"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

Le felici nozze (di Cana) tra classico e tecnologia

Conversazione con Franco Laera sulle installazioni luminose di Peter Greenaway

a cura di Linda Selmin

Le Nozze di Cana, una Visione di Peter Greenaway ha avuto luogo alla Fondazione Giorgio Cini a Venezia dal 6 giugno al 13 settembre 2009. L'artista e regista britannico ha creato all'interno del refettorio palladiano, dove era originariamente conservata l'opera di Paolo Veronese, una Visione realizzata utilizzando in modo spettacolare immagini, suoni e architettura. Il lavoro di Greenaway è stato svolto sul clone dell'opera di Veronese, oggi conservata al Museo del Louvre di Parigi, realizzato nel 2007 dall'artista Adam Lowe e Factum Arte. Il progetto della Visione di Greenaway è stato curato da Franco Laera (Change Performing Arts) che abbiamo intervistato. Nel settembre del 2009, nella sezione 'Orizzonti' della Mostra del Cinema di Venezia è stato presentato il film The Marriage, che ha rappresentato un'ulteriore lettura dell'opera e del lavoro intrapreso da Greenaway su nove capolavori dell'arte occidentale (Nine classic paintings revisited), di cui l'opera di Veronese rappresenta la terza tappa dopo La Ronda di Notte di Rembrandt e L'ultima Cena di Leonardo.

L'originale assente

Linda Selmin Nel caso del lavoro sulle Nozze di Cana si tratta di un passaggio ulteriore rispetto ai progetti già realizzati con Peter Greenaway. Qui l’originale è assente e si lavora su una copia, magistralmente e tecnologicamente realizzata, ma una copia. L’opera di Paolo Veronese Le Nozze di Cana, sottratta da Napoleone nel 1797 e attualmente al Museo del Louvre, è tornata nel 2007 nella sua collocazione originaria, il Refettorio Palladiano della Fondazione Giorgio Cini di Venezia, in forma di fac-simile realizzato in scala 1:1 con sofisticate tecnologie dall’artista britannico Adam Lowe. In questo caso l’idea di tradizione classica passa attraverso un’ideale fedeltà all’originale per venire poi ulteriormente manipolata dall’opera di Greenaway, in un processo di apparente allontanamento progressivo dall’originale. Con che cosa fa i conti l’opera di Greenaway? Con cosa si misura e come intende farlo? In che modo si relaziona all’aura? Segue una tradizione, compie una traduzione o un tradimento?

Franco Laera Prima di rispondere vorrei porre una questione di linguaggio, perché siamo di fronte a situazioni nuove e perché il nominare le cose segue sempre le cose: non siamo di fronte a una copia nel senso consueto del termine, perché la copia presuppone tra l’artefice e l’opera lo stesso tipo di relazione che si ha anche con l’originale. Noi possiamo immaginare Veronese davanti a una tela che dipinge la sua opera originale e possiamo immaginare un pittore di qualunque epoca successiva che si mette davanti a una tela e ne fa appunto una copia: per entrambi la relazione artefice-manufatto è identica, una relazione diretta e non mediata da alcuna tecnologia. Qui con Le nozze di Cana nel Refettorio palladiano di San Giorgio non siamo di fronte a una copia, perché non c’è un pittore che ha posto mano ad una tela, e non siamo di fronte ad una meccanica riproduzione fotografica.

Questa è la ragione per cui rifuggiamo anche dall’uso del termine fac-simile usato invece spesso nella lingua inglese; purtroppo in italiano il termine fac-simile ha una connotazione negativa che rimanda ad una idea di falso più che di artificiale. Siamo quindi di fronte a qualcos’altro che non è una copia e non è un fac-simile, ma non ha ancora un nome definito e convenzionalmente riconosciuto, perché parliamo solo dei primi esperimenti di queste nuove straordinarie possibilità di riproduzione dell’opera d’arte che combinano abilità manuali e tecnologie sofisticate. Abbiamo cominciato così a utilizzare il termine 'clone' che in inglese ha una connotazione negativa perché associato sempre ad un contesto medico-scientifico, mentre in italiano ha una connotazione abbastanza magica e richiama il risultato straordinario di una scienza capace di produrre risultati quasi miracolistici.

