"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

112 | dicembre 2013

9788898260577

La medaglia di Sperandio de’ Savelli per Tito Vespasiano Strozzi e la tomba di Protesilao

con una traduzione inedita di passi da Eroticon. Elegie a Filliroe

Antonello Fabio Caterino

English abstract

Sperandio de' Savelli, Medaglia per Tito Vespasiano Strozzi, verso, 1473-1476, Oxford, Ashmolean Museum.

L’Ashmolean Museum di Oxford conserva una medaglia di Sperandio de’ Savelli (1425 ca. – 1504) (Pollard 1984-5, 778) per Tito Vespasiano Strozzi (1424-1505), celebre umanista ferrarese (per una bibliografia aggiornata sullo Strozzi si vedano Caterino 2012; Caterino 2013).

L’opera, risalente agli anni Settanta del Quattrocento circa (la datazione precisa della medaglia è sconosciuta, ma sulla base di un confronto con altri ritratti dello Strozzi è possibile supporre che sia del 1473-76 ca., cfr. Lloyd 1987, 99-113), presenta sul recto l’effige dell’umanista, e sul verso una figura maschile in evidente posa malinconica, seduta su di una roccia, sotto un albero, in quello che parrebbe un tipico locus amoenus boschivo, che lascia intravedere – in lontananza – un borgo abitato. L’immagine farebbe pensare a un generico topos elegiaco o bucolico, ma un dettaglio consente forse di riconoscere nella scena un episodio mitologico: l’albero è per metà privo di foglie. E più precisamente la parte rigogliosa è rivolta verso i boschi, la metà spoglia guarda verso la città abitata.

Tra i vari studi e descrizioni della medaglia, si preoccupano di interpretare la scena G.B. Ladner e, più recentemente M. Ruvoldt: il primo ricollega l'albero per metà spoglio ad una non precisata allusione alla leggenda della Croce (Ladner 1983, 753n), la seconda interpreta il protagonista come malinconico e dormiente, metafora dell'ispirazione poetica, ipotizzando che l'albero per metà rinverdito alludesse a un ritorno dello Strozzi alla composizione poetica della sua Borsias (Ruvoldt 2004, 8-14).

Nessuno, però, ha mai tentato di mettere in relazione la raffigurazione sulla medaglia con episodi interni all'opera strozziana. La mia ipotesi, che andrò qui ad illustrare, è che la scena alluda al mito del sepolcro di Protesilao, in relazione alla morte dell'amata del poeta, Filliroe, vittima della peste di Ferrara. La versione più nota del mito è tramandata da Filostrato, all'interno dell'Heroicon (Philostr. Her. 2.1, ed. Boissonade 1806):

Κεῖται μὲν οὐκ ἐν Τροίᾳ ὁ Πρωτεσίλεως ἀλλ'ἐν Χερρονήσῳ ταύτῃ. Κολονὸς δέ που ὁ ἐν ἀριστερᾷ. Πτελέας δέ ταὺτας αἱ νὺνφαι παρὰ τῷ κολωνῷ εφύτευσαν, καὶ τοιόνδε ἐμὶ τοῖς δένδρεσι τούτοις ἔγραψάν που αὖται νόμον· τοὺς πρὸς τὸ Ἵλιον τετραμμίνους τῶν ὄζων ἀνθεῖν μὲν πρωῒ, φυλλορροεῖν δὲ αὐτίκα καὶ προαπόλλυσθαι τῆς ὥρας· τοῦτο δὴ τὸ τοῦ Πρωτεσίλεω πάθος· τῷ δὲ ἑτέρῳ μέρει, ζῇν τὸ δένδρον καὶ εὖ πράττειν. Καὶ ὁπόσα δὲ τῶν δένδρον μὴ περὶ τὸ σῆμα ἕστηκεν, ὥσπερ καὶ ταυτὶ τὰ ἐν τῷ κήπῳ, πᾶσιν ἔρρωται τοῖς ὄζοις, καὶ θαρσεῖ τὸ ἴδιον.

Giace Protesilao, non già nella Troade, ma in questa Chersoneso. Grande è il suo sepolcro, quello che vedi alla sinistra. Codesti olmi intorno al sepolcro piantarono le Ninfe, prescrivendo a essi la legge che volgendosi verso Ilio i loro rami fioriscono prima del tempo, perdono tosto le foglie, e prima del tempo periscono: perché questo fu ciò che accadde a Protesilao. Volgendosi invece dall'altra parte, vive la pianta e sta bene. E quanti fra gli alberi non stanno vicino al sepolcro, come questi che sono nel giardino, quelli fioriscono in tutti i rami, e sono vigorosi com'è loro proprio.

Anche Plinio descrive la tomba di Protesilao circondata di alberi sempre rigogliosi, i cui rami, non appena fossero arrivati ad essere alti abbastanza da guardare verso Troia, si sarebbero seccati per poi di nuovo ricrescere (Plin. Nat. Hist. VI 238, ed. Desfontaines 1829):

Sunt hodie ex adverso Iliensium urbis iuxta Hellespontum in Protesilai sepulchro arbores, quae omnibus ex eo aevis, cum in tantum adcrevere ut Ilium aspiciant, inarescunt rursusque adolescunt.

Ci sono oggi, di fronte alla città di Troia, vicino all'Ellesponto, sul sepolcro di Protesilao alberi, i quali, da allora e per tutti i tempi, dopo che sono cresciuti abbastanza da intravedere Troia, si seccano e di nuovo ringiovaniscono.

A differenza di Filostrato, Plinio sembra supporre che sia l'intero albero, cresciuto al punto da guardare la città, ad appassire per poi rigenerarsi. E questa versione del mito è nota anche a Antifilo di Bisanzio, nel VII libro dell'Antologia Palatina (Anth. Pal., VII 141, ed. Paton 1919):

Θεσσαλὲ Πρωτεσίλαε, σὲ μὲν πολὺς ᾄσεται αἰών,
Tρoίᾳ ὀφειλoμένoυ πτώματος ἀρξάμενoν·
σᾶμα δὲ τοι πτελέῃσι συνηρεφὲς ἀμφικoμεῦση
Nύμφαι, ἀπεχθoμένης Ἰλίoυ ἀντιπέρας.
Δένδρα δὲ δυσμήνιτα, καὶ ἤν ποτε τεῖχoς ἴδωσι
Tρώϊον, αὐαλέην φυλλοχoεῦντι κόμην.
ὅσσoς ἐν ἡρώεσσι τότ᾽ ἦν χόλoς, oὗ μέρoς ἀκμὴν
ἐχθρὸν ἐν ἀψύχoις σώζεται ἀκρέμoσιν.

O tessalo Protesilao, lunghe ere canteranno di te,
di come fosti il primo caduto a Troia.
Prestano cura con olmi ombrosi alla tua tomba

le Ninfe, di fronte all'odiata Troia.
Gli alberi sono pieni di collera, e se vedono le mura
di Troia, perdono le loro foglie appassite.
Quanto è forte l'ira degli eroi se una parte
del loro odio vive ancora nei rami senza vita.

Alla versione di Filostrato sembra rifarsi invece un testo di Filippo di Tessalonica, sempre tra gli epigrammi dell'Antologia Palatina (Anth. Pal., VII 385, Filippo):

Ἣρως Πρωτεσίλαε, σὺ γάρ πρώτην ἐμυησας
Ἴλιον Ἡελλαδικοῦ θυμὸν ἰδεῖν δόρατος,
καὶ περὶ σοῖς τύμβοις ὅσα δένδρεα μακρὰ τέθελε,
πάντα τὸν εἰς Τροίην ἐγκεκύεκε χόλον·
Ἴλιον ἢν ἐσίδῃ γὰρ ἀπ'ἀκρεμόνων κορυφαίνων,
καρφοῦται, πετάλων κόσμον ἀναινόμενα.
θυμὸν ἐπὶ Τροίη πὸσον ἔζεσας, ἡνίκα τὴν σὴν
σώζει καὶ στελέχη μῆνιν ἐπ'ἀυτιπάλους.

Eroe Protesilao, tu insegnasti per primo a Troia
a vedere il furore delle lance greche;
le piante intorno alla tua tomba crescono grandi
tutte piene di odio per Troia.
Se dai loro rami più alti guardano Troia,
si seccano e rifiutano la bellezza del fogliame.
Quanto ribolliva la rabbia contro Troia, se i tronchi

serbano l'ira contro i tuoi nemici.

