"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

102 | dicembre 2012

9788898260478

Schifanoia: il salone dei dipinti perduti

Marco Bertozzi

Alcuni anni fa, Maurizio Bonora venne a trovarmi per espormi il suo progetto di ridare vita ai dipinti scomparsi del Salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia. Confesso che la mia piacevole sorpresa per tale iniziativa fu allora accompagnata da non poche perplessità. Com’era possibile ricreare la fascia del più famoso ciclo pittorico del Quattrocento ferrarese, sulla base di pochi e quasi illeggibili frammenti, sia pure appellandosi alla potenza della fantasia e della immaginazione?

Il mio compito fu allora di indicare le fonti (1’Introductorium in astronomiam di Albumasar, Picatrix e altri compendi astrologici) che più potessero avvicinarsi alle tracce ancora visibili, che Bonora veniva lentamente riscoprendo con grande pazienza ed abilità. A quel punto, indicate le possibili fonti, l'ardua ed appassionante sfida dell'artista consisteva nel ricreare, in piena autonomia, i dipinti scomparsi, attraverso una complessa e delicata operazione. I frammenti rimasti dovevano infatti costituire un vincolo imprescindibile, anche se essi non erano certo sufficienti, da soli, a riportare in vita immagini astrali che il tempo aveva ormai reso esangui o del tutto mute.

Poi, quando infine ebbi modo di vedere riemergere dal tempo gli antichi decani di Schifanoia, la mia impressione fu di trovarmi di fronte ad un risultato che, di per sé, suscitava sorpresa e meraviglia. Altri avranno il compito di valutare la “plausibilità” di questa operazione. A me è toccato in sorte il gradito privilegio di aver visto i primi abbozzi del lavoro e di aver scoperto l'emozione che si può provare entrando nelle segrete stanze in cui l'artista opera le sue alchemiche trasmutazioni.

Ora, non mi resta che riprendere quanto ho già avuto modo di scrivere recentemente, per ribadire (ancora una volta) i motivi che mi hanno indotto a sostenere, con viva convinzione, la possibilità di cogliere il senso profondo del ciclo pittorico di Palazzo Schifanoia proprio attraverso la sua tessitura astrologica. Ritengo quindi opportuno tornare a proporre qualche breve riflessione sulla ormai celebre interpretazione di Aby Warburg, Arte italiana e astrologia internazionale nel Palazzo Schifanoia di Ferrara (1912), in cui l'astrologia sembra rappresentare effettivamente la chiave di lettura degli affreschi (Warburg [1912] 1966; Warburg [1912] 20042; Jaffé [1932] 20042).

Certo, può essere fuorviante o limitativo considerare Schifanoia solo dal punto di vista astrologico. Ma questo può accadere se l'astrologia viene pensata esclusivamente come un apparato di tecniche usate a scopo, più o meno, divinatorio. Sono convinto che sia più che mai indispensabile guardare all'impianto astrologico di Schifanoia, alla parte giocata dall'astrologia stessa nella ideazione del programma, per non perdere di vista la “centralità” della fascia mediana degli affreschi, abitata dai (non più tanto) misteriosi “decani” che, tre per segno, accompagnano le costellazioni zodiacali.

L’interpretazione di Warburg è ancora fortemente produttiva proprio perché non solo ci costringe a riflettere sul problema delle “fonti” astrologiche di Schifanoia, ma ci proietta anche nel sottosuolo, nel fondo della tecnica astrologica, cioè nella sua “essenza”, nella sua richiesta di senso. Tornare sulle tracce di Warburg, non come vuoto e ripetitivo esercizio intellettuale, significa che ancora ci riguarda l'immagine che l'uomo del primo Rinascimento (in un colloquio vivente e ricreativo con la cultura antica) veniva costruendo di se stesso e del posto che occupava nel cosmo. Non s'intende così riproporre un banale e accademico problema di “storia delle idee”. Si tratta invece di trovare il modo di accedere a quella “mentalità” che teneva ancora insieme la logica (astronomica) e la magia (astrologica): la memoria delle immagini aveva potentemente contribuito, sebbene in modo ambivalente, alla necessità  dell'uomo di orientarsi e di soddisfare il bisogno di dare senso al proprio abitare nel mondo.

È per questo che Warburg apriva il suo saggio su Schifanoia dicendo di essere stato costretto “a scendere nelle regioni semioscure della superstizione astrologica, in un primo tempo assolutamente contro la (sua) inclinazione, inizialmente attratto dalla considerazione di cose più belle”, cioè dalla riconquista dell’Olimpo greco, le cui divinità maggiori celebrano il proprio trionfo nella fascia superiore degli affreschi. Fra l’Idea platonica di Giustizia, rappresentata da Pallade-Minerva nella più alta sfera del cielo di Schifanoia, e il mondo della fascia inferiore, dove Borso d’Este la viene saggiamente amministrando, sta il regno dei demoni orientali: non ostacolo, ma necessario pathos e tramite per scendere da e salire verso la sfera superiore. I “decani”, posti a capo delle “armate celesti”, osservano l'intero universo, vigili ed inquietanti custodi di quella “parte” che ciascuno è destinato a rappresentare sulla scena del mondo. Essi non sono, dunque, semplici “unità di calcolo”, ma figure di natura divina, in cui si riflettono gli attributi di stelle e costellazioni che si levano e tramontano in una determinata sezione di spazio celeste.

