"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

126 | aprile 2015

9788898260713

Architetture del sapere

Per una storia dell’architettura museale nell’Europa moderna

Cristiano Guarneri

English abstract

Una collezione è molto spesso uno strumento di conoscenza. Nel momento in cui un collezionista ricerca, seleziona, raccoglie e ordina i pezzi della propria collezione è costretto ad attivare, anche inconsapevolmente, dei meccanismi di conoscenza. Anche quando il fine dichiarato della raccolta non sia lo studio di un particolare fenomeno – il mondo naturale, la storia antica o mitologica, le arti – la gestione, il maneggio e la conservazione dei pezzi comportano comunque il confronto con il sapere di cui sono portatori. In una collezione esposta a un pubblico più o meno ampio, l’organizzazione di tale sapere si struttura in uno spazio tridimensionale divenendo quindi, unitamente all’edificio progettato per contenere tale collezione, un’architettura del sapere.

Il collezionismo e i musei, con i diversi campi del sapere che essi coinvolgono, sono fenomeni trasversali e il loro studio è ovviamente destinato a travalicare i settori disciplinari della ricerca accademica. Nonostante la crescente richiesta di multidisciplinarietà, la tendenza verso una più spiccata settorializzazione ha segnato anche questo ambito di studi. Di fatto collezioni e musei sono oggi studiati in differenti ambiti disciplinari, le prime dalle scienze storiche, i secondi dagli studi museali. Benché non privi di relazioni reciproche, tali ambiti e le rispettive discipline che al loro interno li frazionano ulteriormente restano separati impedendo una visione complessiva del fenomeno nel suo sviluppo storico. Inoltre, aspetti intersettoriali come per l’appunto lo studio delle forme architettoniche museali in epoca moderna rimangono spesso fuori da entrambi gli ambiti.

La storia del collezionismo si focalizza attorno agli ambiti disciplinari della storia dell’arte e della storia della scienza, i quali hanno come oggetto di studio privilegiato rispettivamente le collezioni di manufatti artistici e le raccolte di reperti di storia naturale. In entrambi i casi, sebbene con intenti e sfumature differenti, al centro delle ricerche degli studiosi stanno i contenuti, cioè le collezioni, più raramente le modalità espositive e affatto sporadicamente il contenitore, l’edificio progettato o adattato per ospitare tali contenuti.

Gli storici dell’arte hanno per lungo tempo dedicato la loro attenzione allo studio delle raccolte d’arte – e gli archeologi a quelle di antichità – con l’intento di individuare la paternità e la provenienza di molti pezzi conservati nei musei. Relativamente recente è lo studio del collezionismo artistico come fenomeno autonomo, interessante indicatore e termometro delle trasformazioni avvenute nella storia del gusto, del mercato, della fruizione e della percezione dell’opera d’arte. In questa corrente di studi si è andato rafforzando l’interesse per quelli che hanno cominciato a essere definiti come gli ‘spazi’ o i ‘luoghi’ del collezionismo. Molte informazioni sono emerse così circa le tipologie e le funzioni delle stanze in cui, quasi sempre in residenze private, erano esposte delle collezioni, sull’interazione che i cicli pittorici o le decorazioni plastiche intessevano con le opere, sui criteri espositivi e l’ordinamento dei pezzi, sulle modalità di visita e ancora sul grado di accessibilità da parte dei visitatori. Tuttavia tali ‘spazi’ o ‘luoghi’ rimangono spesso non qualificati dal punto di vista architettonico.

Dall’altro lato, gli storici della scienza hanno visto nei primi gabinetti di storia naturale l’origine di quel luogo, inizialmente indifferenziato, per lo svolgimento dell’attività di ricerca scientifica che in seguito si qualificherà come museo, laboratorio e altri edifici appositi. Gli studi che più si sono focalizzati sul collezionismo cosiddetto ‘scientifico’ hanno mirato in particolare a dimostrare la nascita del metodo empirico nelle prime discipline scientifiche, a evidenziare i cambiamenti nei criteri di classificazione del mondo naturale e a valutare l’impatto di strumenti ottici o matematici sulla ricerca scientifica. Per gli storici della scienza i musei non furono soltanto lo strumento attraverso il quale i primi scienziati, o filosofi naturali, raggiunsero tali risultati ma anche i ‘luoghi’ in cui si creò la comunità scientifica e la relativa etichetta che dettava sia i comportamenti e le relazioni tra gli studiosi, sia la loro prassi operativa. Sebbene con alcune eccezioni (Olmi 1992; Findlen 1994), le forme architettoniche di ‘spazi’ e ‘luoghi’ rimangono spesso in secondo piano.

