"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

72 | maggio/giugno 2009

9788898260171

Teatri romani*

Paolo Morachiello, apparato iconografico a cura di Anna Banfi e Alessandra Pedersoli

English Abstract
1. Teatro greco, teatro latino e i primi teatri di Roma

Il teatro è una creazione culturale dell’Ellade: ebbe lontane origini sacre legate ai primitivi riti in onore di Dioniso durante i quali un gruppo di uomini, mascherati da satiri (ibridi con forme umane, caprine o equine), danzando lamentavano coralmente la morte del dio, l’unico dio che nella mitologia greca nasce e muore più volte. A poco a poco in dialogo con il ‘coro dionisiaco’ si staccò la voce solista di un singolo ‘attore’: insieme coro e attore, interrogandosi e rispondendosi reciprocamente, generarono un movimento drammatico, ovvero un drama, o azione, e contemporanemente generarono lo spazio che consentiva e accoglieva il suo svolgersi dinnanzi a un pubblico di ‘spettatori’ separati fisicamente dal luogo della rappresentazione ma chiamati a parteciparvi emotivamente. Le storie di Dioniso, dio del mascheramento, della mimesi, dell’illusione, già si intrecciavano a quelle degli uomini, aprendo la via alla emancipazione dai temi strettamente mitologici e alla conseguente irruzione nel repertorio teatrale anche di altre trame e soggetti (mythoi) che parlavano di una interazione e di un intreccio costante tra uomini e dei, tra azioni e destini degli uomini e leggi degli dei. A partire dal VI secolo a.C. (l’età dei tiranni e del consolidamento della forma istituzionale della pòlis) sorsero nell’Ellade – sia in madrepatria sia nelle colonie occidentali – i primi edifici teatrali; si realizzò la definizione di uno spazio deputato, opportunamente allestito, configurato in forma bipartita: il choròs od orchestra, lo spazio per gli attori e il coro, e il thèatron, lo spazio da cui i cittadini assistevano all’azione come spettatori attivi (theatài), seconda indispensabile componente del sistema-teatro e parte integrante dell’evento rappresentato.

Gli edifici teatrali degli Elleni sono costruzioni aperte suddivise in due parti: il thèatron vero e proprio (detto anche kòilon, cavità) è un insieme di gradinate lignee o lapidee adagiate su di un declivio naturale o scavate direttamente nella roccia, dai quali sembra scaturire come un fatto naturale; il choròs od orchéstra è un semplice spazio in terra battuta di pianta geometrica, trapezoidale o circolare o a settore di cerchio di estensione ampia così da poter accogliere le evoluzioni del coro e i movimenti degli attori. Tanto al ‘teatro’ che all’orchestra si accedeva alla base delle gradinate attraverso due corridoi obliqui a cielo aperto, le eìsodoi o pàrodoi, comuni ad attori e spettatori. Un elemento bidimensionale e tridimensionale in materiale leggero (legno o stoffa), la skené, utile al cambio di costumi e al deposito di attrezzature, disegnava la linea di termine del choròs, suggerendo contemporaneamente l’ultimo limite dell’edificio teatrale senza tuttavia impedire allo sguardo di spaziare oltre, in profondità, sul paesaggio retrostante e di vagare libero sulla natura abitata dagli dei o sulla stessa pòlis abitata dai cittadini.

Collocato spesso accanto a un santuario extra-urbano (come, ad esempio a Siracusa, a Delfi o a Epidauro) o in città, nei pressi di un’agorà (come a Priene) o ai piedi di un’acropoli (come ad Atene), il teatro greco fu pertanto un’architettura sacra e aperta, ma per il concorso del gran numero di cittadini che il suo spazio e la sua configurazione favorivano e consentivano fu anche luogo di riunione e di dibattito, vale a dire un luogo della politica. Riprendendo Platone si può affermare che dalla partecipazione attiva dei cittadini agli eventi teatrali, da lui chiamata spregiativamente “teatrocrazia”, ebbe origine la stessa democrazia (Platone, Leggi, 699d).

A Roma, quando l’istituzione del teatro fu accettata e importata, secondo Plinio non prima del II sec. a.C. e quindi molto tempo dopo l’ ammissione e l’introduzione in città di rappresentazioni sceniche, gare atletiche e sfide mortali tra duellanti (ludi e munera), l’edificio teatrale fu subito una costruzione chiusa e autonoma che soltanto nel periodo di passaggio tra Repubblica e principato divenne da effimera a permanente, prima di legno, poi di pietra. La diffidenza o l’aperta ostilità della parte più conservatrice del Senato per il retaggio e le creazioni della civiltà greca investì anche i teatri, poiché in essi si intravvedevano strutture stabili che, destinate ad accogliere gran numero di spettatori, avrebbero potuto trasformarsi, in qualsiasi momento, in luoghi di assemblee a sfondo politico com’era divenuto usuale nei teatri dell’antico mondo ellenico; si paventava inoltre il pericolo che magistrati e condottieri si guadagnassero il favore e il voto delle folle offrendo a proprie spese spettacoli grandiosi allestiti in edifici monumentali ispirati al lusso esagerato – e pertanto corruttore – delle monarchie ellenistiche orientali. Tacito ricorda che, in antico, a Roma era fatto obbligo agli spettatori di assistere in piedi alle rappresentazioni teatrali e che tale obbligo fu ribadito per decreto dal Senato nel 154 a.C. (Tacito, Ann., XIV, 20): e questo accadeva proprio nel II secolo a.C. quando Plauto e Terenzio, sull’esempio della commedia ellenistica di Menandro, avevano fatto nascere la commedia latina, un teatro “tutto umano” che, con ironia e scherno, poneva al centro l’uomo con i suoi pregi e i suoi difetti.

Per evitare i temuti e perniciosi effetti della “teatrocrazia”, il Senato impose che gli apparati teatrali fossero lignei, provvisori e connessi a una qualche manifestazione religiosa, bandendo quelli in pietra dal suolo dell’Urbe.

Stando alle fonti il primo teatro ligneo fu costruito nel 179 a.C. dal censore M. Emilio Lepido, presso il tempio di Apollo, legato a giochi e spettacoli in onore del dio, all’apice della fioritura della commedia; e altre realizzazioni effimere si susseguirono nel secolo successivo, malgrado le resistenze dei sostenitori a oltranza dell’austero “costume degli avi”. Accusando il pericolo che la stessa presenza materiale dell’edificio teatrale rappresentava per i mores maiorum (Livio, XLVIII, 67-70), il Senato fece distruggere poco dopo la sua costruzione il teatro di pietra ch’era stato offerto nel 154 a.C. dai censori C. Cassio Longino e M. Valerio Messala, vietando allo stesso tempo la costruzione di edifici teatrali lapidei entro un raggio di mille passi dalla città; ma il Senato riuscì a far rispettare le proprie decisioni soltanto sino ai tempi tormentati di fine Repubblica.

Intorno alla metà del I secolo a.C. però, contemporaneamente alla crisi istituzionale che avrebbe portato alla istituzione del Principato, la determinazione dei nuovi protagonisti della vita politica romana riuscì a imporsi sui divieti del Senato, pur ricorrendo a soluzioni che sembrava salvassero le apparenze. Fu Gneo Pompeo, al massimo della sua potenza dopo le vittorie riportate in Asia, a promuovere per primo, riuscendo ad aprire il cantiere nel 61 a.C., la costruzione di un gigantesco teatro in pietra nel Campo Marzio, adducendo la giustificazione, secondo Tertulliano, che sull’esempio dei santuari di Gabi, Tivoli e Palestrina, le gradinate del teatro dovevano intendersi quale immensa base di appoggio e imponente dispositivo di risalita all’edificio templare di Venere Vincitrice, fautrice divina delle sue vittorie, e alle ali del portico che affiancavano la sacra (Tertulliano, De spect., X, 5): il punto più alto sarebbe stato il tetto del tempio che raggiungeva (a m. 45 dal suolo) la stessa quota dell’Arx capitolina. La cavea – cavea, il kòilon greco – era sostenuta da spessi setti murari in opus caementicium ad andamento radiale, interrotti da portici e ambulacri che correvano concentrici all’orchestra – orchestra, l’orchéstra greca – lungo il perimetro e sotto le gradinate; sottopassi voltati ad essi perpendicolari contenevano le scale che raggiungevano, fuoriuscendo a varie quote, le gradinate capaci di accogliere in totale più di diecimila spettatori. Dietro l’imponente corpo scenico – scaena, la skenè greca – Pompeo volle far erigere un immenso quadriplice portico circondato da ambienti di varia forma per accogliere il pubblico in attesa: dalla cavea, attraverso finestre aperte appositamente nel corpo scenico,  si potevano intravvedere il portico e il giardino, le colonne, le statue, le piante e le fontane che li ornavano.

