"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

210 | marzo 2024

97888948401

Frammenti elettrici

Intersezioni tra video e CCCP

Filippo Perfetti

English abstract
I. Geniali dilettanti in selvaggia parata

Annarella Giudici durante il Černenko Party, Reggio Emilia 1984.

Primavera del 1984, da poche settimane è eletto quale nuovo segretario del Pcus Konstantin Černenko. Recita il volantino della serata:

I kabulisti e le aristocrazie punk
i teologi i samurai e le rezdore
gli islamici e i buddisti
si schiodino dalle loro dimore
per rendere omaggio al vecchio e
al nuovo imperatore
Cernenko (CCCP – Fedeli alla linea [1984] 2023, 63-64)

Una festa convocata per rendergli omaggio: musica, film e diapositive, e una sfilata di moda sovietica. Per lo più abiti raccattati dall’usato dei frati di Carpi, il resto invenzione e un dono:

In una discoteca vicino alla stazione ferroviaria di Reggio Emilia, il vecchio Tarantola, ribattezzato Tarantol’art con vezzo New Wave, concerto dei CCCP, preceduto da una ‘parata di moda filosovietica’. Sulla balconata della discoteca sfilano Silvia, Annarella, Carolina e Francesca Costa, quest’ultima figlia di Corrado Costa, poeta del Gruppo 63 e avvocato di tutti gli sbandati reggiani (Negri [2010] 2023, 387).

Tra tutte, una sola: Annarella. Non è selezione, è differenza. Non potrebbe che essere lei: cambia abito, appare e scompare. Ogni volta un solo risultato: lei, nessun’altra. Nient’altro. Annarella e l’abito. Annarella è l’abito:

Senz’altro l’abito…
I monaci, ad esempio, avevano un tempo problemi di abito.
Allora darsi un abito era accettare una univoca dimensione pubblica, una regola, inserirsi in una tradizione.
Dare vita ad un abito o è un’assurdità o è un’altra cosa, anzi due.
È accettare la potenza del mondo, il regno della necessità. È animismo.
L’abito è la maschera, ed è la maschera una volta indossata che comanda, che gestisce chi la indossa.
È glorificare la potenza dell’individuo.
Un narcisismo che ha bisogno di travestirsi continuamente per continuare ad esistere. Niente possiede niente. Ciò che è non appare, ciò che appare non è.
Lode alle Soubrettes, vera coscienza acritica e inconsapevole del nostro tempo (CCCP – Fedeli alla linea [1988] 2023, 309).

Compare, esce, ritorna, ogni volta una nuova foggia, e per nulla cambia: è lei che dà vita a una visione che, per farsi sensibile, si veste ogni volta con colori e stoffe differenti. Ogni volta un’epifania. Il manifestarsi, la dimensione pubblica. L’animismo di dare vita all’abito, di possedere la sua forza piegandola alla propria individualità: “Aveva un potere che noi non avevamo: faceva vivere cose inanimate come gli abiti” (Ferretti, Zamboni 1997, 43). L’abito come maschera e come personificazione di una forza che soltanto pochi possono permettersi. Annarella può. Principessa con una corte sterminata: “Bisogna immaginarsela: lei e i suoi 300 ragazzotti di montagna. Una specie di principessina: aveva tutti ai suoi piedi, insegnanti e bidelli compresi. E tutti ne erano innamorati” (Ferretti, Zamboni 1997, 43). La sua individualità, unica, sopra tutto, al di là di ciascuno. Si fa di pezzi, di abiti altrui, come il cantato di Ferretti si modula in citazioni e riprese, rimarchi da altri, sussurri resi grida dalla forza di chi può darne piena voce. Quella prima notte di Annarella, non ancora al fianco di  Zamboni, Fatur e Ferretti, ci è data da un video. Sappiamo chi lo fece: “C’è un video che documenta l’evento, girato da Stefano ‘Steppo’ Nocetti di Radio Antenna 1, proprio quello Steppo che aveva suonato la batteria nel concerto di Fiorano, l’ultimo batterista, anche se estemporaneo, dei CCCP” (Negri [2010] 2023, 387).

Video di grana grossa, come nelle possibilità di allora, ma del tutto sufficiente a dare prova di quell’evento. Ne scrive anche lo sciamano-psichiatra dei CCCP, Benedetto Valdesalici: “Il Černenko Party al Tarantola e il Wojtyla Party al Tuwat, 1984, 120 minuti, sono la testimonianza videoregistrata di ciò che affermo: l’Antonella Giudici del Černenko è una grande indossatrice di abiti con la sua Maison” (Valdesalici 2014, 246). Sono gli anni delle tv locali, della trasportabilità del periferico e marginale alla dimensione pubblica, il poter portare il volto di ciascuno accanto al volto famoso. Della possibilità di ingresso nell’immaginario comune tramite l’immagine pubblica. Ovvero dell’ingresso della possibiltà di esibizione di sé al mondo anche per una ragazza di provincia – fenomeno che oggi si conosce nella sua più vasta scala. La vedette irraggiungibile diviene figura casalinga, entrata in casa dal televisore qualche decennio prima, ora si completa lo scambio: la ragazza di casa, di paese, può andare ad occupare il posto da soubrette. Una soubrette soltanto, da Vallisnera, è colei che non subisce i segni di questa mutazione, ma li blandisce. Benemerita quella soubrette.

Seguiranno altri anni di sfilate sui palchi, molte altre vesti, sempre più costruite, non solo filosovietiche, sempre meglio abbinate alle canzoni al punto da entrare a farne parte. Annarella da Vallisnera, benemerita soubrette.

