"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

99 | luglio/agosto 2012

9788898260447

Gestualità: le peripezie dell'interpretazione

Claudio Franzoni

English abstract
Errori e fraintendimenti

Decifrare, non decifrare, intendere, tralasciare. La sorte della gestualità nelle immagini è molto più avventurosa di quanto non appaia a prima vista. Del resto i problemi iniziano già nella vita quotidiana: il meccanismo delle nostre azioni e della loro comprensione da parte degli altri sembra una cosa ovvia e abbiamo l’impressione che proceda ogni giorno nella normalità più assoluta; eppure il funzionamento di questo meccanismo è semplice solo in superficie e solo in apparenza si svolge senza interruzioni e contraddizioni. La comprensione dei movimenti del corpo segue infatti una dinamica differente, ma non per questo meno complessa di quella che consente la comprensione del linguaggio.

Più spesso di quanto non si creda, nella stessa vita di ogni giorno, abbiamo difficoltà a interpretare con esattezza un movimento, una posa, un gesto di chi ci sta di fronte; sennonché, quando questo accade nelle relazioni ordinarie, abbiamo risorse per controllare se abbiamo capito o no un gesto (“con quell'atteggiamento che cosa volevi dirmi?”). Ben altra cosa, com'è ovvio, è ciò che accade davanti alle immagini. Sta di fatto che, nell'una come nell'altra dimensione, il lavorìo dell'intepretazione è molto più intenso di quanto si direbbe e proprio questa attività silenziosa assicura spesso un risultato positivo. Seguiamo quello che succede, ad esempio, in una pagina di Guerra e pace di Tolstoj, in cui si assiste proprio a un caso simile: un personaggio (Napoleone) agisce e chi gli sta intorno cerca di intendere il senso tutt’altro che ovvio dei suoi movimenti.

Napoleone volse appena il capo e fece un movimento con la piccola mano grassoccia, come se volesse prendere qualche cosa. Le persone del séguito, indovinando subito il significato di quel gesto, si agitarono, parlottarono tra di loro, passandosi un oggetto dall'uno all'altro, e un paggio, quello stesso che Rostòv aveva visto in casa di Borìs, si avvicinò all'imperatore francese e, chinatosi rispettosamente sulla mano protesa, senza farla aspettare nemmeno un momento, vi depose la decorazione dal nastro rosso.

Che cosa è accaduto? Che le “persone del séguito” hanno individuato e immediatamente decifrato un gesto di Napoleone, operazione facile, ma solo per chi fosse del tutto concentrato sulla sua figura e sui suoi movimenti. Basta infatti uno sguardo appena più distratto per non percepire tratti importanti del “linguaggio” corporeo e cadere in fraintendimenti o addirittura non riuscire a interpretare un gesto in alcun senso.

Nelle immagini, naturalmente, sono ancora diverse le ragioni per cui non si riesce a decodificare in nessun modo il significato di un movimento corporeo: il fattore “tempo” vi è del tutto assente ed è del tutto a carico dello spettatore il compito di immaginare le sequenze temporali pensate dall’artista. Alle normali difficoltà nella comprensione di un’iconografia si aggiunge quindi il problema della giusta interpretazione di un singolo atto. Il rischio, alla fine, è anche quello di non capire. È ciò che accadde a Delacroix davanti alle Bagnanti di Courbet: una delle due donne, secondo lui, faceva “un gesto che non vuol dire niente” [Delacroix, Journal, pp. 159-160]. In qualche misura aveva ragione, vista l’ambiguità della situazione descritta dal dipinto.

Come succede di non riuscire a capire un gesto, succede anche di fraintenderlo. Anzi, questo, a proposito di immagini, è forse uno dei rischi più frequenti. E accade sin dall'antichità, se prendiamo, ad esempio, un passo di Callistene in cui si descrive un monumento del re assiro Sennacherib; lo storico greco legge a modo suo il testo cuneiforme, gli oggetti presenti nella scultura e, soprattutto, il movimento delle dita del sovrano sul medesimo bassorilievo. In realtà doveva trattarsi di un gesto di preghiera, ma Callistene lo interpreta come l'atto di chi schiocca le dita; mentre fraintende il senso degli altri oggetti scolpiti, lo storico antico finisce per interpretarlo, come suggerisce Robin Lane Fox, come “un gesto di indifferenza” [Lane Fox 2012, pp. 220-221].

L'equivoco qui nasce dal confronto con codici culturali e visivi del tutto estranei rispetto a quelli di Callistene. Si tratta, in altre parole, di una situazione relativamente prevedibile; eppure il fraintendimento e l'errore sono in agguato anche all'interno di uno stesso codice culturale. Vediamo allora come il processo interpretativo della gestualità nelle immagini sia talora tutt’altro che ovvio e lineare.

