"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

2 | ottobre 2000

9788894840018

Tradizione e attualità nell’icona di Edith Stein 

L’icona dall’Atelier del monastero di Harissa, Libano

Eleonora Simonato

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Descrizione dell’icona

 
Un’icona recentemente pubblicata dall’Atelier del Carmel de la Theotokos di Harissa rappresenta la figura di Santa Teresa Benedetta della Croce e la complessità della sua vicenda umana. Meglio nota come Edith Stein (1891-1942), la santa è una donna di origine ebraica. La sua naturale inclinazione per l’attività educativa e l’ardente passione per la ricerca della verità la conducono a una pedagogia attenta e innovativa e all’incontro con la filosofia fenomenologica di Husserl, cui apporterà una sensibile evouluzione. La verità cercata si rivela Verità divina, assoluta e originaria, nelle pagine autobiografiche di Santa Teresa d’Avila. Vivendo in prima persona la teoria dell’empatia, Edith sente l’urgente necessità della conversione: così nella comunione con Dio-Verità trova compimento l’Ebraismo. E offrendo la propria vita a Cristo nell’ordine di Maria del Monte Carmelo, completa nella sua carne quanto manca alla Passione di Gesù nel mistero della Croce (morirà martire ad Auschwitz). Pur nella serena immobilità delle icone, la figura della santa interagisce con gli elementi del paesaggio attraverso i quali è possibile ricostruirne precisamente la vicenda, e ciò che sorprende sono la ricchezza e l’eloquenza di tali elementi visivi. Inoltre la sensibilità prettamente orientale dell’icona si concilia con le differenti specificità del pensiero occidentale, di cui la Stein è esponente di primo livello. La religiosità, la filosofia, la visione artistica di Suor Teresa Benedetta della Croce sono estremamente affini alla spiritualità delle icone al punto che solo questa rappresentazione artistica è in grado di rendere al meglio ciò che fu, ciò che è Edith Stein.

L’immagine, recentemente utilizzata come copertina del calendario liturgico del Carmelo Teresiano d’Italia (1999), è un’icona scritta raffigurante Santa Teresa Benedetta della Croce ovvero Edith Stein. Purtroppo le informazioni reperibili in Italia sono davvero scarse: mancano infatti la datazione, le dimensioni, la collocazione. Si sa solamente che il dipinto è di recente realizzazione e proviene dall’Atelier du Carmel de la Theotokos di Harissa, città libanese e rinomato centro per la produzione di icone.

Innanzitutto è necessario capire come mai si è scelto di rappresentare Edith Stein, monaca carmelitana e santa contemporanea ma anche donna ebrea di grande cultura, riconosciuta filosofa e docente universitaria – esponente quindi di una cultura tipicamente occidentale e moderna – e di rappresentarla con un’icona, figurazione artistica e cultuale espressamente orientale.

La figura femminile in abito monastico carmelitano si trova al centro dell’immagine; a sinistra compare un ulivo su una collina, ai piedi del quale si apre una scura voragine con un teschio; un lembo della cappa bianca è impigliato nell’albero; a destra s’innalza un monte. La santa si trova proprio ai piedi di esso, nei pressi di un corso d’acqua che sgorga da un altare posto sulla cima; nella parte più alta della vetta, dietro al fiume compare un roveto ardente.

La santa è ritratta di tre quarti mentre osserva il paesaggio alla sua destra con la testa lievemente reclinata, le gambe sono flesse, il piede destro è privo del sandalo, la veste scapolare appena mossa. Tra le dita della mano destra, sollevate in un gesto benedicente, vi è una croce; la mano sinistra invece stringe al grembo il tallit, il velo della preghiera ebraica (un panno bianco con nappe pendenti e strisce azzurre); un’ampia aureola le incornicia il volto.

Il fondo oro è occupato dalle scritte dedicatorie in greco e in ebraico, mentre nella parte più alta dell’immagine, al centro e in asse col volto della santa, si apre una lunetta in varie tonalità di azzurro, delimitata da un arcobaleno, nella quale sono raffigurati la menorah (il candelabro a sette braccia) e un altare o tavolo o trono, sul quale è posto un libro sovrastato dalla colomba dello Spirito.