Esistono poi anche altre descrizioni differenti del sepolcro di Protesilao, che comunque vedono per protagonisti gli alberi. Curzio Rufo, ad esempio, racconta che (Curt. Ruf. II 3, 24, ed. Weise 1840)

Circa tumulum crebrae ulmi sunt, ex quarum ramis folia, matutino tempore enata, statim defluere videtur: ita acerbum fatum Protesilai exprimere dicuntur, qui prima Troiani belli victima fuit.

Intorno alla tomba ci sono grandi olmi, dai rami dei quali le foglie, nate di mattina, subito sembrano cadere. Si dice che esprimano l'amaro destino di Protesilao, che fu la prima vittima della guerra di Troia.

All’interno del poema più noto e importante di Tito Vespasiano Strozzi – l’Eroticon – è possibile isolare un ciclo elegiaco dedicato a Filliroe (Caterino 2011), pseudonimo di tale Costanza del Canale, morta di peste nel 1463 e – stando allo struggente epigramma funebre dello Strozzi – sepolta vicino alle sue terre (Strozzi, Erot. V 13, 177-8):

Ipse tuum nostro signavi carmine bustum,
Qua Padus illabens rura paterna videt;
At quicumque leget miseri monimenta doloris,
Verba sibyllino tradita ab ore putet.
Qua nihil in terris tulit haec pretiosius aetas,
Quae potuit credi, dum fuit, esse Dea,
Philiroe iacet hic, teneris extincta sub annis,
proxima Ferrariae dum tenet arva suae,
tempore quo misera pestis bacchatur in urbe,
nec fors vicinis parcit iniqua locis.
crudeles nimium divi, crudelia fata,
perdere quae tantum sustinere decus!

Io stesso ho segnato con un mio carme il tuo sepolcro
per dove il Po, scorrendo, guarda le tue terre.
Ma chiunque leggerà le memorie del misero dolore,
mediti sulle parole trasmesse dalla bocca sibillina.
Nulla di più prezioso di lei ha prodotto quest'epoca,
tanto che si poté credere che fosse una dea.
Qui giace Filliroe, morta in tenera età
mentre abitava luoghi vicini alla sua Ferrara,
nel tempo in cui la peste infuriava nella misera città,
nè la sorte crudele risparmiava i luoghi vicini.
O dei troppo crudeli, o crudeli sorti,
che tollerarono di mandare in rovina un tale splendore!

Il poeta segna con un carmen il suo sepolcro, in prossimità delle rive del Po, affinché il ricordo della fanciulla possa sopravvivere a quelle sventure. È emblematico l'incontro tra il motivo petrarchesco della morte dell'amata, lontana – in vita – dai capricci delle dominae della classicità, e alcuni topoi eminentemente elegiaci, uno per tutti i frequenti parallelismi mitologici disseminati nei testi (per un'ampia descrizione del ciclo e della sua fortuna si veda Caterino 2011; per un'analisi delle peculiarità di tali innovazioni strozziane si veda Pantani 2002). 

All’interno della prima elegia che lo Strozzi dedica a Filliroe viene descritta la villa della puella, nonché le sue quotidiane abitudini, secondo una rappresentazione vicina alla classica imagerie bucolica (Strozzi, Erot. IV 5, 137-138, 160-170):

Ecce, diu latitans aperitur villa remotis
arboribus, carae villa beata deae!
[…]
Felices agri, fortunatique coloni
quaeque simul colitis rura benigna Deae.
Namque ubi vere novo genialia tendit in arva
vobiscum dulces protrahit illa moras.
Vobiscum loquitur, vobiscum carmina cantat,
vobiscum faciles exhilaratque choros.
Et modo pomosis pariter spatiatur in hortis
et modo plena vago retia pisce trahit.
Nunc manibus doctis imitatur Palladis artes,
nunc molles elegos, et mea verba legit.

Ecco, nascosta a lungo dagli alberi lontani, si vede la villa,
villa fortunata della mia cara dea.
[…]
O fortunate terre, o beati contadini che
coltivate insieme i campi benigni della mia dea!
Quando infatti, tornata la primavera, cammina verso i campi fecondi,
con voi passa molto tempo delizioso.
Con voi parla, con voi recita versi,
con voi rende liete danze fluenti.
Ora cammina per i campi pieni di frutti,
ora trascina reti piene di pesci rari.
Ora imita, con le dotte mani, le arti della dea Pallade,
ora legge delicate elegie e le mie parole.

Questo primo testo, il cui tema è un viaggio che Tito deve affrontare per raggiungere la sua amata, lega indissolubilmente Filliroe a un mondo campestre e ameno. È quindi naturale che Strozzi associ la memoria dei momenti trascorsi con la fanciulla – ormai finiti –  ad ambientazioni silvestri. Anche per questo sceglie i boschi per piangere la morte dell'amata e per ricordarla, come se anche essi sentissero il dolore del distacco (Strozzi, Erot. V 13, 11-20):

Quae si forte times hominum vulgare per ora,
silva locum lacrimis praebet opaca tuis.
Silva locum praebet lacrimis, ubi semita nulla
cernitur, humani signa nec ulla pedis
Hic querulas tantum volucres habitare ferasque
credibile est, procul hinc arbiter omnis abest.
Sol, cuius radios umbrosa cacumina silvae,
huc vix oppisitis frondibus ire sinunt,
qui nunc Haemonij non immemor ignis et undae
forsitan hic mecum condoliturus ades.

E se forse hai paura di diffonderle tra le bocche degli uomini,
la foresta oscura offre un posto alle tue lacrime.
La foresta offre un posto alle lacrime, dove non
si vedono sentieri o orme di piedi umani.
Lamentati qui, dove è molto probabile che abitino solo
uccelli canori e belve; da qui è lontano qualsiasi spettatore.
O sole, i cui raggi a stento le cime ombrose
lasciano arrivare fin qui, perchè le foglie si frappongono,
che ora, non immemore del fuoco Tessalo e della tempesta
forse sei in procinto di soffrire con me.

L'immagine di Sperandio descriverebbe perfettamente la situazione: un Tito piangente, malinconico, seduto sotto un albero, tra i campi, non lontano da Ferrara, presso il sepolcro di Filliroe ("dove il Po bagnava i campi paterni"). L'albero metà spoglio rivolto verso la città a questo punto alluderebbe proprio al fatto storico della peste di Ferrara, che – tra le vittime – avrebbe ucciso anche Costanza del Canale; la metà ancora ricoperta di foglie, rivolta verso i campi (nonostante il triste officium di essere custodi di un così grande dolore), sarebbe una rappresentazione di un ricordo sempre vivo della giovane fanciulla. Sperandio, dunque, avrebbe eternizzato i concetti di morte, pianto e ricordo.

Tra i vari riferimenti mitologici riscontrabili nelle elegie a Filliroe, Tito Strozzi non fa riferimento alcuno a Protesilao, eppure il senhal di Costanza, Filliroe – chiamata anche Filloroe in alcuni manoscritti e stampe – sembra tradire una forte etimologia greca: φυλλορροεῖν ossia “perdere le foglie”, a questo punto non solo nell'accezione generale di morire giovane. Se dunque l'origine di questo nome parlante, da sola, non sarebbe bastata a ricollegare la fanciulla strozziana e la sua triste fine al mitologico sepolcro di Protesilao (nome parlante e comunque richiamante la profezia mortale), tenendo in considerazione l'opera di Sperandio il cerchio inizierebbe a chiudersi.

Sperandio, dunque, nella sua medaglia, raffigurando l'episodio più famoso dell'Eroticon strozziano, espliciterebbe un'allusione già presente nel testo, mettendo altresì bene in risalto – con l'albero per metà secco – la vicenda storica della peste ferrarese. Tema che sarà ripreso dallo Strozzi, con parole molto simili all'epitaffio di Filliroe (nonché dalla forte eco virgiliana) all'interno della sua Borsias, in cui “pestis atrox passim bacchatur” (Strozzi, Borsias IX, 404).

Il Tito piangente del verso della medaglia sarebbe dunque un contraltare di Laodamia disperata per la morte del marito, prima di supplicare Ade di poterlo riabbracciare per qualche ora. Anche all'interno delle elegie si fa riferimento ad una improbabile speranza di ritorno dell'amata, tirando però in ballo il mito di Orfeo ed Euridice (Strozzi, Erot. V 13, 93-102):

Si possent aliqua caelestia numina flecti,
nec vetitum certis legibus esset iter,
quod prius obtinuit stygijs a manibus Orpheus,
sollicito superi nunc mihi forte darent.
Si proprios iterum levis umbra rediret in artus
carpere concessas me duce iussa vias,
forsitan admonitus quo rursum perdita pacto
flentem moesta virum liquerit Eurydice,
cautinus ingrederer nocitura pericula vitans,
et quaecumque solent gaudia magna sequi.