Ricostruzione della pianta del teatro di Pompeo.

Ben poco resta di questo teatro che fu il più grande dell’antichità, se non qualche impronta nella forma degli isolati e nell’andamento delle strade fra Campo dei Fiori e Sant’Andrea della Valle, qualche rudere nelle cantine del palazzo Pio da Carpi e la sua pianta schematica incisa sulle lastre marmoree della Forma Urbis che, nel III secolo d.C., lo rappresenta dopo i rifacimenti e le trasformazioni di età augustea. La pianta severiana indica, tuttavia, chiaramente le sostruzioni radiali e i due ambulacri semicircolari: contrafforti ritmici che scandivano i fianchi della terrazza del tempio di Venere, a riprova delle capacità tecniche dei costruttori del tempo; resta però un enigma l’organizzazione della immensa scena, poiché quella con una coppia di emicicli e serie di colonne libere antistanti disegnata nella Forma Urbis severiana probabilmente non ricalca l’originale.

Possiamo ricostruire che l’orchestra era semicircolare e la cavea che l’abbracciava ne condivideva la forma; quest’ultima è suddivisa da anelli di precinzione in fasce concentriche – i maeniana – ciascuna delle quali comprende più gradinate ed è ripartita in settori trasversali – i cunei – individuati da strette scale di risalita sino al portico – la crypta o il porticus in summa cavea – che cinge l’ultima fascia della cavea e a cui si ancora l’immenso tendone in lino – il velarium – destinato a riparare dal sole gli spettatori (per amplificare la voce umana nelle sue varie intonazioni Vitruvio consiglia l’uso di vasi di bronzo posti a varie altezze sotto le gradinate) (Vitruvio, De Arch., V, 5,1).

Il corpo scenico fisso, l’imponente edificio di chiusura, è articolato e complesso: si compone dapprima di un alto podio o pulpito – il pulpitum – di lunghezza pari al diametro dell’orchestra, sostenuto anteriormente da un basso muro o proscenio – il proscaenium – articolato in nicchie utili a smorzare gli echi e le fastidiose risonanze, quindi di un frontescena – la scaenae frons - la ricca facciata rivestita di colonne libere  in più registri e interrotta da da tre o cinque porte – la valva regia e  le valvae hospitales – attraverso le quali entravano e uscivano gli attori. Il corpo scenico  risvolta spoglio con due muraglie o ali – le versurae – lunghe quanto è largo il podio  o con edifici a torre – i parascaenia – con più ambienti destinati al pubblico o agli attori. Congiungendosi e raggiungendo la medesima altezza, cavea e corpo scenico chiudono e sigillano il teatro entro una massa semicilindrica unitaria e compatta. Se gli accessi del pubblico alla cavea si snodano a più livelli entro la massa, quelli all’orchestra e ai posti di onore che la cingono da vicino sono molto spesso ma non sempre gallerie voltate con porte di uscita arcuate -  gli aditus maximi – che sostituivano le antiche pàrodoi al di sotto o a fianco degli ultimi cunei o settori della cavea, addossati o prossimi alle ali sui quali posano palchi di onore – i tribunalia. Il tavolato del pulpito copriva una fossa per ospitare il sipario – l’aulaeum – che, invece di scendere, saliva dal basso lungo appositi pali a cannocchiale, mentre al di sopra, ancorata a sbalzo alla sommità del corpo scenico, aleggiava una tettoia di legno per riparare gli attori ma anche per riflettere le loro voci dirigendole al pubblico. A piacere (e somme stanziate) dei committenti e costruttori, secondo la disponibilità e orografia del terreno, talvolta a ridosso del corpo scenico si sviluppavano aule, portici, giardini.

Primo vero teatro di Roma,assunto quale prototipo del teatro latino – quello di Pompeo sorse con un impianto interamente definito che per le sue dimensioni, per le elaborazioni originali dei suoi architetti e in virtù del suo portico potrebbe essere considerato addirittura il primo intervento a scala urbana realizzato nella capitale. In esso si unirono le caratteristiche dei teatri ellenistici con suggerimenti offerti dai teatri di terre italiche ed esso costituì il riferimento obbligato per tutti i teatri innalzati successivamente dai Romani. Secondo Pierre Gros gli architetti di Pompeo si sarebbero ispirati sia ai bouléuteria ellenistici di Mitilene e di Alabanda, sia al teatro italico di Teano. Per quanto riguarda l’eccezionale imponenza dell’edificio scenico bisogna ricordare che già in età ellenistica, essendo mutati i testi e i generi delle rappresentazioni rispetto al teatro del V secolo a.C., la scena aveva acquistato maggiore importanza e la struttura dell’edificio teatrale era divenuta effettivamente tripartita: la cavea suddivisa in zone e settori con file di gradinate più ornate e lussuose; un palcoscenico sopraelevato sull’orchestra in corrispondenza della maggiore importanza assunta dagli attori; un’orchestra intermedia più limitata per il coro talvolta ridotto a danzare e cantare durante gli intervalli delle rappresentazioni.

Le iniziative che seguirono quella del triumviro (che peraltro rimase deluso dalle insulse rappresentazioni inaugurali che non ripagarono né gli sforzi né i denari spesi) perseverarono tuttavia ancora per qualche tempo – forse per ragioni di prudenza politica – nella tradizione e nella prassi delle costruzioni lignee, pur trapiantate nell’ambito dello stupefacente e del clamoroso. Plinio descrive lo strabiliante teatro di legno fatto costruire da M. Emilio Scauro nel 58 a.C., capace di ottantamila spettatori, dotato di un frontescena rivestito di marmi, oro, argento e avorio, con trecento colonne e tremila statue di bronzo (Plinio, Nat. Hist., XXXIV, 36; XXXVI, 50, 114-115, 189) portate dall’Oriente ellenistico per rievocare insieme a quadri, tappeti e tappezzerie il fasto delle regge dei Tolomei e dei Seleucidi; le gradinate erano strutture lignee imponenti, proporzionate alla grandiosa scena e tecnicamente ardite; un velarium riparava gli spettatori dal sole mentre questi, se si presta fede a Lucrezio, venivano rinfrescati da perfusioni di profumi (Lucrezio, De rerum nat., II, 415). E destinato a suscitare altrettanta meraviglia fu il congegno mobile artificioso fatto costruire da C. Scribonio Curione nel 52 a.C., formato da due teatri di legno le cui cavee, ruotando su se stesse mediante cunei sottostanti, potevano trasformarsi in un solo teatro circolare con orchestra al centro (Plinio, Nat. Hist., XXXVI, 117).

Se con interessata magnificenza Pompeo aveva offerto ai cittadini dell’Urbe il primo teatro permanente, Vitruvio  da scrupoloso didatta,  insegnò agli architetti  come disegnare in qualsiasi contesto la pianta che garantisse la miglior disposizione per la vista e l’ascolto, nonché il raggiungimento della bellezza assicurato dall’uso della geometria generatrice di perfezione. Egli dedica all’argomento uno spazio consistente (Vitruvio, De Arch., V, 5-7) – secondo soltanto a quello destinato ai templi – quando il teatro di Pompeo è terminato e quello di Marcello è in costruzione   potendo pertanto sintetizzare le peculiarità del teatro latino distinguendolo da quello ellenico; la procedura grafico-geometrica da lui stesso elaborata consente di circoscrivere – a partire dalle dimensioni calcolate e con l’aiuto di quattro triangoli equilateri – il semicerchio dell’orchestra e quindi dell’arco inferiore della cavea, la lunghezza e la profondità del pulpito, di individuare i cunei di ripartizione della cavea, le linee di risalita entro la stessa, di delimitare le entrate laterali da aprire nelle versurae e nei parascaenia nonché i settori dei tribunalia, di collocare le porte del frontescena  e in più, al di fuori della pianta, di ottenere la continuità dell’involucro della cavea unito al parallelepipedo comprendente l’intera macchina scenica. Inoltre, per rendere ancor più analogo l’impianto del teatro latino alle proporzioni che la Natura avrebbe impresso alle sue creazioni, il trattatista teorizza rapporti tra le parti dell’edificio fondati su di un modulo pari al raggio del cerchio teorico circoscritto all’intero edificio. Con Vitruvio o subito dopo Vitruvio il teatro romano è ormai nato con tutte le sue peculiarità.

