"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

89 | aprile 2011

9788898260348

Nota su Ludwig Wittgenstein architetto

recensione a Daniele Pisani, L'architettura è un gesto. Ludwig Wittgenstein architetto, Quodlibet, 2011

Alberto Ferlenga

English abstract

La casa progettata da Ludwig Wittgenstein per la sorella Margaret a partire dal 1926 ha sempre posto, a chi se n’è occupato, notevoli problemi di interpretazione. La ragione sta essenzialmente, come è noto, nelle figure coinvolte nel processo progettuale e nel ruolo da esse effettivamente svolto. Da un lato la relativa opacità dell’architetto, Paul Engelmann, allievo di Adolf Loos, rende difficile collocarla dentro una carriera professionale all’interno della quale costituirebbe un'inspiegabile eccezione, dall’altro la personalità del filosofo induce inevitabilmente i critici a cercare nella trasposizione delle sue teorie al campo della costruzione la chiave di lettura per analizzare il percorso creativo da cui essa trae vita. La vicenda ha assunto, così, i contorni di un piccolo enigma architettonico per risolvere il quale sono state avanzate ipotesi troppo spesso condizionate dalla volontà aprioristica di attribuire all’edificio il valore di un manifesto, o di vederlo come una sorta di rito iniziatico che celebra l’incontro tra due discipline che si scoprono simili. Sulle incertezze d’attribuzione è cresciuto anche un piccolo mito, così come è avvenuto per un altro caso emblematico dell’intreccio tra personalità e culture diverse: Villa Malaparte a Capri. Anche in questo caso, le vicende progettuali vedono incrociarsi le azioni e le volontà di un architetto (più noto e autonomo questa volta) come Adalberto Libera e quelle di uno scrittore come Curzio Malaparte ma, anche in questo caso, la dialettica e talvolta lo scontro che si crea tra i due artefici spiega solo parzialmente l’origine della particolare fama dell’edificio, cresciuta a tal punto da rendere problematica ogni sua collocazione all’interno della storia dell’architettura del ‘900.

È vero, però, che una serie di ragioni specifiche quali il coinvolgimento nell’ideazione e nella costruzione di figure anomale rispetto alla pratica ordinaria dell’edificare, la collocazione in luoghi eccezionali, una evidente bellezza dell’opera e, non ultima, la volontà di plasmare la casa sulla personalità del proprietario ha fatto dei due edifici opere architettoniche 'a parte'; ma non sta solo in questo la ragione della loro eccezionalità dal momento che aspetti di questo tipo hanno caratterizzato anche altre opere, che non per questo hanno assunto un valore emblematico.

Ciò che invece accomuna le due case, fatte salve le innumerevoli differenze che le separano, è di aver contribuito ad introdurre nella vicenda architettonica del secolo scorso un benefico granello di sabbia che ha fatto inceppare il meccanismo delle conseguenze ritenute inevitabili, delle attribuzioni stilistiche e delle affinità frettolosamente decretate. Un’'imperfezione' che ha messo in crisi il quadro ricostruttivo di una storia che appare più contraddittoria e complessa di come è stata fin qui raccontata. Ma, soprattutto, il modo in cui si sviluppa la realizzazione delle due 'residenze' ha 'svelato' alcuni nodi fondamentali del processo creativo in architettura, sottraendoli al campo dei 'segreti del mestiere' e rendendo più evidenti meccanismi e passaggi grazie a quella sorta di rallentamento imposto al corso esecutivo della costruzione dalle tensioni tra gli autori o dalla necessità, che una parte di essi aveva, di appropriarsi di una disciplina estranea alla propria formazione.

Il libro di Daniele Pisani, che esce oggi nella collana Quodlibet studio, affronta le questioni poste dall’edificio sulla Kundmanngasse da una molteplicità di versanti assumendo, sin dall’inizio della trattazione, una posizione di equilibrio tra la considerazione, pur attenta, delle premesse che ne hanno influenzato la genesi e l’analisi delle conseguenze del processo progettuale osservate nella loro autonomia; equilibrio o distanza che, in casi come questo, appare il requisito fondamentale per una lettura corretta ed originale dell’opera.

Nel volume si restituisce, innanzi tutto, con chiarezza e abbondanza di dati, il contesto storico e familiare da cui l’impresa sgorga, per poi seguire ogni traccia lasciata sull’edificio sia dalle discendenze architettoniche del suo autore-architetto che dai principi teorici del suo autore-filosofo. Sono d’aiuto, in questa opera di meticolosa lettura, le costruzioni grafiche, disegnate per l’occasione, che permettono all’analisi di isolare i temi che lo sforzo progettuale affronta e di considerarli in rapporto a quella pratica corrente del costruire, che rappresenta il contesto di riferimento in cui l’avventura viennese si sviluppa.