Se in qualche modo i numi celesti potessero essere persuasi,
e il percorso non fosse impedito da leggi indiscutibili,
ciò che prima Orfeo ottenne dalle mani infernali
gli dei superni potrebbero offrire in sorte a me afflitto.
Se l'anima leggera nuovamente tornasse nel suo corpo
invitata, con me come guida, a prendere le strade legittime
forse, saputo in che modo Euridice, persa nuovamente,
triste avesse lasciato in lacrime il suo uomo,
cautamente procederei, evitando i pericoli in grado di nuocere,
e tutti quelli che son soliti seguire grandi gioie.

Invertendo il mito di Protesilao, è Tito che piange la morte dell'amata. Ne' sarebbe l'unica inversione mitologica inerente allo Strozzi: nell'elegia finale del ciclo (Strozzi, Erot., VI 13) dedicata al pappagallo di Filliroe, è proprio quest'ultimo che pare sentire fortemente la mancanza della sua padrona. E questa è un'inversione del topos (di sapore alessandrino) dell'epicedio all'animaletto domestico: si pensi alla tristezza del vuoto lasciato dalla scomparsa del pappagallo in Stazio (Sil. 2,1), al pappagallo ovidiano, che sembrava dire addio a Corinna, poco prima di morire (Amor. 2,6), ma anche – se vogliamo – al celebre passerotto defunto di Lesbia, compianto da Catullo.

In conclusione, alla luce dei molti e concordanti indizi, la medaglia di Sperandio altro non è che una raffigurazione della morte di Filliroe, considerata – a questo punto già forse dallo stesso Strozzi, che certamente avrà avuto voce in capitolo nella realizzazione dell'opera – l'episodio più rappresentativo dell'intero Eroticon. E ciò è ulteriore prova dei vari tributi poetici che altri umanisti offriranno all'amore tra Tito e Filliroe.

Strozii Poetae, particolare del frontespizio, Parigi, 1530

Tito Vespasiano Strozzi, Eroticon. Elegie a Filliroe

I. Strozzi, Erot. IV 5, vv. 1-178 

Testo basato sul ms. Ottob. Lat. 1661, numerazione della princeps (Strozii poetae pater et filius, Venezia, in aedibus Aldi et Andreae Asulani soceri, 1513).

Ad Philiroen properans pedes suos ad iter hortatu
et ne quid sibi in via impedimenti occurrat in primis optat 

Ite citi volucrisque, pedes, praevertite ventos,
et loca delicijs querite nota meis:
nota meis loca delicijs, ubi candida saepe
mecum dignata est ludere Philiroe.
Philiroe, nullis faciem perfusa venenis                                  
cui proprius roseo fulget in ore color;
cuius inauratos cupiat sibi Cynthia crines,
invideat laetis Cypria luminibus;
formosasque manus gratisque laboribus aptas,
iuret persimiles ipsa Minerva suis.                                     
Tum reliquis agiles respondent partibus artus,
ut nihil ex illa nemo probare queat.
Talis erat virgo ceneia, talis et altum
per mare dyctaeo vecta puella bove;
talis erat pro qua pugnans daneius heros                            
impia perdomuit vindice monstra manu.
Talis et illa fuit, quae me sibi iunxerat olim,
nondum iuratam fallere docta fidem.
Cuius ego inmite imperium tot perditus annos,
multaque non sano pectore digna tuli.                                
Quam levitate sua totiens offensus et ipse
deserui, quoniam noluit esse mea.
Sed tua, Philiroe, quamvis collocata deabus,
ambiguum valeat reddere forma Parim;
candida simplicitas tumidoque carentia fastu                        
pectora, sunt ipso grata decore magis.
Adde fidem, quam nec coniunx ithaceia vincat,                  
nec mithrydateas quae comitata vias,
nec quae tartaream properavit adire paludem,
defunctum Evadne sponte secuta virum.                              
Te licet in primis cupiam, formosa, videre,               
vixque brevis patiar tempus inane morae,                         
Triptolemi tamen haud optem coscendere currus,
ire nec in celeri Bellerophontis equo,
aut levibus Persei volitare per aera pennis,                             
aut furibunda tuis currere cholchi rotis;
nec Zoroasteas artes magicive requiram                               
carminis auxilium daedaliamve fugam,
nec, mihi si liceat, pedibus talaria curem
picta galereti sumere Mercurij.                                              
Unus enim nobis poterit satis esse Cupido,
quo duce susceptum, perficiamus iter:                              
qui mihi semper adest levibusque quod excitat alis
nostrum furtivo flamine corpus aget.
Vix iam mihi videor pedibus contingere terram                      
vincit et humanos strenua planta gradus;
sublimisque pari quamvis discrimine Phoebus                     
distet ab Eois occiduisque locis,
et canis exurat sitientes fervidus agros
mutaque sub densa fronde quiescat avis,                             
non tamen, accelerans, immenso laedor ab aestu,
nec mea longinquum membra fatigat iter.                         
Quoque magis propero, tanto magis ipse labori
sufficio et vires impiger auget amor.
Heu quanto afficeret me fors inimica dolore,                          
si qua meum subito causa teneret iter,
et mihi iam senior properanti occurrat amicus,                     
quem fugere oblatum me pudor ipse vetet!
Singula qui, vario cupidus sermone, requirat,
sciteturque viam propositumque meum,                             
multaque contexens, longis ambagibus 
atque importunus multa referre velit:                                
ut Ferdinandus magni post fata parentis
Ausonias terras Parthenopenque regat;
nuper ut urbano Florentia concita motu,                              
tristia det miseris civibus exilia;
ut trepidus Borges romanam liquerit urbem                         
moestaque pontificis funere turba sui;
ut Pius, insignis magna virtute fideque,
Aeterni in terris iura Parentis agat,                                     
Sforciadam, Venetumque probet quod foedera pacis
securus studio servet uterque pari.                                    
Nunc Malatestigenae miretur principis artes
bellorum egregias, eximiumque decus;
nunc meritis comitem Federicum laudibus ornet                
praestantemque manu consilioque ducem;
nec minus Estenses heroas et inclyta facta
a primis orsus dicat originibus,
ingressusque tui titulos genitoris et acta
conferat ad laudes se Leonelle tuas.                                     
Unicus hinc phoenix latio dux Borsius illi
argumenta novae praebeat historiae                                  
et referat quantum nostro sit in Hercule laudis
et Sismundaeo qualis in ore decor.
tum patris et patrui vestigia clara sequentem                         
Estensem bis cupiat iungere Nicoleon.
Addat et immitem Turcum nostraque ferocem                    
segnitie et captis urbibus excidia.
Iam Peloponnessi regnare per oppida nec non
gentibus adriaci nunc inhiare maris;                                    
quod, suadente Pio, Federicus Caesar in hostem
ardeat et vires concitet ipse suas,                                      
quod paret ingentem commota Britannia classem
et repetat forti sequana regna manu.
Parte alia veteres hostes insurgere Gallos                                
tutantes magnis viribus imperium,
nec regem oblitum Italiae carive nepotis                              
maximaque in Lygures mittere subsidia.
Ergo ne similis turbet nova gaudia casus,
neu videar dominae lentus inersque meae.                          
Nunc precor aerio nebulae circunder amictu
qua Venus Aenean induit alma suum;                              
sic demum iussas potero contingere sedes
tutus, et optatam cernere Philiroen.
Dum loquor, et moveo celeri vestigia passu                           
extremae apparet meta propinqua viae
Iam procul aspicio servantem compita quercum,                 
et veteres fagos, populeumque nemus.
Ecce levi flatu teneris de frondibus exit,
et cadit in faciem lenior aura meam.                                     
Huc ego crediderim Zephyrum migrasse tepentem
captum sideribus, cara puella, tuis,                                   
qui mihi non stulte sibi consuluisse videtur,
si pro te nigras deserit Hesperidas
am quid in extremis vidit pretiosus oris?                                
Quid nunc in nostro pulchrius orbe videt?
Laeva Padi ripas, vetus at mihi dextra sacellum                  
monstrat, et amnosae culmina parva casae
quam lentis ederae complexibus undique cingunt,
delet ubi raros alta senecta deos.                                           
Nil ibi vel Zeuxis, vel magnus pinxit Apelles
nil ibi Fidiacae composuere manus.                                  
Lignea crux vero media quae pendet in aede,
nobilis egregia Mentoris arte caret
Pene suis convulsa trahens de sedibus olim                            
fundamenta rapax, substulit Eridanius,
proximaque aggeribus ruptis per culta vagatus                    
mucida sacrilegis tecta replevit aquis.
Muscosus templi paries, humorique situsque,
praeteriti reddunt tristia signa mali.                                       
Pauper in exiguo censu cultuque sacerdos
ipse colit sterilis iugera bina soli                                        
Huc mea simplicibus Nynphis comitata Dione
cincta caput vario flore venire solet.
Cuius in adventu templis augustior aedes                                
omnibus, haec cunctas unica vincit opes.
Ecce diu latitans aperitur villa remotis                                   
arboribus, carae villa beata Deae.
Protinus hac visa celeri praecordia motu,
venturae exultant praescia letitiae.                                         
Quid mihi fiet amor, blandos cum cernere vultus
fas erit et niveam cum dabit illa manum?                         
Tunc ego non dubitem Chroesi contemnere gazas,
et tot Pellaeae clara trophaca domus.
Si quis enim crispos ad frontem ludere crines                         
viderit et quali se ferat alta gradu ,
noverit argutis eadem quid possit ocellis                             
ut mortale nihil dulcia verba sonent,
sentiet Aetnaeis certantes ignibus ignes
et poterit costans aequa et iniqua pati.                                  
Quod si forte alicui dignabitur oscula ferre,
Altera vel proprio sanguine laetus emet.                           
Vulnus et auxilium quod Pelias hasta tulisset
mirabar, fati nescius ipse mei.
Desino nunc, facileque inducor ut omnia credam,                   
si necis et vitae ius habet una meae.
Illa quidem media Phalarim placaret in ira                           
Tardaretque tuas saeve Perille manus;
terribilemque suis oculis mitescere Martem
cogat, et iratum ponere tela Iovem.                                         
Felices agri,fortunatique coloni
quaeque simul colitis rura benigna Deae.                          
Namque ubi vere novo genialia tendit in arva
vobiscum dulces protrahit illa moras.
Vobiscum loquitur, vobiscum carmina cantat,                          
vobiscum faciles exhilaratque choros.
Et modo pomosis pariter spatiatur in ortis                           
et modo plena vago retia pisce trahit.
Nunc manibus doctis imitatur Palladis artes,
nunc molles elegos, et mea verba legit.                                  
Fallor? An haec Ciris dominae carissima nutrix
substitit, ac verso respicit usque gradu?                            
En rapidis iterum fertur cita passibus! Ipsa est,
notaque, ut accedam, dat mihi signa manu.
Progrediar, quaeramque meis fiducia votis                                
quae sit, quidve novi sedula potret anus:
quod tua si praesens aderit solertia amanti                          
talibus officiis aurea Ciris eris!