L’uso del greco nell’iscrizione superiore del campo, anziché del francese, dell’inglese o del libanese (le lingue ufficiali del Libano), si spiega proprio per la funzione dell’icona presso le comunità cattoliche di rito greco, delle quali le monache di Harissa fanno parte. L’icona permette quindi la diffusione dell’immagine votiva della Santa, presentando anche quella che è la sua origine, il nome è infatti scritto in caratteri ebraici: אדית שטיין

II. Biografia, pensiero estetico e mistica di Edith Stein 

12/10/1891
Edith Stein nasce a Breslavia da Siegfried e Auguste Courant, nel giorno dello Yom Kippur, la festa ebraica della Grande Espiazione.

1913
Dopo essersi interessata ai problemi e ai metodi della psicologia, segue all’Università di Gottingen i corsi di Edmund Husserl, fondatore della corrente filosofica della Fenomenologia. Presta servizio come crocerossina volontaria all’ospedale per malattie infettive di Mahrisch Weisskirchen.

1916
Si trasferisce a Friburgo e discute la sua tesi di laurea.

1917
Visitando la vedova di A. Reinach, caduto in guerra, la trova serena davanti alla morte, forte nel suo cristianesimo vissuto: è il primo contatto con la fede cristiana e con la croce.

estate 1921
Durante una visita ai coniugi Conrad-Martius legge la Vita di Santa Teresa del Bambin Gesù e sente confermato il suo desiderio di conversione alla fede cattolica.

1/1/1922
Riceve i sacramenti cristiani del battesimo e della prima comunione.

1923-1932
Insegna lingua e letteratura tedesca al Collegio Domenicano di Santa Maddalena a Spira. Svolge anche un’intensa attività di conferenziera.

1932-1933
Diviene libera docente all’Istituto Superiore di Pedagogia Scientifica a Münster.

1933
A causa della discriminazione razziale deve lasciare l’insegnamento.

14/10/1933
Entra nel Convento del Carmelo di Colonia.

15/4/1934
Veste l’abito carmelitano con il nome di Teresa Benedetta della Croce: questo atto sancisce la sua conversione di fede, ma anche la sua adesione teologica al Cristianesimo, considerato come il compimento dell’Ebraismo.

31/12/1938
Lascia il Carmelo di Colonia per rifugiarsi in quello olandese di Echt.

2/8/1942
Suor Teresa Benedetta della Croce viene catturata dalle SS: in quanto ebrea e soprattutto a causa della sua scandalosa conversione, viene deportata con la sorella Rosa nel campo di concentramento di Amersfoort, poi in quello di Westerbork, infine di Auschwitz.

9/8/1942
Muore ad Auschwitz e il suo corpo viene cremato.

1/5/1987
Viene beatificata.

1987
Il Vaticano ne annuncia la canonizzazione.

12/10/1998
Giovanni Paolo II la proclama Santa. La canonizzazione suscita proteste e polemiche da parte di esponenti della Comunità ebraica.

Durante la presentazione della santificazione di Edith Stein a Venezia, il 17 novembre 1998 presso la chiesa di Santa Maria in Nazareth, Massimo Cacciari l’ha definita “la prima grande filosofa cristiana dai tempi di San Tommaso d’Aquino”. Nelle opere di Edith Stein si pone chiaro il quesito se esista una vera e propria filosofia cristiana, e che rapporto intercorra tra la fede e la ragione. Così Stein descrive ciò che la filosofia cristiana intende designare:

L’ideale di un perfectum opus rationis che sia riuscito a raccogliere in unità tutto quello che ci è reso accessibile dalla ragione naturale e dalla Rivelazione.

Dunque la filosofia è aperta alla teologia e può venire integrata da quest’ultima; ma il compito della filosofia, seppure filosofia “cristiana”, resta il preparare il cammino alla vera fede, che non si risolve nell’indagine di singole verità su Dio, ma cerca un incontro profondo con Lui, il quale è la Verità prima e ultima. L’attenzione alla Verità e la sua assidua ricerca sono già da tempo preparate in Stein nel percorso intellettuale che la porta a sviluppare la teoria originale dell’empatia, avvicinandola all’esperienza di fede. L’essenza del processo empatico è spiegata dalle sue stesse parole:

Nella mia esperienza vissuta non-originaria, io mi sento accompagnato da un’esperienza vissuta originaria, la quale non è stata vissuta da me, eppure si annunzia in me, manifestandosi nella mia esperienza vissuta non originaria. In tal modo noi perveniamo per mezzo dell’empatia a una specie di atti esperienziali sui generis.