2. Il Teatro di Marcello

Ottaviano, l’optimus princeps, non temeva i raduni dei suoi concittadini poiché contava che le riunioni pubbliche sarebbero state altrettante occasioni di lodi alla Pax da lui istaurata e alla sua persona e, di altra parte, egli stesso attribuiva alla istituzione teatrale un decisivo ruolo pedagogico e un insostituibile valore artistico e letterario. Durante il suo principato, nello stesso Campo Marzio investito dal fervore edilizio del console Agrippa, sorsero due nuovi teatri, nei pressi dei portici di Ottavia e di Metello. Il minore fu eretto da L. Cornelio Balbo il Giovane, tra 19 e 13 a.C., il maggiore, il Theàtrum ad aedem Apollinis, iniziato da Cesare ai piedi del Campidoglio, nei pressi del Foro Olitorio (Cassio Dione, XLII, 49, 2; Svetonio, Caes., XLIV, 1), fu condotto a termine da Augusto stesso, che lo dedicò alla memoria del nipote Marcello (Res gestae, 21; Cassio Dione, LIII, 30, 6): nel 17 a.C. esso fu utilizzato per i giochi secolari pur se l’inaugurazione ufficiale avvenne fra il 13 e l’11 a.C. Del teatro di Balbo oggi sono visibili alcuni resti della cavea incorporati nel palazzo Mattei Paganica, dai quali si deduce che a ridosso del corpo scenico  vi era un ampio portico quadrato di pilastri a cui fu aggiunta un’abside in epoca più tarda (il criptoportico sottostante, con volta semianulare a botte su archi gettati tra pilastri di mattoni, è noto con la denominazione di Crypta Balbi e fu adattato nel medioevo a magazzini in serie, le cosiddette ‘botteghe oscure’).

Il teatro di Marcello.

Ultimato all’inizio del principato di Augusto, il teatro di Marcello è contemporaneo al trattato di Vitruvio e contribuirà assai più di questo alla diffusione del modello destinato a diffondersi in tutto l’Impero. Del teatro di Pompeo quello di Marcello ripeteva impianto distributivo, forma e dimensioni, ospitando però, per l’assenza del grande tempio nel settore centrale della cavea, un maggior numero di spettatori. Per integrare a quel che rimane le parti mancanti e quindi ricostruire l’intera pianta giunge preziosa la Forma Urbis: si deducono un’orchestra e una cavea perfettamente semicircolari, un edificio scenico sobrio e lineare con frontescena ornato da columnatio ma privo dell’alternanza di esedre a semiluna e quadrangolari tanto cara invece ai costruttori dei teatri successivi. Dietro al corpo scenico correva un portico parallelo, affiancato da due aule simmetriche absidate di passaggio e antistante un recinto completato da un’ampia esedra semicircolare con due edicole al centro, dedicate, verosimilmente, a Diana e alla Pietas, i cui templi erano stati sacrificati al teatro. L’ansa del Tevere quasi a ridosso delle spalle del teatro non offriva spazio sufficiente per la costruzione di un quadriportico per ambulationes simile a quelli dei teatri di Balbo e di Pompeo senza impedire d'altronde la creazione di un annesso. Se la scena resta ancora sepolta, l’imponente sostruzione della cavea e il suo involucro murario si sono parzialmente conservati grazie alla trasformazione del teatro in fortezza durante il Medioevo e quindi in basamento del palazzo cinquecentesco costruito da Baldassarre Peruzzi per la famiglia Savelli. Dai resti notevoli e dagli studi compiuti durante i restauri si è potuto comprendere che la cavea era sostenuta da volte inclinate o rampanti in calcestruzzo impostate su setti murari radiali a delimitazione dei cunei di entrata o a sostegno delle scale, parte di tufo in opus quadratum, parte di mattoni, fondati su di una spessa platéia in opus caementicium adagiata sulle teste di fitti pali. Un ambulacro interno mediano e due deambulatori esterni sovrapposti con l'aggiunta di un portico di coronamento servivano e cingevano la cavea ripartita in tre maeniana, i primi due di pietra, il terzo di legno.

Dell’involucro murario si conserva buona parte del circuito corrispondente ai deambulatori esterni interamente costruiti di travertino, suddiviso orizzontalmente in due registri sovrapposti del ‘Theatermotiv’ con semicolonne incorporate di genere tuscanico e prive di basi l’inferiore, con semicolonne di genere ionico e complete di basi il superiore. Non è certo se vi fosse un terzo registro simile ai sottostanti: l’ipotesi più probabile contempla l’esistenza di un attico pieno scandito da lesene di genere corinzio, di cui la sopraelevazione cinquecentesca avrebbe potuto rispettare lo sviluppo restituendo in tal modo le proporzioni originarie dell’intero edificio. Se così fosse i tre registri esterni rispecchierebbero fedelmente la disposizione interna dei maeniana e, con le arcate inquadrate da lesene e semicolonne trabeate di vario genere, avrebbero costituito per tutti i successivi teatri un ulteriore riferimento.

I deambulatori sovrapposti esterni sono voltati, formando con la loro disposizione e la loro inerzia resistente una riuscita alleanza tra il sistema distributivo dei percorsi e il congegno di controspinta alle sollecitazioni delle gradinate soprastanti: quello del piano terreno è voltato a botte con imposta continua all’interno della prima parete esterna e della prima parete interna, richiamando in quota l’ininterrotto andamento anulare; quello del primo piano, invece, è voltato a singole botti radiali orientate verso il centro dell’edificio con imposta su architravi trasversali, in una successione di onde contrarie all’andamento dell'anello, con il vantaggio di non esercitare spinte sull’involucro esterno poiché queste si equilibravano a vicenda e, per di più, di contrapporsi a quelle esercitate dalla cavea costituendo di fatto un sistema continuo di contrafforti.

Il ‘Theatermotiv’ dispiegato in più registri nella facciata (nel Tabularium e nella quarta terrazza di Palestrina il registro era uno soltanto) raggiunge in quest’opera la massima coerenza concessa dal connubio tra sistemi voltati e sistemi trabeati, per natura diversi: partendo la volta del deambulatorio a pian terreno da una quota corrispondente al termine dell’architrave esterno era inevitabile che il suo estradosso superasse sensibilmente l’altezza dell’intera trabeazione; fu necessario, perciò, ricorrere a una membratura architettonica coerente con il sistema colonnato e che segnalasse e offrisse un ‘volto’ al pieno corrispondente all’altezza del circuito della volta. L’introduzione di risalti con figura di piedistalli e di fasce continue con figura di parapetti nel registro soprastante fu la soluzione adottata che risolse felicemente il problema compositivo scaturito dal voler traslare ed esporre all’esterno il connubio dei sistemi voltati e trabeati sovrapposti in più registri: gli pseudo-piedistalli espressero la continuità necessaria delle membrature sovrapposte in verticale mentre gli pseudo-parapetti espressero quella altrettanto necessaria delle coperture voltate interne anulari. La coerenza espressiva fu sottolineata dalla decorazione: soprattutto dal fregio di genere dorico del primo registro con triglifi a cui corrispondono guttae o gocce pendenti da mutuli appena rilevati alternati a rosette entro losanghe, conservati in un frammento della pagina inferiore del kymation o cornice superiore servito da modello a Baldassarre Peruzzi in palazzo Massimo alle Colonne (1532) e reso celebre dalla tavola XIII delle Regole di Vignola (1562). Le maschere teatrali scolpite sulle chiavi degli archivolti del registro ionico superiore, ispirate a personaggi della commedia e della tragedia, connotano con eloquente retorica la destinazione principale dell’edificio alla quale si aggiunge quella commemorativa del giovane erede morto: a Roma, infatti, già in edifici provvisori, giochi e spettacoli teatrali venivano spesso allestiti in onore dei defunti. Ulteriori significati dell’edificio sono rivelati dalla sua ubicazione e dalla relazione ch’esso stabilisce con gli edifici vicini: il tempio di Apollo Sosiano a pochi metri di distanza, dedicato al dio di armonia e di pace come quelle promesse da Augusto, il porticus di Ottavia, sorella di Augusto e madre di Marcello, che fungeva da atrio al teatro, l’arco postumo dedicato all’erede designato Germanico e una statua di Ottaviano voluta da Livia. L’intera zona celebrava la gens Iulia e poteva dirsi quasi un centro di culto dinastico. Con l’impresa edilizia augustea il teatro divenne un edificio essenziale negli assetti delle città romanizzate e il teatro di Marcello, in particolare, un modello per l’Impero.