Se vogliamo ancora pensare alle “segrete intenzioni” del programma di Schifanoia, non possiamo che rintracciarne i segni nella tradizione astrologica veicolata dagli Astronomica di Manilio (I sec. d.C.), dall’Introductorium in astronomiam di Albumasar (composto a Bagdad intorno alla metà del IX sec.) e dal trattato di magia talismanica Picatrix. Il poema di Manilio, come ha dimostrato per primo Warburg, è la fonte certa e sicura dello “zodiaco olimpico” di Schifanoia: la peculiarità della coppia Giove-Cibele, che è posta a tutela del segno del Leone e del mese di Luglio, ce lo attesta in modo inequivocabile. Inoltre, nel primo decano “indiano” dell'Ariete, così come è descritto nel trattato astrologico di Albumasar, ebbe il destino di imbattersi lo stesso Warburg, ricollegandolo alle “enigmatiche figure di Ferrara così spesso e da tanti anni invano interrogate”. Secondo Albumasar, “gli indiani dicono che in questo decano si leva un uomo nero dagli occhi rossi, di alta statura, forte coraggioso e di elevati sentimenti; egli porta un’ampia veste bianca, cinta nel mezzo da una corda; egli è adirato, se ne sta dritto e custodisce e osserva”. In questa immagine Warburg identificò (sia pure discutibilmente) l'eroe greco vittorioso, Perseo liberatore di Andromeda. La lotta contro il mostro era l'emblematica rappresentazione del duro patire che l’umanità deve affrontare per liberarsi dai propri eterni fantasmi, dalle proprie oscure ed originarie paure.

Picatrix

Qualcosa resta ancora da dire su Picatrix, la cui influenza a Schifanoia è ormai dimostrabile sia nella fascia mediana che in quella superiore degli affreschi (Bertozzi 1992, pp. 111-121). L’originario manoscritto arabo (Ghajat al-hakim, cioè “il fine del saggio”) fu composto in terra di Spagna intorno alla metà del secolo XI, venne fatto tradurre in castigliano da Alfonso “el Sabio” nel 1256 e si diffuse in Occidente attraverso una versione latina (Picatrix Latinus, cfr. nota bibliografica LINK). Il capitolo dedicato alla descrizione dei trentasei decani fa parte del secondo libro, in cui si parla “delle figure celesti e dei loro effetti in questo mondo”. Si tratta della fondamentale illustrazione di quella “scienza delle immagini” con cui si possono disvelare le virtù e i poteri dei talismani. Il libro secondo, che ha il compito di dimostrare come attingere a questa scienza, si apre con il nono aforisma del Centiloquium dello pseudo-Tolomeo: “omnia huius mundi celestibus obediunt formis”. Infatti, commenta Picatrix, tutti i sapienti si trovano d'accordo nel ritenere che ogni cosa dipende dal moto e dagli influssi degli astri: qui risiedono le radici stesse della magia.

La pratica magica costituisce certo il fine, lo scopo del saggio, ma in quanto è il risultato di un duro percorso speculativo: il filosofo-mago, per intervenire attivamente sulla realtà, deve prima avere raggiunto una conoscenza totale e completa del mondo e dei segreti rapporti di “simpatia” che regolano il fluire della vita nell'intero universo. La conoscenza filosofico-scientifica giustifica quindi l'intervento operativo ed autorizza l'ideazione dei talismani, che sono dotati di straordinaria forza e potere proprio perché originati dalla “violenza”.

Picatrix interpreta, molto acutamente, il termine talismano nel senso di “violator”, poiché l'immagine viene composta per ottenere il dominio e si può prevalere solo tramite la violenza. L'efficacia del talismano è garantita dalla conoscenza di precisi rapporti di calcolo astronomico, per mezzo dei quali si stabiliscono gli influssi astrali delle armate celesti. Le immagini dei talismani per poter “avvincere” devono risultare composte da tutti quei “corpi” di cui è riconosciuta la relazione di simpatia con la relativa divinità astrale; e tali “corpi” devono essere insieme disposti nel momento “astronomicamente” opportuno.

Usando dunque il calcolo, le giuste erbe, pietre e certe suffumigazioni, gli spiriti vitali saranno attratti ed avvinti dalle immagini stesse costruite dal sapiente filosofo-mago. Il potere dei talismani – afferma Picatrix – è simile a quello della pietra filosofale, dell’elisir, “che domina la materia e alterandola la trasmuta in altra materia più pura; e così le immagini fanno ciò che fanno per mezzo della violenza”. Come troviamo scritto nel Libro sacro di Ermete ad Asclepio: “se onorerai ciascun decano con la propria pietra, la propria pianta e la relativa immagine, tu possiederai un potente talismano. Poiché niente accade senza il volere dei decani, dato che in esso il Tutto si compie”.

