"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X
English abstract

Pietro da Rimini, Urbisaglia, Dante, Méliès

Fabrizio Lollini

1-2. Tolentino, Cappellone di San Nicola

3. Tolentino, Cappellone di San Nicola 

Nel notissimo ciclo del Cappellone di San Nicola a Tolentino, oltre alle scene istoriate nei riquadri maggiori (quelle evangeliche e quelle relative alla biografia del santo marchigiano), da tempo scrutinate in dettaglio rispetto alle abitudini iconografiche del tempo, il primo Trecento, alle questioni agiografiche e alle forme del culto, compaiono quattro gruppi di inserti di dimensioni più ridotte, nel tessuto organizzativo della decorazione del vasto ambiente.

Il primo, in cui l'elemento che circoscrive l'immagine è un polilobo in finto marmo, mostra Santi e Sante (o in senso generale o categorizzati: Dottori della Chiesa, Evangelisti) (fig. 1), Angeli, Profeti (aureolati), ma anche una Imago Pietatis e un Redentore. Il repertorio, più che consolidato, si potrebbe definire addirittura scontato, come risulta evidente dalla scelta di proporre figurazioni derivate da modelli acquisiti, con un riciclaggio talora decontestualizzato: troviamo ad esempio un San Giovanni Evangelista a tutta evidenza clonato dal tabellone laterale di una Crocefissione (fig. 2). La mappa topografica delle presenze non pare essere collegata, come una chiosa testuale, agli episodi principali, ma si colora di una ratio sparsa, in maniera quasi casuale. Le raffigurazioni sono a mezzo busto e gli atteggiamenti si variano in funzione di un'espressività esibita attraverso una summa del lessico gestuale medievale: una benedizione, la salda presa di un rotulo, l'ostensione esplicativa della mano parlante, e così via; non li citeremo oltre.

Il secondo quadro, col quale si esce dagli standard dell'ovvietà repertoriale come impiego ma non come lessico, include invece negli strombi delle finestre tre immagini molto ravvicinate – non mezzi busti, quindi, ma primi piani pressoché del solo volto – di due uomini e una donna (fig. 3), che hanno creato qualche imbarazzo negli studiosi: "Sono immagini di contemporanei, e ritengo abbiano una funzione solo decorativa, anche se hanno dimensioni e risalto inusitati; ma mi sembra poco plausibile pensare a ritratti di committenti" [ROMANO 1992b, p. 28 n. 23: aggiungo a dimensioni e risalto, in modo più specifico: collocazione]. La loro identificazione, oltre che il loro ruolo, è rimasta dunque in attesa di definizione; campeggiano entro tondi arricchiti da una corona di fogliame stilizzato, e ne accenneremo più avanti. Questa prima difficoltà di lettura si accoppia alla ben maggiore particolarità degli ultimi due gruppi che sono l'oggetto di questo breve intervento.

4-5. Tolentino, Cappellone di San Nicola

6-7. Tolentino, Cappellone di San Nicola

Entro le fasce altrimenti aniconiche rifilate entro cornici bicolori che scompartiscono gli elementi della serie, si nota infatti un'ampia sequenza di teste, definite spesso in modo un po' semplicistico 'decorative', che seguono due distinti format, pur se accomunate tutte dalla scelta di un close up ravvicinatissimo, che esclude in forma se possibile ancor più netta dei casi di cui si è già parlato la raffigurazione di tutto ciò che non corrisponda al solo viso, spesso neppure intero. Quello che possiamo definire allora terzo gruppo è ospitato nelle decorazioni di andamento leggibile in verticale, e viene inserito all'interno dei festoni vegetali stilizzati che tappezzano le fasce assieme a elementi geometrici. Le immagini sono dipinte in modo analogo ai protagonisti delle scene sacre maggiori e alle figure dei primi due gruppi: si tratta cioè, anche se con taglio differente, come di particolari di personaggi interi, che però solo in alcuni casi presentano caratteristiche somatiche e posturali del tutto in linea con le iconografie della pittura coeva: uno potrebbe coincidere con tanti santi 'moderni', come Francesco (fig. 4), un altro con una delle numerose sante e altre figure femminili di episodi sacri, uno adombra un Eterno (fig. 5). Gli altri, invece, mostrano un campionario di atteggiamenti che non mi pare abbiano alcun riscontro né nella produzione omologa del tempo né con la logica del fatto sacro: senza rimandi mentali a immagini consolidate, c'è chi è ingrugnito, chi fa le boccacce, chi sgrana gli occhi, chi è come schiacciato da una presa di visione scorciatissima (fig. 6-7).