II. Intermezzo sulla forma frammento e sull’elettrico

Hauptstadt der DDR, un pezzo di Berlino
Hauptstadt der DDR, un pezzo di Berlino.
CCCP, Live in Punkow

Guten morgen amore mio
Guten morgen auf wieder-ciao.
Raoul Casadei, Guten Morgen

Frammenti elettrici, una manciata di appunti e di alcune riflessioni attorno a qualche oggetto video che attraversa più o meno direttamente il fenomeno CCCP - Fedeli alla linea. Nessuna esaustività rispetto ai temi, nessuna logica sillogistica tantomeno dialettica a legare fra sé i frammenti – per cui nessuna conclusione. I frammenti sono quattro, sarebbero potuti essere cinque o anche solo uno. Ognuno vorrebbe essere significativo di per sé rispetto al tema di riferimento; insieme, i quattro, non vogliono dare né meno né più di quanto potrebbero dare singolarmente. Quasi nessuno è un video realizzato direttamente dai CCCP, nessuno di questi frammenti ha come oggetto videoclip musicali, forse una delle forme che meno ha saputo intercettare le estetiche o le formule retoriche e artistiche della band emiliana. In questo senso è forse ancor più probante provare a formulare un discorso attorno al video rispetto a una band senza che il videoclip sia parte del discorso. Un’avvertenza ancora: non si tratta di una costellazione, un termine facile a cui appoggiarsi in questi casi. Si tratta piuttosto di detriti precipitati da uno stesso blocco: difatti, se la costellazione illumina, dà significato attraverso una serie di rapporti, qui i rapporti vengono a mancare, vi è solo una comune materia di base e la volontà di lasciare qualche pietra di inciampo, di riflessione sui frammenti e attraverso di loro. Elettrici poiché di questo sono costituiti nel loro essere video. Infine, Frammenti elettrici è una serie di alcuni film, molto spesso brevi, realizzati nei primi anni del 2000 dai filmmaker Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi. Uno di questi può prendere parte fra le schegge della materia di cui qui si parla. Prima di arrivarci occorre un passo di lato.

Y. Gianikian, A. Ricci Lucchi, Frammenti elettrici n. 6. Dancing in the Dark (still), video, 2009.

A. Ricci Lucchi, acquerelli dedicati alle danze popolari nei vari paesi.

Y. Gianikian, A. Ricci Lucchi, Frammenti elettrici n. 6. Dancing in the Dark (still), video, 2009.

A. Ricci Lucchi, Dancing in the Dark, acquarello, 2009.

Wim Wenders così ricorda il momento in cui il Muro di Berlino, senza artefice alcuno se non il precipitare su di sé della storia, venne abbattuto:

Quando il Muro è caduto, nel 1989, stavo girando Fino alla fine del mondo, nel posto più lontano che si potesse immaginare: in una località chiamata Turkey Creek, in Australia occidentale. Nessuna comunicazione col mondo, né radio, né televisione. Era prima del telefono cellulare, o satellitare. L’unico posto con un fax, per centinaia di chilometri, era una drogheria. Mi mandarono foto di Berlino, via fax, e arrivarono completamente annerite. Si poteva solo vagamente intuire che cosa mostrassero. Sembravano persone che ballavano, ma non potevo essere sicuro [...], Le ho osservate a lungo, quelle immagini, con le lacrime agli occhi (Wenders 2003, 20).

Immagini poco nitide, arrivate da una distanza posta, prima che dalla geografia, dall’incredibilità dell'accaduto che avevano impresso. Un avvenimento al di là di quanto potesse essere immaginabile prima del suo accadere e su di esse cronaca, fotografie faxate al vertice opposto della Terra – fino alla fine del mondo. Nell’incertezza di un’immagine sgranata, con addosso tutta la sua materialità storica, di essere documento con tutti gli accidenti del proprio tempo – quindi delle possibilità di trasmissione e ancor prima di cattura e definizione – che raggiungono uno degli artisti più attenti in quegli anni al guardare all’immagine come espressione sintomatica, carica di un al di là rispetto alla dimensione iconografica. Riscontrato espressivo di un avvenimento che è sempre stato emozionale, che è sempre storia umana: cronaca sviluppata nel suo aspetto interiore. Cos’è in fondo la fotografia in Alice nella città (1974)? Un indizio, una guida, la figura di una persona, una nonna, ma soprattutto anche di più – contiene una dimensione figurale, un al di là che è il motore del film di Wenders e un generatore degli eventi, mai una mera testimonianza. Il secondo elemento da appuntare è quanto riportano quelle immagini: non dei calcinacci, non quanto è restituito dal dato ufficiale, ma l’effetto, la conseguenza: l’espressione della reazione. Non è un’immagine che si fa didascalia, ma un’immagine portante, che assume su di sé la causa – il crollo del muro – e che si fa vettore di un sentimento – il ballo, la gioia. Terzo punto: Wenders guarda le immagini con le lacrime agli occhi. Nonostante la difficoltà di lettura, la difficoltà di comprensione, è comunque tutto chiaro, tutto evidente: il peso dell’immagine, di quanto contiene e significa, non è scalfito da alcun accidente. Fine di un mondo.

A dare una rappresentazione del sintomo prima del manifestarsi dell’evento – la caduta del Muro – e a cogliere nelle pieghe della cronaca secondaria una lettura che sia non tanto una giustificazione, ma una presa d’atto di alcuni movimenti in corso, sono la coppia di filmmaker Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi. Con un film del 2009, inserito nella loro serie Frammenti elettrici, che rivela dal loro archivio personale alcune immagini girate nella tarda estate del 1989 nei luoghi di casa per Angela, la campagna dell’alta Romagna. Vanno per notti, tra l’umido calore e le prime bave di frescura, in giro a riprendere con una piccola camera video amatoriale le Feste dell’Unità di quella stagione. Consapevoli degli scricchiolii già in atto da anni dei Paesi del Patto di Varsavia, non possono sapere dell’avvenimento fatidico. Eppure, quelle immagini da loro raccolte sono lì. Sono riprese di fortuna, senza alcuna attenzione produttiva, se non per la familiarità della coppia con la ripresa in formati ridotti che spesso accompagna i loro i viaggi, senza che le riprese abbiano un fine già prestabilito:

C’è un desiderio di creare un proprio corpus di memorie, un archivio [...] di estenderlo come una protesi corporea, è questa la genesi del filmare. È l’abitudine, forse cattiva, di portarci dietro sempre una camera per filmare, senza aspettare di avere a disposizione un operatore. Noi siamo gli operatori. [...] È il bisogno di fissare. Qualcuno tanti anni fa ha detto che si tratta di “un gesto quasi amatoriale”; ed è un’espressione che noi non disprezziamo, vale a dire il fatto di riprendere perché ‘ami’ riprendere. Difficile, ma in fondo anche molto semplice da spiegare (Dottorini 2007, 21).