Il percorso logico delle idee interseca così, costantemente, quello artistico delle forme e dei dettagli, dipanandosi in un viaggio, puntigliosamente annotato, che si sviluppa tra le pareti di una casa, ma che riconosce anche in altri luoghi fonti ed ispirazioni. Emergono, in questo modo, alcune questioni centrali della pratica architettonica, che vanno ben al di là dei riferimenti scontati alle teorie del filosofo viennese. Il lettore è, infatti, condotto all’interno di quella sostanziale riformulazione del mestiere dell’architetto messa in atto da Wittgenstein attraverso la sua costruzione: viene messo nelle condizioni di seguire la pratica di straniamento che si sviluppa nel conseguimento di precisi obiettivi di dettaglio dentro una condizione di sostanziale libertà nei confronti di tutte le convenzioni del progettare. Nel cantiere della casa per la sorella, il filosofo è, infatti, libero da tutti quei legami che condizionano il gesto dell’architetto: è sgravato, ad esempio, dal peso della scelta nei confronti della forma complessiva dell’edificio dal momento che l’appartenenza ad un certo ambiente culturale, l’influenza dell’amico tecnico e soprattutto l’epoca in cui l’impresa si svolge collocano automaticamente l’edificio nella scia di un’esperienza estetica e di rinnovamento che altri, Hoffmann e Loos sopra tutti, avevano già da tempo enunciato e messo in pratica. Egli lavora, in sostanza, all’interno di un quadro in cui le scelte architettoniche fondamentali sono già state fatte; il suo, come ricorda Pisani, è piuttosto un lavoro di chiarificazione che non implica invenzione, se non nella misura del dettaglio. O di correzione, si potrebbe anche dire, per riprendere il termine ossessivamente ripetuto da Thomas Bernhard nel libro liberamente dedicato alla vicenda della casa, immaginata in forma di piramide e collocata all’interno di un bosco. Chiarificazioni o correzioni che, oltrepassate le mura di un involucro in parte scontato – almeno rispetto al tempo cui appartiene –, si trovano a partire da un grado zero dell’esperienza progettuale. Non possono, infatti, contare sull’aiuto di quegli automatismi che, per ogni architetto, provengono dalle opere già edificate o da una specifica conoscenza storica e legano sempre ciò che si realizza a ciò che viene prima e a ciò che segue. Privo di questo bagaglio, se non per quello che riguarda l’esperienza autobiografica dell’abitare, il filosofo è costretto a ripercorrere i passi fondanti di un mestiere che, pur non essendo il suo, gli appare sempre meno estraneo, mano a mano che ne svela logiche e strumenti. Questioni generali come esattezza e precisione assumono, in questa opera di re-invenzione, come ricorda Pisani, un’importanza particolare. Colui che sempre più si trasforma nell’unico autore dell’opera si misura con quella connotazione specifica che esse assumono nel farsi di un prodotto architettonico e, più precisamente, con il carattere assoluto e relativo al contempo che ogni scelta architettonica esprime.

Nella creazione della casa per la sorella ciò che conta, per il progettista-filosofo, è il processo, e il metodo è garanzia del risultato; ma il suo lavoro, seguito nel libro centimetro per centimetro, rivela anche il mondo delle verità parallele in cui i passaggi resi inevitabili dalla logica, dal coincidere esatto dei particolari, non riescono a nascondere la possibilità di altre scelte che in tutte le architetture rimangono latenti, inespresse, invisibili ma pur sempre parte dell’opera. Il progettista-architetto avrebbe saputo che ogni verità generale può, in corso d’opera, essere contraddetta e che ogni edificio di pregio esprime anche le sue contraddizioni, soprattutto, che ogni edificio serve per sperimentare ciò che quello successivo potrà perfezionare, in una relazione che non ha fine. Ma per Wittgenstein questa seconda possibilità non era data. 

English abstract

Recently released by Quodlibet publisher, the book Architecture is a gesture by Daniele Pisani considers the house that Ludwig Wittgenstein created in Wien during the 20s for his sister Margaret. The book aims to consider the house in the first place in its architectural configuration, though not arbitrarily isolating it from the intellectual journey of its author: in other words, the intent of the book is to ‘demystify’ Wittgenstein’s house, so to attempt to show it at last in all its complexity. As a result the house emerges as the privileged standpoint from which to glance at the architect’s profession and on its conventions, on the rigour with which it can (and should) be practiced, and the frictions which it is continuously forced to face.

 

keywords | Quodlibet; Architecture; Daniele Pisani; Ludwig Wittgenstein.

Per citare questo articolo / To cite this article: A. Ferlenga, Nota su Ludwig Wittgenstein architetto. Recensione di Daniele Pisani, L’architettura è un gesto. Ludwig Wittgenstein architetto, Quodlibet 2011, “La Rivista di Engramma” n. 89, aprile 2011, pp. 41-44 | PDF di questo articolo