8-9. Tolentino, Cappellone di San Nicola

10-11. Tolentino, Cappellone di San Nicola

12-13. Tolentino, Cappellone di San Nicola

14. Tolentino, Cappellone di San Nicola

15. Miniatore bolognese attorno al 1335, iniziale decorata, Cesena, Biblioteca Malatestiana, ms. S.IV.1, c. 54v

Questa varietà di espressioni, quasi tutte dunque molto caricate, è invece la scelta totalizzante nel quarto gruppo. Qui, però, le facce sono inglobate entro cornicette tonde bianche decorate a piccole fasce rosse, che si alternano nelle strutture decorative in orizzontale ad elementi geometrici romboidali e a motivi vegetali stilizzati ridotti. E soprattutto i visi sono campiti in bianco e scuro, senza cromia. Il pattern è lo stesso per tutti; un tondo grassoccio, coi medesimi lineamenti definiti finemente, a estendere ulteriormente il repertorio delle deformazioni accidentali dell'attitudine: vediamo la faccia con le guance gonfie e quella che pare starnutire, quella pensosa e quella beatamente sognante (figg. 8-14). Il fatto che sempre si ombreggi in modo molto caricato una zona del volto, a destra o a sinistra, o anche in basso, aiuta a capire che questa facciona è sempre la stessa: è quella della luna, o di una realtà artistica almeno all'astro ispirata.

Queste scelte della serie affrescata, e ancor più la loro incidenza qualitativa e quantitativa sul ciclo, mi paiono senza paralleli nella pittura murale trecentesca, non solamente nell'ambito romagnolo-marchigiano cui il ciclo tolentinate pertiene, come opera del catalogo di Pietro da Rimini, in questo caso affiancato dai suoi collaboratori, all'interno della consueta logica del cantiere pittorico tardomedievale: il fatto che nessuno se ne sia occupato in dettaglio credo mostri appunto un certo disagio da parte della critica. En passant, i volti maschili del secondo gruppo mi pare rientrino entro il novero del vultus Christi in relazione alla Veronica, e anche quello femminile – in cui si scorge un accenno di nimbo – ha una connotazione palesemente sacrale, credo in rapporto al piccolo inserto con la dextera Dei in analoga posizione nel portale; mentre quelli più scontati del terzo gruppo sono, come detto, riciclaggi di modelli iconografici usuali, un copincolla funzionale a riempire degli spazi.

Ma concentriamoci sui volti maggioritari del terzo gruppo, e su quelli del quarto: più in generale sulla scelta di riempire una spazio con una faccia in più che primissimo piano e con attitudini somaticamente e psicologicamente caricate; e sulla forma quasi monocroma, al di là delle suggestioni lunari.

Un primo parallelo, di non perfetta coincidenza ma a mio parere comunque evidente, è quello che emerge in rapporto alla decorazione libraria; nei codici miniati tra la fine del XIII secolo e la metà del Trecento, troviamo infatti – anche se non in modo frequentissimo – elementi congruenti a quanto appena esposto. Soprattutto nei codici di studio, medici e giuridici, e dunque di conseguenza a Bologna e a Padova, si notano immagini compositivamente e lessicalmente analoghe a quelle tolentinati: piccoli volti dipinti con tagli estremamente ravvicinati a riempire le iniziali dotate di anse – le P, le O, le R, tanto per dire (fig. 15), su cui non mi pare, confortato da Daniele Guernelli e Massimo Medica, esista specifica bibliografia. La constatazione riesce di qualche utilità ai fini di considerare il senso delle presenze del ciclo marchigiano, perché nel caso dei manoscritti miniati si tratta sempre di incipitarie 'decorative', nel senso di 'non figurate': come gli elementi vegetali stilizzati, o gli animali e le altre drôlerie mostruose, le testine non sono da recepire come entità narrative, o esemplificative in piccolo di una realtà iconica specifica e identificabile; e soprattutto le loro presenze si limitano a quelle ricorrenze in cui, nella logica della miniatura come evidenziazione visiva del testo, gli interventi occupano gli spazi minori, come le suddivisioni dei sottocapitoli o dei paragrafi, o i paratesti accessori delle glosse.