A Filliroe, mentre [Tito] affretta i suoi  piedi in viaggio
sperando che non ci sia alcun impedimento per strada.

Andate veloci e alati, o piedi, superate i venti,
e cercate luoghi noti al mio amore:
luoghi noti al mio amore dove spesso la candida
Filliroe si degnò di scherzare con me.
Filliroe, il cui volto è privo d'ogni malignità
e sul cui viso roseo brilla un particolare colorito;
i cui capelli dorati vorrebbe per sè la  stessa Cinzia,
i  cui occhi lieti le invidia la dea Cipria;
e quelle sue  mani, splendide e  adatte ad ogni arte
la stessa Minerva giurerebbe identiche alle sue.
E  gli arti agili sono proporzionati alle altre parti,
tanto che nessuno potrebbe non apprezzare qualcosa in lei.
Tale era la vergine ceneia, tale la fanciulla
trascinata per l'alto mare greco dal toro;
tale colei per la quale il greco eroe, combattendo
domò con mano vendicativa gli empi mostri.
Tale fu anche colei che una volta mi aveva legato a sè,
non ancora capace di infrangere la fedeltà promessa:
il suo amaro impero per tanti anni, disperato,
e tante cose indegne d'un animo sano sopportai.
Tante volte, offeso dalla sua incostanza,
anch'io la lasciai, perchè non volle essere mia.
Ma la tua bellezza, Filliroe, anche se posta tra le divinità,
sarebbe capace di rendere incerto lo stesso Paride;
la tua candida semplicità, il cuore privo di superbia,
sono più graditi della tua stessa bellezza.
Aggiungi la fedeltà, che neanche Penelope vincerebbe,
nè colei che accompagnò le spedizioni di Mitridate
né Evadne, che si affrettò a raggiungere gli inferi  
seguendo volontariamente il suo defunto uomo.
Anche se vorrei per prima cosa guardare te, bellissima,
e a stento sopporterei un tempo privo di breve indugio,
tuttavia non vorrei salire sul carro di Trittolemo,
né montare sul  veloce cavallo di Bellerofonte
oppure volare per aria con le lievi piume di Perseo
o correre con il tuo carro, furiosa Medea;
nè cercherei le arti di Zoroastro, o l'aiuto
di formule magiche, o una fuga degna di Dedalo
nè, se fosse possibile, cercherei di mettermi ai piedi
i talari dipinti di Mercurio dal cappello alato.
Il solo Cupido, infatti, per noi è sufficiente,
e, preso lui come guida, compiremo il cammino:
egli mi è sempre vicino e sconvolge il nostro corpo
con un vento nascosto che smuove con le ali leggere.
Già mi sembra  di toccare appena coi piedi terra,
ed il forte piede vince i passi umani;  
e sebbene il sole splendente, con pari distanza
disti dagli Orientali e dalle terre d'occidente,
e il cane bruci di sete per gli aridi campi
e l'uccellino silenzioso riposi sotto le fitte foglie,
tuttavia, pur accelerando, non sono sofferente per il gran caldo,  
nè il lungo viaggio affatica i miei arti.
Tanto più m'affretto, quanto più resisto
a tanta fatica: l'amore, mai pigro, accresce le forze.
Ahi quanto mi causerebbe dolore una sorte avversa,
se, d'improvviso, mi impedisse il viaggio per un qualsiasi motivo,
e se, mentre m'affretto, un vecchio amico mi incontrasse
che, presentatomisi, lo stesso pudore mi vieterebbe di schivare!
E se questi, desideroso di chiacchiere varie, le esaminasse una ad una,
e si informasse sulla mia strada  e sulle mie intenzioni,
e, molte cose intrecciando, divagasse tra lunghi giri di parole,
e, inopportuno, volesse affrontare molti argomenti:
come Ferdinando, dopo la morte del grande genitore,  
governi le terre ausonie e quelle partenopee;
come di recente Firenze, mossa da rivolte urbane,
dia ad alcuni poveri cittadini tristi esilii;  
come il trepido Borgia abbia lasciato la città di Roma
e la folla mesta per la morte del  suo papa;
come Pio, insigne per grande virtù e fede,
tenga le veci in terra del Padre Eterno,
e dimostri a Sforza e Veneti che entrambi, sicuri,
dovrebbero conservare con pari zelo i patti di  pace.
Ora ammirerebbe la grande abilità militare del principe
Malatesta e la sua grande magnificenza;
ora adornerebbe di meritate lodi il conte Federico,
superiore in forza, maestro di senno;
né meno canterebbe gli eroi estensi e le mirabili gesta
partendo dalle prime origini,
e, procedendo, aggiungerebbe alle tue lodi, Leonello,
i meriti e le imprese  di tuo padre.
Da solo, quindi, il fenicio duca Borso
gli offrirebbe argomenti di nuove storie;
ed egli ricorderebbe quante lodi spettino al nostro Ercole,
e quale bellezza vi sia nel volto di Sismondo.
Alle gesta illustri, quindi, del padre e dello zio, doppiamente
vorrebbe aggiungere quelle del nuovo Nicolò d'Este.
Aggiungerebbe anche il feroce turco crudele e gli eccidi
dopo la presa delle città per pigrizia nostra;
come esso regna per le città del Peloponneso
e non sta mai fermo per le genti del mare Adriatico;
come, d'accordo con Pio, l'imperatore Federico
si scagli contro i nemici con tutta la sua forza;
come la Britannia, insorta, prepari una gran flotta
e riconquisti con forte mano i regni Sequani,
e d'altra parte insorga contro i vecchi nemici Galli,
custodendo il regno con grandi forze;
e come il re, non dimenticandosi dell'Italia o del caro nipote,
mandi  molti e grandi aiuti soprattutto ai Liguri.
Perchè, dunque, una simile circostanza non turbi queste nuove gioie
e io non sembri lento e pigro verso la mia signora,
ora vorrei essere avvolto del mantello aereo
con cui Venere avvolse il suo Enea;
così, sicuro, potrei finalmente raggiungere le sedi stabilite
e vedere la mia cara Filliroe.
Mentre parlo mi affretto con rapido passo
e la meta sembra vicina alle lontane vie.
E già da lontano vedo una quercia che custodisce crocicchi,
vecchi faggi e un bosco di pioppi.
Ed ecco che, con un lieve soffio, esce dalle foglie
un dolce venticello ed arriva sul mio volto.
Da questa parte  avrei creduto che il tiepido Zefiro fosse migrato,
catturato dal tuo splendore, o cara fanciulla,
il quale non scioccamente mi sembra voglia provvedere a sé
se per te abbandona le nere Esperidi.
Cosa, infatti, vede di più prezioso nei posti più lontani?
Cosa mai nel mondo intero vede di più bello?
Il lato sinistro mi mostra le rive del Po, il destro
la vecchia chiesa e le piccole cime dell'antica casa,
che le edere  cingono ovunque con lievi abbracci,
dove, alte ed antiche, distruggono le rare immagini sacre.
Niente lì ha dipinto Zeuxi, niente il grande Apelle,
nulla hanno composto neanche le mani di Fidia.
La croce di legno che pende al centro della chiesa
manca della grande arte del nobile Mentore.
Una volta il Po, travolgente, tirando fuori dalla loro posizione
le fondamenta quasi distrutte, le spazzò via,
e vagando, rotti gli argini, per i campi coltivati
sacrilego riempì tetti  ammuffiti d'acqua.
Le pareti ammuffite della chiesa, l'acqua e le muffe
ricordano i tristi segni del male passato.
Un povero sacerdote, di scarne ricchezze e tenore di vita,
coltiva un paio di iugeri di sterile terra.
Proprio qui la mia Venere, accompagnata dalle pure Ninfe,
suole venire, con la testa cinta di vari fiori.
Al suo arrivo, la chiesa, più maestosa d'ogni altro
tempio, da sola supera ogni altra opera.
Ecco, nascosta a lungo dagli alberi lontani, si vede la villa,
villa fortunata della mia cara dea.
E dopo averla vista, il mio cuore velocemente  
iniza ad esultare, presagendo la gioia futura.
Che amore mi prenderà, quando mi sarà possibile vedere
il suo delicato volto, quando mi darà la sua bianca mano?
Allora io non dubiterei di disprezzare le ricchezze di Creso
ed i famosi trofei delle case macedoni.
Se qualcuno vedesse i suoi capelli crespi muoversi
sulla fronte e con quale decoro si comporta,
conoscesse cosa può fare con gli occhi espressivi,
e come nulla di mortale esprimano le sue dolci parole,
sentirebbe i fuochi combattere contro i fuochi dell'Etna
e potrebbe sopportare con costanza fortune e sfortune.
E se si degnerà di offrire baci a qualcuno,
lieto questi ne pagherebbe altri perfino col proprio sangue.
Io mi meravigliavo della capacità di ferire e di curare che
che l'asta di Achille offriva, proprio io, ignaro della mia sorte.
Ora la smetto. Facilmente sono indotto a credere tutto,
se una sola ha il diritto sulla mia vita o morte.
Ella sarebbe capace di placare Falaride in piena collera;
e fermerebbe le tue mani, crudele Perillo.
Con  i suoi occhi costringerebbe il terribile Marte a calmarsi,
e Giove a deporre le sue frecce.
O fortunate terre, o beati contadini che
coltivate insieme i campi benigni della mia dea!
Quando infatti, tornata la primavera, cammina verso i campi fecondi,
con voi passa molto tempo delizioso.
Con voi parla, con voi recita versi,
con voi rende liete danze fluenti.
Ora cammina per i campi pieni di frutti,
ora trascina reti piene di pesci rari.
Ora imita, con le dotte mani, le arti della dea Pallade,
ora legge delicate elegie e le mie parole.
Mi sbaglio?  Forse Ciride la carissima nutrice della mia signora
le ha trattenute, e, cambiata direzione, sempre ci osserva?
Ecco, a sua volta si avvicina veloce a rapidi passi! È lei e subito
riconosciuta, non appena arrivo, mi dà un cenno con la mano.
Andrò avanti e chiederò quale fiducia ci sia nelle mie preghiere
o che novità  porti la diligente vecchia:
poiché, se la tua ferma sagacia assisterà l'amante,
per tali servizi sarai d'oro, o Ciride!