Una produzione da una parte esterna rispetto a quella da loro realizzata con la “camera analitica”, il dispositivo inventato dalla coppia attraverso cui realizzano i film che li hanno resi celebri, ma anche interno se si pensa al lavoro di rianalisi sull’immagine: un archivio esteso come protesi corporea, interiorizzato. Appunto un “bisogno di fissare” anche attraverso un gesto spontaneo sì, ma decisamente condizionato da un sentimento, da un trasporto e attraverso un apparato tecnico: “perché ‘ami’ riprendere”. Il film del 2009 si intitola Frammenti elettrici n. 6 – Diario 1989. Dancing in the Dark. Un diario, una cronaca dalle Feste dell’Unità romagnole. Un film composto da un succedersi di punti di ripresa quasi sempre statici, giusto il dondolio di una ripresa senza cavalletto e il movimento dato dal solo spostamento del braccio o dallo zoom della camera. Un diario, uno dei loro, ma un diario, nel senso più comune del termine, riporta gli appunti attorno alle immagini, a quanto visto e raccolto, e diviene sinossi ed esegesi per il film:

60 giorni prima dall’Evento la traiettoria mentre accade è già passato. Un passato tradito, gettato – non realizzato in mezzo alle campagne italiane. Visione surreale. Zanzare, grilli, fumi di salsiccia. E fumi sul palco, cibo proletario. Carnalità, vitalità (o vitale), ritmo. Ma già anche teatro di ombre. Eclisse – reale ed irreale. Un mondo primitivo, selvaggio quasi in cui si inseriscono altre culture. Come un castello di carte cadrà in una situazione complessa. In una catastrofe complessa. Imponderabile lo spaesamento già in atto di una cultura locale con radici profonde. Che Guevara – ballerine improbabili. Flash dance – contro mazurka e ancor più improbabili danzatrici in stile esotico latino americano, americano di periferia. Lontani dai ritmi del tango, del valzer. Siamo ad un Nashville periferico impacciato. Andare in fumo. Imitativo falso imposto. Lontano dalla genuinità iniziale. Il loro non avere dubbi. Devozione incondizionata alla Causa. Subire da lì a poco un taglio un deragliamento (Gianikian-Ricci Lucchi 2009).

Un piano inclinato, un accadere dell’evento che avviene per inerzia, come per ineluttabile destino. Il resto, il contorno, è quanto detto: una festa che al di là del paradigma ideologico che la giustificava, e la faceva genuina nella sua espressione popolare, è già caratterizzata dalla contaminazione del cattivo gusto, dettato dalla cattiva moda e da un correre al nuovo come sinonimo di bene. C’è sempre, a ogni epoca, un cattivo gusto, il problema è quando è subìto acriticamente, quando si forma su un kitsch e mina un carattere e la facoltà di pensiero, di giudizio. In questo caso, l’interiorizzazione di alcune forme segnala una crisi della percezione di sé e di conseguenza della propria rappresentazione. “Imitativo falso imposto”: imposto prima di tutto da una incapacità di valutazione di se stessi, di comprensione della propria identità, che porta alla copia, senza giudizio sul modello, come sostegno per riformarsi cercando nell’omologazione una struttura di comportamento e di apparente vitalità. Una vitalità popolare che cerca un’altra forma per potersi esprimere, dubbiosa della propria storia e insicura sul poi. Il clash estetico e quindi etico è lampante, il frutto, sul piano storico e non solo aneddotico lo si troverà sessanta giorni dopo: l’est che spinge a ovest per appropriarsi di un nuovo modello, un ovest frastornato e inebriato dal non sapersi assumere il ruolo di guida che prima presentava come dato di fatto e ora si ritrova incapace di giustificare e privo di una direzione che non sia quella di un'auto disfatta. Troppo per essere contenuto in una festa di paese? Probabilmente no, se si è capaci di guardarla in obliquo, al di là dei fumi artificiali del palco e delle cucine, delle luci colorate e degli impianti audio e delle orchestre a ridare il basso continuo in tre/quarti di ogni estate romagnola. Nella reiterazione del canone lo scarto è nella piccola differenza di quelle classi adottate da altri contesti, esotiche – non che la festa fosse una forma pura, ma l’ibridazione riguardava elementi che, pur diversi, erano già parte dell’espressione del luogo – interiorizzate come forme accettabili e conformi al resto. Il film dei Gianikian è in grado di mostrare ciò attraverso un lavoro in sottrazione nella forma cinematografica, apparentemente spoglia di ogni lavoro di cura, laddove è invece nel montaggio frizionale tra i diversi elementi in stringata successione che ci dà indizio della presenza di quei sintomi estetici. Una grammatica asciutta, paratattica, attraverso cui “Le couple expérimente pour ce film une nouvelle technique de montage : agencer les plans en fonction des musiques” (così nella presentazione del Centre Pompidou 2015). Un succedersi di musiche e danze, bambini protagonisti e ballerini agé, cantanti e prime voci femminili, spesso poco visibili o per nulla, a causa di una scarsa esposizione che rende il buio un’informe materia avvolgente le figure, e la luce, spesso diretta in camera, un impasto di luminescente virato in tinte vivaci che non è per nulla d’aiuto nella visione. In questi movimenti irrequieti tra la grana dell’immagine, il composto di luce-buio quasi mai favorevole al profilmico, il suono in mono, diretto da un impianto audio pronto a replicare ogni sera vocato alla durevolezza più che alla musica, il lavoro dei Gianikian rende evidente la presenza di una nuova Linea gotica sul crinale della storia: “Dans différents petits villages de la Romagna, sur la ‘Ligne Gothique’ de la Seconde Guerre Mondiale, les lieux de Paisà de Roberto Rossellini. Un portrait d’un ‘peuple disparu’ qui danse” (Gianikian, Ricci Lucchi 2011). Scomparso o meno il popolo, il film dei Gianikian è certamente un lavoro su un popolo e una storia non raccontati ma messi in mostra nella loro carnalità. Il visivo sostituisce il discorso, scrive Robert Lumley: “[Dancing in the Dark] rappresenta uno stato d’animo più che un evento […] attraverso cui ritorna una sorta di antropologia ‘rovesciata’, in cui gli osservatori prendono a oggetto delle loro indagini se stessi e la società cui appartengono” (Lumley [2011] 2013, 173). Uno sguardo rivolto su di sé, su un panorama umano a cui appartengono – lo avevano già fatto all’inizio del loro incontro, per Erat-Sora (1975), in cui la medesima campagna, ma al sole, era vista nella sua dimensione contadina e cristiana. Il tentativo antropologico del film è posto nell’avvertenza iniziale, tratta da Spinoza: “Non deplorare, non deridere, non detestare, ma comprendere”. La scritta iniziale – a cui fa rima il finale dove si alternano le parole d’ordine dell’utopia sacrificata nei fumi degli stand gastronomici “libertà”, “fratellanza” e “uguaglianza” – racchiude lo scopo della cinematografia dei Gianikian. Il tentativo di comprendere attraverso il materiale raccolto e depositato dalla storia, specialmente il materiale visivo, per cercare di leggere al di là delle facili sommatorie e apparenze. Un lavoro che, anche laddove semplifica nella forma, cerca di restituire una complessità.