Un nesso ulteriore mi sembra poi una delle teste di Tolentino, quella già citata in cui il volto viene visto come se deformato da una visione sfasata in altezza; è ben noto infatti che nei codici da studio si elabora già all'inizio del Trecento un'immagine che diverrà ricorrente, quella del personaggio maschile il cui corpo corrisponde allo spazio intercolonnare, del testo principale o più frequentemente della glossa, e la cui testa va a sfiorare o l'ultima linea del testo principale stesso o un riquadro miniato, secondo una visione scorciata distante dalle usuali pratiche pittoriche del tempo; una elaborazione stilistica funzionale a un contesto di presentazione visiva, e che infatti, se applicata come qui random in pittura, suona un po' stridente. 

16-17. Urbisaglia, Criptoportico, 'maschere lunari' e motivo decorativo

18. Urbisaglia, Criptoportico, 'maschera lunare'

19. Roma, Casa di Augusto, maschera

In entrambi i casi, pur differenti, la ratio che porta alla scelta del pittore o dei miniatori non si può spiegare allora, credo, con una sorta di lente di ingrandimento posta sulla realtà – realtà comunque ovviamente stilizzata, secondo le convenzioni del XIV secolo postgiottesco. I volti non sono volti, le facce non sono facce, come avviene negli altri inserti della serie tolentinate, siano di iconografia più usuale o invece meno semplice da chiarire. La loro ragione d'essere va cercata forse allora in tramandi culturali più remoti e riposti: l'idea – in sé e per sé e al di là delle scelte lessicali e stilistiche – sembra un chiaro prestito dall'Antico.

Mi piace notare, ma magari è solo una coincidenza, che a pochi chilometri da Tolentino si trova oggi la cittadina di Urbisaglia, la cui collocazione topografica non corrisponde all'importante municipio romano di Urbs Salvia, dove, in epoca moderna (ma già nel periodo pontificio), sono stati scavati prima, e restaurati e valorizzati poi, alcuni siti archeologici. Tra essi emerge il complesso, delimitato da un ampio recinto sacro, formato da un tempio e da un criptoportico. Quest'ultimo, in origine completamente affrescato, presenta ancora ampi brani di pittura murale, risalente al periodo di Tiberio, su tre registri: in uno di essi, oltre a raffigurazioni di animali e a scene di caccia, troviamo nelle zone superiori dei cartelli decorativi delle immagini definite spesso dagli specialisti, guarda caso, 'maschere lunari' (figg. 16-18) [su Urbisaglia qui basti la voce di DELPLACE 1997, con completa bibliografia precedente, e il riassunto in LUNI 2003, pp. 148-153; per lo specifico dei dipinti del criptoportico si vedano DELPLACE 1981 e DELPLACE 2007]. Si tratta non tanto di maschere nel senso classico di quelle personae che, nella forma per così dire indossabile che oggi diamo all'accezione del termine, palesano tipi psicologici diversificati, legati ai protagonisti della commedia e della tragedia (mai così Pathosformeln, verrebbe da dire), e che pure conoscono un'ampia fortuna iconografica sia nella pittura romana antica che nelle riprese medievali e rinascimentali, dalla miniatura carolingia in poi (fig. 19). Piuttosto (devo le definizioni e le considerazioni che seguono in questo paragrafo a Daniela Scagliarini), sono piccole teste di forma tonda o tondeggiante, molto spesso giocate sulla monocromia, che presentano tratti fisionomici semplificati; queste 'protomi stilizzate' sono caratteristiche del III stile pompeiano (o stile ornamentale), pur se non vi ricorrono con particolare frequenza. Il loro periodo primo di diffusione è quello tra 20 a.C. e 40 d.C., e la loro origine rimonta probabilmente al contesto delle decorazioni egittizzanti che si diffondono a Roma prima, poi nel resto dell'Italia, dopo la vittoria di Ottaviano contro Cleopatra ad Azio. Gli esempi più precoci e noti sono quelli del cosiddetto studiolo della casa di Augusto sul Palatino e della villa di Agrippa sotto la Farnesina; l'amplissima diffusione di tutti i motivi ornamentali elaborati a Roma include ovviamente anche il Piceno [CARETTONI 1983; CARETTONI 1987; SANZI DI MINO 1998].