3. Teatri nella penisola italica, prima e dopo il Teatro di Marcello

I primi due teatri di Roma erano stati preceduti all'incirca di un secolo da quelli costruiti nella Campania ellenizzata e per tal motivo vicinissimi alle forme del teatro ellenistico, un protrarsi della loro vita. In essi si distinguono almeno tre generi di configurazioni, le prime due influenzate dalle forme greche: l’una con cavea adagiata su di un pendio del tutto naturale (primo genere), l’altra con cavea sorretta da un terreno in parte naturale e in parte artificiale (secondo genere), un’altra ancora con cavea sorretta interamente da sostruzioni artificiali e quindi con avvolgimento murario fuoriuscente dal terreno (terzo genere).

Il teatro grande di Pompei.

Il cosiddetto ‘Teatro Grande’ di Pompei fu completato in due fasi. Nel corso della prima, databile intorno alla metà del II secolo a.C., come dimostra l’uso di opus incertum in tufo e calcare locali, la cavea fu adagiata sul declivio naturale di una collina (primo genere) terminando con analèmmata o mura di sostegno contraffortate internamente a fianco degli ingressi obliqui o pàrodoi scoperte che la separavano dalla scena. Alla fine degli anni 70 a.C. due ricchi cittadini finanziarono il rifacimento del teatro e le fonti ci conservano anche il nome del loro liberto che ne fu l’architetto: M. Artorius Primusi. La cavea venne riedificata più ampia in laterizio e marmo con pianta a forma di ferro di cavallo coprendo le pàrodoi e collegandosi direttamente alle versurae con due cunei e tribunalia aggiunti; fu anche sopraelevata (divenendo del secondo genere) sino a terminare con una cripta, portando la capacità complessiva a circa cinquemila spettatori. Il proscenio fu dotato di pali telescopici per abbassare con la loro caduta il sipario, mentre nel frontescena si aprirono porte e numerose nicchie inquadrate da colonne libere di marmo. All’esterno la parte emergente della cavea fu avvolta da un muro semicilindrico di laterizio contraffortato da pilastri e lesene. Dietro il corpo dell’edificio scenico fu creato un vasto quadriportico di una settantina di colonne di genere dorico di tufo rivestito di stucco secondo il costume ellenico. Il teatro nel santuario di Pietrabbondante  fu costruito prima del tempio – quindi nei decenni che precedettero la fine del II secolo a.C. – e i suoi architetti, come i loro colleghi pompeiani, dimostrarono di subire il fascino esercitato dal modello ellenistico. Cavea ed edificio scenico sono raccordati da un muro perimetrale di cinta in opera poligonale entro cui si aprono due arcate a ponte sugli aditus scoperti. La prima, semicircolare con brevi prolungamenti rettilinei (come le aggiunte di età ellenistica al teatro di Epidauro), si posa sul pendio naturale incrementato nella sua pendenza da un terrapieno aggiunto artificiale (secondo genere)  ed è arricchita da ornamenti scultorei – zampe alate di grifi, atlanti inginocchiati – riservati a spalliere e sedili dei notabili; il secondo si presenta con proscenio ritmato da semicolonne e innalza il proprio frontescena in muratura dotato di cinque porte e di sistemi di ancoraggio per scene mobili, accogliendo in un lungo portico retrostante gli spettatori durante gli intervalli. Nulla resta visibile del teatro di Capua costruito nel II sec. a.C., ma ad esso si riferisce la prima preziosa testimonianza epigrafica di una cavea sostenuta da un aggestus o terrapieno artificiale cinto (terzo genere) da un qualche tratto di muraglia emergente ove si aprivano necessariamente alcuni fornici per un accesso dall’alto alla cavea o dal basso agli aditus.

Il teatro di Teano.

Circa nello stesso periodo, nel corso del II secolo a.C. nel santuario campano a terrazza di Teano fu eretta la prima cavea della penisola italica interamente retta da sostruzioni artificiali a camere voltate. L’edificio teanese (terzo genere) aveva pianta semicircolare con brevi prolungamenti rettilinei, aditus obliqui scoperti, corpo scenico di pianta rettangolare; ampliato e restaurato quattro secoli dopo fu dotato di ambulacri sottostanti la cavea e di frontescena animata da colonne marmoree su due registri spinti a eccezionale altezza. I costruttori campani avevano dunque rielaborato e ampliato i modelli coloniali ellenici sviluppando le intrinseche possibilità dell’opus caementicium fino a raggiungere una forma complessiva avvolgente, continua, chiusa in se stessa: si potrebbe davvero pensare che il complesso di Teano sia stato il precedente dei ‘teatri-tempio’ costruiti a Roma (come quello di Pompeo) anche se alcuni studiosi ne intravvedono i veri antecedenti in Caria.

Una volta compiuti, i teatri augustei di Balbo e di Marcello ispirarono la costruzione ex novo o la trasformazione di numerosi edifici teatrali in molte città: nella penisola italica si costruirono o si rinnovarono almeno una cinquantina di teatri ellenistici, con variazioni sensibili delle preesistenti strutture che non intaccarono, però, la concezione dell’organismo nel suo insieme.

Il teatro di Aosta.

Il teatro del 29 a.C. ad Aosta, si distingue per la chiusura di cavea, sostenuta da strutture artificiali (terzo genere), e di corpo scenico in un unico parallelepipedo dotato esternamente di triplice registro di arcate sopra gli arconi di ingresso nell’alta facciata in bugnato irrobustita da contrafforti, munito inoltre di copertura a capriate (accertata ma non più esistente) suggerita dal clima alpino ma di giovamento anche per l’acustica.

Il teatro di Ostia.

Il teatro di Ostia, tangente al decumano massimo, costruito da Agrippa, restaurato da Commodo e inaugurato da Settimio Severo, conserva qualche pilastro tufaceo del deambulatorio esterno (terzo genere), alcuni tratti del muraglione, anch’esso in tufo, del corpo scenico, nonché il proscenio a nicchie rettangolari e curvilinee alternate decorate di marmi. Oltre il muraglione si estende l’ampio cosiddetto ‘Piazzale delle Corporazioni’ di forma rettangolare, nel centro del quale in età domizianea fu eretto un tempio prostilo su alto podio con due colonne in antis. Intorno al piazzale, considerato sin dall'inizio strettamente integrato al teatro, corre un triplice portico colonnato sotto il quale si aprivano sedi di corporazioni e di rappresentanze commerciali di tutto il mondo romano. Il portico è pavimentato con mosaici iscritti e figurati, vere e proprie insegne ‘parlanti’ degli uffici di intorno: vi erano sulla piazza negozianti di stoppa e di corde, conciapelli, barcaioli e marinai di bastimenti da trasporto, trafficanti di avorio e di belve da circo, misuratori di grano, di Roma, di Ostia, di Narbonne, di Cagliari, di Alessandria in Egitto, di Cartagine, di Sabratha e altre città; l’ufficio degli Illiri, ad esempio, è indicato dalla scritta con due delfini che si contendono una borsa e con due navi da trasporto di fronte a un faro ‘telescopico’ come quello del porto della città. I teatri di Benevento, di Ercolano e di Napoli, di Anzio, di Milano, di cui rimangono scarsi resti, costituiscono realizzazioni vicinissime al teatro di Marcello (terzo genere).

Molto più numerosa fu la famiglia dei teatri italici caratterizzati da soluzioni intermedie (secondo genere), con appoggi in parte pieni (naturali o artificiali) e in parte cavi (sempre artificiali): la cavea sorretta interamente da ambulacri anulari e da setti radiali voltati costituiva, infatti, la parte tecnicamente più impegnativa e finanziariamente più onerosa dell’edificio, perciò evitabile in assoluto qualora se ne fosse offerta l'occasione.

Ricostruzione della pianta del teatro di Parma.

Il teatro di Trieste.

Pianta del teatro di Trieste.

Il teatro di Sessa Aurunca.

Il teatro di Verona.