Di nuovo Wenders allora, i tre elementi da cui si era partiti. L’immagine scarsamente leggibile, lo sgranato della bassa risoluzione video: un'immagine per essere vista nel suo significato richiede uno sforzo di comprensione – al di là del bello o del ridicolo, ovvero del contenuto apparente. Di rimando a quanto detto sulla sua qualità, la storicità dell’immagine non è data dal suo essere documento di un qualcosa ma dall’essere marcata storicamente dalla sua condizione materiale: l’aspetto video di una determinata epoca in cui il riferimento di ripresa era quello, o di fotografia trasmessa e stampata attraverso un fax. Viceversa, è da considerare che la storicità dell’immagine diviene anacronismo in quanto l’immagine non è mai del tempo in cui è realizzata ma è del tempo a cui parla, in cui agisce. E questo si lega al terzo aspetto: l’immagine ha valore – o meglio ancora l’immagine avviene – quando è eloquente, e sa esserlo se rappresenta un effetto più che l’atto stesso, o ancora se racchiude il simbolo cifrato di un evento – lo preannuncia attraverso una proiezione che è il suo fantasma. In questo modo sostituisce la rappresentazione del gesto, piuttosto è il suo farsi atto a sé in grado di produrre uno sfasamento di stati, anche degli stati emotivi – non solo politici.

Ultimo giro. Luci sfocate si incrociano tra palco e pubblico, fumi e sudori, musica da impianti semicollaudati, calore, a volte calca, ballo. Liscio romagnolo-emiliano. Divisa la regione quasi in replica tra gli schieramenti occidentale e orientale, Varsavia-Nato. Non c’è apprensione, l’apprensione è solo del ballo: il movimento rapido del polpaccio, il vortice, la giravolta e il caschè. Ultimo flash: ballerine vestite alla maniera di Rio in un trenino da capodanno brasiliano. Forse stona, comunque si tiene. Qui non c’è alcuna divisione, presagio della vicina riunificazione. Fine di un mondo. Ma non della storia.

III. Non per la qualità della tua danza

Tra puro movimento e immoto.
CCCP, Trafitto

Un momento fissa il tempo a cui appartiene nella loro storia la casa di Fellegara: i primi mesi. Momento del primo sviluppo, di incertezza e di formazione: “Fellegara una casa contadina a due piani; una cucina con il camino e due finestre, una a est e una a sud, per far belle le colazioni e le mattinate un grande portico aperto sul tramonto per pomeriggi e sere e far notte in compagnia. Diventa un set fotografico, un laboratorio di scultura, un corso di aggiornamento su estetica e retorica; la stanza più grande al secondo piano è la sala prove dei CCCP. Tutti i giorni si suona” (Ferretti in Contiero 2015, 10-11).
Una stanza è per lei, per Fellegara, trasferita dentro ai Chiostri di San Pietro, a Reggio Emilia. L’entrarci è spaesante. Non per le vecchie attrezzature musicali, non per i sofa vintage di vago marrone tendente al camouflage muro-pavimento-poltrona-polvere. Cade il visitatore della stanza in una vertigine. La dimensione è curvata da quanto è alle due pareti laterali, di rinfaccio l’una all’altra. In mezzo si stanzia un’impressione conturbante che ammalia, abbatte – da qui l’importanza delle comode sedute? Alle pareti sono due video proiezioni. Visitare così Fellegara è visitare Burnt Norton, la pioggia dalla pergola ha appena concluso di asciugarsi, alla vite si alterna la rosa. Così è per Eliot ([1936] 2014):

Time past and time future
What might have been and what has been
Point to one end, which is always present.
[...]
At the still point of the turning world. Neither flesh nor fleshless;
Neither from nor towards; at the still point, there the dance is,
But neither arrest nor movement. And do not call it fixity, 
Where past and future are gathered. Neither movement from nor towards,
Neither ascent nor decline. Except for the point, the still point, 
There would be no dance, and there is only the dance.

Sul bilico della stasi, nel sottile frangente che non è ancora movimento e non è più punto d’arresto, è la danza. Dove non può essere il movimento e il passato o il futuro, e dove non potrebbe esserci che la danza dei corpi e del tempo.

Stanza di Fellegara, proiezione con le fotografie di Giovanni Lindo Ferretti a Annarella Giudici. “Felicitazioni! CCCP – Fedeli alla linea 1984-2024” (Reggio Emilia, Chiostri di San Pietro, 12 ottobre 2023/10 marzo 2024). Fotografia dell’autore.

