"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

146 | giugno 2017

9788894840223

Una convincente riproposta dell'uso del Coro nella poetica euripidea

Lettura drammaturgica di Fenicie (Inda, 2017)

Giuseppe Cuscunà

English abstract

Nelle Fenicie di Euripide – opera rappresentata al Teatro greco di Siracusa per il LIII Ciclo di Rappresentazioni Classiche il regista, Valerio Binasco, riesce a cogliere spunti filologicamente notevoli, tanto da un punto di vista critico quanto sotto il rispetto proprio della poetica drammaturgica euripidea.

La colorazione multiculturale dell'opera, che doveva risultare evidente anche agli spettatori antichi già dal titolo, è felicemente sintetizzata e tradotta nella stessa scenografia e nel cast scelto dal regista. In primis l'aspetto e la lingua del Coro, caratterizzato dall'accentuazione dei caratteri barbari e orientali.

Il Coro in scena evoca l'uccisione del drago da parte di Cadmo (cfr. Fenicie, vv. 658-669): il carattere multiculturale è accentuato dai costumi, dalle voci, dalle musiche e dalle dinamiche scenografiche (foto: Franca Centaro)

Come ci insegna Aristotele, la costruzione drammaturgica dell'azione nella tragedia dovrebbe basarsi anche su una presenza importante del Coro, non inteso soltanto come "cassa di risonanza" degli ὑποκριταί, ma esso stesso "considerato come uno degli attori, deve essere parte del tutto e deve contribuire all'azione". Così il testo aristotelico:

καὶ τὸν χορὸν δὲ ἕνα δεῖ ὑπολαμβάνειν τῶν ὑποκριτῶν, καὶ μόριον εἶναι τοῦ ὅλου καὶ συναγωνίζεσθαι, μὴ ὥσπερ Εὐριπίδῃ ἀλλ᾽ ὥσπερ Σοφοκλεῖ. τοῖς δὲ λοιποῖς τὰ ᾀδόμενα οὐδὲν μᾶλλον τοῦ μύθου ἢ ἄλλης τραγῳδίας ἐστίν. διὸ ἐμβόλιμα ᾁδουσιν (Poetica 1456a, 29-30).

Nel passaggio, Aristotele stigmatizza il fatto che proprio Euripide tratti invece il Coro come un ἐμβόλιμον, un intrattenimento tra una scena e l'altra.

In qualche misura è esattamente quel che avviene nelle Fenicie dove, se pure viene dato un largo spazio al Coro, tuttavia la sua inserzione potrebbe apparire incoerente con il resto della trama. L'espediente che il poeta adotta per giustificare scenicamente la presenza delle donne Fenicie è quello di presentarle come un gruppo di pellegrine, giunte a Tebe prima di approdare a destinazione al Santuario di Apollo, e coinvolte loro malgrado nell'assedio della città.

Le donne fenicie, provenienti dalla patria del fondatore di Tebe, conoscono perfettamente l'antico mito di Cadmo e le origini della città dalle Sette Porte, mentre ignorano gli eventi presenti, in particolare l'ostilità tra i due fratelli che si contendono il trono: in questo senso intervengono nello svolgimento della trama diventando a tutti gli effetti partecipi dell’azione. Alle donne del Coro è affidato il ruolo di rievocare il mito che sta alle origini delle sventure attuali, siglando i passaggi cruciali del dramma con frammenti di racconto che svelano le cause prime dei sanguinosi eventi in atto. La voce del Coro è affidata alla corifea, una magnifica Simonetta Cartia, che recita la sapienza antica delle donne fenicie con uno straniante accento straniero, attualizzato nella prosodia che si rende a noi riconoscibile come la cadenza delle immigrate dall'est Europa.

In generale, pur rispettando l'intelaiatura drammaturgica portante del testo euripideo, il regista lavora altresì sulla caratterizzazione dei personaggi, in alcuni casi con esiti incisivi ed efficaci, talaltra giocando sulle varianti di un'ambivalente ricontestualizzazione.

Convincente è il trattamento di Edipo, che resta in scena per l'intera durata del dramma: in scena, ma muto fino alla fine, assurto a simbolo di un'endogamia troppo viscerale. Il suo stesso corpo rappresenta la costante memoria dell'antica maledizione che attanaglia, con una morsa ferina e inoppugnabile, l'intera stirpe dei Labdacidi.

Il personaggio di Giocasta declina una sofferenza materna cristallizzata e senza tempo, a cui l'interpretazione di Isa Danieli regala una voce, un corpo e un pathos straordinari.

La lettura della coppia di fratelli Eteocle e Polinice, fin dalla nascita ed eternamente in lotta, è condizionata da una volontà di modernizzazione che evidenzia, nella scelta dei costumi e delle stesse tonalità espressive, l'ethos ribelle e forte dei gemelli. Questo avvicinamento prospettico alla sensibilità degli spettatori contemporanei pare corrispondere alla notazione aristotelica:

οἷον καὶ Σοφοκλῆς ἔφη αὐτὸς μὲν οἵους δεῖ ποιεῖν, Εὐριπίδην δὲ οἷοι εἰσίν

"Se Sofocle diceva di mettere in scena gli uomini quali avrebbero dovuto essere, Euripide li metteva in scena quali sono" (Poetica 1460b, 34-35).

Inconciliabili risultano le ragioni dei fratelli, incomponibile la loro contesa: non c'è alcun richiamo all'amore fraterno che possa avere la meglio sulle parole simbolo, che Eteocle pronuncia con disperata lucidità in un punto cruciale del dramma:

εἴπερ γὰρ ἀδικεῖν χρή, τυραννίδος πέρι κάλλιστον ἀδικεῖν

"Se è necessario agire ingiustamente, la cosa migliore è farlo per il potere" (vv. 524-525).