Edith Stein si è d’altronde interessata in modo significativo al problema artistico ed estetico. Nell’introduzione alla Scientia Crucis si leggono le sue riflessioni sull’arte in relazione alla filosofia, alla fede e al senso ultimo e pieno dell’Essere: “Ogni creazione artistica [è] una forma di servizio divino”. E nell’esempio della rappresentazione della croce:

Il crocifisso esige anche dall’artista qualcosa di più di un semplice ritratto. Egli chiede a lui, come ad ogni uomo del resto, l’imitazione: che egli si conformi e si lasci plasmare a immagine e somiglianza di Colui che porta la croce e ci viene confitto sopra […]. La produzione artistica esterna da lui [artista] creata può servirgli continuamente di sprone a lavorare su se stesso e sulla mentalità sino a rispecchiare il modello. L’esempio del crocifisso non è uno tra gli altri, ma l’essenziale, perché ogni realizzazione ha il Cristo come modello, a doppio titolo di Senso dei sensi e di Uomo perfetto.

Queste parole risultano facilmente interpretabili come una realizzazione fenomenologica dell’arte. Il ruolo dell’icona-ritratto, sempre secondo la filosofia steiniana (in questo perfettamente consonante con la teoria ortodossa), è quello di servire alla contemplazione dell’archetipo (sfolgorante di bellezza divina) per colmare la distanza tra l’essere reale (soggetto a decadenza) e il dover essere (piena conoscenza dell’esistenza – e quindi del senso – nella prospettiva del compimento). In ciò riecheggia la specifica spiritualità delle icone. In particolare, la Verità acquista allo stesso tempo due significati affini. È la verità artistica che Stein riconosce all’opera quando essa “è ciò che deve essere”, verità che consiste nella conformità dell’opera con l’idea pura – il prototipo presso Dio – e che è fondamento dell’opera stessa, e nel contempo realizza una doppia rivelazione: della verità artistica e dell’essenza dell’artista. Ma è anche la verità cercata da Edith attraverso la via filosofica è raggiunta nella rivelazione della fede. Stein paragona la coerenza di intelligibilità nel Logos a un’opera d’arte in cui ogni tratto particolare si inserisce al suo posto nell’armonia di tutto il quadro, secondo una legge purissima e rigorosissima. E quali tecnica e stili pittorici sono più appropriati dell’icona per esprimere una tal perfezione? 

Sul senso dell’opera d’arte, in Essere finito e Essere eterno Edith Stein sottolinea come esso, benché non vivente, e dunque in se stesso incapace di generare la forza propulsiva verso uno scopo, è “carico di forza (energia potenziale) e si scarica entrando di nuovo nella connessione vivente di una persona spirituale”, che corrisponde alla serena immobilità dell’icona.

Ma chi le carica di senso se non il pittore, qui divino? E chi se ne trova impregnato se non colui che contempla l’immagine? (Hatem 1998)

Partecipe di un’esperienza mistica, aggiungiamo, come ogni persona che si trovi di fronte a un’icona, fedele e non.

Ogni autentica opera d’arte è anche un simbolo: è indifferente se ciò rientri o no nell’intenzione dell’artista, se egli sia naturalista o simbolista. Un simbolo, ossia qualcosa che è stato afferrato ed enunciato, dalla infinita pienezza del sentimento su cui fa leva ogni nozione intellettiva umana, e di cui egli parla; e proprio in modo che tale pienezza di sentimento, inesauribile com’è per ogni intelletto umano, vi riecheggi misteriosamente […]. Ogni creazione artistica [è] una forma di servizio divino.

Fin dal 451 il Concilio di Calcedonia aveva chiarito che:

L’icona non rappresenta né la sola natura divina né la sola natura umana del Cristo, ma la sua persona, la persona del Dio-uomo che unisce in sé senza mescolanza né divisione le due nature.