D’altro canto alcuni storici e storici dell’arte hanno attuato dei validi tentativi di studio del collezionismo come fenomeno globale, non limitando le loro trattazioni secondo le tipologie degli oggetti raccolti (Pomian [1987] 1989; Id. [2003] 2004; De Benedictis 1991). Verso questa direzione, almeno in principio, ha condotto lo studio di alcuni tipi di collezionismo onnicomprensivo, quali le raccolte enciclopediche o le Kunst- und Wunderkammern (Lugli 1983; Grinke 1984; Bredekamp [1993] 1996). Sebbene questo tipo di studi abbiano il merito di presentare un’ampia panoramica sul collezionismo, con la possibilità di confrontare le pratiche di raccolte anche molto diverse per oggetti e intenti, forniscono pochi indizi sulle forme architettoniche museali.

Un più spiccato interesse verso le forme dell’edificio museale e delle esposizioni è presente negli studi storici di museologi, museografi o operatori museali in genere. Tale corrente di studio del collezionismo, certamente la più antica da un punto di vista storiografico (Murray 1904; Schlosser [1908] 1974), affonda le radici nelle esigenze pratiche del personale museale: da un lato ancora l’indagine su autorialità e provenienza dei pezzi, dall’altro la ricerca finalizzata alla comprensione e al miglioramento dei musei contemporanei. Tendendo verso questi obiettivi, le ricerche prodotte in quest’ambito risultano spesso viziate da un approccio retrospettivo ed evoluzionistico, in cui gli esempi storici addotti sono considerati come i gradini successivi di una scala evolutiva il cui apice sarebbe costituito dal museo nelle sue forme e funzioni odierne. Ciò non ha comunque impedito che studiosi di quest’ambito, provenienti sia dal mondo museale (Binni, Pinna 1980; MacGregor 2007), sia accademico (Salerno 1963; Hooper-Greenhill [1992] 2005; Basso Peressut 1997; Ruggieri Tricoli 2004), abbiano elaborato alcuni dei contributi più significativi per la storia dei musei.

Gli storici dell’architettura, cui questo tipo di studio competerebbe, non hanno mai cercato di scrivere una storia architettonica delle forme museali che si addentri dettagliatamente nei secoli precedenti al 1800. Le ragioni di questa mancanza sono molteplici. Da un lato vi è la natura stessa del processo di creazione dei musei tra i secoli XVI e XVIII: raramente, infatti, si tratta di edifici progettati ex novo ma più spesso di limitati lavori di adattamento in strutture già esistenti; così come raramente sono architetti di fama, se non pittori, bibliotecari o conservatori, a fornire i progetti architettonici quanto i programmi allestitivi. Dall’altro lato è responsabile l’eccessiva enfasi posta dalla letteratura artistica sulla supposta rottura creata, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, dalla nascita del cosiddetto ‘museo moderno’, l’istituzione cioè preposta a livello nazionale alla conservazione del ‘patrimonio’, la quale, una volta resa ampiamente accessibile, assumerà valore di pubblica utilità e compiti educativi. Gli storici dell’architettura hanno di conseguenza sottolineato – e non a torto – come il museo sia divenuto una tipologia edilizia pienamente definita nei suoi caratteri, riconosciuta come campo di progettazione dagli architetti e dalle istituzioni educative, proprio in questo torno di tempo. In effetti, gli spazi dedicati all’esposizione di collezioni di vario tipo tra i secoli XVI e XVIII appartengono a edifici dei più diversi tipi: dalle architetture religiose come chiese e conventi alle residenze principesche, aristocratiche o borghesi, dalle sedi di accademie e università alle biblioteche, dai palazzi pubblici comunali alla Kunst-und Wunderkammern, dalle botteghe di farmacisti ai gabinetti dei naturalisti per finire con strutture appositamente concepite per la ricerca scientifica quali orti botanici od osservatori astronomici. Le difficoltà connesse allo svolgimento di uno studio su una campionatura di edifici così eterogenei nei loro caratteri architettonici e nelle loro funzioni è certamente stato un fattore limitante che ha dissuaso molti storici dell’architettura da questo tipo di indagine.

Forme architettoniche elementari

Le ricerche sino ad ora condotte dimostrano che, al di là del cambiamento epocale avvenuto a livello istituzionale con la nascita del ‘museo moderno’, le forme architettoniche museali presentano invece una spiccata continuità nel loro sviluppo storico. Come giustamente ha posto in luce Luca Basso Peressut nel proprio saggio, il modello architettonico del museo elaborato da Jean-Nicolas-Louis Durand a inizio Ottocento (Durand, Précis), punto di riferimento per più di un secolo, deriva il suo successo dalla felice sintesi che offre tra la tradizione delle forme architettoniche museali sviluppate tra Cinquecento e Settecento e le nuove istanze conseguenti al cambiamento istituzionale del ‘museo moderno’. Gli architetti che si apprestano a dare forma alla rinnovata istituzione museale progettano in realtà secondo un repertorio elementi non solo linguistici ma anche spaziali e compositivi formatosi dalla sommatoria delle esperienze maturate nel corso dei tre secoli a precedere.