20. Roma, Villa di Agrippa, volto femminile 

21. Roma, Casa di Augusto, volto satiresco

22. Roma, Casa di Augusto, maschera

23. Roma, Villa di Agrippa, Luna

A questa suggestione ostano due problemi, che credo scavalcabili in modo non forzato. Il primo è quello della non totale corrispondenza delle forme: ma se è ovvio che uno spunto (o una sommatoria di spunti) possa essere declinato nei modi più consoni all'artista o al periodo stilistico che lo riprende, non vedo molti altri contesti cui rivolgersi per spiegare questo unicum pittorico, e i suoi parziali paralleli miniatori. È come detto la sua ratio – al di là dello specifico – a essere intrinsecamente anomala. Ovviamente, nell'ottica della considerazione di un eventuale recupero va considerata la possibilità che, come in tanti altri casi della storia della tradizione classica, la facies delle protomi decorative si meticci nei recuperi ex post, ma anche durante la loro diffusione originaria, con altri casi di 'primi piani ravvicinati' che conosciamo nel repertorio antico: le già citate maschere teatrali, con la loro ostensività psicologica assai caratterizzata, che troviamo a Tolentino ma non sempre nelle vere e proprie 'maschere lunari' romane; i volti satireschi; soprattutto, le versioni antropomorfe dei dischi solari e lunari, che pure sappiamo ben frequenti come motivo iconico della classicità, quasi sempre, tra l'altro, in forme pittoriche o modellate (stucchi e altro) con parametri cromatici molto abbassati (figg. 20-23). Il secondo è quello della disponibilità: quello che ci è noto di Urbs Salvia emerge infatti con chiarezza, come detto, in epoche molto successive all'attività di Pietro e della scuola riminese, in casa e in trasferta. Ma non credo sia fondamentale che il sito per come lo vediamo in generale, e il criptoportico in particolare, siano visibili solo da poco tempo: il municipium, infatti, costituisce per definizione un modello di importante città monumentale distrutta.

Furono i Visigoti di Alarico che, tra 408 e 409, fecero rovina della città, anche se – è ovvio – non possiamo controllare con certezza quale affidamento dare al passo di Procopio di Cesarea, quando scrive, parlando appunto di Urbisaglia [De bello Gothico, II, 16], che "ἣν δὴ ἐν τοῖς ἔμπροσθεν χρόνοις ὅυτως Ἀλάρικος καθεῖλεν ὤστε ἄλλο γε αὐτῇ οὐδ'ὁτεοῦν ἀπολέλειπται τοῦ προτέρου κόσμου, ὃτι μὴ πύλης μιᾶς κὰι τῆς κατασκευῆς τοῦ ἐδάφους λείψανόν τι βραχύ". Di certo, lo splendore non solo rimane nella memoria, ma diventa addirittura quasi un simbolo della caducità della fastosità costruttiva e decorativa delle civiltà passate, in ovvio rapporto, nello specifico, alla tradizione della romanità. Questo scarto avviene, come ben noto, grazie al passo del XVI canto del Paradiso dantesco: «Se tu riguardi Luni e Urbisaglia / come sono ite e come se ne vanno / di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia / Udir come le schiatte si disfanno / non ti parrà nuova cosa né forte / poscia che le cittadi termine hanno» (XVI, 73-78).