II. Strozzi, Erot. V 7, vv. 1-20  

Testo  basato sul ms. Ottob. Lat. 1661,  numerazione della princeps (Strozii poetae pater et filius, Venezia, in aedibus Aldi et Andreae Asulani soceri, 1513).

Ad Carolum Ariminensem,
quod Philiroen vehementer amet

Si vigiles curae, subitus si pallor in ore,
si crebros gemitus edere, pauca loqui,
si nunc iucundo, nunc tristi incedere vultu,
si sperare aliquid, plura timere simul,
si properare modo, modo lento incedere passu,
si vario mentem flectere proposito,
si fora, si coetus hominum vitare frequentes
inditium praebent, Carole, amori, amo.
Si quid amem quaeres ubi nos male fida reliquit
Anthia successit candida Philiroe.
Philiroe nullis faciem perfusa venenis
cui proprius roseo fulget in ore color.
Illa mihi furtim me surripit, hanc sequor unam:
hanc sine non videor vivere posse diem.
Huius ego insignem non tantum, Carole, formam,
verum etiam mores ingeniumque probo.
Illa meis leges oculis imponere digna est,
illa meos sensus abstulit, illa tenet.
Illa tenebit, erunt donec vaga sidera coelo,
donec erit tellus, aequora donec erunt. 

A Carlo da Rimini
poiché [Tito] ama veramente Filliroe

Se esser lesto a preoccuparsi, subito impallidire,
emettere tetri gemiti e parlar poco,
se procedere ora con volto triste, ora allegro,
se sperare qualcosa e nel mentre temerne molte,
se affrettarsi e subito rallentare il passo,
se cambiare con diverse intenzioni pensiero,
se evitare piazze e riunioni affollate di gente
sono segnali d'amore, o Carlo, allora io amo.
Se mi chiedi perchè io ami, laddove la malfida Anzia
m'abbandonò, le subentrò la candida Filliroe.
Filliroe, dall'aspetto privo di ogni malignità,
sul cui volto risplende un vivo colore rosa.
Lei m'ha rapito in silenzio, solo lei seguo:
senza lei non mi sembra di poter trascorrere i giorni.
Ammiro, Carlo, non solo il suo delizioso aspetto,
ma anche il comportamento e l'ingegno.
Ella sola è degna di dar legge ai miei occhi,
ella ha  rapito i miei sensi, ella li possiede.
Ella li terrà con sé, finchè le stelle vagheranno in cielo,
finchè vi sarà la terra, finchè esisterà il mare.

II. Strozzi, Erot. V 13, vv. 1-188

Testo basato sul ms. Ottob. Lat. 1661, numerazione della princeps (Strozii poetae pater et filius, Venezia, in aedibus Aldi et Andreae Asulani soceri, 1513).