Come indicato da Arthur MacGregor, che ha impostato il suo saggio sulla dicotomia tra studiolo e galleria, l’architettura museale ruota sino al secolo XX inoltrato attorno all’utilizzo e alla combinazione di due spazi elementari: l’uno a pianta centrale, lo studiolo (Liebenwein [1977] 1988; Cheles [1986] 1991; Thornton 1997), l’altro a sviluppo longitudinale, la galleria (Prinz [1977] 1988; Strunck, Kieven 2010). La lunga permanenza di queste forme architettoniche elementari negli edifici museali, giustapposte e combinate tra loro, è il segno più evidente di quella continuità che, quantomeno a livello architettonico, ha caratterizzato il museo nei suoi cinque secoli di storia. Le due forme architettoniche elementari non costituiscono solamente due diversi spazi ma riflettono due modi differenti di esporre gli oggetti, di ordinarli e di fruirne. Giacché alla base di una collezione vi è quasi sempre un intento conoscitivo – la collezione è cioè uno strumento di conoscenza – studiolo e galleria incarnano in sostanza due diverse strutture del sapere.

1a 1b | Le forme architettoniche elementari dello spazio museale, sezioni e piante: a sinistra, stanza a pianta centrale, studiolo; a destra, stanza a pianta longitudinale (elaborazione grafica dell'autore).

In una stanza a pianta centrale, come in uno studiolo, l’osservatore può fruire staticamente delle collezioni ivi esposte mentre, posizionatosi al centro dello spazio, si guarda attorno ruotando su sé stesso [fig. 1a]. Da questa posizione privilegiata nel centro della stanza, l’osservatore può catturare in pochi sguardi l’intera collezione che gli si dispiega tutt’attorno. Con l’intento di fornire una presentazione il più possibile completa, in molti studioli e gabinetti rinascimentali i pezzi potevano coprire interamente le pareti per invadere anche il soffitto e persino il pavimento, giungendo così a circondare l’osservatore in ogni direzione. Testimonianza di questo modo di concepire l’esposizione sono gli studioli rinascimentali, come quelli di Federico da Montefeltro a Urbino e a Gubbio o quello di Francesco I de’ Medici in Palazzo Vecchio a Firenze, e ancora le numerose immagini di gabinetti di storia naturale contenute in trattati e cataloghi di musei cinque e seicenteschi (Imperato, Historia naturale (1599); Besler, Continuatio (1616); Ceruti, Chiocco, Musaeum (1622); Worm, Museum wormianum (1655); Legati, Museo Cospiano (1677); Mercati, Lancisi, Metallotheca (1717)). Per la natura architettonica della stanza a pianta centrale, la collezione esposta può essere fruita da un numero molto limitato di visitatori, se non unicamente da un solo individuo. Questo perché, oltre alle ridotte dimensioni, il luogo privilegiato ove sia consentita la visione globale della collezione, il centro della stanza geometricamente infinitesimale, può essere occupato da poche persone allo stesso tempo. Queste caratteristiche fanno della stanza a pianta centrale un ambiente intrinsecamente privato e poco accessibile; un ambiente in cui la funzione di studio conferita alle collezioni surclassi quella di status symbol e prestigio sociale – che pure è presente ma limitata a una determinata classe, ad esempio la comunità scientifica. L’origine di questo tipo di stanza è da rintracciarsi nello studiolo rinascimentale, sintesi della tradizione religiosa della cella monastica e di quella laica della stanza del tesoro; una stanza ritirata ove pregare, meditare, leggere e scrivere che gradualmente diviene luogo di conservazione ed esposizione di oggetti preziosi (Liebenwein [1977] 1988; Thornton [1991] 1992). Nei palazzi privati italiani lo studiolo era normalmente posizionato alla fine dell’appartamento, oltre la camera da letto fra le stanze più riservate e meno raggiungibili dai visitatori (Waddy 1990; Thornton [1991] 1992).

Al contrario, la stanza a sviluppo longitudinale, la galleria, non può che essere esplorata dinamicamente, percorrendone lo spazio secondo l’asse principale [fig. 1b]. Il visitatore, in questo caso, non può avere una visione completa della collezione con un colpo d’occhio ma è costretto a muoversi per apprezzare gli oggetti esposti pochi per volta. I pezzi trovano infatti posto principalmente sulle lunghe pareti longitudinali – sebbene qualcosa sia di solito presente anche sulle pareti di testa – dove elementi architettonici e aperture possono suddividere ritmicamente le superfici parietali.