I teatri di Parma e di Trieste presentano cavee parzialmente addossate a colline; a Sessa Aurunca un muro di controspinta si oppone alla collina su cui posa l’ultimo maenianum mentre la parte rimanente della cavea è sostenuta da cunei radiali voltati; a Verona solo il centro della cavea poggia sulle pendici della collina di San Pietro, mentre i settori laterali si reggono su sostruzioni cave radiali. Generalmente, quando la cavea guadagna spazio entro le pendici o il versante di un colle o di un monte, una profonda trincea verticale separa la parte inoltrata dalla terra o dalla roccia messe a nudo per impedire infiltrazioni di acqua.

Il teatro di Brescia.

Pianta del teatro di Brescia.

Anche a Brescia il grande teatro, capace di quindicimila spettatori, si trova ai piedi dell’antica acropoli sul colle Cidneo e la sua cavea di età augustea – ma forse ampliata in età successiva – si adagia sul versante circondata da muri di protezione a monte e percorsa da ambulacri sotterranei.

Pianta del teatro di Alba Fucens.

Il teatro di Alba Fucens, iniziato tra la fine del II e gli inizi del I secolo a.C., uno dei più antichi italici e dei più vicini al modello ellenistico, è preceduto da un’ampia terrazza sopraelevata che regge il corpo scenico e l’orchestra alla quale si accede mediante due ingressi: la sua cavea semicircolare è in parte incuneata entro le pendici del colle e in parte sostenuta dagli analémmata in opera poligonale e reticolata che affiancano le pàrodoi scoperte. L'edificio scenico era diviso in due parti: l’anteriore, ortodossa, composta da proscenio e pulpito, la posteriore costituita da un aggregato di cellule in muratura destinate a sostenere il frontescena montato occasionalmente con materiali deperibili, legnami o tele dipinte. 

Il teatro di Fiesole.

Pianta del teatro di Fiesole.

Fiesole il teatro costruito agli inizi dell’età augustea si distacca notevolmente dai due modelli romani: in parte si appoggia alla collina e in parte su sostruzioni artificiali che interessano anche l’orchestra semicircolare e le versurae; il ricco proscenio era rivestito di marmo e possiede la fossa per il sipario e il frontescena è articolato in nicchia semicircolare per la porta regia e in nicchie rettangolari per le hospitales.

Il teatro di Amiterno.

Ad Amiterno il teatro di età augustea, in opera quadrata e reticolata, sorge al centro della città con cavea per metà adagiata su pendio e per metà su sostruzioni dinnanzi, a un’orchestra usata anche per giochi e a un corpo scenico animato da esedre rettangolari a fondo piatto; la parte fuoriuscente della cavea (nel suo insieme capace di duemila spettatori) era servita da due ambulacri sovrapposti verosimilmente dotati di altrettante teorie di aperture.

Il teatro di Volterra.

Il teatro di Volterra fu costruito in opus caementicium rivestito di blocchetti lapidei alle pendici di un colle tra la fine del I secolo a.C. e i primi anni del I d.C.: l’orchestra semicircolare pavimentata da lastre di marmi colorati era abbracciata dalla cavea distesa sul pendio e chiusa da un portico in summa cavea sostenuto da un deambulatorio curvilineo voltato dal fronte articolato in nicchie; il corpo scenico, il cui pulpitum era preceduto dalla fossa per il sipario, presentava un frontescena rientrante in un’ampia esedra centrale con porta regia inquadrata da colonne e timpano e in minori esedre laterali quali hospitales. I due registri della sontuosa columnatio di genere corinzio raggiungevano l’altezza della cavea presentando tra le membrature marmoree effigi di personaggi appartenenti alla dinastia regnante, mentre sul retro del corpo scenico si estendeva un portico di colonne anch’esso di genere corinzio, arricchito da due esedre ricavate entro le braccia laterali.

Risulta generalmente difficile ricostruire la configurazione dei frontiscena che nella penisola italica sono quasi del tutto scomparsi. Si credeva che la scena rettilinea, senza absidi e nicchie per contenere o inquadrare le porte – come nel teatro di Marcello – avesse prevalso per tutto il periodo del principato; ma studi recenti hanno dimostrato al contrario che a Verona e a Trieste, a Ercolano e a Gubbio, ad esempio, la regia e le hospitales si aprivano in rientranze a nicchia già in età augustea. L’animazione delle alte pareti, infatti, non era questione meramente ornamentale, ma le concavità e le convessità miglioravano alquanto la controventatura e l’acustica. La combinazione di più registri e generi di colonne libere, del resto, era ricerca condivisa in tutti gli apparati esposti al pubblico: nei fronti degli archi e dei ninfei, negli interni delle terme e delle biblioteche.

Il teatro di Gubbio.

 

Il teatro di Ferento.

A Gubbio e a Ferento, nel contempo, su entrambi i lati del proscenio due basiliche destinate alle pause degli spettatori si aprivano con portici verso l’esterno ad animare ancor più il corpo scenico.

 

Il teatro di Taormina.

Il teatro greco costruito nel III secolo a.C. a Taormina fu ampliato e modificato in età augustea e traianea con aggiunte severiane rendendolo capace di ospitare quasi una decina di migliaia di spettatori: intorno all’orchestra semicircolare la cavea concentrica risalì con nuovi numerosi maeniana il pendio roccioso su cui in origine totalmente giaceva, terminando con la crypta in opus caementicium e quadratum divisa in due ambulacri da un muro di divisione intermedio: l’ambulacro esterno fu traforato da arcate aperte all’esterno impostate su pilastri fondati nella roccia e coperto da volta a botte anulare continua, quello interno fu chiuso da un muro articolato da nicchie frequenti ma con pochi passaggi verso la cavea (in relazione con le scale di risalita) e coperto da piccole volte in serie a crociera. L’edificio scenico, di lunghezza inferiore al diametro della cavea, elevato dinnanzi al mare che concludeva la visione all’orizzonte, fu composto da un pulpito trapezoidale serrato tra due basilicae-parascaenia e dominato da un frontescena a due registri e da tre porte affondate in altrettante esedre, ornate da colonne di genere corinzio di granito e di marmo africano e cipollino.

4. Teatri nelle province occidentali e settentrionali

La diffusione dell’edificio teatrale romano latino in Occidente, che iniziò tra la fine del I sec. a.C. e gli inizi del I d.C., rispose alla volontà o all’opportunità di dichiarare adesione alla vita e ai costumi sociali della città dominatrice; ma si accompagnò anche al desiderio delle province di organizzare anch’esse gli spettacoli che andavano allora sempre più affermandosi, privi di testo letterario – comico o tragico – e fondati su musica e mimo, adatti ai moltissimi che, fatta eccezione per gli abitanti ellenofoni delle antiche colonie greche affacciate sul Mediterraneo, non conoscevano il latino e tanto meno il greco. Anche per questi complessi occidentali può valere la distinzione tra due tipi o generi: con cavea posata su declivio naturale o terrapieno di riporto, con cavea sostenuta da sostruzioni murarie voltate o, infine – ibrido tra le due soluzioni – con cavea per metà sostenuta da appoggio pieno naturale o artificiale e per metà da strutture cave.

Il teatro di Ronda la Vieja.

Il teatro di Ronda la Vieja in Spagna, databile intorno agli anni ’50 del I secolo a.C. e quindi precedente all'età imperiale, è composto da cavea ricavata interamente entro un’altura naturale (primo genere) e orchestra esattamente semicircolari, alle quali si accedeva mediante pàrodoi scoperte tangenti al proscenio articolato in nicchie, da corpo scenico suddiviso da corridoi corrispondenti alle porte del frontescena, attiguo a un esteso postscaenium per funzioni assimilabile a un portico.

Il teatro di Mérida.

Tra i più capienti teatri iberici (capace di accogliere più di cinquemila spettatori), terminato nel 16 a.C. durante il terzo consolato di Menenio Agrippa, il teatro di Mérida è in parte adagiato su terrapieno in parte fuoriuscente chiuso da muro pieno (secondo genere). All’orchestra pavimentata di marmo e alla cavea tripartita perfettamente semicircolari si accedeva mediante numerose porte ricavate nell’involucro esterno, alcune corrispondenti a gallerie voltate radiali che conducevano a una galleria interna con opportune uscite ad uso dell’ima e della media cavea, altre corrispondenti a scale che risalivano alle uscite per la summa cavea cinta da un portico cieco anulare. Il corpo scenico, imponente, si componeva di un proscenio a nicchie di sezione alternata, di un pulpito profondo, di un frontescena articolato in tre esedre con le rispettive porte sceniche e ornato da due registri di colonne marmoree di genere corinzio con statue nel mezzo; concludeva felicemente il tutto un portico triplice retrostante a due navate intorno a un ampio giardino e dotato di un’esedra destinata al culto imperiale. I promotori e i costruttori di questo teatro ispanico furono gli unici a seguire appieno l’esempio della capitale – dei teatri di Pompeo e dei Balbi e, a suo modo, del teatro di Marcello – nell’offrire agli spettatori portici anche con spazi di servizio e giardini di diletto, arricchendo la serie dei luoghi pubblici della città, senza dimenticare l’omaggio ai reggitori del mondo e dell’Impero.

