l’input gorbacheviano che ha ribaltato tutto quanto.

CT | Potrebbe raccontarci qualcosa in più rispetto alla percezione che si aveva nei confronti dei paesi del Patto di Varsavia in rapporto al mito sovietico?

GPP | Quando accompagnavo i turisti italiani nei viaggi in URSS, c’era un viaggio che si chiamava “l’Europa orientale in treno”. Molto avventuroso. Si dormiva sempre solo in cuccetta. Si partiva da Vienna, e si andava a Praga, Budapest, Varsavia, poi in Unione Sovietica (Mosca, Leningrado) e si tornava a Berlino Est. Si poteva chiaramente vedere lo spettro delle differenze che c’erano tra i paesi dell’Est Europa. In quasi tutte le classifiche, l’Unione Sovietica era quella che stava più in basso, come avrei sentito dire poi negli anni successivi da molti amici e colleghi sovietici. “Dicono che noi siamo i colonizzatori, in realtà si vive molto meglio nelle colonie che non nella casa madre”. L’Ungheria sembrava essere il paese di Bengodi, era l’Occidente del patto di Varsavia. Di Praga e Varsavia non ne parliamo. A Budapest e anche a Berlino c’erano caffè e ristoranti dove si poteva andare senza problemi. In Unione Sovietica si facevano le code e ci voleva la piccola corruzione – il pacchetto di Marlboro, il dollaro messo in mano al portiere dei ristoranti – per conquistare l’ingresso, e così via. A Berlino Est mi avevano anche fatto vedere che c’erano i locali gay, i caffè gay, mentre in Unione Sovietica l’omosessualità era ancora penalmente punibile. Da parte di tutti quelli che ho conosciuto degli altri paesi, c’era un sentimento di rivalsa nei confronti di Mosca. Pochissimi fra quelli che ho conosciuto erano filomoscoviti e filosovietici. Anche questa per me è stata un’occasione per aprire gli occhi e mettere da parte tutta una fetta di retorica propagandistica. La mia Berlino, quindi, è stata più Berlino Est che non Berlino Ovest.

Tornando ai CCCP, io rientravo a Berlino Ovest a mezzanotte. E avevo l’età in cui a mezzanotte si continuava a vivere, non si andava a letto. Però le mie giornate e i soggiorni più lunghi e più importanti hanno riguardato il settore orientale. A differenza dei CCCP che si cimentavano a Kreuzberg, il quartiere di Berlino Ovest dove c’era la vita, la movida dove si faceva cultura, Berlino Est era molto più sonnolenta e tranquilla, ma vivace. Avevo già da allora imparato a contestare l’immagine di immobilità e di grigiore del mondo socialista. La vita quotidiana esisteva e succedevano un sacco di cose, anche intriganti. Non potendo parlare in russo, io parlavo il mio misero tedesco; il collega con cui avevo fatto amicizia era fanatico di opera, quindi parlava italiano con i versi delle romanze operistiche, ed entrando in un ristorante molto quotato frequentato dagli attori, pronunciò la frase “serra l’uscio!”, che abbiamo poi scoperto essere della Cenerentola di Rossini. Un italiano aulico assolutamente sgrammaticato, ma la lingua franca che parlavamo di solito era proibita, perché nei locali pubblici i russi non erano ben visti.

Quando stavo a Leningrado con una borsa di studio, una delle governanti del piano della casa dello studente, una sera in cui aveva bevuto un po’ e alla quale avevamo offerto del vino, ci aveva raccontato in lacrime di essere stata in vacanza a Praga. Era il 1974, quindi il ricordo del 1968 era ancora vivo, soprattutto nei praghesi. Era andata a farsi la manicure, e le avevano tagliato le unghie male, facendole uscire il sangue dalle dita. “Perché? Perché ci fanno questo? Noi vogliamo essere fratelli. Noi volevamo aiutarli”. Le risposi: “Sì, ma non avete capito, ve l’hanno detto in tutte le lingue che loro non volevano questo aiuto”. Quasi ubriaca, piangeva, dicendo: “Ecco, mi ha… mi ha fatto sanguinare le mani, perché non possiamo essere fratelli?”.