La galleria, per la sua natura architettonica, si presta ad essere percorsa da più persone contemporaneamente e con direzioni e velocità anche diverse. Contrariamente alla stanza a pianta centrale, dedicata alla fruizione solitaria o comunque intima delle collezioni, la stanza a sviluppo longitudinale è un luogo di socialità, dove un ampio gruppo di persone può godere e discutere degli oggetti esposti. In questo senso, la galleria diviene anche il luogo dell’ostentazione delle collezioni a un pubblico ampio; in tale ambiente è la funzione di promozione e prestigio sociale della raccolta a prevalere su quella di studio. Nata in Francia nel corso del secolo XV come variante chiusa della loggia italiana, la galleria, inizialmente luogo coperto per il passeggio o semplice collegamento tra diverse ali di palazzo, comincia a essere utilizzata come luogo per l’esposizione nel corso del secolo successivo (Prinz [1977] 1988, 9-14, 27-33; Guillaume 2010; Frommel 2010; Riebesell 2010; Strunck 2010). Modello per molti gli edifici a seguire fu la Grande Galerie di Francesco I di Valois a Fontainebleau, decorata con pannelli di boiserie nella parte inferiore delle pareti e con stucchi e pitture in quella superiore, popolata dai calchi presi dalle statue antiche romane disposti lungo le pareti in corrispondenza degli spazi tra le finestre. Nella seconda metà del secolo XVI la galleria, intesa come spazio espositivo, giungerà anche nella penisola italiana. Da un punto di vista architettonico questo processo ebbe due distinte ondate: la prima, intorno gli anni ’70, in cui la chiusura tramite tamponatura delle arcate di precedenti logge dette vita a gallerie corte, composte da cinque o sette campate, come nel caso della Galleria di Palazzo Farnese a Roma o della Galleria dei Mesi nella residenza ducale di Mantova; la seconda, tra gli anni ’80 e ’90 del secolo, porterà invece gallerie con forte sviluppo longitudinale, tipo il Corridoio degli Uffizi a Firenze, la Galleria di Villa Medici a Roma, la Galleria degli Antichi a Sabbioneta o ancora la Galleria della Mostra a Mantova.

Come si diceva – e come afferma anche Arthur MacGregor in chiusura del suo saggio – le due forme architettoniche elementari del museo sono due diverse entità in grado di ospitare, in certi casi anche di definire, diverse tipologie di collezioni. Diversi oggetti richiedono diverse condizioni espositive, così come diversi tipi di raccolte richiedono diversi spazi e, di conseguenza, diverse ‘architetture del sapere’ sulla base delle quali ordinare i pezzi. L’ambiente e, più in generale, l’edificio museale possono rispondere più o meno appropriatamente a tali caratteristiche richieste dal contenuto – così come può avvenire il contrario: una collezione che debba adattarsi al contenitore – e istituire così una dialettica tra architettura e allestimento, tra edificio e quelle strutture del sapere che ordinano una collezione. Poiché una stanza a pianta centrale consente una completa visione della collezione, di conseguenza essa può rendere i fenomeni che tale collezione rappresenta o si propone di studiare in tutta la loro interezza. Attorno al fruitore è possibile costruire un allestimento che lo circondi quasi integralmente, in cui le relazioni e i collegamenti tra gli oggetti siano esplicitati da una sapiente disposizione sulle pareti. Non è sorprendente che la stanza a pianta centrale sia stata l’ambiente prediletto in cui i naturalisti cinque e seicenteschi hanno costruito i propri gabinetti: questa forma architettonica elementare è quella che meglio si adattava ai tentativi enciclopedici di ricostruire il mondo della natura in uno spazio chiuso per poterlo indagare.

2 | Da sinistra a destra: Il teatro della memoria di Giulio Camillo Delminio, prospetto e pianta (elaborazione grafica dell'autore); fig. 3 | Giardino dei Semplici, Padova, pianta, da Porro, Horto de i Semplici, 1591.