Guido Cagnacci, San Francesco in preghiera, 1640-1642, olio su tela, Cremona, Museo Civico

Riconoscimenti

“Isolato contro il fondo scuro da un fascio di luce che lo investe dall'alto, il santo compie un atto indecifrabile, portandosi la mano destra alla bocca”. Appena iniziato il commento a un dipinto di Guido Cagnacci, lo storico dell'arte sembra arrendersi di fronte al gesto compiuto dal san Francesco in preghiera (“un atto indecifrabile”) [Benati 2008, p. 232]. Eppure man mano procede l'esame del quadro ci accorgiamo che il senso dell'immagine viene comunque individuato: “pur non qualificandolo in modo preciso, è evidente che il pittore ha voluto ritrarre san Francesco, cogliendolo in un momento di umana solitudine e insieme di estatico abbandono al mistero divino che lo pervade”. Lo studioso da una parte dichiara onestamente di non riuscire a decifrare il gesto del santo, dall'altra riesce ugualmente a interpretarne la direzione fondamentale. Che cosa è successo? E' entrato in gioco un tipo di competenza che non coincide con quella “scientifica” degli storici dell'arte, ma in un certo modo la precede; è una competenza sull'uso del corpo che lo studioso, consapevole o meno che sia, condivide con la maggioranza delle persone della sua epoca e del suo contesto socio-culturale. Quell'aprire la mano inarcando le dita, quel portarla verso il volto come a stringere qualcosa nell'aria, lo abbiamo già visto; era un oratore accalorato, il monologo di un attore a teatro o al cinema, la discussione tra due persone accanto a noi? Non importa più di tanto risalire all'occasione precisa: si tratta di una forma che abbiamo assimilato, che ci è comunque familiare, tanto che riusciamo a coglierne abbastanza bene il tono e, se ce ne fosse il bisogno, potremmo a nostra volta farne uso.

Cristoforo Savolini, Sant'Ignazio di Loyola, metà  sec. XVII olio su tela, Santarcangelo di Romagna, Collegiata

Del resto, sempre a proposito del dipinto di Guido Cagnacci, non c'è bisogno di fare molta strada per trovare una situazione analoga. Il Sant'Ignazio di Loyola di Cristoforo Savolini, un altro pittore romagnolo del Seicento,  ci mostra un santo in preghiera accanto a un tavolo su cui sono posati un teschio, un crocifisso, dei volumi a stampa [Cellini 2008, p. 278]. Questa volta il santo solleva il capo a contemplare il monogramma cristologico, mentre tiene la mano sinistra sul petto; è una forma solo in parte simile a quella del san Francesco di Cagnacci: la mano non va in direzione del volto, ma del petto, mentre lo sguardo si dirige verso l'alto: in altre parole, anche il tono del gesto cambia. Si tratta comunque di due varianti, prossime l'una all'altra, dell'espressività della mano. Poiché aveva certo ragione Montaigne, negli Essais, a contare a decine le azioni che si compiono con le mani, ma ancora più difficile sarebbe individuare e misurare i modi in cui le mani, nella vita quotidiana e nelle immagini, assumono appunto un carattere espressivo. Se ne trova un esempio proprio nel passo successivo a quello di Guerra e pace citato prima:

La piccola mano bianca che teneva la decorazione si stese sino a toccare un bottone della giubba di Làzarev; Napoleone sembrava sapere che per rendere felice per sempre quel soldato premiato e distinto da tutti gli altri nel mondo, bastava soltanto che la mano di lui, Napoleone, gli toccasse il petto. E Napoleone si limitò ad appoggiare la decorazione sul petto e, ritirata subito la mano si volse ad Aleksàndr come se fosse certo che quella croce sarebbe rimasta attaccata alla divisa di Làzarev. E difatti vi rimase attaccata. Servizievoli mani, russe e francesi, afferrarono subito la croce e l'appuntarono sulla giubba di Làzarev. Questi guardò accigliato il piccolo uomo dalle mani bianche che aveva fatto qualcosa sul suo petto e continuando a restare sull'attenti, riprese a guardare il suo imperatore come per domandargli se dovesse rimanere ancora a lungo così o se dovesse allontanarsi o forse fare qualche altra cosa.