Polinice è trascinato via a forza dalle guardie armate di Eteocle, che siede guardando sprezzante la scena il Coro è impaurito e minacciato (cfr. Fenicie, vv. 625-633).

Ed è proprio nell'ottica del mettere in scena i caratteri "quali sono" (e non quali "dovrebbero essere") che va inquadrata la resa registica del controverso personaggio dell'ἄγγελος dell'esodo. Binasco vira apparentemente la tonalità espressiva del personaggio verso il registro comico: si tratta di una scelta coraggiosa che conserva tutta la potenzialità drammatica già presente in nuce nel testo euripideo con l'evidenziare la stridente contrapposizione tra il peso di una realtà troppo grande da sostenere e l'ethos di personaggi, come i messaggeri, già di per sé troppo φαῦλοι per la lexis tragica. La tentazione del pubblico di abbandonarsi ad una risata non tradisce la pietà umana (dell'autore e del regista) per il personaggio schiacciato di fronte a fatti – e a profili mitico-eroici – infinitamente più grandi di lui. Dunque un adattamento che osa molto, rispetto al pregiudizio di una tonalità piattamente 'alta' del dire tragico, e che tuttavia non fallisce.

Scrive Aristotele che nella tragedia fatta bene i personaggi trovano il loro carattere nel dramma e non viceversa:

οὔκουν ὅπως τὰ ἤθη μιμήσωνται πράττουσιν, ἀλλὰ τὰ ἤθη συμπεριλαμβάνουσιν διὰ τὰς πράξεις

"non agiscono per imitare caratteri, ma assumono i loro caratteri attraverso le azioni" (Poetica 1450a, 20).

Seguendo l'indicazione aristotelica, si apprezza che un momento clou del dramma euripideo stia nella rivelazione dell’ἦθος di Menecèo in seguito all’incontro con l’indovino Tiresia – vera novità introdotta da Euripide. Il figlio di Creonte, infatti, aveva cominciato il suo percorso di personaggio tragico in un rapporto di totale sottomissione rispetto al padre. Nella regia di Binasco la credibilità del ragazzo è messa in discussione dalle continue attenzioni (anche fisiche) che il padre, nella prima parte della scena che li vede protagonisti, gli riserva. Dopo la sconcertante rivelazione del cieco indovino a Creonte, inaspettatamente il personaggio assume un forte ethos eroico. Solo nella morte di Menecèo risiede infatti la chiave di svolta per la salvezza della città da una contaminazione che – come ha rivelato Tiresia – è ancora più antica dell'incesto di Edipo. L’occasione di dar prova di aretè viene subito colta dal personaggio, che spiazza il pubblico disobbendendo alle affettuose (e poco edificanti) raccomandazioni del padre, imprimendo un improvviso cambio di tendenza allo svolgimento drammatico. Grazie a un espediente a sorpresa del regista, che sfrutta a pieno lo spunto offerto dal testo euripideo, il goffo Menecèo si trasforma infatti nell’eroe tragico per eccellenza, e immola la sua vita per la salvezza della sua patria e per la gloria del suo proprio nome.

“Non abbiam tempo d’ammirare la nobile risoluzione del figlio di Creonte e quasi ci adiriamo con lui, come un seccatore, che giunga a distogliere la nostra attenzione, mentre siamo occupati d’un altro soggetto”. Il filologo tedesco Henri Weil commentava con tali parole l'episodio di Fenicie che vede protagonista Menecèo. Invece proprio quell'episodio si rivela determinante all’interno della struttura drammaturgica euripidea, e in questo senso è valorizzato nella scrittura registica di Binasco, perché proprio qui si sincretizza quell’acquisizione del carattere che aristotelicamente connota la 'buona' tragedia: è una sorta di rito di passaggio, mediante il quale il personaggio trova una sua grandezza, diventando vero e proprio eroe tragico.

E mentre Creonte piange sul cadavere del figlio, al culmine della climax drammatica viene annunciata a Giocasta la morte di entrambi i fratelli. In questa Spannung la scelta del regista di far crescere in scena Menecèo – da goffo bamboccio a eroe tragico – smorza una volta di più l'astratta suddivisione fra personaggi grotteschi e caratteri eroici, proponendo una visione composita e caleidoscopica della sintassi tragica – e della stessa realtà che la tragedia riproduce.

Il confronto fra i fratelli e il vano tentativo di mediazione della madre (cfr. Fenicie, vv. 446-625).

Azzardata e coraggiosa, dunque, la prospettiva registica che Valerio Binasco propone per Fenicie, ma un azzardo che rispetta tuttavia la poetica drammaturgica e la forza dei personaggi euripidei, in un modo ben più profondo di quanto possa sembrare a un primo sguardo.

English abstract

The article explains how director Valerio Binasco managed to syncretize modern sensitiveness, while preserving Euripidean poetry. The Chorus, untied from the core of the plot, suggests the idea of a multi-cultural context like the title itself means and underlines. This choice is respected by Binasco in his interpretation of the Aeschylean play. Despite the fact that a few moments may seem parodical, precisely during these scenes we experience a persuasive research of Euripides’ thought about humanity: as Aristotle suggests, Euripides tries to devise his characters as they are, and not as they should be. The challenge, in this performance, is successful.

keywords | Fenicie Euripides, Binasco, Aeschylus, Inda, Theatre, Syracuse.

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2017.146.0004