Lamentatio de obitu Philiroes et eiusdem epitaphium

Quo miser usque tuos celabis Tite dolores?
Aegraque mens tacitum quo premet usque malum?
Dissimulare prius licuit, dum sol tibi fulsit
candidus, et placidae spes bona sortis erat.
Nunc fera consilium superat violentia fati,
nunc ars, indomito victa dolore, perit.
Maxima saepe latent sub tristi gaudia vultu,
at sua cor laesum non bene damna tegit.
Infandos luctus et vulnera pectoris ede,
atque ea, quae nulli nota fuere prius!
Quae si forte times hominum vulgare per ora,
silva locum lacrimis praebet opaca tuis.
Silva locum praebet lacrimis, ubi semita nulla
cernitur, humani signa nec ulla pedis
Hic querulas tantum volucres habitare ferasque
credibile est, procul hinc arbiter omnis abest.
Sol, cuius radios umbrosa cacumina silvae,
huc vix oppisitis frondibus ire sinunt,
qui nunc Haemonij non immemor ignis et undae
forsitan hic mecum condoliturus ades.
Testis eris nihil esse mihi, cur vivere curem
aetheria postquam lux mea luce caret.
Nam quid ego hic aliud, nisi durum, ac flebile post haec,
sublata sperem te mihi Philiroe?
Tu meus ardor eras, in te mea maxima cura
haeserat, et voti summa caputque mei.
At nunc, a patria saevi contagia morbi
dum fugis, indigno funere rapta iaces,
et mihi iacturae tantum tantumque doloris,
conditio dirae mortis acerba tulit
ut semper misero iustissima causa querelae
crescat, et aeternis finiar in lacrymis.
Heu rabidae leges, et dura potentia fati,
humanum sinitis quae nihil esse diu.
An fuit omnino vestras infringere vires
si paucos etiam viveret illa dies?
Nunc primum viridis campos ingressa iuventae,
non extremus honor temporis huius erat.
Dedecet immites, et acerbos carpere fructus,
illum, quem culti spes tenet ulla soli.
Vos quoque tam subito decus hoc, talemque puellam
nondum matura morte tulisse nefas.
Serius aut citius vestri mortalia fiunt
iuris, et haec illi fors adeunda fuit.
Heu funesta dies, nigro damnanda lapillo,
tristibus infaustum nomen adepta malis;
qua puri quondam radios imitantia Phoebi,
deseruit solitus lumina moesta nitor;
qua bene compositos artus, faciemque serenam,
flaventesque comas invida texit humus;
qua vigor ingenui deficet corporis, et qua
tabuit egregijs artibus apta manus;
qua vox illa prius morentibus aemula cygnis,
coepit in aeternam muta silere diem,
quaque pios actus mors interrupit et altae
infregit mentis nobile propositum.
Heu nimium miseri, infortunatique parentes,
conficiet verus quos sine fine dolor.
Vos luctu assiduo sensum amisisse malorum
crediderim in vita quos mora longa tenet.
An potuit vestros Niobe superare labores?
Cognitaque adverisis casibus Anthiope?
Plurima namque licet sint utraque tristia passae,
haud minor haec illa clade ruina fuit.
Seu mores, sive ingenium seu gratia formae
quaeritur, aut priscae nobilitatis honos.
Haesit in hac una simul harum gloria rerum,
huius in occasu tot periere bona.
Sic vestra in primis aegre iactura ferenda est,
nec dabit his aetas fletibus ulla modum .
At sacer ex illo tunc, cum discederet ore
spiritus, et vestras quaereret illa manus,
inque oculis vestris cum lumina fixa teneret,
quid vobis animi consiliive fuit?
Si quemquam potuit praesens extinguere moeror
prendere vos etiam debuit illa dies.
Non habitura parem ter quinque peregerat annos
Philiroe vestros inter adulta sinus.
Philiroen vobis tantum ostendisse videntur
et subito vobis eripuisse Dei.
Non generum vobis, non caros illa nepotes
praebuit, aut dotis dona parata tulit.
Divitiisque brevi gavisa et honore parentum,
mox erit exiguus filia vestra cinis.
Sed quid ego infelix vestra infortunia tantum
ipse velut patiar vulnera nulla, queror?
Igne cupidineo quicumque fideliter arsit,
unica cui praestans cura puella fuit,
cui placitum subitis fortuna abrupit amorem
casibus, aerumnas cogitet ille meas,
ille suo exemplo poterit mea tristia fata
discere,et arcani pectoris acre malum.
Si possent aliqua caelestia numina flecti,
nec vetitum certis legibus esset iter,
quod prius obtinuit stygijs a manibus Orpheus,
sollicito superi nunc mihi forte darent.
Si proprios iterum levis umbra rediret in artus
carpere concessas me duce iussa vias,
forsitan admonitus quo rursum perdita pacto
flentem moesta virum liquerit Eurydice,
cautinus ingrederer nocitura pericula vitans,
et quaecumque solent gaudia magna sequi.
Ah miser, atque iterum miser et sine pectore Tite,
quo dolor impellit? Quae tibi verba cadunt?
Tunc deum stabili firmatas ordine leges,
credideris certam deficere ante diem?
Cum semel hinc alium raptae mittuntur in orbem
terrenasque animae deseruere domos,
praemia pro meritis referunt, sedesque paratas
(sic statuit superum provida cura) tenent.
Corpora nec surgunt leto defuncta, priusquam
ultima iudicij venerit hora sui.
Si tamen aeterni veneranda potentia regis,
qui caelo, et terris imperat, atque mari
omnipotens qui solus agit, mirabile quicquid
cernimus, et quicquid lumina nostra latet,
si tibi Philiroen nunc illa potentia reddat,
ne noceas huic, quam diligis ipse, cave.
Nam nisi vera loqui piget: his egressa tenebris,
aetherijis gaudet sedibus illa frui.
Et pudor et nulli pia mens obnoxia culpae,
rectum iter ad superos unde recessit, habet.
Philiroe felix terris colit astra relictis,
magnorum in numero iam nova diva deum.
Pro quibus inducor, ne non ego gratuler illi,
ne videar tantis invidus esse bonis.
At quoniam solitos misero mihi cernere vultus
non datur et placidae gratia frontis abest,
dum moror in terris dum tu colis aethera virgo,
accipiet lacrimas dulcis imago meas.
Haec tibi Philiroe similis vera omnia de te,
si modo desit spiritus, ecce refert.
Haec mihi grata comes seu tendere solis ad ortum,
seu iuvat Hesperium visere littus, erit.
Haec mihi si Geticas rupes calidamve Sienen
transferar, in caro semper habenda sinu,
Huic ego curarum seriem narrabo mearum,
et quoties cupiam te mea vita sequi.
Namque ubi in humanis nulla est costantia rebus,
quid spe fallaci pascere vota iuvat?
Illi vita fuit longissima, quisquis oneste
occidit, et spretis quae videt, alta petit.
Interea dum fila sinunt mea currere Parcae,
nec summi iniussu Regis abire licet,
candida quod relevent afflictum insomnia laetor,
effigiem referunt quae mihi saepe tuam.
Nam quoties nitidi capitis pulcherrimus ordo,
per somnos oculis visus adesse meis?
Attonito quoties gemini se luminis ardor
obtulit? Et miro nota decore manus?
Mutua quid referam, quae tu mihi saepe videris
accipere et solitis reddere verba sonis?
O ego quam tali deceptus imagine felix,
o placidae noctes, o mihi grate sopor.
Atque utinam non tam subito me somnus, et error
linqueret, ac mecum staret uterque diu,
scilicet ut tecum maneam pulcherrima, donec
longa meae veniant taedia laetitie.
Dum mortalis eras neque adhuc te in parte deorum
regia siderei viderat alta poli,
sola tamen mihi numen eras, et criminis expers
candidus impura labe carebat amor.
Te supplex igitur meritis pro talibus oro,
per fratrem, per qui te genuere precor,
ut tua praesentes superos mihi gratia reddat
utque mei numquam non memor esse velis.
At me nulla tui capient oblivia, seu me
lux alat, aeterna sive ego nocte premar.
Et quae praecessit Maias octava Calendas
postquam non ultra tu mihi visa dies,
illa mihi solennis erit lacrimosaque semper,
indicium tanti principiumque mali.
Hic tibi dum liquit nobiscum ducere vitam,
me tenuit laudis maxima cura tuae ;
nunc quoque, neu praesens neu postera nesciat aetas
qualis sub gelido marmore Nympha cubet,
ipse tuum nostro signavi carmine bustum
qua Padus illabens, rura paterna videt.
At quicumque leget miseri monumenta doloris,
verba sibyllino tradita ab ore putet.
Qua nihil in terris tulit haec pretiosius aetas,
quae potuit credidum fuit esse dea.
Philiroe iacet hic teneris extincta sub annis,
proxima Ferrariae dum tenet arva suae.
Tempore quo misera pestis bacchatur in urbe,
nec fors vicinis parcit iniqua locis.
Crudeles nimium divi, crudelia fata,
perdere quae tantum sustinuere decus!