In questo brano tutto concentrato sui movimenti delle mani, ci accorgiamo che il gesto può essere espressivo anche nella sua reticenza: Napoleone non fissa la medaglia, lo faranno i suoi uomini, ma è come se l'avesse fatto, anzi, con forza ancora maggiore; la sua mano che tocca appena il petto del soldato compie tutto meno che un gesto utilitario. Sottili gradazioni di senso come quelle descritte da Tolstoj sono leggibili agli astanti solo se l'attenzione è massima e se è dato conoscere tutto sui personaggi e i rapporti gerarchici che intercorrono tra loro; in altre parole, non è detto che i gesti parlino a tutti e nello stesso modo.

L'esempio del San Francesco di Guido Cagnacci ha messo in evidenza quanto possano contare, nel processo ermeneutico, le competenze personali dello studioso, il suo “sapere corporale”. Nello stesso tempo il dipinto seicentesco pone un problema parallelo: in che misura è dato comprendere appieno i movimenti del corpo? È sempre possibile afferrarne integralmente le valenze?

Gradazioni

Nel caso del San Francesco di Guido Cagnacci ci siamo imbattuti in un gesto problematico: difficilmente catalogabile, ma alla fine comprensibile. Dunque, una cosa è la classificazione scientifica di un determinato atteggiamento corporeo, un'altra la sua comprensione, piena o parziale che sia. L'esempio del San Francesco in preghiera, in definitiva, pone una domanda sostanziale: che cosa significa effettivamente - nella vita reale e nelle immagini - “capire” la gestualità? I movimenti del corpo si presentano a noi - nell'una come nell'altra situazione - con un doppio volto: uno ostensivo, che serve alla chiarezza della comunicazione, e uno più opaco, che sottintende sempre un uso precedente, magari di lunghissima durata. “Un gesto è sempre quello dell'altro, dell'antenato”, come ha scritto Jean-Loup Rivière [Rivière 1979, p. 779]. Questo doppio volto può render ragione del fatto che riusciamo a intendere anche gesti in sé difficili e rari (quello di san Francesco da cui siamo partiti), ma anche del fatto che - viceversa - possiamo fare una certa fatica a intendere pienamente atteggiamenti, almeno in apparenza, più semplici. Facciamo tre esempi rimanendo nella pittura del Seicento.

Domenichino, Rimprovero ad Adamo ed Eva, 1623-1625, olio su tela, Grenoble, Musée des Beaux-Arts

Il Rimprovero ad Adamo ed Eva di Domenichino è noto in tre versioni, la più antica delle quali dovrebbe essere quella di Grenoble (1623-1625). La lettura dell'iconografia è assodata e risale almeno a Winckelmann, che descrive così la versione allora nella Galleria Colonna:

Bene immaginato è il quadro del Domenichino esistente nella Galleria Colonna, che rappresenta il Peccato Originale. L'Onnipotente portato da un coro di angeli rinfaccia ad Adamo il suo fallo; questi rigetta la colpa su di Eva ed Eva sul serpente che striscia per terra ai suoi piedi; e queste figure sono disposte a gradi come a gradi è l'azione, e formano una catena di movimenti che conducono da una all'altra. [Winckelmann, Il bello nell’arte, p. 90]

La “catena di movimenti” che vanno da destra a sinistra e dall'alto in basso è chiarissima e di certo ha più ragione Winckelmann a dire che Adamo “rigetta la colpa” su Eva che gli studiosi moderni ad affermare che la “incolpa” [Spear 1996, pp. 458-459]. Ma questo è descrivere pur sempre l'effetto dell'azione e non la sua forma. Se infatti guardiamo con attenzione il dipinto di Domenichino osserviamo che se il Padre ed Eva usano una delle forme canoniche del rimprovero (il dito indice puntato), Adamo compie un movimento ben diverso: da un lato stringe le spalle, dall'altro apre le mani tenendole all'altezza del petto e indirizzandole verso Eva. Il primo è un movimento ben noto anche a Darwin: "il gesto antitetico di stringersi nelle spalle, come segno di impotenza o di pazienza" [Darwin, L’espressione delle emozioni nell’uomo]; il secondo è il gesto di chi mostra le mani vuote e coi palmi aperti, perciò inoffensive. Questa combinazione di movimenti è piuttosto consueta, almeno in area mediterranea, per accompagnare frasi come: “che cosa potevo fare? Che colpa ne ho?”. Si tratta, in definitiva, di una sfumatura di senso tutt'altro che ovvia. Ed è altrettanto notevole osservare, in un campione del classicismo seicentesco come Domenichino, una combinazione gestuale tutt'altro che classica.