Le icone dei Santi, cioè la rappresentazione di uomini, sono poi ammesse in quanto l’uomo viene redento attraverso l’Incarnazione del Figlio, il quale ricrea l’originaria immagine del Padre presente nell’uomo e perduta con il peccato originale (Gn 1). Benedicendo un’icona la Chiesa ne riconosce la somiglianza a colui che è rappresentato (il prototipo) ma sceglie che non sia realistica, perché compito dell’icona è di far partecipare l’uomo al mistero divino, così come afferma Pavel Evdokimov:

L’icona si afferma indipendente dall’artista e dallo spettatore, e suscita non l’emozione, ma la venuta del trascendente di cui attesta la presenza. L’artista si nasconde dietro alla tradizione che parla (AA.VV 1977)

Quindi il contenuto delle icone è dogmatico e non artistico, ed è bello perché conforme alla Verità; così infatti Suor Maria Donadeo:

Forse saremo condotti dalla forza dello Spirito nella luce dell’icona a contemplare non soltanto il volto di Gesù, ma anche la luce della divina verità.

Il concetto di luce dell'icona è così altrimenti spiegato dal teologo laico ortodosso francese Olivier Clément:

La luce dell’icona simboleggia la gloria divina, increata, velata dalla sua profusione stessa, rinviante alla sua sorgente sovraessenziale. Per questo in una icona la luce non proviene da un punto posto all’interno del cosmo e producente il fenomeno dell’ombra in cui si esprimono l’opacità e la doppiezza dell’uomo. Dio tutto in tutti, in tutto, si fa nostra luce. E questa non proietta ombra perché viene da tutti i lati insieme e nulla le è opaco. Gli iconografi chiamano luce il fondo stesso dell’icona; più esattamente, la coloritura, applicata in strati sottili, dai toni scuri verso i più chiari, dà all’icona una specie di trasparenza, il disegno più scuro dei primi strati trasparendo attraverso la luminosità degli strati superficiali. L’estetica spirituale dell’icona è dunque una specie di musicalità dell’onnipresenza solare (Clément 1978)

In quest’ottica nell’icona l’uomo è purificato, trasfigurato, deificato, rivestito della bellezza incorruttibile di Dio: ne è immagine e somiglianza, sino a divenirne sua raffigurazione vivente. Le icone diventano così luoghi di contatto con l’eterno. La serena immobilità che le caratterizza è testimonianza della presenza dell’eterno e, secondo Evgenij Trubeckoj, è segno di vita umana ridotta al silenzio poiché la carne non vive più di vita propria, ma di vita sovrumana.

III. Lettura dell’icona di Edith Stein

Dalla semplice descrizione iconografia sono emersi numerosi elementi.

III. 1 L’ulivo

L’ulivo è una pianta ricca di significati simbolici dal punto di vista religioso: dai suoi frutti si ricava l’olio col quale vengono consacrati re, sacerdoti e profeti; l’ulivo poi richiama subito il Getsemani dove si era ritirato Gesù prima di essere arrestato (Mt 26, 30). Ma quale relazione ha con esso il teschio posto ai suoi piedi? Pare ricordare il monte Calvario, detto proprio “luogo del Cranio”, ma rinvia di certo anche al teschio di Adamo sopra al quale fu innalzata la croce di Cristo che, vincendo il peccato originale, assume il nome simbolico di Nuovo Adamo. Si ipotizza dunque un’interpretazione dell’ulivo come Croce o come lo stesso Cristo.

Ulivo come Croce. Ad avvalorare una lettura in tal senso si può analizzare la particolarità del Crocefisso della Chiesa di Santa Maria Gloriosa dei Frari in Venezia: il legno della croce è reso da tre tonalità differenti di marrone la cui disposizione esclude un’intenzione di pura resa spaziale; il restauratore spiega come ciò era insito nella primitiva spiritualità francescana che voleva rappresentare il legno di cipresso, di vite e di ulivo, legni coi quali si riteneva fosse costruita la vera croce (Savio 1996-97).