Quindi non siamo di fronte a una copia perché l’opera non è il risultato di un processo produttivo strutturato secondo la relazione diretta artefice-manufatto, ma siamo di fronte ad un clone che è il risultato della addizione di differenti operazioni:
1. l’acquisizione dei dati dell’originale che riguardano il colore e le forme, un processo che possiamo chiamare di tipo fotografico, anche se realizzato con una tecnologia che non è disponibile nei comuni processi industriali perché non raggiungono quel grado di definizione richiesta per realizzare il clone di un opera. Per ottenere una qualità di dettaglio che giunge anche a 1.000 dpi in formato reale non basta il singolo scatto di una pur sofisticata macchina fotografica, ma occorre ricorrere all’aggregazione di dati acquisiti con scatti successivi fino a realizzare un file di un peso da misurare in giga;
2. l’acquisizione dei dati tridimensionali dell’opera, rilevati e registrati con uno scanner che arriva a una definizione di 100 micron per millimetro quadrato; in tal modo è possibile riprodurre non solo le componenti lineari di superficie, ma anche le componenti volumetriche dell’opera;
3. la mappatura manuale del colore, operazione finale non più di natura tecnologica ma totalmente affidata all’occhio umano. Nessuna macchina fotografica può garantire di riprodurre automaticamente la scala di colori identica all’originale; l’occhio umano è l’unico che può garantire una riproduzione fedele all’originale. Poiché è impossibile anche solo immaginare di poter realizzare il clone di un’opera in presenza dell’originale, si rende necessario riprodurre la tavolozza dei colori dell’originale su una 'mappa' dell’opera che invece potrà essere posta a confronto diretto con il clone;
4. lo studio del supporto materiale dell’opera e l’attenzione particolare che viene posta nell'utilizzazione di un supporto del clone che abbia le stesse caratteristiche materiche dell’originale.
Alle componenti tecnologiche della riproduzione si somma infine l’intervento specialistico di restauratori di opere d’arte, determinante per la ricomposizione delle diverse informazioni e la definitiva produzione del clone.
Questo processo produttivo è totalmente nuovo e non è nato in realtà per clonare le opere d’arte, ma paradossalmente per realizzare le opere originali di artisti che intendono avvalersi delle nuove tecnologie. Se per l’opera classica il solo dubbio sulla relazione diretta tra la mano dell’artista e l’opera ne mette in dubbio immediatamente l’originalità, chi dubita oggi della autenticità di un’opera di Anish Kapoor o di Jeff Koons, pur sapendo che sia Kapoor sia Koons probabilmente non hanno mosso un dito per realizzare le loro opere?

La relazione tra artista e opera si ritrova quindi radicalmente modificata dall’apparire di sempre più sofisticate tecnologie che non comportano più un rapporto diretto tra artefice e opera, ma un rapporto mediato da operatori e macchine che realizzano materialmente il progetto dell’artista. Questo richiede l’intervento di una o più figure di intermediazione con conoscenze tecnologiche di specialistico e notevole sensibilità di tipo creativo. Nel caso delle Nozze di Cana il clone è stato realizzato per necessità imposte dalla vicenda storica del dipinto, poiché sappiamo che l’opera di Veronese ora al Louvre – esposto in una assurda cornice sulla parete opposta a quella dove ogni giorno si accalcano migliaia di giapponesi che fotografano la Gioconda – non potrà più tornare al suo posto perché lo Stato Italiano ha firmato un accordo con la Francia per cui non è più considerata un'opera trafugata ma il frutto di uno scambio ufficiale! La realizzazione del clone diventa quindi un'operazione di 'restauro virtuale' che permette di ricollocare l’opera nella sua giusta cornice architettonica, per cui io trovo che non sia un gioco di parole chiedersi se è più vero l’originale in un contesto totalmente falso o il clone nel contesto reale in cui l’artista l’ha dipinto.

Philippe Daverio, in una arguta trasmissione televisiva, ha utilizzato una macchina di sua invenzione – l’aurometro – in grado di misurare la quantità di aura presente intorno ad un’opera d’arte. Daverio racconta di avere fatto la prova con il suo aurometro e davanti al clone delle Nozze di Cana all’Isola di San Giorgio la macchina è impazzita a causa della forte concentrazione di aura, cosa che non è accaduta di contro davanti all’originale al Louvre! Il dialogo con il clone a San Giorgio, dunque, ci è offerto da una necessità storica, mentre l’incontro con il clone dell’Ultima Cena a Milano è stato l’esito obbligato di particolari necessità ambientali legate alle condizioni materiali del dipinto murale di Leonardo. Dopo aver lavorato quasi due anni con scientifica diplomazia per realizzare il progetto al refettorio di Santa Maria delle Grazie, il processo per l’ottenimento delle opportune  autorizzazioni amministrative si era bloccato perché si era ritenuto necessario il parere del Consiglio Superiore dei Beni Culturali. A quel punto, come sempre nelle difficoltà, ci siamo detti: bene, se non possiamo utilizzare l’originale faremo il clone dell’Ultima Cena! E abbiamo così ricostruito, all’interno della Sala delle Cariatidi a Palazzo Reale, non solo il dipinto di Leonardo ma anche una sezione di dieci metri del refettorio, incluse finestre, lunette e volte a dimensione reale.