Il rapporto di Giotto e dei pittori giotteschi con l'Antico è oggetto da tempo di grande attenzione da parte della critica [di recente, e soprattutto in rapporto alle architetture, vedi QUINTAVALLE 2009]. Come è stato scritto, "Se poi si vorrà cercare a quale modello antico si rifacciano alcuni degli apostoli qui riprodotti [quelli della cappella di San Nicola ad Assisi] si avrà l'imbarazzo della scelta all'interno di un enorme repertorio; si può dire anzi che non ci sia museo archeologico italiano che non possa mostrare qualche significativo paragone con queste opere giottesche. Piuttosto risulta difficile limitare l'indagine alle statue già scoperte e visibili nel Medioevo" [VOLPE 2002, p. 38 – ma vedi tutte le pp. 34-42]. L'imbarazzo sta da una parte nella scarsa documentazione del cosiddetto 'originale assente' (o non visibile), tranne pochissimi casi di cui si è tentata un'identificazione [per esempio il fregio scolpito della basilica Emilia in rapporto all'Incostanza Scrovegni, su cui si consulti GAGGIOTTI 1996], dall'altra nei modi e nella qualità dell'approccio dei pittori trecenteschi: assumevano l'Antico come modello da copiare, oppure lo rimeditavano in modo funzionale? Molti ragionamenti vengono fatti sull'architettura – naturalmente più esposta, spesso, a una continuità percettiva – e sulla scultura, ma non è difficile pensare anche a brani pittorici fruibili in modo più o meno casuale, a cui implicitamente ci si riferisce negli studi quando si propone una serie di numerose (anche troppe) ipotesi di conoscenza da parte di Giotto and associates di pittura romana. Ricognizioni episodiche, crolli e terremoti che temporaneamente o meno scoprono realtà nascoste e altri accidenti della storia che non sempre lasciano traccia documentata possono – credo – essere ipotizzati lecitamente, senza contare le possibili mediazioni di quel repertorio che, dalle rinascenze medievali occidentali o dal mondo bizantino, fa parte delle competenze professionali di un artista quasi in modo inconsapevole, tramando culturale più che filologico.

24. da Le voyage dans la lune di Georges Méliès, 1902

I volti 'lunari' di Pietro a Tolentino – che includono anche la variante deformata in modo grottesco, senza l'atteggiamento spaventato e colpito di cui si occuperà qualcun altro a inizio Novecento (fig. 24) – forse possono dunque essere letti come adesione a una serie di spunti presenti in una realtà lontana e vissuta come autorevole (in cui giocavano peraltro lo stesso ruolo di elemento decorativo iterato, più che di 'rappresentazione'), pur se interpretata sulla base delle forme stilistiche del tempo. I volti caricati del terzo gruppo, e quelli monocromi 'lunari' del quarto, in questo senso, avrebbero quindi una origine culturale comune, anche se poi la declinazione, la 'normalizzazione' e l'inserimento contestuale differiscono.

La discussione sul catalogo e la cronologia di Pietro da Rimini, molto complessa e costretta in tempi fitti, prevede comunque per gli inizi della carriera del pittore una contiguità cronologica tra la sua città natale, Tolentino e Padova, che include anche Ravenna. Si parla in ogni caso, in una trama affollata di riferimenti e con pochi appigli documentati (tranne che per la città veneta, 1324), dei primi anni Venti del Trecento. L'atto iniziale dell'attività di Pietro nella ex sede esarcale furono forse gli affreschi oggi quasi distrutti per la chiesa di San Francesco, eseguiti quasi sicuramente grazie a una committenza dei signori locali, i Da Polenta. Il pittore lavorerà in seguito ancora in città, per esempio in Santa Chiara, e, secondo molti, in Santa Maria in Porto e nella vicina Bagnacavallo, a San Pietro in Sylvis [su Pietro, si veda almeno BOSKOVITS 1989, con bibliografia precedente; ROMANO 1992a; BOSKOVITS 1992; BELLINI 1992; ROMANO 1992b; BENATI 1992; BELLOSI 1992; TAMBINI 1992; KRÜGER 1992; RONDINA 1992; BENATI 1995, pp. 46-52, con altra bibliografia; MEDICA 1995; MEDICA e BENATI 1995; PASINI 1995; BISOGNI 2000; PELLEGRINI 2000; VOLPE 2002, ad indicem; MASSACCESI 2005a; MASSACCESI 2005b; PICCARDONI 2006; PELLEGRINI e MASSACCESI 2009; VOLPE 2009, pp. 170-172; sul pittore, sul complesso di Tolentino, e soprattutto sulle tematiche relative a San Nicola, nei testi citati si trovano ulteriori indicazioni bibliografiche].