Questi piccoli particolari di anno in anno toglievano le fette di salame dagli occhi del giovane italiano. Su questo ho impostato molti dei miei dibattiti negli anni successivi. Quando trovavo dei sostenitori a tutto tondo dell’Unione Sovietica che contestavano certe mie posizioni dette revisionistiche, dicevo: io ci ho vissuto per mesi di fila e continuo ad andarci sistematicamente. Voi non ci avete mai messo piede e quindi vi basate solo su materiali di propaganda, sul sentito dire: andiamoci una volta insieme e poi vediamo se le mie critiche vi sembrano ancora faziose.

CT | In questa demitizzazione dell’Unione Sovietica, i CCCP possono considerarsi una forza antagonista, proprio perché giocano sul venire a mancare del punto fermo, della linea da seguire, volendola ribadire proprio laddove iniziava a mancare. A quali riferimenti culturali sovietici crede si siano richiamati i CCCP?

GPP | Sì, sicuramente. I CCCP sono stati sempre persone di grandissima intelligenza e di grande finezza intellettuale, chiamiamoli intellettuali tra virgolette: non erano intellettuali che se la tirano da intellettuale, però la loro preparazione era sicuramente molto attendibile. Per moltissimi, non solo in Italia, il riferimento culturale erano gli anni dell’avanguardia, quindi i primi anni Venti, e ho visto moltissime citazioni di quel mito, soprattutto sul fronte iconografico. Era il Costruttivismo, era Majakovskij. Il Realismo Socialista degli anni Trenta staliniani ha avuto un seguito molto minore, molto inferiore rispetto a quelle mitologie. Anche perché da un punto di vista politico diventava impossibile negare la mistificazione staliniana della purezza ideologica dell’utopia, nella riduzione che era stata caratteristica dei primi anni Venti.

Molto più tardi è arrivata una rivisitazione del Realismo Socialista – penso ad alcune mostre che ci sono state a Roma, al Palazzo delle Esposizioni, 10 o 15 anni fa. Però c’è voluto molto prima di poter dire: ci occupiamo di una forma d’arte come il Realismo Socialista, senza per questo poter essere accusati di essere filo-Stalin, di essere stalinisti e di sostenere la politica staliniana. Quindi l’imbarazzo causato dallo stalinismo sicuramente avrebbe fatto sì che anche quella fase, peraltro interessantissima, di iconografia, di arte, di cinema, un po’ meno sul fronte letterario, venisse accantonata e ripescata in ritardo. Secondo me, i CCCP hanno continuato sull’onda di quella mitologia mai abbandonata, mai dimenticata. Volendo affermare o riaffermare la loro fedeltà alla linea, appunto, hanno scelto quelle forme e non hanno mai fatto ricorso a manifestazioni biecamente o bassamente retoriche o propagandistiche.

L’ironia e l’autoironia dei loro testi e delle loro rappresentazioni è sempre stata grandissima, e qui c’è la grossa differenza con quello che succedeva in Unione Sovietica. L’ufficialità sovietica, l’ironia non la conosceva. Ma c’era un interessantissimo sottosuolo sarcastico, ironico, satirico. Le battute e i cicli di barzellette erano una reazione che la popolazione si inventava per sopportare una certa tipologia di vessazione o di pesantezza della vita. Sappiamo che la protesta non era una categoria specifica del popolo russo, tantomeno sovietico. Quindi si sopportava, più che protestare, e inventarsi barzellette che mettessero in ridicolo la politica o i vari personaggi della politica era una delle vie d’uscita. Credo che i CCCP conoscessero molto bene tutte queste realtà, così come anche nella scelta degli appellativi. Fatur era l’“artista del popolo”, perfetta traduzione di “narodny artist”, non l’artista popolare, perché in italiano popolare può sembrare voler dire ‘di successo, famoso’, ma artista che appartiene al popolo. Più recentemente, quando a Annarella hanno attribuito il titolo di “benemerita soubrette”, anche questo viene da “zaslužennyj artist”, preso dalla realtà sovietica più pura, prova del fatto che la conoscevano davvero molto bene.

CT | E rispetto alla realtà emiliana?