Non abbiamo però abbandonato l’idea di realizzare l’evento sull’originale e ci siamo riusciti dopo aver spiegato e convinto anche i più restii che la quantità di luce che le nostre proiezioni irrorano sull’originale è inferiore a quella museale normalmente accettata. Questo perché la luce museale è diffusa e statica, mentre la luce che noi utilizziamo è puntuale e dinamica. L’evento si è giocato questa volta tra clone ed originale, e si è potuto ascoltare Vittorio Sgarbi affermare a ragione che, dopo la de-consacrazione da parte di Dan Brown, quella rivisitazione tecnologica operata da Greenaway era da leggere come una vera e propria ri-consacrazione dell’opera leonardesca che è alla base della nostra civiltà. Anche in questo caso, quindi, le nuove tecnologie e la realizzazione del clone hanno paradossalmente giocato a favore di una valorizzazione dell’originale.

Non a caso forse noi chiamiamo 'visioni' queste visitazioni dei dipinti classici, perché visione in italiano ha a che fare con il vedere ma anche con l’immaginazione: visione ha uno spessore di significati che abbraccia quanto esiste e quanto si immagina che possa esistere.

L. S. Questo mi fa pensare al fatto che la parola 'teatro' è collegata al verbo greco theaomai che indica un vedere speciale, con una particolare intensità… una percezione direi. La vostra 'visione' delle Nozze di Cana sembra vicina a questa idea del guardare e del teatro. E ancora il vostro allestimento – palco, zattera, tolda di una nave… – mette lo spettatore in una situazione di 'provvisorietà' e sospensione, traghettandolo dal quadro che ha di fronte a un’esperienza altra. Sembra esserci nell’allestimento l’idea di un viaggio, di un passaggio. Accade qualcosa allo spettatore collocato sul palco-zattera-nave che lo solleva e sospende al centro del refettorio palladiano. Si chiede: dove mi porta questa zattera? Dove conduce questo viaggio?

F. L. Due punti delicati e pertinenti: io non parlerei di zattera anche se in termini esperienziali si può avere la sensazione di essere su una zattera in un mare di immagini, e questa è una metafora che pur mi piace. Quel podio è l’unico intervento scenico che abbiamo realizzato a San Giorgio e per noi il senso era molto semplice: poiché l’architettura palladiana e il dipinto di Veronese sono una straordinaria messa in scena, facciamo salire anche il pubblico in scena! Quel salire sulla 'zattera' rappresenta il nostro modo di dare un ulteriore senso di ritualità teatrale all’evento. Non a caso, forse, cercando un nome per questa operazione, ho inventato l’espressione 'il teatro delle arti': si tratta infatti di un’esperienza nuova in cui certo la parola teatro evoca la capacità di guardare in maniera intensa, utilizzando tutti i linguaggi  della contemporaneità, in un tempo forte.

Abbiamo quindi organizzato l’evento della visione di Veronese in modo da far accedere il pubblico in un modo organizzato, in sequenze strutturate e ritualmente cadenzate: l’evento si costruisce progressivamente già nel momento in cui ci si muove nei chiostri verso il refettorio, in gruppo, con una messa in scena che prende avvio con luci, immagini e suoni già prima dell’ingresso nel refettorio dove campeggia lo straordinario dipinto di Veronese.

L. S. Un po’ iniziatico, no?

F. L. Più che iniziatico, direi che tutto è costruito con una dimensione rituale. E come in ogni rito c’è una struttura che poi è la stessa di ogni evento spettacolare: come una sinfonia che si apre  con un’overture e si sviluppa poi nei diversi movimenti per culminare con un finale. Si sarebbe potuto mettere tutto in loop e permettere che la gente entrasse e uscisse dal refettorio a piacimento, ma così si sarebbe persa tutta la dimensione di ritualità che è invece la componente determinante per recuperare una dimensione del vero anche senza essere di fronte all’originale. Quello che viene necessariamente perso dalla clonazione viene compensato da una strutturazione della visione con una forma rituale: solo a determinate ore del giorno, in gruppo, con una rigida strutturazione temporale.