 

Il teatro di Orange.

La Gallia meridionale offre una serie considerevole di costruzioni omogenee fra loro che si distinguono e si accomunano non solo per l’entità della capienza ma anche, e soprattutto, per la cura e l’enfasi riservate ai frontiscena. Il teatro di Orange, costruito in età augustea, si presenta in ottimo stato di conservazione: la cavea si adagia su di una collina rocciosa (primo genere) dalle cui acque sotterranee la separa una intercapedine contenente le scale di accesso alle gradinate più alte. È quindi nascosto l'involucro curvilineo esterno ma si impone in tutta la sua altezza, privo della columnatio marmorea di tre registri sovrapposti che lo rivestiva ma ancora coronato da un attico potente, il fronte, volto alla cavea del muro del corpo scenico, articolato nella massima rientranza corrispondente alla porta regia, sopra la quale, balzando alla luce dal profondo di una nicchia centinata, appariva una statua loricata di Augusto. Chiuso tra due basiliche porticate aperte al pubblico, l'edificio scenico dominava con il proprio postscaenium, uno stretto e lungo quadriportico retrostante, adiacente al foro, creato per accogliere gli spettatori durante gli intervalli ma anche per rinforzare-affiancare l’alto edificio a cui apparteneva.

Il teatro di Lione.

A Lione il teatro, allineato al cardo massimo con il suo corpo scenico, fu costruito tra 17 e 15 a.C. ma successivamente ampliato raddoppiando l’iniziale capacità (la quale giunse a undicimila spettatori). La cavea semicircolare si adagia interamente su di una collina naturale il cui lavoro di sostegno, però, venne aiutato da murature e volte sia radiali che concentriche  (secondo genere). Nella forma conclusiva due muri pieni, con le vie piane di recinzione antistanti raggiungibili mediante gallerie interne, radiali e semicircolari voltate, separano i tre maeniana in cui era suddivisa la cavea, l’ultimo dei quali – il terzo – è coronato dalla crypta alla quale si accedeva mediante porte sul muro esterno raggiungibili risalendo la collina. Sull’orchestra semicircolare, cinta da una balaustra di marmo cipollino e servita da aditus  prima aperti e poi voltati, anticipati da meccanismi per la manovra del sipario e dal proscenio si affacciavano il pulpito e il ricchissimo frontescena composto da tre registri di colonne marmoree di vario colore e da tre protiri a due registri con statue e timpani curvilinei e triangolari in corrispondenza delle porte. Privo di peristilio retrostante, il corpo scenico terminava con un portico addossato, valido aiuto all’ancoraggio della copertura lignea che si protendeva sul pulpito a riparare gli attori e a rinforzarne le voci.

Il teatro di Arles.

Il teatro di Arles, con asse parallelo al decumano massimo, anch’esso, costruito in età augustea tra la fine del I secolo a.C. e gli inizi del I d.C., è simile per dimensioni e configurazione a quello di Orange (primo genere). La cavea semicircolare, suddivisa in tre maeniana e coronata dalla crypta, è ricavata direttamente nella roccia: il proscenio possiede un altare e il frontescena si articola in un solo nicchione in corrispondenza della porta regia mentre due vani cingono il corpo scenico, uno dei quali è il pianoterra della cosidetta ‘Tour Rolandi’, baluardo appartenente alla cinta difensiva.

Il teatro di Vaison la Romaine.

A Vaison la Romaine il teatro si adagia con la sua cavea semicircolare in un seno naturale alle pendici della collina su cui sorge la città (primo genere). Ai gradoni dei quattro cunei, ininterrotti o privi di suddivisioni in maeniana, si accedeva scendendo dall’alto una volta raggiunto il loggiato di coronamento dell’intero emiciclo mediante una sottostante galleria di servizio e una scala a due rampe; gli aditus scoperti introducevano all’orchestra perfettamente tangenti al corpo scenico compreso tra due sale e chiuso da un frontescena ricco di colonne sovrapposte in tre registri e di statue, articolato in una profonda esedra centrale – per la  porta regia – e in due nicchie rettangolari – per le hospitales –; al frontescena faceva riscontro un retro eccezionalmente elaborato, articolato in absidi semicircolari inquadrate da pilastri scanalati.

Il teatro di Augst.

Nonostante la felice realizzazione iberica di Mérida, la massima integrazione di complesso teatrale e città si realizzò, tuttavia, nella germanica Augst ove il foro costituì addirittura l’ultimo retroscena. La cavea del teatro, risalente al tempo di Augusto o di Tiberio ma due volte ricostruito sino alla forma definitiva raggiunta nel 120-150 d.C., si adagiava sulla collina-acropoli della città  rinforzata da opere di sostegno e controspinta delle terre (secondo genere) tra cui due mura di calcare e arenaria, affondate ed accompagnate da contrafforti semicilindrici cavi. La forma a ferro di cavallo dell’orchestra cinta da un corridoio tra due muri pieni, di blocchi di calcare e di arenaria alternati, di ascendenza greco-ellenistica, si trasmetteva all’intera cavea (capace di settemila spettatori), raggiungibile risalendo le scale dei settori o scendendo per le stesse a partire dalla crypta di recinzione e coronamento, a cui si giungeva mediante scale interne. L’edificio scenico era un corpo parallelepipedo regolare allungato e stretto con brevi ali ai lati del pulpito; ma nel sito centrale, spettante di diritto alla porta regia, vi era un’alta apertura a battenti mobili che abbracciava il foro e il tempio visibili in lontananza consentendo al pubblico seduto nella cavea di assistere alle cerimonie sacre, ribabendo, se mai ve ne fosse stato bisogno, la stretta connessione tra sacro e profano che presiedette alle origini dell’istituzione teatrale. Nel tempo intermedio della sua storia il teatro di Augst si trasformò in un edificio adatto a spettacoli diversi da quelli centrati su di un testo letterario o canovaccio recitato, assumendo l’assetto di un doppio teatro intorno a un’arena che sostituiva l’orchestra, partecipando a una tendenza che coinvolse particolarmente le regioni nord-occidentali dell’Impero. Accanto ai teatri ispanici e gallici meridionali fedeli al modello romano-augusteo, in Aquitania, nella stessa Lugdunense e nella Belgica, nelle due Germanie e in Britannia tra I e II secolo d.C. apparve infatti anche un nuovo tipo di edifici che, simili ma non uguali ai teatri, si adattavano con facilità tanto alle esigenze di rappresentazione di pezzi teatrali quanto allo svolgimento di altri spettacoli decisamente più movimentati. Storici e archeologi li hanno considerati in modi diversi, non sempre di accordo sulla connessione degli spettacoli con altri eventi, interpretandoli sia come luoghi di culto extraurbani sia come edifici assembleari dipendenti o indipendenti da un mercato fuori mura. Tra incertezze, varianti e reciproche contaminazioni, alcune caratteristiche, tuttavia, si lasciano in essi ben individuare: la cavea è generalmente più ampia di un semicerchio, semiellittica o poligonale, talvolta con prolungamenti curvilinei o rettilinei tali da abbracciare quasi l'intera orchestra; gli aditus, scoperti o coperti, avvengono parallelamente alla linea di separazione tra orchestra ed edificio scenico; columnatio ed esedre scompaiono lasciando del tutto spoglia la parete scenica di chiusura. Le cause concorrenti al successo e alla diffusione di tali impianti non sono ancora chiare, anche se è certo il tempo del loro tramonto e della loro definitiva scomparsa coincidente con i due o tre decenni compresi tra la fine del II e del III secolo d.C.: forse in rapporto con il pieno successo dei ludi gladiatores, forse a causa di un progressivo e definitivo discredito che calò su qualsiasi rappresentazione teatrale (aulica o popolare).

