"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

146 | giugno 2017

9788894840223

Una classicità tribale

I Sette contro Tebe di Marco Baliani al Teatro greco di Siracusa

Francesca Auteri

English abstract

Sette contro Tebe, regia di Marco Baliani (Inda 2017): Coro dei Tebani. Fotografia di Franca Centaro

Il LIII ciclo di rappresentazioni classiche organizzate dalla Fondazione Inda ha visto tra i suoi protagonisti il regista Marco Baliani, al debutto presso il non semplice scenario del Teatro greco di Siracusa. A lui il compito di portare in scena I sette contro Tebe, tragedia superstite di Eschilo appartenente in origine a una tetralogia (con Laio, Edipo e il dramma satiresco Sfinge) andata perduta. L’opera, legata al ciclo mitico tebano, si snoda lungo un costante gioco dialettico che fa dell’antitesi e della metafora, il suo spazio: la prima coppia specchio è quella dei due fratelli Eteocle e Polinice, frutto di carne originato dallo stesso sangue, quello macchiato, malato e infetto della stirpe di Edipo. Le opposizioni conflittuali continuano nell’immagine di altrettanti validi guerrieri, sette contro sette, che si fronteggiano in una lotta estenuante destinata a morte certa; le antitetiche coppie proseguono, quindi, nel femminile che dialoga con il maschile (i fratelli versus Ismene e Antigone, o il Coro di donne con lo stesso Eteocle), nel confronto tra città e spazio esterno, nella dialettica tra legge morale e legge sociale.

Marco Baliani sceglie di rileggere la tragedia eschilea enfatizzando la cifra ‘tribale’ propria di una ritualità che guarda a un passato ancestrale e lontano. In realtà tale volontà registica si ricollega a delle caratteristiche già ben presenti nel testo classico: più che evidenti infatti, dentro la partitura drammaturgica, i segni di antiche pratiche magiche e di inquietanti forze soprannaturali, dalle quali, anni dopo, financo lo stesso Euripide scelse di distaccarsi a favore della ricerca di una maggiore razionalità.

In una interessante tensione tra topoi preesistenti e messa in scena contemporanea, gli attori indossano degli abiti fatti di stracci, pellame e piume, dal color della terra, così come i loro calzari e i bastoni che fieramente tengono in mano. I polsi sono vestiti da vistosi bracciali, le fronti adornate da fasce scure e avvolgenti mentre le schiene vengono coperte da grossi e ampi mantelli di pelli animali. Uomini e donne assumono delle fattezze ferine, selvagge, che incutono timore nella loro estrema e vibrante fisicità istintuale.

Sette contro Tebe, regia di Marco Baliani (Inda 2017): l'albero-tempio. Fotografia di Franca Centaro

La scenografia è scarna: massi che delimitano una grande arena di sabbia dove troneggia un enorme albero, luogo di devozione antica e panteistica, tempio di foglie e radici al quale le donne e gli uomini di Tebe donano fiori e ghirlande, chiamando in soccorso le divinità per un pericolo che non si vede, ma del quale si percepiscono gli orribili rumori. I simulacri marmorei del testo originario vengono così sostituiti da terra e legno, elementi primordiali che volutamente si ricollegano a quei culti arcaici che fanno della natura luogo precipuo di preghiera e speranza. La danza diviene allora arte evocativa di tempi perduti e si concretizza nei movimenti convulsi e liberi del Coro: la disperazione ed il terrore sono corpi che si inginocchiano, si piegano, si spezzano, gridano preghiere, corrono, nel dolore di un ‘nemico’ impalpabilmente presente. Le carni dei performer si trasformano in cassa risonante di percussioni, di vocalizzi che accompagnano i piedi e le braccia, di teste che ondeggiano vistosamente. Tutto richiama quelle danze primordiali, propiziatorie e catartiche, che ricevono dalla terra forza e impulsi, radici e libertà.

Sette contro Tebe, regia di Marco Baliani (Inda 2017): l'apparizione dello sciamano-profeta. Fotografia di Franca Centaro

In tale quadro risulta sicuramente efficace l’apparizione di un profeta, dalle sciamaniche fattezze e dalle ampie vesti di piume nere, che ondeggia su ritmi tribali accompagnato dai bastoni e dai salti della gente di Tebe; il suo volto, viso scarno di primitivo volatile, è coperto da un’enorme maschera ossea che cela degli occhi bendati, chiara ed evidente assimilazione a Tiresia, indovino cieco che giocò gran ruolo nella vicenda mitica di Edipo ma, in realtà, assente nel testo eschileo.

Presenza inquietante e anticipatrice di morte e dolore, dopo aver tracciato sulla sabbia rossa dei segni che raccontano di un destino luttuoso, si accascia sulle ginocchia poiché troppo grande è il peso della visione da lui avuta: nessuna speranza per il maledetto popolo di Tebe e per la stirpe di Laio. L’azione avviene in silenzio, a simboleggiare l’attenta consapevolezza della gente che vi assiste, massa umana ansiosa e atterrita dai presagi di cui la mostruosa creatura antropomorfa si fa portatrice.