Tuttavia, il tentativo di restituzione della varietà del mondo naturale non informò soltanto gli spazi interni ma anche l’architettura dei giardini, come nel caso degli orti botanici che a partire dalla metà del secolo XVI cominciarono ad essere istituiti nelle università, nelle regge principesche e pure in palazzi privati (Tongiorgi Tomasi 2005). In queste architetture verdi che esponevano enciclopediche collezioni viventi, alle quali erano spesso associati depositi e magazzini per i campioni seccati, sotto spirito o per ogni altro genere di reperto, ricorrono frequentemente le planimetrie a pianta centrale. L’Orto botanico di Firenze era impostato su di una pianta molto vicina al quadrato con al centro una fontana (Berti 1967, 114-116; Kuwakino 2011, 44-50); l’Orto dei semplici di Padova [fig. 2] era invece strutturato su un sistema più complesso – quasi vitruviano – di quattro aree verdi quadrate, disposte a loro volta a formare un quadrato, il tutto inscritto in una composizione circolare (Porro, Horto de i semplici; Azzi Visentini 1984; Minelli 1995; Zaggia 2003, 79-121); infine l’Orto botanico di Pisa, il più antico per fondazione, era preceduto da un edificio in cui, oltre all’abitazione del custode, una “stanza grande” esponeva le collezioni librarie e di reperti non viventi lungo tutte le pareti come in un gabinetto di storia naturale (Tongiorgi Tomasi 1979, Ead. 1980; Garbari, Tongiorgi Tomasi, Tosi 1991; Findlen 1994, 113-115).

Il tentativo di creazione – o meglio di ricreazione – del mondo naturale in uno spazio conchiuso, che sia uno studiolo di storia naturale o un orto botanico, porta con sé alcuni temi peculiari del collezionismo, particolarmente legati all’enciclopedismo e alle Kunst-und Wunderkammern, quali il rapporto tra macrocosmo e microcosmo (Grote 1994) e il concetto di theatrum mundi. A proposito di quest’ultimo, argomento sul quale si rimanda alla letteratura esistente (Bernheimer 1956; Christian 1987; West 2002), sarà necessario rilevare in questa sede l’aspetto più prettamente architettonico, vale a dire il riuso degli schemi teatrali antichi romani adattati a nuovi edifici e concetti. Le ricostruzioni del teatro antico presentano tra la fine del Quattrocento e tutto il Cinquecento una varietà di forme che ben dovettero adattarsi al loro impiego ai più diversi usi. Accanto alle ricostruzioni più rigorose e astratte basate sulle istruzioni vitruviane, le quali trovano attuazione in trattati architettonici (Serlio, Architettura, III, 124-142; Vitruvio, Barbaro, Dieci libri, V 6-8, 247-265) ma anche teatrali (Prisciani, Spectacula; Sgarbi 2004, 32-35, 74-86), si sviluppano negli alzati di Cesariano (De architectura, V 3-9, 75r-86v) e nelle illustrazioni di alcune edizioni di testi teatrali antichi (Terenzio, Comoediae) dei disegni più fantasiosi raffiguranti spazi orbicolari in cui gallerie sovrapposte per il pubblico sembrano circondare completamente l’attore al centro della scena. Sebbene in un ribaltamento di prospettiva, si tratta di un modello molto vicino da un punto di vista architettonico al teatro della memoria elaborato da Giulio Camillo Delminio [fig. 3], un mobile in forma di teatro antico provvisto di cassetti contenenti oggetti e frasi che, secondo il suo ideatore, avrebbe costituito un potente ausilio alla conoscenza e alla memoria di chiunque lo utilizzasse (Camillo, Idea; Bolzoni 1984; Barbieri 1998).

I modelli elaborati dall’arte della memoria, già molto studiati anche nei loro aspetti ‘architettonici’ (Rossi 1960; Yates 1966; Bolzoni 1995), costituiscono un retroterra portentoso per lo studio delle prime architetture museali. Il saggio di Andrea Torre mostra come le architetture utilizzate dalla mnemotecnica potessero essere quanto mai concrete, portando l’attenzione su di un trattato di arte della memoria scritto da Paolo Beni nel quale l’edificio preso a esempio nella trattazione è la chiesa di Santa Giustina a Padova. Torre spiega inoltre che anche le opere d’arte esposte all’interno della chiesa potevano essere utilizzate come imagines agentes e talvolta persino essere concepite, è il caso dei cori lignei, con tale scopo. Il saggio ha inoltre il merito di portare l’attenzione sull’architettura religiosa, assai poco considerata negli studi di storia dei musei ma che ebbe, ancor prima dello sviluppo delle collezioni private, un ruolo considerevole nell’elaborazione di sistemi e stratagemmi espositivi per reliquie, opere d’arte e pure curiosità naturali.

4 | Da sinistra a destra: Teatro anatomico (elaborazione grafica dell'autore); fig. 5 | Sala da biblioteca (elaborazione grafica dell'autore).