Ulivo come Cristo. Nella Lettera ai Romani (Cap. 11) l’apostolo Paolo parla di Cristo come Buon Ulivo. In Giovanni (Gv 14,6) Cristo è Via, Verità e Vita, alla quale vita allude l’albero che, nel ciclo stagionale, rinasce sconfiggendo la morte. In Medio Oriente, poi, l’albero della vita è visto come svettante verso il cielo con le radici nel regno dei morti.

Un documento ufficiale della chiesa del 1965 – l’enciclica Nostra Aetate del Concilio Vaticano II – conferma l’ambivalenza dell’interpretazione e a proposito della religione ebraica dice:

Si nutre della radice dell’ulivo buono su cui sono stati innestati i rami dell’ulivo selvatico che sono i popoli pagani (Rm 11, 17-24). La Chiesa crede, infatti, che Cristo, nostra pace, ha riconciliato i giudei e i pagani per mezzo della sua croce e che dei due ha fatto un popolo solo in se stesso (Ef 2, 14-16)

III. 2 La collina e il monte

Cristo salvatore per mezzo della sua croce. L’ipotesi è avvalorata anche dalla collina sulla quale sorge l’ulivo, paragonabile alla collina sulla quale viene innalzato il Crocefisso. Alla collina è giustapposto il monte: luogo d’incontro tra cielo e terra, è simbolo dell’ascesa mistica – il cammino percorso da Edith – ed è il luogo privilegiato per la teofania. La collina è a sinistra, lato relativo alla terra; il monte è a destra, lato relativo al cielo.

In Isaia (2, 2 ss) il monte è quello dell’Alleanza, il cui segno per eccellenza è l’arcobaleno (Gn 9,11). Sulla sommità del monte si trovano delle pietre disposte ad altare, simbolo che si presta a molteplici significati. È il corpo di Cristo riposto nel sepulcrum, i suoi gradini richiamano i corpi dei martiri in Cristo (Edith morì martire in un campo di sterminio), è altresì un luogo sacrificale; altare è anche il cuore di ogni uomo nel quale arde il fuoco divino. Sant’Agostino vede i gradini come virtù: la via per giungere alla perfetta unione con Dio. Il fuoco divino è presente anche nel roveto ardente che Edith guarda attraverso la croce: ella si unì all’amore di Dio nel Carmelo per mezzo della croce. Ma l’altare dell’icona riprende anche la tipologia dell’altare del sacrificio, simile a quello innalzato da Elia, considerato il padre dell’ordine carmelitano, sul monte Carmelo (Re 18, 31-40):

Elia prese dodici pietre, secondo il numero dei discendenti di Giacobbe, al quale il Signore aveva detto: “Israele sarà il tuo nome”. Con le pietre eresse un altare al Signore; scavò intorno un canaletto, capace di contenere due misure di seme. Dispose la legna, squartò il giovenco e lo pose sulla legna. Quindi disse: “Riempite quattro brocche d’acqua e versatele sull’olocausto e sulla legna!”. Ed essi lo fecero. Egli disse: “Fatelo di nuovo!”. Ed essi ripeterono il gesto. Disse ancora: “Per la terza volta!”. Lo fecero per la terza volta. L’acqua scorreva intorno all’altare; anche il canaletto si riempì d’acqua. Al momento dell’offerta si avvicinò il profeta Elia e disse: “Signore, Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, oggi si sappia che tu sei Dio in Israele e che io sono tuo servo e che ho fatto tutte queste cose per tuo comando. Rispondimi, Signore, rispondimi e questo popolo sappia che tu sei il Signore Dio e che converti il loro cuore!”. Cadde il fuoco del Signore e consumò l’olocausto, la legna, le pietre e la cenere, prosciugando l’acqua del canaletto. A tal vista, tutti si prostrarono a terra ed esclamarono: “Il Signore è Dio! Il Signore è Dio”!.

Il passo è fondamentale per l’interpretazione del paesaggio che compare alla destra della Santa: montagna, acqua, altare e fuoco trovano qui una lettura complessiva. Proseguendo nell’analisi dei singoli elementi, l’acqua ha una funzione purificatrice, soteriologica e vitale. La fonte, che ha un richiamo diretto con la salvezza, sorge dall’altare, sommerge la montagna e si raccoglie in un torrente. Il fuoco, presente qui nel roveto, si presta a molteplici letture: è segno di Cristo, dell’amore divino, del sacrificio, rappresenta le vocazione di Mosè e simboleggia il concepimento virginale di Gesù.