   

Cagnacci, Davide con la testa di Golia, metà sec. XVII, olio su tela, collezione privata (a sinistra); Cagnacci, Davide con la testa di Golia, metà sec. XVII, olio su tela, Columbia Museum of Art (al centro);  Jacques Callot, Ein Edelmann von vorne gesehen, incisione (a destra)

Altri due dipinti di Cagnacci, le due versioni del Davide con la testa di Golia: per quella in cui l'eroe biblico è vestito di blu si è parlato a ragione di “posa rilassata e insolente” [Benati 2008, cat. nr. 79] ; per quella del Columbia Museum of Art, di “alterigia” [Brogi 2008, cat. nr. 80]. Come si vede, anche in questi due casi, gli strumenti a disposizione degli studiosi consentono di circoscrivere abbastanza bene il tono della scena. Ma si tratta esattamente di alterigia e di insolenza? La posa, peraltro ben adatta a un personaggio come Davide, è tutt'altro che improvvisata, ma corrisponde a una ben precisa norma comportamentale degli aristocratici (e non solo in Italia) tra il Rinascimento e l'età barocca; come ha spiegato J. Spicer, è quella ostentazione del gomito che è dato osservare in tanti ritratti di questo periodo [Spicer 1991, pp. 84-128]. Un dato comportamentale ben preciso e del tutto familiare agli spettatori viene adattato a un personaggio biblico.

Pasqualino Rossi, Martire che si rifiuta di adorare un idolo pagano, olio su tela, 1679, Fabriano, San Benedetto

Un ultimo esempio di una possibile lettura riduttiva della gestualità antica. La tela di Pasqualino Rossi in San Benedetto a Fabriano, raffigura un martire che si rifiuta di adorare un idolo pagano [Diotalevi 2009, p. 117]. Lo svolgersi della scena è chiarissimo: il manigoldo minaccia il fedele cristiano, un angelo arriva dall'alto a portare la palma del martirio, sullo sfondo la statua di una divinità antica; che senso ha il movimento della mano sinistra del martire? A prima vista si direbbe la “mano parlante”, quel segnale che gli artisti per tutto il medioevo e oltre hanno scelto per indicare che il personaggio sta parlando; più probabilmente, chi guardava il dipinto collegava questa mano che si alza e si apre al movimento che ancora oggi si usa per accompagnare frasi come: “non ne voglio sapere!”.

Dobbiamo insomma mettere in conto che certi gesti possano essere notati ma non intesi o intesi solo in parte. E nello stesso tempo dobbiamo tener presente che il versante della gestualità ha sempre giocato un ruolo speciale nella lettura delle immagini, anche da parte delle persone comuni. Lo dimostra, tra l'altro, l'aneddoto riportato da Bellori (e poi tante volte citato in età barocca) della devota vecchina che dà la sua preferenza alla Flagellazione di S. Andrea di Domenichino rispetto al S. Andrea portato al supplizio di Guido Reni, entrambi nell'Oratorio di Sant'Andrea al Celio a Roma:

Annibale [Carracci], fra gli altri discorsi altrui, disse che egli aveva imparato a giudicare queste due opere da una vecchierella, la quale riguardando la flagellazione di Sant'Andrea, dipinta da Domenico, additava, e diceva ad una fanciulla da essa guidata per mano: “Vedi quel manigoldo con quanta furia inalza i flagelli? Vedi quell'altro che minaccia rabbiosamente il santo col dito, e colui che con tanta forza stringe i nodi de' piedi? Vedi il santo stesso con quanta fede rimira il cielo?” Così detto, sospirò la vecchierella divota, e voltatasi dall'altra parte riguardò la pittura di Guido e si partì senza dir nulla”. [Bellori, Le vite, p. 319]

Come dire che, nelle immagini, la gestualità non solo deve essere coerente con la storia narrata, ma deve essere pienamente leggibile e perciò rifarsi sempre a un codice del tutto familiare allo spettatore.

Bibliografia fonti
Bibliografia critica
English abstract

Understanding other people's gesture is a process that – far from being obvious and automatic – requires even in everyday life an unexpected number of skills. The task of interpreting the role played by gestures in images is thus even more complex, as one cannot observe the motion of the gesture in its development. By concentrating on a choice of XVII century painting, this article aims at showing how the understanding of gesture in works of art is built both on our everyday relational skills and on the mastery of the gestural and visual codes of the different epochs.

 

keywords | Gesture; Interpretation; Tolstoj; Images; Paintings; Visual codes; Guido Cagnacci; Cristoforo Savolini; Domenichino; Pasqualino Rossi.

Per citare questo articolo / To cite this article: C. Franzoni, Gestualità: le peripezie dell’interpretazione, “La Rivista di Engramma” n. 99, luglio-agosto 2012, pp. 105-111 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2012.99.0016