GPP | L’altra percezione – sarebbe da discuterne con loro, ma mi permetto qui di azzardare: – è che abbiano vissuto il mito sovietico filtrato attraverso l’Emilia-Romagna, in Emilia in particolare, come la realtà di Cavriago. Ci sono stato per la prima volta qualche settimana fa e sono rimasto a bocca aperta sia davanti al busto di Lenin ancora in piazza, sia dalla manifestazione che commemorava i 100 anni dalla sua morte. C’erano cento e cinquanta persone nella sala della Casa della Cultura di Cavriago per ragionare sul mito di Lenin insieme a me. Hanno fatto anche loro, con un gesto molto autoironico, quello che hanno chiamato “il gadget”. Una palla di vetro con la neve e il busto di Lenin dentro. Hanno preparato 100 esemplari, come gli anni dalla morte di Lenin. Hanno tenuto da parte un’esemplare per me. Io ho detto loro:

Ma allora, se siete d’accordo, in questa mia presentazione potremmo finire con un gioco. Io cito Majakovskij che 100 anni fa inveiva contro la riproduzione tecnica dell’opera d’arte, cioè contro la promozione di busti di Lenin da tenere in ogni casa. Sulla rivista “LEF” c’è un articolo a tutta pagina dove Majakovskij tuonava: “Non fate commercio di Lenin!”. Io impersonerò Majakovskij cento anni dopo e chiederò a voi organizzatori: “Avete fatto commercio di Lenin?”.

Loro rispondono “Bellissimo, ci divertiremo!”. Sono stati al gioco e abbiamo fatto questa performance finale in cui hanno motivato la scelta. Un anziano signore poi mi ha detto privatamente: “A me non piace mica questa cosa! Soprattutto è fatta male. Guarda, guarda, questo sarebbe Lenin? A me sembra La Russa”. Molto spiritosi e molto ironici, senza peraltro perdere la loro convinzione politica.

Discutendo di Putin e del trattamento che io riservo a Putin nell’ultimo libro che ho dato alle stampe, quello sui funerali sovietici (L’ultimo spettacolo. I funerali sovietici che hanno fatto la storia, Milano 2023), sempre questo signore mi dice: “Ah, gliele hai cantate belle chiare a Putin! Eh, non gliele hai mica mandate a dire!”. Rispetto alle scelte putiniane dice: “Sai, io volevo credere che lui lavorasse per il bene della Russia, che volesse riportarla alla grandiosità sovietica. Poi, nel momento in cui ha dichiarato che la causa della guerra era stata Lenin, per la sua responsabilità nei confronti della Crimea, allora gli ho detto, no, caro Putin, non mi fido più di te, giù le mani da Lenin!”

Dietro tutte queste affermazioni, che sembrano macchiettistiche come le sto raccontando, c’è forse tutta la storia dei CCCP, cioè la fede incrollabile, però sempre molto critica, non ottusa. Rodolfo Curti di Cavriago mi ha detto: “Io dividevo i comunisti in due categorie: gli intelligenti e i cretini. Gli intelligenti arrivavano nell’Unione Sovietica, si guardavano intorno e poi venivano a discutere con me. ‘Ma qui c’è qualcosa che non funziona, lo dobbiamo dire, dobbiamo scrivere alle Botteghe Oscure per segnalare!’; i cretini, invece, ‘È tutto bello, tutto bellissimo, tutto una meraviglia!’. Non è vero! Noi dobbiamo avere lo sguardo critico!”. E così ho approfondito grazie a lui cosa vuole dire essere comunista oggi in quel territorio specifico dell’Italia. E ho capito forse un pochino meglio anche i CCCP. Questo loro gioco del sottotitolarsi come “fedeli alla linea”, del non cedere ai facili smantellamenti di quel mito, ma nello stesso tempo di essere, rispetto a quel mito, prima documentati e consapevoli, e poi critici.

CT | Vorremmo farle una domanda che si muove sulla linea del campo di ricerca generale della nostra rivista, che parla di tradizione classica nella memoria occidentale. Mutuando il concetto di testo mediatore da Aby Warburg, vorremmo chiederle qual è il canone e quali sono i testi mediatori che hanno fatto emergere questo immaginario sovietico nell’Italia degli anni Ottanta.