Più aderente al modello antico, sebbene a quello dell’anfiteatro, è l’architettura dei teatri anatomici, uno fra i luoghi per eccellenza delle scienze sperimentali (Klestinec 2007). Il teatro anatomico costruito per l’Università di Padova tra il 1559 e il 1584 (Zaggia 2003, 55-58), uno fra i primi tutt’oggi ottimamente conservato, costituisce un modello che con poche varianti si diffonderà in tutta Europa a fianco dei musei di università e accademie rimanendo in funzione fino agli albori del secolo XX [fig. 4]. Così come l’interazione tra gli oggetti e i laboratori scientifici, quali teatri anatomici, osservatori astronomici e altro, dettava fortemente le pratiche collezionistiche, particolarmente nella Kunst- und Wunderkammern (Schramm, Schwarte, Lazardig 2005), allo stesso modo – lo si vedrà oltre – la giustapposizione di questi spazi con quelli espositivi rimane un carattere imprescindibile in molti progetti architettonici museali.

Dai modelli teatrali antichi – o piuttosto dall’interpretazione rinascimentale di essi – nasce anche un’ulteriore fortunata variante della stanza a pianta centrale, la sala da biblioteca. La biblioteca rappresenta nella prima epoca moderna il più antico e continuo edificio pensato per conservare e rendere fruibile uno specifico tipo di collezione, quella libraria; è, in un certo senso, l’architettura del sapere per eccellenza. Nel corso del Cinquecento le biblioteche andarono incontro a radicali cambiamenti in conseguenza del passaggio dagli incunaboli ai libri a stampa (Connors, Dressen 2010). Questo processo portò gradualmente ad abbandonare il tipo architettonico medievale a impianto longitudinale, tripartito in un corridoio centrale e due file di banchi ai lati, ancora in auge nella Biblioteca Laurenziana e nella Libreria Marciana, per sviluppare un nuovo modello a pianta centrale. Nell’intento di liberare completamente la superficie della stanza per ospitare i tavoli destinati ai lettori, che sostituiscono i vecchi banchi con i volumi incatenati, i libri sono confinati ai lati della sala, in scaffali che ricoprono completamente i muri sino al soffitto, tanto da richiedere una o più balconate anulari che consentano di raggiungere i tomi posti più in alto [fig. 5]. I primi esempi di questo modello furono la Biblioteca ambrosiana di Milano, costruita per il cardinale Federico Borromeo tra il 1609 e il 1620 unitamente a sale per l’esposizione di pitture e sculture (Diamond 1974; Annoni et alii 1992; Jones 1994), e la Biblioteca dell’Escorial a Madrid.

La biblioteca è poi il luogo preposto alla conservazione e fruizione di materiali eterogenei che, oltre ai libri, possono essere sistemati sugli scaffali o esposti nelle sale. In particolare, è tutto ciò che sfrutta il supporto cartaceo a trovare una collocazione idonea nelle biblioteche, dalle incisioni ai disegni, dalle miniature alle pergamene antiche, dalle carte geografiche a documenti di vario tipo. La raccolta di ampie collezioni di immagini ha, a partire dal Cinquecento, diversi intenti. In prima istanza rappresenta una via più economica e pratica – occupa molto meno spazio – rispetto alla collezione di oggetti reali, creando così un vero e proprio ‘museo cartaceo’. In secondo luogo, in una collezione di tipo tradizionale, l’immagine può supplire alla mancanza dell’oggetto reale, magari raro o costoso, soprattutto quando il collezionista ne abbia necessità per motivi di studio. Molte sono le testimonianza rintracciabili nelle corrispondenze a proposito di scambi o richieste di immagini: era frequente che si richiedesse la raffigurazione di un oggetto mancante a un amico collezionista o a un altro studioso che invece lo possedeva. Infine il disegno realistico di reperti naturali e manufatti era un passo indispensabile per la compilazione di un catalogo del museo, da utilizzare in loco o da diffondere a mezzo di stampa.

La gestione e l’ordinamento di grandi quantità di immagini, successivamente rilegate in volumi tematici, rendeva questo tipo di collezione in tutto simile a un museo reale. Al suo interno, la raccolta di immagini o museo cartaceo, si presenta in varianti eterogenee di collezioni, dai repertori di schemi compositivi ai taccuini di rovine e antichità utilizzati da artisti e architetti, dagli erbari alle raffigurazioni di pietre o animali usati dai naturalisti. A differenza degli artisti, per questi ultimi era necessario affidarsi ai primi, tanto che molti naturalisti come Ulisse Aldrovandi tenevano costantemente nel proprio studio alcuni disegnatori impegnati nella copia dei reperti (Olmi 1976; Tugnoli Pattaro 1981). Anche i membri dell’Accademia dei Lincei intrapresero un vasto programma di raffigurazione del mondo naturale (Freedberg [2002] 2007), patrimonio che, ulteriormente arricchito da Cassiano dal Pozzo dopo la morte del fondatore Federico Cesi, è oggi il più esteso corpus di disegni noto il cui studio continua a richiedere un imponente progetto di ricerca scientifica (Solinas 1989; Id. 2000; Haskell, MacGregor, Montagu 1997-). Il museo cartaceo si diffonde così in tutta Europa divenendo un requisito indispensabile per ogni nascente accademia (Kistemaker, Kopaneva 2005).