Lamento sulla morte di Filliroe, il suo epitafio

Fino a quando, sventurato Tito, terrai nascosti i tuoi dolori?
E fin quando la tua mente afflitta nasconderà il silenzioso male?
Prima era lecito nascondere, mentre il sole candido splendeva
per te ed avevi una buona speranza di una sorte benevola.
E adesso la spietata violenza del Fato vince ogni prudenza,
ora l'arte, vinta da un dolore indomabile, muore.
Le più grandi gioie spesso sono nascoste sotto il volto afflitto,
ma il mio cuore leso non riesce bene a nascondere le sue sventure.
Manifesta gli indicibili lutti e le ferite dell'animo
e tutte quelle cose che prima non furono note a nessuno!
E se forse hai paura di diffonderli tra le bocche degli uomini,
la foresta oscura offre un posto alle tue lacrime.
La foresta offre un posto alle lacrime, dove non
si vedono sentieri o orme di piedi umani.
Lamentati qui, dove è molto probabile che abitino solo
uccelli canori e belve; da qui è lontano qualsiasi spettatore.
O sole, i cui raggi a stento le cime ombrose
lasciano arrivare fin qui, perchè le foglie si frappongono,
che ora, non immemore del fuoco tessalo e della tempesta
forse sei in procinto di soffrire con me,
sarai testimone che non ho più nulla per cui valga la pena di vivere,
dopo che la luce del cielo manca della mia luce.
Cos'altro ora potrei sperare se non qualcosa di doloroso, di triste
dopo tutto ciò, dopo che mi sei stata sottratta, o Filliroe?
Tu eri il mio ardore, in te era saldo ogni mio affetto,
e l'apice e la sommità del mio desiderio.
Ma ora, mentre fuggi dai contagi cittadini del morbo crudele,
cadi vittima di una morte indegna,
e l’aspra opera della morte crudele mi porta
una così grande perdita e un così grande dolore,
che cresce in me, misero, la voglia di lamentarmi,
e mi consumerò in eterne lacrime.
O leggi violente, o dura potenza del Fato,
non permettete che nulla di umano esista a lungo!
Forse avrebbe infranto le vostre forze,
se anche avesse vissuto ancora pochi giorni?
Ora, appena entrata nei campi della verde giovinezza,
non erano propri di questa età gli estremi onori!
Non è lecito cogliere frutti immaturi ed acerbi
a colui che è animato da una qualche speranza del campo coltivato;
altrettanto è ingiusto che voi, così d’improvviso, abbiate rapito,
non ancora matura la morte, una tale bellezza, una tale fanciulla.
Più duramente e più velocemente di quanto è in vostro diritto
accadono le vicende mortali, e questa sorte ella dovette subire.
O giorno funesto, da segnare con la pietruzza nera,
che per i tristi dolori ha acquisito un infausto nome!
Giorno nel quale il consueto splendore abbandonò
il povero sguardo, che era un tempo simile ai raggi del limpido Sole;
nel quale gli arti composti, il volto sereno
e le fluenti chiome ricoprì la terra invidiosa;
nel quale il vigore del nobile corpo venne meno,
nel quale la mano, esperta nelle nobili arti, si decompose,
nel quale la sua voce, prima simile ad un cigno morente
iniziò a tacere, muta per l'eternità,
e nel quale la morte interruppe pie azioni e infranse
il nobile intento dell’alta mente.
Ah, poveri genitori, fin troppo sfortunati,
che un profondo dolore consumerà senza fine!
Avrei creduto che per il continuo lutto aveste perso coscienza dei mali,
voi che un lungo indugio trattiene in vita.
Poté forse Niobe superare i vostri dolori?
Ed Antiope, provata dalle avverse circostanze?
Sebbene, infatti, entrambe molte avversità sopportassero,
non minore fu questa rovina di quella sventura.
Sia i modi, sia l'intelletto, sia la sua bellezza
vengono pianti o l'onore di una antica nobiltà.
La gloria di tutto ciò insieme era in costei sola,
e con la sua morte perirono così tanti beni.
Così in primo luogo la vostra perdita deve essere tristemente sofferta
e nessun tempo darà misura a questi pianti.
Ma allora, quando lo spirito sacro si staccò da quel
volto e quella cercava le vostre mani,
e quando manteneva fisso lo sguardo ai vostri occhi,
che pensieri, che coraggio aveste?
Se il presente dolore avrebbe potuto distruggere chiunque,
quel giorno avrebbe dovuto prendere anche voi.
Filliroe, che non avrà mai pari, aveva vissuto
per quindici anni, cresciuta tra i vostri cuori.
Agli dei sembrò bene mostrarvi Filliroe,
e poi subito strapparvela via.
Non vi portò un genero, neanche cari nipoti
o portò doni di dote preparati.
Dopo aver goduto per poco delle ricchezze e dell'onore dei genitori,
presto la vostra figlia sarà cenere umile.
Ma perché io, infelice, piango solamente i vostri mali,
come se non soffrissi per alcuna ferita?
Chiunque fedelmente fu arso dal fuoco di Cupido,
per il quale unica straordinaria preoccupazione fu una donna,
a cui la sorte strappò il caro amore con rapidi
avvenimenti, quello pensi alle mie sventure,
quello dalla sua esperienza comprenderà i miei tristi
accidenti e il male pungente del profondo del cuore.
Se in qualche modo i numi celesti potessero essere persuasi,
e il percorso non fosse impedito da leggi indiscutibili,
ciò che prima Orfeo ottenne dalle mani infernali
gli dei superni potrebbero offrire in sorte a me afflitto.
Se l'anima leggera nuovamente tornasse nel suo corpo
invitata, con me come guida, a prendere le strade legittime
forse, saputo in che modo Euridice, persa nuovamente,
triste avesse lasciato in lacrime il suo uomo,
cautamente procederei, evitando i pericoli in grado di nuocere,
e tutti quelli che son soliti seguire grandi gioie.
O povero, povero Tito, senza più cuore
fino a che punto ti sconvolge il dolore? Quali parole ti vengono?
Forse hai creduto che le leggi stabilite per ordine immutabile degli dei
vengano meno prima del giorno prestabilito?
Non appena, strappate via da qui, le anime sono mandate
in un altro mondo e lasciano le dimore terrene,
ottengono premi secondo i meriti e occupano i propri posti
(così ha stabilito la provvida opera degli dei superni).
I corpi morti non risorgeranno dalla morte, prima
che venga l’ultima ora del loro giudizio.
Se tuttavia la veneranda potenza del Re eterno,
che dà ordini al mondo al mare ed al cielo,
l’Onnipotente che solo opera qualunque cosa di mirabile
noi vediamo, qualunque cosa si nasconda ai nostri occhi,
se ora quella potenza ti restituisse Filliroe,
bada che non nuoccia a colei che tu stesso ami.
Infatti rincresce dire se non cose vere: uscita da queste tenebre,
lei è felice di fruire delle sedi celesti;
e il pudore e la mente pia, non soggetta ad alcuna colpa,
ha un percorso diretto verso gli dei da dove è scomparsa.
Filliroe fortunata, dopo aver lasciato la terra, abita le stelle,
oramai una nuova dea nel numero dei grandi dei.
A causa loro sono indotto a congratularmi con lei,
perché non sembri invidioso di tanto bene.
E poiché non è permesso a me misero di vedere il solito volto
e la bellezza della mite fronte mi è lontana,
mentre io aspetto in terra, mentre tu vergine abiti in cielo,
la tua effige dolce riceverà le mie lacrime.
Questa, simile a te, o Filliroe, ecco, ricorda ogni cosa vera
di te, anche se le manca la vita.
Sarà la mia cara compagna sia che giovi raggiungere il sorgere
del sole che vedere le coste d'occidente.
Se mi recassi presso le rupi Gete, o presso la calda Siene
questa sarà sempre conservata nel mio caro grembo.
A questa narrerò la serie delle mie preoccupazioni
e tutte le volte che desidererò seguirti, o mia vita!
E in fatti allorché non esiste alcuna costanza nelle cose umane
a cosa giova alimentare i desideri di falsa speranza?
Chiunque sia morto onestamente, ha avuto una vita lunghissima
e, disprezzate le cose che vede, ne cerca di alte.
Intanto mentre le Parche lasciano correre i miei fili,
né è lecito morire senza l'ordine del Sommo Re,
gioisco dei candidi sogni che confortano me, afflitto,
che spesso mi portano la tua immagine.
E infatti quante volte la perfezione del nitido volto
durante i sogni è sembrata essere vicina ai miei occhi?
Quante volte l'ardore dei due occhi si presentò
a me attonito? E la mano, nota per la mirabile bellezza?
Cosa potrei riferire delle parole reciproche, che spesso mi sembra tu
riceva e ricambi con le voci consuete?
O quanto sono felice, ingannato da una tale immagine!
O placide notti, o sopore a me grato!
E volesse il cielo che il sonno, l'inganno non mi lasciassero così presto
e stessero con me entrambi a lungo,
ovvero magari io potessi rimanere con te, bellissima, finché
non sopravvengano lunghe noie alla mia gioia.
Mentre eri mortale e nella sede degli dei
gli alti regni del cielo sidereo non ti avevano ancora vista,
tuttavia solo tu eri il mio nume e, privo di ogni infamia,
il candido amore mancava di impura colpa.
Supplice dunque io prego te per tali meriti,
per il fratello, per coloro che ti hanno generata,
che la tua grazia mi renda propizi gli dei immortali,
e tu non voglia essere mai immemore di me
Ma nessun oblio di te mi coglierà, sia che
mi alimenti la luce, sia che io sia oppresso dalla notte eterna.
E l'ottavo giorno che precedette Calendimaggio,
dopo il quale non ti ho vista oltre,
quello sarà per me sempre solenne e lacrimoso,
indizio e principio di un così grande male.
Finché qui ti fu lecito condurre la vita con me,
mi tenne la massima cura delle tue lodi;
ed anche ora, affinché né l'età presente, né quella successiva ignori
quale ninfa giace sotto il gelido marmo,
io stesso ho segnato con un mio carme il tuo sepolcro
per dove il Po, scorrendo, guarda le tue terre.
Ma chiunque leggerà le memorie del misero dolore,
mediti sulle parole trasmesse dalla bocca sibillina.
Nulla di più prezioso di lei ha prodotto quest'epoca,
tanto che si poté credere che fosse una dea.
Qui giace Filliroe, morta in tenera età
mentre abitava luoghi vicini alla sua Ferrara,
nel tempo in cui la peste infuriava nella misera città,
nè la sorte crudele risparmiava i luoghi vicini.
O dei troppo crudeli, o crudeli sorti,
che tollerarono di mandare in rovina un tale splendore!