GPP | Direi che il nome dominante è Majakovskij. Icona nel bene e nel male, nel senso che a conoscere davvero Majakovskij erano in pochi, però anche in quel caso penso alla fortuna di quella foto di Lili Brik che grida nel megafono. Basta leggere come la pubblicità/propaganda sovietica sia stata utilizzata dalla pubblicità commerciale, e l’abbiamo trovata per decenni declinata in mille possibili varianti. Oppure il famoso quadro del Cuneo Rosso, di El Lisickij. Una serie di figure, di nomi diventati iconici, che hanno circolato mantenendo la propria aura di icona fino a quasi la metà degli anni Ottanta.

La critica che facevamo e cercavamo anche di far capire agli studenti era che non si dovevano accontentare di quelle forme ben note e così ampiamente sfruttate, ma dovevano andare a scoprirne di nuove. Quando si proponevano loro autori o nomi diversi, restavano a bocca aperta e si facevano appassionare. Poi sempre meno. Negli ultimi anni di insegnamento mi ero reso conto che insegnare diventava molto difficile, nella fattispecie stavo commentando uno dei fotomontaggi di Rodčenko, che usava l’immagine di Brik, e dicevo: “probabilmente non conoscete Lilja Brick: era stata una delle donne di Majakovskij”. Vedo gli occhi smarriti e capisco che non sanno chi sia Majakovskij. Prima di commentare il fotomontaggio di Rodčenko, dobbiamo tornare alle origini e spiegare tutto. Nel corso dei miei quarant’anni di insegnamento ho assistito a un progressivo crollo generale di preparazione, in particolare rispetto all’Unione Sovietica, quindi anche del suo mito.

Il mito fragile e vuoto costruito su immagini universalmente note e senza ricerca di approfondimento, che aveva caratterizzato tutti gli anni Settanta in Italia, era precipitato. La stessa cosa succede in Russia. C’è addirittura ignoranza rispetto alla figura di Lenin, anche fra gli studenti universitari. A me è successo qui a Berlino, qualche mese fa, quando ho portato in giro un gruppo di amici e c’era un signore con la figlia neolaureata. Siamo andati a visitare un museo della DDR, non quello turistico ma quello più filologicamente pulito. E il padre uscendo mi dice: “Mi sembra di essere tornato a Goodbye, Lenin”. Effettivamente racconta la storia di quegli anni. La figlia chiede: “Che cos’è?”. “È un film di una ventina d’anni fa. Tu non l’hai visto, ma adesso che sei stata a Berlino dovresti vederlo”. Lei tira fuori il telefono: “Come? Si chiama Goodbye… No, non lo trovo, com’è, Lewis…?”. Dico: “No, Lenin con la n”. “Ah! E cosa vuol dire?”. La realtà è questa.

Quindi se Majakovskij e Lenin oggi sono sconosciuti ai più, dobbiamo interrogarci e ripensare. Chi insegna oggi ha una responsabilità ben più grossa di quella che avevo io. Soprattutto nei primi anni stavo tranquillo perché chi fossero Majakovskij, Esenin, Gor’kij, Trockij, Bucharin lo sapevano assolutamente tutti, sia perché, come ho già detto, chi si iscriveva a un corso di russo aveva una preparazione politica alle spalle, sia perché era cultura generale, che all’epoca era di dominio pubblico. Oggi la situazione è cambiata, è precipitata – precipitata o migliorata, dipende dai punti di vista. Persino Gagarin, oggi gli studenti non sanno più chi sia stato. Per fortuna sono in pensione, ma se dovessi ancora insegnare dovrei rimodellare tutto il mio sistema di insegnamento a partire dalle origini. Spiegare le cose di base, non lavorare sulla raffinatezza di un fotomontaggio di Rodčenko. Quello si potrebbe fare forse in un dottorato o un master.