Se la stanza a pianta centrale si presenta sotto forma di varianti diverse, la stanza a pianta longitudinale è invece più costante; composta da una campata modulare replicabile potenzialmente all’infinito, la galleria può variare di molto solo nel suo sviluppo in lunghezza. Da un punto di vista architettonico, si distinguono due principali tipi di galleria, l’una inserita all’interno di un edificio, di lunghezza modesta e con finestre su un solo lato, l’altra libera, di lunghezza maggiore e con finestra su ambo i lati. Se lo studiolo o il gabinetto possono garantire una disposizione degli oggetti che consenta una visione completa al fruitore, in modo che questi possa sviluppare appieno le potenzialità conoscitive insite nella collezione, ciò non è possibile nella galleria, in cui l’unico criterio di ordinamento possibile è quello della successione secondo un percorso assiale.

Da queste premesse, si può dedurre come la stanza a sviluppo longitudinale sia stato uno spazio adatto per l’esposizione di opere d’arte. Prima che le opere d’arte divenissero oggetto di studio rigoroso e i musei cominciarono a favorire questa tendenza ordinando i pezzi cronologicamente o per scuole regionali – e questo avvenne solo nel corso del secolo XVIII (Meijers 1995; Gaehtgens, Marchesano 2011) – la galleria rimase il dominio del connaisseur, il quale indagava l’arte in maniera affatto diversa da come i naturalisti facevano col mondo naturale. La sistemazione di dipinti e sculture lungo i muri delle gallerie segue nei secoli XVI e XVII quasi esclusivamente criteri meramente estetici. La scultura, antica e moderna, si trova spesso contestualizzata all’interno di impianti architettonici e decorativi che prevedono nicchie per statue, tondi o mensole per busti, riquadri per bassorilievi o epigrafi e altri stratagemmi per poter inserire direttamente nei muri altre rovine antiche. La quadreria è invece organizzata in composizioni simmetriche, centrate su quadri di grandi dimensioni ai quali si affiancano tele più piccole, costruendo una serie di rimandi tra i pezzi in base al soggetto rappresentato.

6 | Il museo di Manfredo Settala, da Terzago, Scarabelli, Museo o galeria, 1666.

Questa rigida suddivisione, che pone in relazione le due forme architettoniche elementari degli spazi museali con distinte tipologie di collezioni, non può essere considerata una regola, quanto piuttosto una tendenza. Le eccezioni riscontrabili nella storia dei musei sono comuni e pure particolarmente celebri. Una di queste è la Tribuna degli Uffizi, spazio ottagonale cupolato ispirato alla Torre dei venti di Atene, progettato da Bernardo Buontalenti per Francesco I de’ Medici nel 1584, usato per la conservazione di diversi tipi di oggetti ma reso celebre dai pregevoli quadri esposti (Heikamp 1963; Id. 1964; Berti 1967, 131-137; Rudolph, Biancalani 1970; Corboz 2008; Turpin 2013). Altrettanto comuni sono le collezioni di storia naturale esposte in gallerie o comunque ambienti a forte sviluppo longitudinale, come la raccolta di Vincent Levin ad Amsterdam che, non a caso, richiamava una gran quantità di visitatori smaniosi di osservare le curiosità esotiche; dunque rinomata più come luogo di svago che come ambiente di ricerca scientifica (Levin, Wondertooneel der Nature). Una situazione del tutto simile si ritrova nel museo milanese di Manfredo Settala [fig. 6], organizzato in uno spazio longitudinale diviso in tre distinte navate da stipi e scaffali (Terzago, Scarabelli, Museo o galeria).

Rientrano invece in un ambito elastico, almeno sino alla fine del secolo XVI, le collezioni di antichità, allestite in entrambe le forme architettoniche elementari. Diversamente dalle opere d’arte moderne, le antichità – particolarmente monete, iscrizioni, steli, busti e statue di personaggi celebri – potevano costituire un oggetto di studio per un ristretto numero di umanisti, eruditi e collezionisti. Non stupisce che collezionisti come i cardinali Paolo Emilio e Federico Cesi a Roma o Giovanni Grimani a Venezia abbiano allestito raccolte di scultura antica in spazi a pianta centrale: i primi nell’Antiquario, un padiglione autonomo a croce greca cupolato (Hülsen 1917; Franzoni 1984, 328-331,359; Rausa 2007; Christian 2010), il secondo nella Tribuna, una sala quadrata con volta a padiglione cassettonata (Favaretto 1984, 1990; Zorzi, Favaretto 1988). In entrambi i casi i muri interni, scanditi dall’ordine architettonico, si articolano in nicchie e mensole a diversi livelli con l’intento di reggere il maggior numero possibile di sculture, creando un effetto complessivo non troppo diverso dagli affollati gabinetti di storia naturale.