L. S. A questo proposito mi viene in mente Huizinga quando parlando del gioco afferma: “Il gioco si isola dalla vita ordinaria in luogo e durata. […] Si svolge entro certi limiti di tempo e di spazio. Ha uno svolgimento proprio e un senso in sé. […] Mentre ha luogo c’è un movimento, un andare su e giù, un’alternativa, c’è il turno, l’intrigo e il distrigo. […] Notevole più ancora della sua limitazione nel tempo, è la sua limitazione nello spazio. Ogni gioco si muove dentro il suo ambito, il quale, sia materialmente, sia nel pensiero, di proposito o spontaneamente, è delimitato in anticipo, come formalmente non vi è distinzione fra un gioco e un rito, e cioè il rito si compie con le forme stesse di un gioco, così formalmente non si distingue il luogo destinato al rito da quello destinato al gioco. L’arena, il tavolino da gioco, il cerchio magico, il tempio […] sono dei mondi provvisori entro il mondo ordinario, destinati a compiere un’azione conchiusa in sé”. Mi pare che questa descrizione si adatti bene alla vostra idea di visione e al suo avere a che fare con rito e teatro.

Ma allora i classici parlano ancora se messi nelle condizioni di farlo? Queste Nozze sono un matrimonio ben riuscito tra arte, classico e tecnologia? L’alterazione dello spazio e dell’immagine stessa attraverso tecnologie sofisticatissime provoca in realtà nello spettatore una nuova percezione, come se vedesse l’opera per la prima volta. Si sfata qui l’idea della tecnologia e del progresso come in conflitto o in competizione con il classico, con l’antico, e si apprezza invece meglio la partitura gestuale dell’opera, i rapporti fra personaggi, il loro raggio di azione, la dimensione prospettica dell’opera. Una volta che il rito è compiuto si guarda l'opera con occhi diversi.

F. L. Il rito è certo un atto di conoscenza! In effetti la convinzione diffusa è che la tecnologia comporti un approccio freddo all’esperienza artistica. Credo che questo evento contribuisca a sfatare questa convinzione: in realtà tutto dipende da chi usa lo strumento o il linguaggio della tecnologia. Quello che c’è di  specifico in questa operazione è che c’è un artista in grado di usare le tecnologie in modo caldo ed emozionale, e non in modo didattico, documentario e descrittivo. I software utilizzati per questa operazione in sostanza permettono di proiettare sul dipinto luce guidata e programmata da un computer. Il paradosso è che la luce programmata oggi da un computer può  permettere una visione dell’opera con una luce più vera e più prossima alle condizioni originarie, quando la tecnologia era totalmente assente. Quando Veronese ha dipinto nel refettorio di San Giorgio, come ha visto il dipinto? O con la luce del sole che sorgeva dalle finestre di sinistra e tramontava da quelle di destra, o a sera con lumi e candele; non c’era altro. Si trattava quindi di luci non stabili, dinamiche, orientate o disposte da chi sedeva di fronte… e guarda caso cosa può fare Greenaway con un computer? Proietta e fa vedere il dipinto con una luce non statica ma dinamica e puntualmente orientata. Cosa fa quindi paradossalmente la tecnologia? Ci permette di vedere il dipinto in un modo più prossimo a quello in cui l’ha visto il pittore mentre lo creava, che è poi il modo con cui il dipinto è stato visto per vari secoli. E questo è stato possibile utilizzando software inventati per mandare gli astronauti nello spazio!