III. Strozzi, Epit. 2

Testo basato sul ms. Ottob. Lat. 1661, numerazione della princeps (Strozii poetae pater et filius, Venezia, in aedibus Aldi et Andreae Asulani soceri, 1513).

Pro eadeam

Qui legis haec, legito summissius et cave, quaeso,
nympham ullo turbes quae cubat hic strepitu.
Vivere credibile est placidoque quiescere somno
phylloroen, quae non digna mori fuerit.

Alla stessa

Tu che leggi queste parole, leggile in silenzio, e sta' attento, ti prego,
a non turbare con alcun rumore la ninfa che giace.
Sembra quasi che sia viva e che riposi in un placido sonno
Filliroe, che non era degna di morire.

IV. Strozzi, Erot. VI 13, vv. 1-42

Il testo – non conservato in alcun codice – è tratto dalla princeps (Strozii poetae pater et filius, Venezia, in aedibus Aldi et Andreae Asulani soceri, 1513).

Ad Psyttacum

Psyttace, quid frustra misero mihi nuper ademptam
Philloroen tanta sedulitate vocas?
heu periit, quam tu vivere forte putas.
Parce, meo toties animam de pectore vellis,
Philloroen quoties blandula lingua refert.
Heu periit, neque eam spes amplius ulla videndi,
quam propter nobis vivere dulce fuit.
Si sensus tibi, si ratio est, ut habere videris,
communi tristem te decet esse malo.
Non sum equidem oblitus, tibi quae responsa vocanti,
poscentique dapes saepius illa daret.
Et memini, aurato cum te prodire iuberet
carcere, porrectam te insiluisse manum,
atque illinc dulcem rostro parcente salivam,
suxisse illaesis molliter e labijs.
Post ubi divinae laudaras sidera frontis,
“non homo” dicebas, “sed dea Philloroe est”.
Prisca salutato si paucis Caesare verbis,
nigranteis aetas nobilitavit aveis,
quid tibi facunda fingenti plurima voce
tam bene, tam docte, Psyttace laudis erit?
Laudo equidem , ingenium miror: debere fatemur
nos tibi, nulla tuis gloria par meritis.
Sed ratio, et tempus, fortunaque lubricam, certam
dant nostris legem rebus, et eripiunt.
Haec igitur nos causa monet desistere coepto
nonnumquam, et placitum flectere propositum.
Quid loquor? Unde meae tanta incostantia mentis?
Quod modo damnaram Psyttace, nun cupio.
Forte meis aliqua ratus es posse mederi
luctibus hos ubi sum dictus addisse lares.
Quodque ita sit, cum me triste moerore silentem,
vidisti, et multo rore madere genas,
tu quoque commotus graviter, sociusque doloris,
ecce piis lachrymis lumina moesta rigas.
Functus es officio veri et prudentis amici,
nilque reliquisti, quo mala nostra leves.
Perge precor, dominaeque tuo communis utrique
semper adorandum nomen ab ore sonet.
Atque utinam in saevo pietas tua vulnere fiat
tam dulci eloquio Pelias hasta mihi.

Al Pappagallo

Pappagallo, perché invano con tanta diligenza
chiami Filliroe, sottratta a me, povero, da poco tempo?
Smettila, ti prego. Smettila di accrescere i miei dolori;
è morta colei che tu forse ritieni viva.
Smettila, mi strappi l'anima dal petto ogni volta che la tua carezzevole lingua dice "Filliroe".
Ahimè è morta e non c'è alcuna speranza di vederla ancora,
per cui vivere era dolce per me.
Se hai del senno, se possiedi ragione, quale sembra tu abbia,
sarebbe conveniente che tu fossi triste per il nostro male comune.
Non ho infatti dimenticato quel che ti rispondeva quando la chiamavi,
e più spesso ti desse del cibo, quando lo chiedevi.
E ricordo, quando ti diceva di uscire dalla gabbia dorata,
che tu saltavi sulla sua mano tesa,
e che di lì succhiavi la dolce saliva, col becco attento,
dolcemente dalle sue labbra illese.
Poi, dopo aver lodato gli astri del suo volto divino,
dicevi: "Non è umana, Filliroe, è dea".
Se l'età antica, per il saluto fatto a Cesare con poche parole,
rendeva omaggio agli uccelli neri,
quale sarà la tua lode, o Pappagallo, che con voce
eloquente dici molte cose così bene, così saggiamente?
Quanto a me, io lodo e ammiro il tuo ingegno: riconosco che lo devo,
nessuna gloria sarà mai pari a i tuoi meriti.
Ma la ragione, il tempo e la sorte instabile danno leggi precise
alle nostre cose, poi le sconvolgono.
Ciò talvolta ci impone di lasciar stare
quanto cominciato e di mutare intento.
Ma cosa dico? Da dove viene tanta incoerenza alla mia mente?
Quel che una volta disapprovavo, Pappagallo, ora desidero.
Forse hai pensato che qualcosa avrebbe consolato i miei
dolori non appena si è detto che sarei tornato in questa casa.
Sia! Quando silenzioso in un triste dolore
mi hai visto e con le guance bagnate da molte lacrime,
anche tu, commosso dolorosamente, fratello nel dolore,
ecco che bagni i tristi occhi di pie lacrime.
Hai ricoperto il ruolo dell'amico vero e saggio,
e non hai dimenticato nulla con cui alleviare i miei affanni.
Continua, ti prego, e il nome della nostra signora,
che va sempre adorato, risuoni dalla tua bocca;
e volesse il cielo che la tua pietà fosse per la mia crudele
ferita, col suo dolce parlare, come la lancia del Pelide Achille.

English abstract

Through the reconstruction of the ancient sources regarding the legend of the grave of Protesilaus and a survey on the recovery of his myth, this article aims at highlighting the possible connections between the medal of the Ferrarese humanist Tito Vespasiano Strozzi, casted by Sperandio Savelli ca. 1473-76, and a cycle of elegies that the poet dedicated to his beloved Filliroe, who died at an early age.

Bibliografia

Per citare questo articolo / To cite this article: A. F. Caterino, La medaglia di Sperandio de'Savelli per Tito Vespasiano Strozzi e la tomba di Protesilao, “La Rivista di Engramma” n. 112, dicembre 2013, pp. 38-57 | PDF