Pellegrino Prisciani, l’ideatore dell'erudito programma degli affreschi ferraresi, aveva certo presente questo tipo di modelli culturali quando inviava i suoi consigli astrologici alle principesse di Ferrara e di Mantova. Egli le invitava a confidare nella “meravigliosa possanza de la conjunctione del Capo del Dracone cum la salutifera stella di Jove”, perché proprio in quel momento, tanto a lungo atteso, le loro preghiere avrebbero ottenuto l'effetto desiderato.

Nella lettera inviata da Mantova (in data 26 ottobre 1487) ad Eleonora d'Aragona, consorte di Ercole I d'Este, Prisciani affermava che alcuni erano soliti far incidere in argento, o in altro metallo, le figure celesti. Ma la preparazione di veri e propri talismani non sembrava, in quell’occasione, indispensabile: bastava infatti evocare mentalmente le figure che si formano in cielo e pregarle, a tempo debito e nel modo opportuno, per costringerle ad accordare il loro favore. Prisciani riteneva che le preghiere rivolte a Dio potevano essere esaudite solo attraverso la decisiva mediazione degli astri, che egli considerava vere e proprie cause seconde.

Ci troviamo di fronte, come si può ben comprendere, ad una curiosa mescolanza di elementi pagani e cristiani, che doveva però risultare particolarmente gradita alla raffinata corte di Ferrara, dove le più diverse tradizioni astrologiche avevano trovato sicuro rifugio ed accogliente dimora. Warburg ci ha mostrato come sia possibile attraversare queste “semioscure regioni” senza perdersi, illuminando anzi quelle zone d'ombra che ci impedirebbero di comprendere non pochi e rilevanti aspetti della storia della nostra cultura.

Riferimenti bibliografici
  • Bertozzi 1992
    M. Bertozzi, Geroglifici del Fato. La magia dei talismani di “Picatrix” e l’astrologia di Palazzo Schifanoia a Ferrara, in Il Talismano e la Rosa. Magia ed esoterismo, a cura di C. Gatto Trocchi, Bulzoni, Roma 1992, pp. 111-121.
  • Jaffé [1932] 20042
    E. Jaffé, Testi per l'analisi delle figure dei decani, trad. it. in M. Bertozzi, La tirannia degli astri. Gli affreschi astrologici di Palazzo Schifanoia, Sillabe, Livorno 1999 (rist. 2004), pp. 112-127 (le note di Elsbeth Jaffé non figuravano nella precedente traduzione italiana del saggio di Warburg).
  • Picatrix
    Picatrix Latinus, a cura di D. Pingree, The Warburg Institute, London 1986.
  • Warburg [1912] 1966
    A. Warburg, Italienische Kunst und internationale Astrologie im Palazzo Schifanoja zu Ferrara [1912]; trad. it. in A. Warburg, La rinascita del paganesimo antico, La Nuova Italia, Firenze 1966, pp. 247-272.
  • Warburg [1912] 20042
    A. Warburg, Italienische Kunst und internationale Astrologie im Palazzo Schifanoja zu Ferrara [1912]; nuova trad. it. in M. Bertozzi, La tirannia degli astri. Gli affreschi astrologici di Palazzo Schifanoia, Sillabe, Livorno 1999 (rist. 2004), pp. 84-111.
  • Nota bibliografica sulle edizioni e le interpretazioni di Picatrix.
    L'edizione critica di Picatrix Latinus è stata pubblicata, a cura di D. Pingree, dall'Istituto Warburg di Londra nel 1986. Il testo arabo fu all'inizio attribuito dagli studiosi al matematico ed astronomo Maslama al-Magriti. Oggi i filologi ritengono improbabile tale attribuzione, sia perché il testo rinvia ad un autore vissuto circa mezzo secolo dopo, sia perché il Ghajat rivelerebbe scarse conoscenze matematico-astronomiche, circostanza che sarebbe in contrasto con le altre opere attribuite allo stesso al-Magriti (cfr. V. Perrone Compagni, Picatrix Latinus. Concezioni filosofico-religiose e prassi magica, in “Medioevo”, I, 1975, pp. 237-337). L’autore deve dunque considerarsi a tutt’oggi sconosciuto. Anche il termine “Picatrix”, con cui nei manoscritti latini si trova indicato l’anonimo autore, non è stato ancora ben chiarito. Pingree, l'editore del testo latino, si dichiara poco convinto del tentativo di identificare Buquatis=Picatrix con qualche autore greco, come Ippocrate o Harpokration (su queste ultime ipotesi, cfr. H. & R. Kahane - A. Pietrangeli, Picatrix and the Talismans, in “Romance Philology”, XIX, 1966, pp. 574- 593). Si veda inoltre l'interpretazione di J. Thomann, The Name Picatrix. Transcription or translation?, in “Journal of the Warburg and Courtauld Institutes”, LIII, 1990, pp. 289-296 (secondo cui Picatrix potrebbe essere la traduzione latina di “Maslama”, il presunto autore arabo).

Per citare questo articolo / To cite this article: M. Bertozzi, Schifanoia: il salone dei dipinti perduti, “La Rivista di Engramma” n. 102, dicembre 2012, pp. 7-12 | PDF 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2012.102.0000