L'aspetto teatralizzante: l’immagine in scena

L. S. A partire da Burckhardt e poi con Warburg si sottolinea lo stretto rapporto tra arti visive e teatro, ci si chiede quanto l’uno abbia influenzato l’altro e viceversa, e si mette in luce la relazione vantaggiosa tra i due.  Secondo Jacob Burckhardt “Le feste italiane nella loro forma più elevata sono un vero passaggio dalla vita all’arte”. Warburg segnalava poi come alcune opere d’arte rinascimentali, in particolare le raffigurazioni di menadi “in costume anticheggiante di ninfe” pronte a colpire Orfeo potessero “essere modellate direttamente o indirettamente sulla scena finale dell’Orfeo”, fabula drammatica di Poliziano, probabilmente rappresentato la prima volta a Mantova nel 1471. Ciò che Warburg ipotizzava era che non fossero solo le opere d’arte antica i luoghi in cui gli artisti rinascimentali cercavano le rappresentazioni di quella vita in movimento che tanto li attraeva, ma anche “le feste che ponevano sotto gli occhi dell’artista le figure nel loro aspetto fisico, quali membri di una vita realmente in movimento”. Questa operazione sembra voler dire la stessa cosa: che un quadro è anche un’ottima cristallizzazione di una vasta e mobile rappresentazione teatrale e che un’opera teatrale è anche la messa in scena di un’immagine. Quello che avviene grazie al vostro progetto è una messa in movimento e in parola di un quadro. Realizzazione di un apparato scenografico che consente la messa in scena dell’episodio, in cui i personaggi si muovono e interagiscono come maschere in commedia, ognuno col suo ruolo e con la sua battuta.

F. L. Ho ricevuto alcune lamentele di alcuni spettatori perché il dialogo che accompagnava la visione del dipinto di Veronese a San Giorgio sovrapponeva spesso le voci! Ho semplicemente fatto notare che a un banchetto di nozze in genere la gente parla a gruppi, provocando una naturale sovrapposizione delle voci. Quindi la pretesa di cogliere il senso del particolare andava contro la comprensione del senso complessivo dell’operazione. Per questa ragione, per questa dipendenza meccanica dal testo letterario, Greenaway non usa il termine teatro, tradizionalmente legato alla letteratura drammatica. Quando invece Leonardo progetta la festa del Paradiso a Milano, fa tutto: compone i canti, i balli, gli addobbi. Leonardo si esprime a tutto tondo. Veronese non ha progettato una festa, ma ha sicuramente rappresentato un banchetto del suo tempo e sicuramente non avrà avuto davanti ai suoi occhi una festa muta! Oggi è possibile sentire le voci che nel dipinto si vedono, ma voler comprendere le voci rischia di far passare in secondo piano il concerto e la festa delle voci.

 Il rapporto tra immagine e parola

L. S. Il rapporto tra parola e immagine è qui realizzato sfuggendo all’idea convenzionale di parola come didascalia o mero strumento illustrativo di un’immagine, ma piuttosto con una realizzazione del motto warburghiano "zum Bild das Wort", la parola all’immagine! Avvengono vari miracoli nell’installazione: l’acqua diventa vino, le immagini parole, le parole spazio. Si spingono i confini fra le dimensioni, creandone una ulteriore.

F. L. Credo sia stato Deleuze a dire che l’ultima parola ce l’ha sempre l’immagine. Non c’è dubbio che viviamo in un mondo in cui l’immagine ha preso il sopravvento, quindi penso non ci sia da fare nessuna battaglia per dare la parola alle immagini. Greenaway, a proposito dell’immagine tecnologica e digitale, afferma che viviamo il tempo di una nuova rivoluzione di Gutenberg. Io credo che questa rivoluzione sia cominciata con le avanguardie del novecento, con i futuristi, con i dada, con i surrealisti. Quella è la stagione in cui, anche senza gli impulsi della tecnologia, l’immagine prende la parola. Quindi Greenaway si inserisce in un filone già vivo, semmai portando alle estreme conseguenze la rivoluzione dei linguaggi artistici del XX secolo. Quello che di più specifico c’è nel suo lavoro è il portare l’immagine al di fuori dei canali ordinari di fruizione dell’immagine. Dopo aver dichiarato paradossalmente che il cinema è morto, ha spinto il linguaggio delle immagini fuori dal cinema, sperimentando un 'cinema architettonico' affrancato dalla schiavitù dello schermo frontale. In più ha portato le immagini sulle immagini, sovrapponendo e fondendo arte, cinema ed architettura con un’operazione che molti giudicano blasfema: un dipinto inondato di immagini, violato con immagini cinematografiche su immagini pittoriche.