Un altro momento topico: era il 2000, quindi ben oltre il crollo dell’URSS. Avevo organizzato a Milano una serie di proiezioni di commedie musicali staliniane degli anni Trenta presentate in lingua originale senza sottotitoli. Prima dell’inizio facevo una sinossi e cercavo di preparare il pubblico alla visione. Durante una di queste proiezioni si alza una persona dal pubblico pestando i piedi, ed esce sbattendo la porta. Abbiamo capito cosa fosse successo il giorno dopo. Mi arriva una telefonata. “Sono il professor XY, docente di filosofia all’Università di Bologna, redattore della rivista “Marxismo oggi”, volevo chiederle conto del suo atteggiamento irrisorio nei confronti delle conquiste che il compagno Stalin…”, e insomma mi ha fatto un’arringa. In seguito, mi mandò una lettera vergata a mano con tanto di penna stilografica – impeccabile sul fronte dell’educazione, della correttezza, dello stile – in cui mi diceva che sulla rivista avrebbero scritto una recensione per condannare la mia iniziativa. Era il 2000. Anche i difensori di Stalin a ogni costo non sono mancati. Questi che cito sono i casi più eclatanti, ma ce ne sono stati parecchi. Viceversa, da parte di molti io ero visto come filosovietico e bolscevico, pericoloso, da tenere d’occhio anche in università. Fra il serio e il faceto, non pochi colleghi mi dicevano: ‘Ah, tu che sei l’agente dell’Armata Rossa… Va bene, facciamoci una risata’. Per quanto abbia fatto tutti gli sforzi del mondo per cercare di essere quanto meno fazioso possibile, mi sono visto trattare da alcuni come revisionista e da altri come agente del KGB. Ma alla fine fa parte del gioco, no? 

CT | Riavvicinandoci al mondo dei CCCP. Dato che lei ha frequentato molto Berlino, potrebbe dirci qualcosa su come questa città divisa facesse da mediatore nell’immaginario sovietico? Lei ci vedeva la traccia di una fedeltà ideologica, oppure aiutava a sconfessarla?

GPP | Come dicevo, ho frequentato Berlino assiduamente tra il 1979 e il 1981. Ero arrivato nel 1979. Laureato da poco, ci andai per uno dei miei primissimi convegni, che si teneva a Berlino Est: era un convegno di docenti di lingua e letteratura russa che coinvolgeva tutti i paesi del Patto di Varsavia. C’eravamo anche noi italiani e si teneva ogni tre anni in una delle capitali del Patto di Varsavia. Ho fatto conoscenza con un giovane collega dell’Università Humboldt, che era fra gli organizzatori, e che mi aveva aiutato a trovare alloggio in una casa dello studente, perché non ero relatore ufficiale, ma intervenivo con una breve comunicazione, quindi non avevo diritto alla residenza nel Grand Hotel ad Alexanderplatz.

Avendo fatto amicizia con lui, sarei tornato negli anni successivi, in particolare per fare Capodanno a casa sua. Non potendo però risiedere a Berlino Est, dovevo dormire a Berlino Ovest e ogni giorno passare la frontiera se volevo andare a trovarlo. Un’esperienza diversa rispetto ai CCCP, che hanno vissuto Berlino Ovest, con tutto ciò che implicava la scena musicale e la vivacità estrema per le culture giovanili, in opposizione al grigiore di Berlino Est. Avendo frequentato abbastanza spesso Berlino Est, devo dire che non era così grigia e così tetra come la leggenda la voleva. La seccatura più grande era dover passare alla frontiera, dover pagare a ogni passaggio l’obolo per il visto e per il cambio obbligatorio, che per il mio budget dell’epoca era parecchio impegnativo. Arrivavo a Berlino Est carico di marchi dell’Est e li spendevo tutti per intrattenere gli amici con i quali andavamo a pranzo: pagavo sempre io, perché non avrei saputo cosa comprare con quei marchi e non avrei potuto ricambiarli con marchi dell’Ovest all’uscita.

Questo mio amico aveva un’automobile di cui ero molto fiero e ci teneva moltissimo a dimostrarmi la sua superiorità rispetto all’Unione Sovietica. Mi ero accorto subito, in quella circostanza, che la tanto sbandierata amicizia tra i popoli del Patto di Varsavia era puramente formale, retorica e propagandistica. Appena arrivato a Berlino, ad Alexanderplatz, mentre guardavo la torre della televisione mi si era avvicinato un ragazzo mio coetaneo: aveva visto che ero straniero e mi ha chiesto in tedesco chi fossi e da quale paese venissi. Ingenuamente ho pensato di rispondere in russo, visto che ero lì per il convegno di russistica e lui mi ha guardato un po’ bruscamente e mi dice: “No, io questa lingua non la parlo. Siamo in Germania e parliamo tedesco”. E allora io gli dico, nel mio misero tedesco, che ho parlato russo perché ero molto fiero di essere lì per quel convegno. C’erano manifesti dappertutto, avevano addirittura realizzato un francobollo celebrativo e lui mi ha detto: “Sì, sì, lo sappiamo che Berlino è invasa dai delegati di questo convegno, a tutti avevano dato una valigetta nera con i documenti. Berlino è piena di agenti segreti. Non siamo così contenti di questa invasione”. E mi raccontò una barzelletta che è diventata nella mia storia personale un punto di riferimento fondamentale. Dice: “Sai, se sali sulla torre della televisione, se guardi verso il cielo, vedi, un Sternenmeer, un ‘mare di stelle’, se guardi verso Berlino Ovest, un Lichtenmeer, un ‘mare di luci’, se guardi verso Berlino Est, un Gar Nichts Mehr, un ‘più niente di niente’”. Il gioco era su Meer/mehr che condividono il suono ‘Mer’, che vuol dire sia ‘mare’ sia ‘più’.