5. Teatri in Grecia, in Asia Minore e nel Vicino Oriente

Nelle terre degli Elleni e in quelle ove si era diffusa la loro cultura gli edifici teatrali esistenti andarono incontro a diversi destini: alcuni, se restaurati, rimasero pressoché intatti a eccezione di qualche aggiunta insignificante; altri furono parzialmente o radicalmente trasformati in seguito all'estensione delle cavee, all'arricchimento delle nude skenài e all’ampliamento di queste ultime a scapito dell’orchestra. Sia gli uni che gli altri rimasero, comunque, sempre adagiati su pendii naturali (rientrando, perciò, a pieno titolo sempre nel primo genere).

Il teatro di Epidauro.

Tra i due estremi il teatro di Epidauro, continuando la propria attività per gli interi due primi secoli dell’Impero, non subì modifiche di sorta; il teatro di Corinto, invece, rimasto a lungo abbandonato dopo la conquista, fu parzialmente ricostruito nei primi anni dell’età imperiale, finendo con l’assumere, dopo gli interventi ordinati da Adriano nel II sec. d.C., un carattere propriamente romano: alla cavea e orchestra semicircolari si accompagnò proscenio articolato in nicchie rettangolari e semicircolari alternate, pulpito sopraelevato, edificio scenico articolato in tre esedre, per accogliere la porta regia e le hospitales, arricchito nel frontescena da una columnatio di quasi un centinaio di colonne in tre registri sovrapposti, articolato in ampie esedre anche nella facciata posteriore prospiciente un quadriportico chiuso, stretto e allungato.

Il teatro di Dioniso, Atene.

In situazione intermedia, il teatro di Dioniso, a ridosso dell’acropoli ateniese, fu modificato due volte a metà del I e all’inizio del II secolo d.C.: con conseguenti ampliamento della cavea e copertura delle pàrodoi, apprestamento di paraskènia, creazione di una columnatio a ornamento di un frontescena rettilineo. Altri due celebri teatri furono oggetto di ancor maggiori trasformazioni: quello di Sparta (di cui oggi resta ben poco) fu dotato in età augustea di una cavea ampliata e rivestita di marmo, nonché di un nuovo più esteso pulpito che coprì le entrate; quello di Argo fu arricchito durante il principato di Adriano da un largo pulpito allungato che secò l'orchestra e invase le pàrodoi con due nuovi ambienti laterali, mentre un frontescena rettilineo si ornava di due registri di colonne di genere corinzio a fianco delle porte.

Il teatro di Dione.

Il teatro di Filippi.

La patria del teatro, tuttavia, non fu interessata solo da riadattamenti o restauri ma anche da nuove costruzioni o da radicali rimaneggiamenti di età augustea e imperiale come accadde in Macedonia, rispettivamente a Dione e a Filippi: tanto nell’uno che nell’altro complesso la cavea (nella prima a forma di ferro di cavallo) si adagia a un terrapieno artificiale, le pàrodoi sono coperte a volta sfociando nell’orchestra con aperture arcuate, mentre il frontescena è rettilineo compreso entro due sale laterali e aperto in ben cinque porte accompagnate da colonne libere. In base a quel che i resti consentono di vedere è possibile affermare che il teatro di Filippi, mediante sostituzione delle prime gradinate con un alto pulpito curvilineo intorno all’orchestra, fu adattato anche allo svolgimento di ludi gladiatori, accogliendo un destino che lo unì ad altri nella penisola e nel continente (e, quasi paradossalmente, a quelli delle Gallie).


Il teatro di Efeso.

In Asia Minore, dalla fine del IV secolo a.C., dopo la conquista di Alessandro Magno, erano sorti molti teatri per lo più nelle regioni costiere o ad esse limitrofe e non solo nelle città più facoltose – innanzitutto Efeso – o in quelle di più antica fondazione ellenica, ma anche in quelle minori o più recenti. In tutte, comunque, si erano conservate o riprese caratteristiche antiche: cavee adagiate su pendii naturali e di pianta superiore al semicerchio, talora sino a raggiungere la forma a ferro di cavallo, orchestre quasi circolari, pàrodoi scoperte e tanto inclinate da smussare gli angoli dei corpi scenici costringendo i pulpiti ad assumere piante trapezoidali.


Il teatro di Aspendos.

Del tutto romano fu, invece, il teatro di Aspendos che costituisce un’eccezione imposta da una precisa volontà. Intorno alla metà del II sec. d.C., infatti, l’architetto Zenone, incaricato della costruzione, dovette seguire alla lettera le disposizioni testamentarie del donatore, un cittadino di Roma. Il complesso è composto – come quello di Orange – da una cavea semicircolare scavata entro le pendici di un monte (primo genere), chiusa in sommità da un portico voltato con arcate aperte sia verso l’interno che verso l’esterno; ed esattamente tangenti all'orchestra, anch’essa a semicerchio, giungono gli aditus rettilinei coperti dai settori di testata con tribune dietro ai quali si innalzano, imponenti, i due diedri murari di collegamento tra cavea e corpo scenico. Il frontescena, maestoso e severo, non possiede columnatio né si articola in nicchie o esedre estendendosi perfettamente rettilineo – caratteristica dei teatri dell’Asia Minore – a ospitare cinque porte e una profusione di finestre su due piani comprese entro edicole formate da colonnine pensili e timpani triangolari e curvilinei alternati. Ai lati del pulpito i paraskénia sono seguiti da adiacenti torri scalari ricavate nel postscaenium, la cui massa delimita i fianchi di un’allungata e larga intercapedine che, a mezzo delle fitte feritoie di cui è dotata la sua parete esterna, filtrava e smorzava la luce passante tra le finestre edicolate del frontescena.

Il teatro di Hierapolis.

Più articolato e opulento (parzialmente ricostruito per anastilosi) è il frontescena del teatro di Hierapolis, risalente all’epoca di Traiano ma restaurato e dotato di nuovi ornamenti al tempo di Settimio Severo. L’alto proscenio è scandito da colonne con fusti tortili e capitelli di genere composito a fianco di porte e nicchie curvilinee voltate a catino in forma di valva di conchiglia. Il frontescena presenta tre registri sovrapposti a partire da un alto podio incavato in corrispondenza delle cinque porte e ornato da un bassorilievo continuo ispirato a imprese di Artemide e di Apollo; sulle trabeazioni delle edicole, che in ciascun registro riempivano gli intercolumni, vi erano timpani triangolari e curvilinei alternati sia lungo le orizzontali – ovvero all’interno di uno stesso registro – che lungo le verticali – ovvero passando da un registro all’altro – comunicando in tal modo l’impressione di un incalzante movimento ancor più esaltata dalla ricchezza dell’ornato contrapposto alla severità di Aspendos. Non sorprende che l’opera, complessa e ridondante com’era, sia rimasta incompiuta nonostante il sostegno finanziario dei cittadini più ricchi e, in particolare, della corporazione dei tintori di porpora.


Il teatro di Bosra.

Nel Vicino Oriente il teatro di Bosra, risalente agli inizi del III secolo d.C. e assai ben conservato, artificialmente sostruito (unica eccezione in terre greche o ellenistiche), si innalza con muro semicilindrico in blocchi di basalto e ritmato da numerose aperture che cinge e sostiene l’ampia e dilatata cavea suddivisa in tre maeniana dalle larghe precinzioni, dai numerosi settori e relativi accessi fuoriuscenti dalle gallerie e dalle scale interne sino all’ultimo coronamento della crypta colonnata. Con estensione pari al diametro dell’orchestra sommato alla larghezza del primo maenianum, si eleva il corpo scenico con murature spinte alla medesima quota della galleria in summa cavea alla quale si unisce mediante lunghi muri di rinfianco e chiusura di tribune e gallerie – analèmmata e paraskènia – formando un unico corpo mistilineo. Dietro il pulpito, di moderata altezza, il frontescena si articola in tre nicchie a segmento di cerchio, la centrale lunga e tesa più del doppio delle laterali, dietro alle quali si sviluppa un vano di servizio lungo e stretto. Nei legami tra le due parti, nel pulpito ribassato e nell’esedra della regia dilatata riappaiono sorprendentemente caratteristiche occidentali (o meglio italico-romane) che l’Asia Minore aveva fino ad allora contraddetto o rifiutato.

Il teatro di Apamea.