Sette contro Tebe, regia di Marco Baliani (Inda 2017): la danza tribale del Coro. Fotografia di Franca Centaro

In un cortocircuito che occhieggia all’Edipo Re di Pasolini e a U’ Ciclopu di Vincenzo Pirrotta, ecco la scelta dei sette guerrieri che si opporranno ai combattenti schierati da Polinice dinnanzi alle porte della città: una danza primitiva che culmina in un vero e proprio rito d’iniziazione selvaggio, prova di abilità performativa da parte degli stessi interpreti che si arrampicano, per poi districarsene, su di una griglia lignea innalzata dai cittadini ogni qual volta Eteocle (un aitante Marco Foschi) nomina, a gran voce, un suo eroe. L’ancestrale cerimonia prevede l’assegnazione di maschere tribali e di altri distintivi, simboli forti di un passaggio senza ritorno, la cui conclusione nefasta viene già tragicamente evocata dal cromatismo rosso degli oggetti scenici.

Dopo la guerra, rappresentata dal regista in modo forse un po’ troppo scolastico tra rumori, caduti e scontri contro un nemico invisibile, il Coro dei tebani si cambia d’abito e, con addosso delle tuniche lacere, diviene eco drammatica della situazione siriana: vi è un’universalità nei conflitti bellici, un fil rouge che lega ogni lotta, ogni spargimento di sangue, ogni dolore. Eteocle e Polinice, corpi morti esposti, vengono pianti da cittadini che non sono semplicemente tebani, ma che appartengono al mondo tutto.

Sette contro Tebe, regia di Marco Baliani (Inda 2017): Eteocle (Marco Foschi) sceglie i suoi sette guerrieri. Fotografia di Franca Centaro

Tra lamenti, genuflessioni e abbracci di carni lacere, l’atmosfera tribale si tinge di nuovi colori, contemporanei e mediorientali, sanciti dalla presenza di un messaggero in mimetica, emblema concreto di una guerra che persiste in ogni tempo, ieri come oggi. Il mythos non è quindi voce lontana di un passato che non può tornare, ma vivo grido di un’umanità dilaniata, uguale a se stessa. La frattura cronotopica dell’incipit, con il guardiano del Teatro che invita le pietre a narrare le storie dell’antica Tebe, trova la sua sutura al termine dello spettacolo, con un ritorno al presente, come se la vicenda tragica fosse stata un sogno-visione degli spettatori: un cortocircuito tra ciò che era e ciò che è.

Interessante come Baliani scelga di dare grande risalto al personaggio di Antigone, interpretato da Anna Della Rosa: sue molte delle battute che nel testo originario appartengono invece al Coro femminile delle tebane. Ciò la rende voce forte di sorella e di donna, anche se certamente meno potente e violenta della figlia di Edipo portata in scena da Motus nel progetto Syrma Antigones. La giovane viene immersa in questa ancestrale temperie e le sue vesti, ancora una volta fatte di pelli e stracci, la rendono parte integrante del “popolo”; unici elementi di differenziazione risultano essere il colore della fascia, qui rossiccio (forse simbolo del sangue che verrà), e l’assenza del pesante mantello. Le sue movenze, più composte ed eleganti, prive quindi della cifra selvaggia propria del disegno coreografico, divengono emblema di una regalità non solo d’origine, ma soprattutto morale.

Sette contro Tebe, regia di Marco Baliani (Inda 2017): Antigone (Anna Della Rosa) in vesti mediorientali. Fotografia di Franca Centaro

Il regista fonde le due sorelle della scena finale (probabilmente spuria) in un solo personaggio: ancora lei, Αντιγόνη, donna ribelle che sceglie di opporsi alla legge della città, la cui voce metallica viene rappresentata da un enorme altoparlante che dilania lo spazio spoglio della scena come un potente senza volto.

Marco Baliani catapulta gli spettatori in un passato di terra, riti e maschere, dove il sapore ancestrale delle origini si miscela con un dolore universale e attuale. Tra danze selvagge, ritmiche arcaiche, presenze antropomorfe e laceranti grida di terrore, la gente di Tebe rivive in una ‘classicità tribale’, nuova narrazione tragica di carni, versi e passioni dell’animale uomo.

English abstract

The present contribution aims at emphasizing the tribal elements that Marco Baliani has chosen for his production of Seven against Thebes by Aeschylus. Inside an ancestral space, evoked with red sand and an enormous temple-tree, the restless people of Thebes express their terror through convulsive and wild movements. The body of the performers becomes a resonant box of a deep pain: jumps, howls, knees on the floor, hands that beg, gestures, and sounds telling us of an imminent and inevitable end. The archaic past is given by the rags and leather of the costumes, by the anthropomorphous character of the diviner (Tiresia), and in the scene when Eteocles chooses the seven defenders of Thebes. The Past dialogues with our Present that is connected to the Syrian conflict – sign and symbol of the universality of the tragedy and myth.

 

keywords | Theatre; Syracuse; Baliani; Aeschylus; Seven against Thebes; Inda.

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2017.146.0002