Stanza di Fellegara, proiezione del video con i quattro CCCP fuori dalla casa colonica di Fellegara. “Felicitazioni! CCCP – Fedeli alla linea 1984-2024” (Reggio Emilia, Chiostri di San Pietro, 12 ottobre 2023/10 marzo 2024). Fotografia dell’autore.

Le proiezioni. La prima è un carosello di diapositive. Fermo immagine, istantanee da quella Fellegara proveniente dai primi anni Ottanta. Il fotografo è Ferretti, il soggetto unico è solo, Annarella: “Durante la settimana: live in Mosca – punk islam – militanz – Emilia Paranoica a rimbombare sotto la volta del portico e set fotografici monotematici: io fotografo, Antonella vestiva il nuovo ritrovando il suo nome di battesimo: Annarella” (Ferretti 2014, 236). Lei veste abiti delle sue prime stagioni, delle sue invenzioni fatte di vesti dal passato e di vestiti che, se comuni, sono mai visti se portati da lei: chiodo, pantaloni in pelle, capelli legati in alto, esuberanti; berretto militare; calze nere, abito nero, scarpette tacco e rosso acceso; un maglione largo bianco che è gonna per gambe coperte poi da calze, in fondo anfibi. Una giacca verde slavato, stivaletti pendant. Altri possibili abbinamenti ancora. Poco cambia tuttavia: quello che resta è lei che posa per Ferretti. Lo sguardo rivolto all’obiettivo. Guarda lì, guarda te. Non sposta nulla la distanza, l’allora di quegli scatti, il che non c’eri, il che non c’è questo ora. Ne parla Belpoliti:

La Soubrette è restituita al suo inizio, quando il travestimento non era ancora la sua “forma”. Sono ancora scene, anzi le prime scene della trasformazione in atto. Ce l’ha fatte vedere, forse per indicare, inconsciamente, là dove tutto era iniziato. C’è la ragazza che diventa modella, diva, santa. Sta per accadere. Tutto nell’occhio di Giovanni che la guarda e scatta. Ma tutto è già in Annarella che sta per vestirsi d’altro e di sé. [...] Tutto in quello sguardo: stranito, perplesso e anche un poco risentito. Da lì in poi Cappuccetto diventerà Lupo. Quanta ingenuità le sarà mai servita per quella trasformazione? (Belpoliti 2014, 16)

Quanta ingenuità pensare che davanti all’obiettivo si sia tutti uguali. C’è chi è capace di restare presente anche nella camera chiara, di abitarla, chi non è relegato al passato di una propria fotografia di un posto e di un momento. Vestire il nuovo è anche questo: non apparire di un’epoca, di una sola. Saper dare una forma che perdura non nella stabilità della propria età ma in quella a cui è offerta, saper ridare la stessa età di chi la guarda, allora, oggi o poi. Questa è la forma dell’immagine figurale, questa la “forma” di Annarella. Il passaggio dei fermo immagine, lo scandirsi in singole immagini senza che permanga una continuità se non nel soggetto, è un altro elemento. La casa di Fellegara nel suo interno con mobili di legno, stufa, libri e pareti bianche, poi le sue scale, il suo portico; ancora poi una discarica di rifiuti. C’è sempre Annarella mentre cambia da un abito all’altro. In questa permanenza del soggetto diversamente aggettivato dall’abito che ne dà uno dei suoi possibili accenti, senza che ne cambi mai la forza, è ribadito il passaggio di un unico tempo, che appartiene allo stesso orizzonte di eventi impresso sulla parete. In quelle singole apparizioni, senza consecutività, parvenza di evoluzione e di movimento alcuno, il tempo è mostrato nella sua granularità, come granelli di una clessidra che passano uno dopo l’altro, senza che il secondo abbia relazione col primo o col terzo: giocati da una sola forza ma ciascuno per sé. Un tempo atomistico che restituisce l’immagine del presente di allora a colui che lo guarda oggi. Appaiono le immagini nel loro fatto, nel loro essere presenti a sé stesse, singolarmente. Alla visione dello spettatore risultano come la luce di stelle lontane, luce accaduta in un passato ma manifesta ora per chi la sta guardando, così che “ogni evento è imperituro, e il passato è sempre presente” (vedi Somaini 2020, 30-32). Questa immanenza dell’immagine, che dura a distanza rispetto alla sua raccolta, è fondamentalmente data nel suo soggetto che rimarca la tensione tra il sé e il qui, ma anche dalla sua presentazione statica e singolare che ribadisce una qualità fotografica. Da questa singolarità di ogni scatto che nella proiezione si stampa alla parete nella sua evenienza fattuale, permane.

La seconda parete affronta la prima da ogni punto di vista. È opposta nello spazio, nel tempo che contiene, nella forma e nel soggetto. Se lo spazio è presto dato, una contrapposizione di carattere geometrico dell’allestimento, il resto necessita di qualche spiegazione. Quanto viene proiettato è un video, girato nell’ultima estate emiliana fuori dalla casa di Fellegara per come la si può incontrare oggi. Qui, tutti e quattro i CCCP camminando vengono incontro alla videocamera che, immobile, rimane fissa a riprendere. Il video, in una giornata di sole in mezzo ai filari, non mostra alcuna azione particolare. Arrivati a una certa distanza, in un piano americano, i quattro si fermano e restano in posa, consapevoli della ripresa. L’unico aspetto saliente che presenta il video è il suo rallentato estenuato. Per trovare un primo confronto, per nulla spurio, vengono in mente i video di Bill Viola – artista che proprio alla stanza ha dedicato particolare attenzione, si tornerà su questo aspetto. Ricorda Passage (1987), The Crossing (1996), in cui un uomo avanza come i quattro verso la videocamera, il celebre The Greeting (1995) o ancora l’installazione per la chiesa di San Gallo a Venezia, Ocean Without a Shore (2009), dove dei fantasmi, o meglio dei redivivi (Fabbri 2009), in successione tra loro, avanzano lentissimamente dall’oscurità per fare visita agli spettatori. Il rallentato del video in mostra a Reggio Emilia cosa rallenta? O meglio, cosa mostra? Non c’è nulla da vedere, non accade nulla, è una banale camminata. Si può trovare un aspetto di eccezionalità nel fatto che i quattro siano assieme dopo anni di divisione, questo sì, ma il vero soggetto esposto dal rallentato non è altro che il tempo. Il tempo come flusso. È il tempo che ha invecchiato la pelle, ne ha deformato i tratti, dei CCCP, che ha portato con sé e su di loro gli anni. È il tempo che inesorabile prosegue nel suo andamento. Questo andamento, questo fluire e scorrere del tempo è quanto il rallentato mostra. Non una ripresa di uno spazio, ma una ripresa del tempo: una immagine-flusso. Una immagine-flusso in quanto mette in evidenza lo scorrere del movimento che intimamente la attraversa, quella della camminata e dei piccoli gesti, ma anche del tempo in quanto durata che si fa materia stessa dell’immagine. Una immagine che si fa col tempo e in questo modo è in grado di rendersi presente, di presentificarsi in quanto immagine (vedi Dubois 2020).