Le due letture sovrapposte permettono di leggere il contenuto dell’icona tenendo conto della sua complessità: in esso prevale l’aspetto sacrificale/doloroso. La sofferenza di Edith è assimilata alla sofferenza di Cristo, nel suo cammino di cristificazione. La persecuzione, la sofferenza, lo stesso olocausto sacrificale sono riscattati da Cristo portatore di salvezza: quindi la Verità cercata si è rivelata anche in Edith, chiamata a testimoniare Dio attraverso il martirio e il sangue stillato dalla Santa viene raccolto nel calice della Nuova Alleanza per la salvezza di tutti gli uomini.

La Santa non è ieraticamente immobilizzata in una delle pose contemplative canonizzate dalla tradizione, ma si inserisce interattivamente nel paesaggio, compiendo gesti simbolici. Come il piccolo Gesù nell’icona della Pathousa, spaventato dalla visione degli angeli con gli strumenti della passione Edith Stein perde il sandalo scossa da un fremito di paura per la missione che l’attende. E quindi il piede di Edith non è scalzo casualmente: esso richiama anche l'atto giuridico secondo cui togliersi il sandalo significa rinunciare all’autodeterminazione e cedere un diritto. Edith rinuncia a se stessa, alla sua carriera di filosofa e di intellettuale e cede tutti i diritti a Cristo, lasciandosi plasmare dal Suo esempio. In Marco si legge:

Se qualcuno vuole venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua, perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà e chi perderà la propria vita a causa mia la salverà (Mc 8, 34-35)

Il piede allude anche a una situazione di transito: decidersi per Dio è il passaggio più importante della vita. Non va dimenticato inoltre come Dio, parlando a Mosè dal roveto ardente, gli chiese di togliersi i sandali perché il luogo su cui camminava era sacro.
Edith è ebrea. Un lembo della sua cappa è agganciato all’ulivo: innestata nel Buon Ulivo paolino (Rm 11), Edith ne diventa ramo vivente. Ma l’ulivo è pure lo stesso popolo ebreo, il popolo eletto. Edith non rinnega la sua origine giudaica, ma la porta a compimento. Scrisse, infatti: “Non può credere che cosa significhi per me essere figlia del popolo eletto, appartenere a Cristo non solo per lo spirito, ma anche per il sangue”.

Nell’icona che la rappresenta stringe caramente a sé il tallit, il velo della preghiera indossato dagli uomini ebrei. Esso indica per Edith non solo la sua stirpe, ma soprattutto l’atteggiamento adorante della sua anima contemplativa e la nuova ed eterna Alleanza con il Cristo sancita dall’amore. Alleanza che porta a compimento la missione della Edith ebrea, nata il giorno dello Yom Kippur.

Sovrapponendo le due letture si può giungere a una maggiore completezza di significato. L’immagine racchiude in sé una molteplicità di aspetti non risolvibili con un’interpretazione univoca, quindi si deve rendere conto della sua complessità che è, al tempo stesso, la ricchezza dell’icona. Prevale un forte aspetto sacrificale/doloroso, il quale assimila la sofferenza personale dell’ebrea nell’olocausto alla sofferenza della Chiesa, vissuta nella conformazione del proprio essere alla croce di Cristo, una conformazione coronata dal martirio. La morte, la sofferenza, l’olocausto sacrificale non sono fine a se stessi, bensì sono riscattati dal sangue di Cristo che, il terzo giorno, resuscitò: aspetto di salvezza. Il cammino di imitazione di Cristo, anche in chiave fenomenologica, può giungere a compimento solo quando si sia rivelata la Verità cercata: ecco quindi monte e roveto; ma anche sacrificio di Elia come luogo di teofania, luogo in cui Dio si rivela da un lato al popolo ebraico, di cui la Santa si sente parte, e dall’altro personalmente a Edith chiamandola, come fece con Mosè, a una missione particolare; ella è chiamata a testimoniarlo. La cristificazione comporta che ogni fedele prenda la propria croce, pesante di dolore, e ciò inevitabilmente provoca un fremito di spavento (riconosciuto nella perdita del sandalo); ma la carne, che viene provata nella sua debolezza, è sostenuta dalla fermezza dello spirito, nella certezza che la partecipazione alla gloria del corpo mistico di Cristo – che è la Chiesa – trionferà sulla cruenza del martirio.La croce segna la profonda unione con Cristo ed è mediatrice tra uomo e Dio, Edith diventa Santa Teresa Benedetta della Croce (trascritto nell’icona a caratteri greci) ma resta pur sempre Edith Stein (trascritto in caratteri ebraici): la dedizione alla croce l’ha trasformata, non annientata. Nella lunetta compaiono alcuni elementi legati all’Antico Testamento: l’arcobaleno, la menorah, un libro e una colomba.