Sarà certo solo una suggestione – e andare di suggestione in suggestione, me ne rendo perfettamente conto, fa assai male al metodo – ma il passo di Dante che cita Urbisaglia fu, se non scritto, almeno pubblicato pochi anni prima; e il poeta, giunto a Ravenna attorno al 1317, vi morì nel 1321, ospite appunto della casata che aveva circa negli stessi anni tra i suoi artisti Pietro: che vi era attivo poco dopo, come di solito si dice, o piuttosto subito prima?

25. Tolentino, Cappella di San Nicola

È del tutto scorretto, ma romantico, pensare a un pittore che, in trasferta, va a vedere i resti all'epoca visibili di un episodio della romanità antica che il maggior poeta italiano aveva cantato, in cui ci saranno stati certo altri esempi di pittura decorativa oltre al criptoportico. D'altra parte, Pietro è già stato rapportato in modo molto convincente, e da più di uno studioso, sia alle forme della classicità romana, per esempio rispetto ai suoi panneggi 'scultorei', sia a stimoli formali e iconografici derivati tanto dalla koinè paleocristiana quanto dal contesto ravennate proto-bizantino [MASSACCESI 2005b, pp. 218-224, con citazione del precursore – in questo senso – Carlo Volpe a p. 218]. Certo, i secondi sono più facili da postulare, le prime, come nel nostro caso, un po' meno: ma nel caso dei dipinti di San Nicolò al Porto di Ravenna [DONATI 2004], opera di un seguace di Pietro, il modello delle 'facce lunari' di Tolentino riacquisisce d'incanto una correttezza filologica di impiego nella coppia del sole e della luna della Creazione

Al di là di una conoscenza diretta fra Pietro e Dante, tutta Ravenna certo aveva in quegli anni il poeta toscano sulla bocca e nel cuore. Chissà se Pietro avrà visto, a Urbisaglia o altrove, una delle tante 'nature morte' decorative di tradizione classica entro trompe-l'oeil architettonici. Altrimenti, come si spiega quell'altro hapax con le ampolle e la pisside, dentro la nicchia sul muro del capellone (fig. 25), del tutto diverso, come concetto, dai coretti di Padova che altrove il riminese citerà?

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English abstract

Very often mentioned in the studies, though not always supported by detailed consideration of specific examples, the appeal to the repertoire of Antiquity emerges more and more often as a fundamental theme in the study of medieval painting. The paucity of possible exempla realized with homologous technique obviously represents an issue that is something of a problem.
In the frescoed cycle by Pietro da Rimini, painted in the third decade of the 14th century in the church of San Nicola in Tolentino, a number of expressive faces, used almost as masks, emerges in decorations and in frames beside the main scenes; some of them are marked by anomalous features (monochrome, abstraction, grotesque somatic and psychological traits), that characterize them with a 'lunar' appearance.

Perhaps accidentally, perhaps not, near Tolentino we find in the current archaeological area of Urbisaglia a painted repertoire in some ways analogous, dating back to the 1st Century A.D.; even if these sites were excavated much later, it is possible then that, at the time of Pietro, something similar could be accessible and visible in the area: the fame of Urbs Salvia, witnessed by both ancient sources and, above all, by the mention in Dante's Divine Comedy, is in this sense revealing. And it is furthermore so, if we consider the connection between the last phase of the life of the great poet and Ravenna: the city in which, shortly after his activity inTolentino, Pietro precisely worked.

keywords | Pietro da Rimini; Medieval painting; church of San Nicola in Tolentino; Dante; Venice; Ravenna.

Per citare questo articolo / To cite this article: F. Lollini, Pietro da Rimini, Urbisaglia, Dante, Méliés, “La Rivista di Engramma” n. 100, settembre-ottobre 2012, pp. 154-163 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2012.100.0009