La stanza dell’allestimento di questi due video è un ulteriore oggetto a cui guardare, poiché rimodula e aumenta il portato di entrambe le proiezioni, facendolo deflagrare al loro incontro al suo interno. La stanza in quanto dispositivo artistico ha in Viola uno dei più alti artefici. Le sue stanze sono spesso luoghi in cui la video arte, grazie all’articolazione studiata tra spazi, elementi fisici, proiezioni, schermi e elementi sonori, acquista una dimensione di significato e rapporto con il pubblico che raramente si può incontrare, si pensi anche alla sola Room for St. John of the Cross (1983) (Townsend [2004] 2005). Entrare nella stanza di Fellegara, nella Burnt Norton emiliana, è accedere al nucleo di un prisma. Anche questa è composta, ma più che di un preciso dispositivo è da vedersi come assemblage (Casetti 2015) che dà forma a uno spazio cristallizzato, in cui i “caratteri non possono essere spiegati in maniera esclusivamente spaziale” e fungono da “rappresentazioni dirette del tempo” (Deleuze [1985] 2017, 152). È una stanza cristallo. Al suo interno si è immersi nel tempo e si può avere una dimostrazione del concatenamento ternario di passato, presente e futuro. La stanza cristallo permette di posizionarsi all’interno dell’immagine tempo: è l’immagine-cristallo su una dimensione ambientale. Si può prendere direttamente quanto scrive Gilles Deleuze sull’immagine-cristallo:

Ciò che costituisce l’immagine-cristallo è l’operazione fondamentale del tempo: dato che il passato non si forma dopo il presente che esso è stato, ma contemporaneamente, il tempo deve in ogni istante sdoppiarsi in presente e passato [...] o, ed è lo stesso, deve sdoppiare il presente in due direzioni eterogenee, di cui una si slancia verso l’avvenire e l’altra ricade nel passato. Il tempo deve scindersi mentre si pone e si svolge: si scinde in due getti asimmetrici uno dei quali fa passare tutto il presente e l’altro conserva tutto il passato. Il tempo consiste in questa scissione, ed è essa, è esso che si vede nel cristallo. L’immagine-cristallo non era il tempo, ma nel cristallo si vede il tempo (Deleuze [1985] 2017, 96).

Il tempo – sulla scorta di Bergson – si scinde in due vettori che puntano in due direzioni antinomiche: il presente nella direzione del futuro e il presente nella direzione del passato. In questo senso, rispetto alla stanza, l’essere tra le due proiezioni alle pareti ci pone nella frattura verso l’una e l’altra direzione: il passato presente nei fermo immagine di Annarella, il presente del fluire temporale verso il futuro nel video all’esterno della casa di Fellegara. Al centro il presente in quanto tale, simultaneo agli altri due tempi. Le due proiezioni, oltre a dare le due direzioni e il fulcro tra i due, sono anche rappresentative del modo in cui si manifesta il tempo: “Si pone e si svolge”. Cadenzato in un ticchettio di immagini, una poi l’altra da una parte, a marcare la battuta, l’arresto dell’intervallo tra una sezione e l’altra del tempo; viceversa e insieme lo srotolarsi continuo in una durata che fluisce, passa e scorre. È in questo cristallo, allora, che si vede il tempo come dimensione stessa della vita: “Quel che si vede nel cristallo è sempre lo zampillo della vita, del tempo, nel proprio sdoppiamento o nella propria differenziazione” (Deleuze [1985] 2017, 107). Passato presente e futuro come unica forma abitabile dalla vita, dai suoi avvenimenti e cambiamenti. Non sono i tre modi del tempo a dare il passaggio, ma è nel tempo che i vivi ricevono la possibilità di esserci, di abitarlo secondo la ripartizione ternaria che Agostino riconosce essere “un’estensione dello spirito stesso” (Inde mihi visum est nihil esse aliud tempus quam distentionem: sed cuius rei, nescio, et mirum, si non ipsius animiConfessioni, XI, 26). Non la proiezione di un sé, ma l’espressione di un sé in un ambiente: un’estensione che forma uno spazio per la vita. Difficile abitarlo, a volte è possibile vederlo, ma anche per quello serve attenzione, soprattutto in mezzo a un’umanità “che adora gli orologi e non conosce il tempo” (Svegliami, CCCP). Eppure, ricorda Eliot, il tentativo – che è quanto ci spetta – è necessario, poiché: “Only through time time si conquered” (Eliot [1936] 2014). In altre parole, potrà allora apparire possibile che l’attimo, passato, presente e futuro, permanga nel suo proprio presente – “solo per un’ora, che sia per sempre” (Amandoti, CCCP) – che il tempo, che sgretola e uccide, da “insopportabile per chi non riesce a vivere” (Morire, CCCP) sia visto come connaturale alla vita.