Problemi interpretativi sussistono per l’oggetto volumetrico unito a essi; potrebbe trattarsi di un’arca, ma il confronto tipologico lo esclude; la stretta connessione con il libro e la colomba – ai quali funge da appoggio – rimanda a una composizione molto simile presente nel mosaico della volta del braccio occidentale della basilica di San Marco di Venezia.

Si tratta dell’etimasia, immagine orientale riferita alla Trinità in quanto assomma trono (la potenza del Padre), libro (il logos del figlio) e colomba (l’amore dello Spirito Santo). La stessa presentazione dell’icona, da parte dell’Atelier riferisce:

Nella parte superiore dell’icona distinguiamo un semicerchio circondato da un arcobaleno che vuole evocare il mistero dell’Alleanza sigillata nel sangue di Cristo: hetimasia (presenza dello Spirito sulla Scrittura) dove lo spirito è raffigurato sotto forma di colomba. L’anima in preghiera si mette con Cristo sotto il baldacchino nuziale rappresentato dalla nube di gloria che è inserita nel semicerchio e che non è altro che lo Spirito Santo. Il candeliere a sette braccia simboleggia la Chiesa che si nutre di olio vergine sparso dallo Spirito sui suoi figli.

Un altro problema interpretativo riguarda le campiture di celeste distinte in ben sei tonalità e racchiuse dall’arcobaleno, con al centro la menorah. I cerchi rappresentano i diversi gradi dell’essere, quindi le sette stanze o dimore di Santa Teresa d’Avila riscontrabili proprio in sette fasi della vita della Stein evidenziate dalla regista Marta Mészàros nel film La settima stanza.

 .

Nella prima dimora il cammino della conoscenza interiore è solo agli inizi, l’anima è ancora prigioniera del mondo esteriore: corrisponde alla prima infanzia di Edith. Nella seconda dimora l’anima è in lotta contro le attrattive del mondo: è il momento di crisi interiore, durante il quale Edith abbandona anche gli studi. La terza dimora permette all’anima di purificarsi attraverso la meditazione e corrisponde alla fase di ricerca fenomenologica della Verità. Nella quarta dimora la conoscenza, l’intelligenza e la memoria pesano sull’anima: Edith è desiderosa di entrare nel Convento del Carmelo e sente il peso dell’attività intellettuale protratta per ubbidienza. Nella quinta dimora l’anima è libera da ogni tentazione mondana e Edith gode della pace del Carmelo. La sesta dimora è la camera della sofferenza, quella delle persecuzioni, dell’olocausto. Infine la settima dimora (l’arcobaleno) rappresenta la perfetta unione con Dio: Edith ci è giunta attraverso il martirio, è infatti divenuta Santa Teresa Benedetta della Croce.

Dunque: dall’ebraismo (menorah), attraverso il lungo cammino spirituale di ricerca della Verità, fino al ritorno a Dio. Edith Stein è Santa Teresa Benedetta della Croce; questa sua nuova condizione è il compimento del suo essere, trasformando la Edith ebrea nella Santa Teresa cristiana: trasformandola, non annientandola. Per questo motivo, come l’è ha in sé il fu, così sotto alla scritta dedicatoria i caratteri ebraici traslitterano il suo nome di donna: STEIN EDITH.

L’icona nella complessità del suo sistema simbolico, ricco anche di valenze mariane, contiene ed esprime questo percorso di vita. L’icona ci presenta il compimento: compimento delle ricerche di Edith nel Carmelo, ma anche compimento dell’Ebraismo nel Cristianesimo, compimento dell’esistenza terrena nella gloria divina, compimento dei progetti di Dio.