Per me era stato il primo impatto. La prima persona che a Berlino mi dice che del russo non gliene frega niente: “Sì, lo studio a scuola, ma non lo voglio parlare. I delegati ci danno fastidio, hanno invaso la nostra città”. Il mio collega e poi amico avrebbe rincarato la dose. Gli avevo chiesto se potevamo andare a visitare il memoriale sovietico a Treptower Park, al quale ho poi dedicato degli studi, e lui mi ha detto: “Ci sono tante altre cose più interessanti che vorrei farti vedere di Berlino Est, prima nel memoriale sovietico”. Aveva anche specificato che quando saremmo stati nei caffè e nei ristoranti, non una parola in russo, altrimenti invece di portarci da bere ci avrebbero tirato le bottiglie. Quella prima settimana di soggiorno a Berlino Est era stata illuminante per tutto il mio mito dell’URSS.

Dal 1979 e negli anni successivi fino al 1982 abbiamo mantenuto buoni rapporti e sono tornato quando il mio budget mi permetteva di farlo. Con la sua automobile andavamo in giro, ma c’era il tragico momento del ritorno di Cenerentola. Entro mezzanotte dovevo arrivare a Friedrichstrasse per passare il confine. Lui guidando diventava sempre più nervoso, gli si scatenavano mille tic, perché questa cosa del dover portare l’amico straniero in questo Palazzo delle Lacrime (dove avvenivano i controlli per il transito tra le due parti della città divisa) non gli andava assolutamente giù, si sentiva prigioniero a dover restare lì e non poter venire con me. Anche questo per me era stato illuminante rispetto al mito del Patto di Varsavia e degli altri paesi.

CT | Coronerei questa risposta con un passo del bel libro di Michele Rossi, la biografia di Ferretti e Zamboni che appunto parla proprio di questo:

Non subiscono quindi nessuna fascinazione politica per l’URSS. “Filosovietici, non stupidi”, scrivono come premessa a un volantino decalogo distribuito ai concerti per spiegare la loro identità. Tiene a precisare Ferretti: “non c'era nessuna posa, non era un gioco, c’era molto autosarcasmo, eravamo dalla parte del mondo dell’acciaio e del cemento dell’Unione Sovietica contro quello di plastica e di paillettes dell’America”. Il filosovietismo lo avvertiamo unicamente come una necessità. Con ogni probabilità, se fossero vissuti in un paese del socialismo reale, avrebbero preso spunto da qualsiasi elemento del capitalismo per utilizzarlo come sovversione linguistica e simbolica contro la retorica anticapitalista invasiva. “L’idea – ha specificato Ferretti – era che il mondo fosse diviso in due: l’Impero del Bene, rappresentato in quegli anni da Reagan, e l’Impero del Male. Noi facevamo parte dell’Impero del Male per un semplice problema di equilibrio e il nostro scopo era fare propaganda a quel pezzo di mondo”. L’equazione “filosovietismo = gruppo comunista” è un grave errore, “la differenza c’è ed è questa” – ha specificato Ferretti – “essere comunisti vuol dire sentirsi legati a un’ideologia che ognuno, nel tempo, ha stravolto a modo suo, e che perciò, secondo noi, non poteva più assolutamente rappresentare un vincolo comune. Per noi, invece, la parola chiave era ‘sovietismo’: cioè un’idea molto più limitata, ma che per un breve momento della storia è diventata realtà, per cui le persone comuni si organizzavano sui luoghi di lavoro, formavano dei consigli e alla fine arrivavano a dirigere lo Stato” (M. Rossi, Quello che deve accadere, accade. Storia di Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni, Firenze 2014, 41).