Il teatro di Apamea sull’Oronte, in stato di mediocre conservazione, si adagia in gran parte su di una collina dinnanzi all’acropoli: la sua cavea semicircolare scavata nella roccia, con il maggior diametro riscontrabile nel Vicino Oriente e tra i maggiori nell’intero mondo romano (pari quasi a m. 150), si saldava al corpo scenico mediante corpi parallelepipedi contenenti le scale di discesa all’orchestra e di accesso a una galleria voltata intermedia di smistamento alla quale sembra facesse riscontro la crypta porticata in sommità. Vicine alla tradizione italica e occidentale furono ad Apamea come a Bosra tanto la modesta altezza del pulpito quanto la dilatata nicchia della porta regia.

6. Teatri delle province africane

Il primo teatro costruito in terra africana durante la dominazione romana, a Cesarea in Mauretania, circa nell’ultimo quarto del I sec. a.C., non fu iniziativa né di un imperatore né di funzionari del governo centrale bensì di un giovane re, Giuba II, protetto da Augusto, che impiegò scultori e lapicidi italici nella realizzazione degli ornati affinché l’edificio costituisse il più completo omaggio a Roma. Spinti da ambizioni politiche, i notabili locali imiteranno presto l’esempio mauritanico lanciati in una gara di emulazione fra la propria e le altre città e, all'interno della loro patrie, per acquisire la massima popolarità tra i propri concittadini.

Il teatro di Leptis.

Il teatro di Leptis fu costruito tra la fine del I secolo a.C. e gli inizi del successivo e dedicato postumo ad Augusto come attestano tre iscrizioni volute dall’evergeta romano-punico Annobal Rufus. La sua cavea è in parte naturale, adagiata a un declivio collinare, e in parte artificiale (secondo genere): l’architetto, infatti, scavò nel suolo roccioso i gradini inferiori, trasferì il materiale asportato a sostegno delle gradinate intermedie con il rinforzo di mura di contenimento in mattoni e sostenne le gradinate superiori con setti di pietrame annegato nel caementum. Cinque gallerie voltate per l’accesso degli spettatori entrano a raggiera sotto la cavea con porte ricavate nello spesso circuito murario esterno che unisce e avvolge le testate dei setti simile all’involucro (come si vedrà) di un possente tumulo funerario; e, inoltre, al di sotto dei due penultimi cunei o settori, prima di quelli che coprono gli aditus e terminano con i tribunalia, si aprono, compagne maggiori e più imponenti delle prime, grandi porte arcuate per vani destinati ad alloggiare spazi di vendita integrati all’adiacente mercato. L'evergeta, inoltre, per ingraziarsi i concittadini nostalgici di uno stato indipendente, volle far erigere al centro del loggiato che coronava il sommo della cavea (si ricordi il teatro di Pompeo) un tempietto del tipo in antis dedicato a Cerere, divinità veneratissima dai Fenici di Sicilia, Spagna e Africa. Il pulpito era una piattaforma lignea di poco elevata sull’orchestra con un muro rettilineo incavato da nicchie; e sul fondo si ergeva il frontescena dotato di tre porte aperte al termine di altrettante absidi accompagnate e legate da una movimentata columnatio. Le porte aperte sul fondo delle absidi e di una delle due basiliche laterali conducevano a uno spazio trapezoidale restrostante dotato di un quadruplice portico al centro del quale sorgeva un tempio dedicato a Roma e ad Augusto. A seguito dell’anastilòsi compiuta dagli archeologi italiani le colonne di genere corinzio di marmi colorati reggono nuovamente il fregio e il frontescena fastoso è tornato ad accogliere le statue che l’ornavano, di dei e umani insieme tra i quali Crispina, moglie di Commodo, spettatrice di alto rango seduta sul proprio subsellium.

Il teatro di Gemila.

Alto sulla valle sottostante e in vista delle prospicenti montagne, il teatro di Gemila, iniziato nel 161 d.C., posa interamente su di una collina in forte pendio ai confini occidentali della città (primo genere). Divisa in due maeniana la cavea è perfettamente semicircolare e separata in sei settori tutti raggiungibili mediante percorsi diretti che scendono dalla massima quota dopo aver varcato le porte ricavate nel parapetto di coronamento. Aditus scoperti alla maniera ellenica separano cavea e corpo scenico: quest'ultimo composto da un proscenio a nicchie semicircolari e rettangoleari alternate e da un pulpito di blocchi lapidei squadrati con frontescena articolato in tre nicchioni – semicircolare al centro, rettangolari al lati – entro i quali si aprono alte porte, di cui la centrale annunciata da una coppia di colonne avanzate. Addossata alla parete esterna del corpo scenico, costituito da serie di vani adibiti a deposito, una loggia contemplava il paesaggio circostante.

Il teatro di Sabratha.

Anche il più capace teatro di Sabratha, realizzato in età severiana, è stato (come quello di Heliopolis) accuratamente restaurato (ma anche troppo generosamente ricomposto e reintegrato). Sorgendo in zona pianeggiante esso presenta  cavea suddivisa in quattro cunei o settori, poggiati interamente su sostruzioni, setti radiali e volte rampanti (terzo genere). Il muro di contenimento esterno, corrispondente agli ambulacri semianulari di accesso e smistamento, ripropone il ‘Theatermotiv’, ma declinato con paraste, in tre registri di arcate dai piedritti e dagli archivolti in particolare risalto; mentre il maenianum superiore è coronato da un portico di colonne di genere corinzio in marmo cipollino. Il restauro ha rimesso in piedi l’intero apparato scenico: il proscaenium con nicchie concave alternativamente semicircolari e rettangolari, nonché il frontescena con tre registri di colonne marmoree di vario colore, fuoriuscenti a formare tre edicole sovrapposte in corrispondenza delle porte, dietro alle quali si scorge attraverso balconi aerei intermedi il mare del Golfo delle Sirti. A fianco del pulpito si aprono due basiliche e dietro l’intero edificio scenico si sviluppa un cortile a triplice portico esternamente contraffortato. Le statue sono andate disperse ma si è salvata la decorazione del pulpito in altorilievo con Settimio Severo al centro in atto di sacrificare alle divinità locali.

Il teatro di Timgad.

Il teatro di Timgad fu costruito nel 161-169 d.C. nelle immediate adiacenze del foro (quasi completamente distrutto per trarne i materiali della fortezza bizantina è oggi in gran parte ripristinato): la cavea (capace di quattromila spettatori) si adagia sul versante orientale di una collinetta naturale dividendosi in tre settori semicircolari a partire dal primo riservato ai notabili direttamente a contatto con l’orchestra e terminando con un camminamento in quota dinnanzi a una serie di tempietti di cui quello centrale aggettava esternamente a sottolineare l’asse del complesso. Gli aditus scoperti prolungano idealmente l’asse del cardo massimo sbarrato dal foro e il muro del proscenio, ch’esse stesse staccano dall’orchestra, è ornato da nicchie numerose; dietro il corpo scenico si allungava un portico colonnato che dominava un cortile allungato sottostante comunicante, a mezzo di una coppia di atri, con corridoi e cavea.


Il teatro di Duogga.

Un ricco cittadino di Dougga donò nel 168-169 d.C. il teatro alla propria città (il cui moderno restauro è stato discreto e limitato). La cavea, raggiungibile scendendo dal muro continuo di camminamento sull’ultimo maenianum o risalendo scale con partenza da corridoi voltati alla base, si adagia interamente su di uno sperone di roccia (primo genere). Essa guarda un frontescena dotato di columnatio e articolato in tre esedre profonde (circolare e rettangolari), dietro alla quale, a quota inferiore, un portico si affaccia, a sua volta, su di una più bassa terrazza semicircolare adibita a manifestazioni pubbliche costituendo il primo elemento tangibile e concreto di un possibile avvicinamento per balze discendenti alla città (forse ideato e mai realizzato).

*Il presente contributo è la rielaborazione di parte di un capitolo del volume: Paolo Morachiello, Vincenzo Fontana, L’architettura del mondo romano, in corso di pubblicazione per i tipi di Laterza.

English Abstract

In this contribution, Paolo Morachiello questions what is the origin of theater and how did it develop in ancient Greece and Rome, supporting his argument with case studies from the Mediterranean area.

keywords | Archeology; Roman Theatres; Greek Theatres; Roman Architecture

Per citare questo articolo / To cite this article: P. Morachiello, Teatri romani, “La Rivista di Engramma” n. 72, maggio/giugno 2009, pp. 3-40 | PDF of the article 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2009.72.0011