Fu il mio primo incontro con la Croce, la mia prima esperienza della forza divina che dalla Croce emana e si comunica a quelli che l’abbracciano. Per la prima volta mi fu dato di contemplare in tutta la sua luminosa realtà la Chiesa nata dalla passione salvifica di Cristo, nella sua vittoria sul pungolo della morte. Fu quello il momento in cui la mia incredulità crollò, impallidì l’ebraismo e Cristo si levò raggiante davanti al mio sguardo: Cristo nel mistero della sua croce.

Nulla di più estremamente fisso di una rappresentazione iconica e nulla di più eternamente onnicomprensivo di questa rappresentazione iconica. Le pluralità di una vita complessa sono sublimate nell’eternità, cosicché la Santa sia nella gloria, e al tempo stesso in ciascun caso della sua stessa vita ed ella possa elevarsi a Dio con ognuno di noi quale vittima sacrificale diletta: vittima d’amore che sparge sulla terra le grazie copiose dell’Amato.

Scritti di Edith Stein

La scelta di Dio, Lettere, Roma 19742.
Scientia Crucis. Studio su S. Giovanni della croce
, Roma 19822.
La donna, il suo compito secondo la natura e la grazia, Roma 1987.
La preghiera della Chiesa, Brescia 19872.
Essere finito e Essere eterno. Per una elevazione al senso dell’essere, Roma 1992.
Storia di una famiglia ebrea, Roma 1993.

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Latina versio | De icona sanctae Edith Stein dicata anno MCMXCVIII, a Giacomo Dalla Pietà latine versum

Sacra icona nuper picta Harissae, in schola Matri Dei dicata, vitam et doctrinam Sanctae Teresae Benedictae Crucis effingit. Sancta, cuius nomen saeculare Edith Stein, e gente hebraica erat. Cum doctrinam philosophicam ab Edmund Husserl didicisset atque theoriae de Empathia studiosa fuisset, ipsa ad Christum se convertit. Edith communioni cum Deo hebraicam legem paenitus adhaerentem sensit; vita et doctrina Christo dicatis, in coetum monacharum se recepit, caput velavit et in monasterio carmelitano seclusa est. Ab hitlerianis militibus Auschwitz deportata, martyrium fert: ita in carne sua passionem Christi renovat et mysterium Crucis experitur.

Sacra icona defixa figura est, verum Sanctae imago movetur inter symbolica signa – oleastrum, dumetum flammans, solea, liberrum, columbam, fontem, saxum, crucem, coelestem arcum, menorah, tallit – quae mirabili eloquentia figurali vitam sententiasque Edith Stein denotant. In hoc spatio iconico, ut in Edith Stein vita ac doctrina, orientalia signa cum occidentalibus communicant. 

English abstract

The holy icon painted in Harissa and conserved at Atelier du Carmel de la Theotókos portrays the life and doctrine of Saint Theresa Benedetta of the Cross, whose real name is Elizabeth Stein. She came from a Jewish family but, after having studied Husserl’s philosophy and the theory of empathy, she converted to Christianity. She was ordained and joined a convent, first in Cologne and then in Echt, dedicating her life to Christ. She was taken to various internment camps by Nazis and died in Auschwitz, in 1942. With her life and death, Elizabeth managed to renewed Christ’s passion and sacrifice, experiencing the mysterium crucis. She was canonized in 1987. In the holy icon, Elizabeth’s figure moves in a symbolic context – you can find the olive tree, the burning bush, the sun, the dove, the water fountain, the bare mountain, the Cross, the rainbow, the menorah and the tallit – which perfectly indicate Stein’s life and thoughts. In this iconic space, in fact, as in her existence and philosophy, Eastern and Western culture meet together. 

keywords | Edith Stein; Icon; Christian tradition; Symbolism.

Per citare questo articolo / To cite this article: E. Simonato, Tradizione e attualità nell’icona di Edith Stein. L’icona dell’Atelier del monastero di Harissa, Libano, “La Rivista di Engramma” n. 2, ottobre 2022, pp.1-15 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2000.2.0001