GPP | Sì, sono d’accordissimo con ogni singola parola. C’è una differenza fra sovietismo e comunismo. Io avevo un collega docente di letteratura americana, autenticamente comunista, lui si definiva tale, e ogni volta che ci trovavamo in commissione di laurea con qualche tesi mia e gli studenti pronunciavano la locuzione “comunismo sovietico”, lui sobbalzava sulla sedia e diceva: “No Gian Piero, per favore! Fai capire ai tuoi studenti che ‘comunismo sovietico’ è un ossimoro, non c’è mai stato un comunismo sovietico”.

E allora un po’ ridevamo, un po’ lo prendevamo sul serio e io gli dicevo: “Sì, però loro citano le fonti su cui hanno lavorato, ovviamente in Unione Sovietica si parla di ‘sovetskij kommunizm’. Per cui questa dicotomia la conosco molto bene e per questo ho insistito sugli anni Venti e sul ritorno a quella purezza bolscevica di cui abbiamo parlato anche in questi ultimi tempi, proprio rispetto al funerale di Lenin, in parallelo al funerale di Stalin. Il funerale di Lenin aveva mantenuto ancora forme di sobrietà assoluta e di purezza ideologica: lo stesso Lenin si era pronunciato contro la propria trasformazione in icona e in mito e contro il culto della personalità e così via. Poi la ragione di Stato ha fatto sì che si dovesse immortalare la figura di Lenin e trasformarlo in una sorta di idolo. Stalin quando è morto era già un idolo. Quindi era già stata presa una distanza da quelle istanze di semplicità, di purezza e di utopia pura: tutto era precipitato.

Sarebbe molto opportuno in queste circostanze ribadire la differenza fra sovietismo e comunismo, prendere in esame la mistificazione che delle idee primigenie è stata fatta. L’intervento dello stalinismo e la, ancora più preoccupante, rinascita oggi dello stalinismo attraverso Putin – quindi il putinismo, che rilancia lo stalinismo – riporta la Russia a realtà e modalità medievali. Questi sono, secondo Putin, i cosiddetti valori tradizionali, secondo i quali oggi chiunque può entrare nella categoria di nemico: il “nemico del popolo” di Stalin oggi è l’“agente straniero”. È tutto basato su questo: la mitizzazione e la mistificazione della vittoria della Seconda guerra mondiale per giustificare l’aggressione in Ucraina e per mettere da parte Lenin.

Sono già diversi anni, almeno un decennio, che durante le feste e le celebrazioni sulla piazza Rossa il Mausoleo di Lenin viene mimetizzato, coperto con del cartongesso, come se sotto non ci fosse niente. Come se il mondo intero non sapesse che lì per cento anni c’è stato il Mausoleo di Lenin e continua a esserci. Oggi, tutto ritorna in questo discorso.

Io mi auguro che il ritorno di popolarità dei CCCP sia pensato in questi termini: non facciano una loro propaganda, non rimettiamo in piedi l’Unione Sovietica, che oramai è morta e sepolta, la nostalgia nei confronti della quale è una cosa che si è trasformata in un pericolo gestito da Putin. Ma rivisitiamo quei concetti, senza accontentarci degli stereotipi, dei luoghi comuni e delle semplificazioni che sono state fatte.

E se oggi ci dichiariamo ancora “filosovietici” tra mille virgolette (del resto chiamandosi CSI avevano già dimostrato di avere un grosso senso dell’autoironia), capite perché lo facciamo? Sono molto curioso la settimana prossima di vedere come andrà il concerto berlinese e soprattutto da chi sarà costituito il pubblico.

English abstract

This is the interview to Gian Piero Piretto, Russian and Soviet Culture historian. The inteview adresses how the myth of Soviet Union changes in Italy between the end of the Seventies and the Nineties. In this context, Piretto provides a descritpion of the cultural environment of the punk band CCCP – Fedeli alla Linea, that touches not only Italy in the eighties, but also Berlin, Eastern Europe, and USSR. 

keywords | URSS; CCCP; Pci; East Berlin; Lenin; Majakovskij.

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2024.210.0011