IV. Introibo

Vox clamantis in deserto.
Giovanni, I, 23

Cattedrale del Tuwat, allestimento con la proiezione del concerto dei CCCP a Firenze del 25 maggio 1986. “Felicitazioni! CCCP – Fedeli alla linea 1984-2024” (Reggio Emilia, Chiostri di San Pietro, 12 ottobre 2023/10 marzo 2024). Fotografia dell’autore.

Video dal canale Youtube “Terra Bomba” con l’esibizione dei CCCP al Festival Internazionale del Teatro in Piazza di Santarcangelo di Romagna, 1983.

Il corridoio, una lunga manica, si affronta da lato a lato; l’ingresso di quella che è chiamata la “Cattedrale del Tuwat” ha un solo fuoco che calamita il passo e lo sguardo: la parete di fondo. Su di essa – stando alla metafora – una pala in movimento e suono: il video di un concerto dei CCCP – a Firenze nel maggio 1986. La musica avvolge e accompagna l’avvicinamento alla parete. La cattedrale è la sala più grande della mostra dei CCCP ai Chiostri di San Pietro di Reggio Emilia. Ma perché il tema cattedrale, e cosa sa dirci sui CCCP?

La ripresa – ed è questo il punto di caduta, la differenza – è laterale, tangente. Ristretta, è più vicina, non copre il palco interamente, ne taglia una porzione spesso abbastanza grande da essere riempita dal solo Ferretti. Nessuna ripresa d’insieme, nessuna frontalità descrittiva, lo schema è ravvicinato e includente. Attanaglia all’immagine sullo schermo, incolla. È nel mezzo la camera, in bilico tra il palco strettissimo e il pubblico ancor più ristretto nella bolgia. Se nei concerti dei CCCP esisteva la costruzione di uno spazio separato, una demarcazione segnata da un filo spinato tra pubblico e gruppo, qui la camera fa da funambolo. A ridare la sensazione di presenza è il luogo d’esposizione: laddove la calca si gasa nel vuoto del grande corridoio. Canetti apre Massa e potere evidenziando come la massa è l’unica dimensione in cui è sopportabile la vicinanza e il contatto con l’estraneo, poiché non si è singoli ma un singolo insieme (Canetti [1960] 1981): l’essere soli in quel corridoio davanti alla grandezza restituita dal muro di suono e figure è l’espressione più vicina a quella sensazione. Lo schema di ripresa, ristretto al dettaglio – come insegnano gli schemi della pittura devozionale quattrocentesca – aumenta la sensazione di prossimità e coinvolgimento, e in questa sua funzione è coadiuvato dall’apparato installativo, dalla sala che nella sua lunghezza e forma diviene un cannocchiale che aumenta l’attenzione dello sguardo e la introiezione nell’immagine. In questo modo lo spettatore è ancor più partecipe, perché è dentro alla cattedrale, in quello che potrebbe definirsi un rito. O meglio, per non cadere in facili cliché che ripescano nel disincanto moderno e post-moderno un fiato metafisico, una liturgia. È Zamboni a utilizzare questo termine, cogliendone il significato in funzione dei CCCP: “Una vera e propria liturgia, nel suo significato originale di Azione per il popolo: un servizio che non era possibile decodificare al tempo della sua formulazione ma che ora assume con chiarezza il carattere dell’essersi messi a disposizione” (Zamboni [1988] 2022, 8). Una azione per il popolo, quella più volte richiamata nella definizione di psicoterapia coatta di gruppo. E in quella parola, liturgia, un inciampo a cui restare appesi. Il peso della parola si sente e va interrogato: fu, è, liturgia? Per rispondere bisogna appoggiarsi in alto, a chi compete il discernere della materia. Nelle sue note sulla liturgia intitolate Il rito ortodosso come sintesi delle arti, Pavel Florenskij ci fa dono di un passaggio prezioso per questo interrogativo:

Ma abbiamo parlato ancora e soltanto di una piccola parte del rito che, per di più, è anche relativamente uniforme. È tempo di ricordare, allora, i movimenti ritmici e plastici degli officianti – durante l’incensazione, per esempio –, il gioco di luci e colori delle pieghe dei tessuti preziosi, i profumi, l’atmosfera permeata di luci particolari, ionizzata da migliaia di fiammelle che ardono; e ricordiamo anche che la sintesi del rito liturgico non si limita alla sola sfera delle arti figurative, ma attira nel proprio ambito anche l’arte vocale e la poesia – e poesia di ogni tipo, giacché sul piano estetico la liturgia è un dramma in musica. Tutto vi è subordinato a un unico scopo, all’effetto supremo della catarsi di questo dramma musicale, e perciò tutte le cose – reciprocamente subordinate – se prese singolarmente non esistono, o esistono in modo errato. Perciò, lasciando da parte la mistica e la metafisica del culto e rivolgendoci esclusivamente al piano autonomo dell’arte in quanto tale, continuo a stupirmi (Florenskij [1922] 2010, 35).
 

Il rito, la liturgia, è la vera opera d’arte totale, un’arte vocata a una funzione che trova compimento in una catarsi a prescindere dalla dimensione metafisica, ma all’interno delle coordinazioni di azioni e arti che la formano. Cade facile trovare un corrispettivo delle diverse espressioni estetiche sintetizzate ad unum coi CCCP: l’arte vocale e la poesia in Ferretti – che allora pareva soffrire un Calvario a ogni concerto a guardare il sudore, gli scavati e allucinati occhi, il rantolo e la genuflessione per movenze –; “il gioco di luci e colori delle pieghe dei tessuti”, che altro non sarebbero degli abiti di Annarella; e i “movimenti ritmici e plastici” di Fatur: “un dramma in musica”, sostenuto sulla corda elettrificata della chitarra di Zamboni. E accade il rito, una liturgia, dove l’atmosfera è permeata di colori particolari, che segna ogni momento, ogni canzone, per la scenografia di luci che danno l’atmosfera luminosa e ionizzata. La partecipazione di popolo, non è neppure da ricordare, è nella complicità e nel conflitto, nello scontro frontale con il gruppo – prima ancora, agli inizi, Ferretti, era come celebrasse cora deum, dando le spalle al pubblico – e nell’incontro nelle parole che danno voce a tutti gli astanti.  È nella dimensione liturgica che non solo trova un adeguato vocabolario e riferimento la funzione dei concerti dei CCCP, ma anche una via attraverso cui dare conto della dimensione spettacolare del palco dei CCCP. Una voce, i suoni secchi e percussivi, il costume e la fisicità. Certo fanno pensare alle avanguardie, non tanto quelle di inizio Novecento ma quelle teatrali della loro epoca, e sarebbe forse in queste che si possono trovare dei raffronti che possano spiegare quanto non è musica, quanto in loro non è soltanto musica. Poiché anche anche quella, per la sua qualità ritmica, per il tono declamatorio della voce, per il contenuto dei testi, rientra in questo discorso. Lo stesso Ferretti ha dato come chiave di lettura quel capitolo dell’arte:

I CCCP seguivano una storia tutta loro, certo vivevano in un contesto. Le realtà teatrali con cui ci siamo incontrati e conosciuti erano le Albe e Raffaello Sanzio. Non è mai stata una ricerca intellettuale. È accaduto. I Raffaello Sanzio ci avevano sconvolto, percepivamo che perseguivamo strade diverse, ma ci dava forza l’idea che ci fossero anche loro. Da allora non ho mai visto uno spettacolo che non fosse delle Albe o dei Raffaello Sanzio” (Ferretti in Saturnino 2023).

Nomi a cui potrebbero seguire quelli del Teatro Valdoca e dei Magazzini Criminali: “Guardano più ai Magazzini Criminali che ai Sex Pistols [...] considerarli solo un gruppo rock non rende loro giustizia” (Gallo 1987). A legarli a questi nomi è una certa postura estetica che racchiude una capacità immaginifica condotta attraverso una via iconoclasta; azioni capaci di condurre allo choc e visivamente violente. Un incrocio che trova una comune prossimità nella capacità del riuso e del riadattare immaginari e oggetti di varia estrazione, alcuni esotici altri popolari. Sono teatri del grezzo e del popolare, e per questo efficaci. Ma allo stesso tempo, di popolare, i CCCP acquisiscono con Annarella e Fatur una resa di palco che può trovare un riferimento anche nelle orchestre di liscio emiliane o romagnole: il vestirsi con una divisa (da orchestra o da VoPos poco cambia), il coinvolgimento nel ballo e l’abito sgargiante, colorato come delle prime voci femminili sui palchi delle sagre. Feste parrocchiali o Feste dell’Unità che siano hanno entrambe lo stesso repertorio, in quanto vocate a uno stesso popolo, come scrivono i CCCP: “Il liscio celebra l’unico contatto possibile tra l’ateismo anticlericale e il devozionismo cattolico, sorretto dai buoni sentimenti di entrambi: l’amore patrio, il focolare, la nostalgia del paese natio, la purezza, il divertimento, la scanzonatura" (CCCP 1987). E ovviamente il liscio rientra nel loro repertorio di musica popolare, di musica per un popolo. Ed è in questa dimensione popolare e di mezzi improvvisati che si chiude il cerchio con il teatro d’avanguardia. Claudia Castellucci, nel ricordare cosa connota il teatro che esce del campo istituzionale, che per natura è principiante, usa queste parole: “Mettere insieme il raffinato e il grezzo – anche questo è interessante, nel vero senso della parola; il senso parrocchiale di ogni teatro d’avanguardia e le moltitudini indistinte” (Mannucci 2023). C’è un teatro d’avanguardia parrocchiale sul palco dei CCCP che si ritrova liturgia necessaria a quel popolo. Solo una terapia? Ma chi è disposto ad ascoltarla? – “Leccatevi le ferite poi”, recita la Profezia della bassa padana.

Cattedrale del Tuwat, allestimento con la proiezione del concerto dei CCCP a Firenze del 25 maggio 1986. “Felicitazioni! CCCP – Fedeli alla linea 1984-2024” (Reggio Emilia, Chiostri di San Pietro, 12 ottobre 2023/10 marzo 2024). Fotografia dell’autore.

Bibliografia
Riferimenti bibliografici
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    CCCP, volantino datato 1988, ora in CCCP – Fedeli alla linea 2023.
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    CCCP, Felicitazioni! CCCP Fedeli alla linea 1984-2024, catalogo della mostra “Felicitazioni! CCCP – Fedeli alla linea 1984-2024” (Reggio Emilia, Chiostri di San Pietro 12 ottobre 2023/10 marzo 2024), Firenze 2023.
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Film e Video
English abstract

The contribution, entitled Frammenti elettrici. Intersezioni tra CCCP e video, collects notes and reflections around some video objects that more or less directly cross the phenomenon of the band CCCP - Fedeli alla linea. The four parts - unrelated to each other except for the theme - are a reflection on the moving image, on the hermeneutic possibilities provided by the installation form of video, and on the specifics of the video image. The first of the four fragments deals with the diffusion of the personal image in the public sphere through the development of local television in Italy in the 1980s. The second is a reading of Yervant Gianikian and Angela Ricci Lucchi's film Frammenti elettrici n. 6. Diario 1989. Dancing in the Dark. The third fragment presents a reflection on image and time starting from the Stanza di Fellegara set up in the exhibition "Felicitazioni! CCCP - Fedeli alla linea 1984-2024" (Reggio Emilia, Chiostri di San Pietro, 12 October 2023/10 March 2024). The last fragment starts from another installation in the same exhibition and the video it displays to illustrate some characteristics of CCCP concerts in relation to liturgy and Italian avant-garde theatre in the 1980s.

keywords | CCCP; Annarella Giudici; Giovanni Lindo Ferretti; Wim Wenders; Yervant Gianikian; Angela Ricci Lucchi; Gilles Deleuze; Video; Time; Installation; Liturgy; Avant-garde theatre.

questo numero di Engramma è a invito: la revisione dei saggi è stata affidata al comitato editoriale e all’international advisory board della rivista

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2024.210.0018