In questo quadro la parola non scompare ma non serve a commentare: la parola che spiega è la parola che ritiene di avere il predominio, che ritiene di essere più forte rispetto all’oggetto. Nella visione di Greenaway la parola si innesta insieme agli altri linguaggi, con la stessa importanza di colore, musica, tempo… non pretende superiorità e l’abitudine a vedere un dipinto nel silenzio viene scossa dall’intuizione che ogni dipinto abbia una propria voce e sia immerso in un proprio paesaggio sonoro. Quando Greenaway in appendice a questa visione delle Nozze nel refettorio di San Giorgio torna a presentare un film alla Mostra del Cinema di Venezia, l’invenzione si spinge sino a sperimentare la condizione unica e completamente nuova di un regista cinematografico che dialoga fisicamente con la sua stessa opera in fronte allo schermo. Il cinema strutturalmente legato alla incorporeità dei personaggi, qui instaura una nuova forma in cui le immagini dialogano con il corpo dell’autore e con la sua parola.

L. S. E questo si avvicina ancora una volta al teatro, no? E mette ancora una volta in crisi ruoli, convenzioni… cosa sta facendo Greenaway: l'artista, l'attore, il regista?

F. L. Anche Greenaway era sorpreso e un po’ incerto rispetto alla lettura di quell’evento: si chiedeva cosa fosse in realtà, non era soddisfatto rispetto all’idea di essere percepito come attore, ma quando gli ho ricordato che 'attore' ha a che fare con l’agire, e non con la sola performance teatrale, ha riconsiderato il suo ruolo e deciso di ripeterla e sperimentare una nuova formula di live cinema.

L. S. La cosa che avete in comune con Warburg, oltre a giocare con le immagini, è di non avere le parole, che le parole non stanno dietro alle cose che fate. È una fase pionieristica, in cui trovare un linguaggio è un’impresa faticosa ed esaltante insieme.

La lingua

L. S. La lingua 'parlata' dal quadro è sicuramente una lingua non convenzionale, la scelta del dialetto come lingua parlata dalle immagini è uno degli aspetti che più sorprendono lo spettatore… le immagini parlano in qualche modo una lingua straniera, di solito lontana dall’opera d’arte, eppure chi è lì vive una sorta di riconoscimento, dopo il primo smarrimento si dice: ma certo! È di questo che si tratta, di un pranzo di nozze in interno veneziano, ecco i vestiti, ecco i più di cento personaggi invitati, sono quelli che Veronese aveva sotto gli occhi! Questo dà un ritmo al quadro diverso, molto speciale.

F. L. Questa è un'intuizione che viene da alcune esperienze, legate alla necessità di risolvere alcuni problemi. Ho frequentato molto Venezia e la cosa che mi ha molto colpito sempre è sentire l’uso del dialetto non come lingua di secondo livello, ma come lingua di primo livello. Per me Venezia era legata alla sua lingua. Ma c’è anche una storia che ho sentito raccontare a proposito dei veneziani e della loro lingua. Un mercante veneziano a Istanbul, portato a palazzo per fare accordi commerciali, si chiedeva come avrebbe potuto farsi capire senza avere un interprete; ma fu subito tranquillizzato ed invitato a parlare nella sua lingua, lo avrebbero capito! Il veneziano insomma era la lingua degli affari, la lingua internazionale, come l’inglese oggi. Ed in più nel dipinto vi sono rappresentati nobili, artisti e popolani: ecco quindi che le voci dei vari personaggi sono le voci vere di nobili veneziani e quelle di attori di una compagnia teatrale veneziana.

Il rapporto fra immagini e architettura

L. S. Anche qui, come nel caso del cenacolo leonardesco, con l’opera sembra realizzarsi anche un dialogo fra l’immagine e lo spazio tridimensionale, non si deve dimenticare che siamo in uno spazio architettonico progettato da Palladio; le immagini qui danno nuovo corpo e nuova luce all’architettura, che sembra acquisire spazi ulteriori, creati dal dialogo fra immagine e architettura.

F. L. Il dialogo tra immagini e architettura è una componente fondamentale della ricerca che Greenaway sta conducendo nell’ambito di questo progetto che chiamiamo 'Nine classic paintings revisited'. Anche negli altri due episodi c’è questa specifica attenzione: non a caso l’architettura condiziona la visione dell’Ultima Cena e questa opera potrà essere vista in giro per il mondo solamente nel contesto della ricostruzione scenografica di una sezione del refettorio con finestre e lunette. E anche nel caso della Ronda di notte di Rembrandt, Greenaway ha posto il quadro di fronte a una pedana-proscenio, come racchiuso da un sipario rosso che mette in comunicazione spazio e opera, arte e teatro. È il teatro delle arti, appunto.