Inoltre, come nella Tribuna degli Uffizi, questi ambienti erano provvisti di un’illuminazione zenitale, già ritenuta allora la migliore per la scultura. Tale nozione, riportata anche da Serlio a proposito del Pantheon in apertura del suo libro sulle antichità (Serlio, Architettura, III), doveva riprendere un’opinione comune forse sin dal primo Cinquecento, come testimoniano lo stesso Antiquario Cesi ma anche, relativamente alla scultura moderna, la michelangiolesca Cappella Medici in San Lorenzo. In effetti, non era soltanto l’antichità romana a essere maestra al riguardo: la pratica di muovere le finestre verso l’alto, nei sottarchi delle volte o nelle lanterne sulle cupole, con l’intento di massimizzare la superficie espositiva disponibile sui muri era infatti piuttosto comune sin dal Medioevo in molti spazi religiosi, particolarmente nelle cappelle private.

Nonostante a Venezia l’istituzione dello Statuario Pubblico nelle sale della Libreria Marciana, sulla base delle donazioni Grimani, confermi sostanzialmente il modello a pianta centrale con illuminazione zenitale della Tribuna (Perry 1972; Favaretto, Ravagnan 1997; Guarneri 2015), nel corso del secolo XVI si afferma gradualmente l’utilizzo di gallerie per l’esposizione della scultura antica. Alla Grande Galerie di Fontainebleau fanno seguito, per citare gli esempi più eclatanti, l’Antiquarium di Monaco, il Corridoio degli Uffizi, la Galleria di Villa Medici a Roma, la Galleria degli Antichi. La pianta a sviluppo longitudinale sembrerebbe così imporsi per l’esposizione della scultura antica ma il modello romano, esemplato dal Pantheon, riacquisterà presto credito presso architetti e collezionisti.

Combinazioni

Quanto appena delineato può essere valido unicamente per i musei allestiti in un solo ambiente. Più spesso – e sempre di più con la diffusione della passione per il collezionismo – molte collezioni oltrepassarono i confini imposti dai muri di studioli e gallerie per occupare diverse stanze. Conseguenza di questo processo, già evidente nel corso del secolo XVI, fu la comparsa dei primi edifici specificamente pensati e interamente dedicati all’esposizione di collezioni. Nella progettazione di essi, collezionisti e architetti non crearono forme o modelli inediti ma si rifecero a quelle che si sono definite forme architettoniche elementari, combinandole in pianta e in alzato per creare composizioni originali.

Gli edifici museali risultanti dalla ripetizione di più forme architettoniche elementari assumono un nuovo livello compositivo. Oltre all’impianto delle singole stanze, anche il modo in cui esse si giustappongono definendo nel complesso l’architettura museale, contribuisce a informare l’ordinamento delle collezioni e le modalità espositive. L’architettura museale acquista così maggiore complessità offrendo più livelli di lettura.

In una delle combinazioni più diffuse, una serie di stanze a pianta centrale si susseguono l’una dopo l’altra creando, di fatto, una composizione longitudinale. Questa situazione è la più comune per le collezioni allestite nei palazzi privati, dove la successione delle stanze tipica dell’appartamento offre poche alternative a chi non ha la possibilità di creare una galleria. Anche Ulisse Aldrovandi, all’atto di donazione della sua collezione al comune di Bologna nel 1603, immaginava il futuro allestimento del suo museo nel Palazzo Pubblico come una serie di quattro stanze successive in cui suddividere logicamente gli eterogenei materiali accumulati (Findlen 1994, 122-123). Ciò doveva avvenire anche nel museo creato da Athanasius Kircher nel Collegio Romano con gli oggetti che molti missionari gesuiti portavano da tutto il mondo. Come si può evincere dai cataloghi, il museo era composto da una serie di recessi aperti sulla sinistra dell’ambiente principale, ciascuno concepito come un gabinetto autonomo con una diversa tipologia di oggetti, un relativo programma iconografico sul soffitto a volta e un obelisco a marcarne il centro (Casciato, Iannello, Vitale 1986; Findlen 1994, 126 128; Ead. 2004). Nel complesso, però, la successione di questi gabinetti creava uno spazio fortemente sviluppato longitudinalmente, in tutto simile a una galleria.

Al contrario, può accadere che più stanze a sviluppo longitudinale disposte in circolo attorno a uno spazio aperto, spesso un cortile, creino invece una composizione centralizzata. Un esempio di questo tipo è costituito dalla kunstkammer allestita per Alberto V nel Residenz di Monaco fra gli altri da Samuel Quiccheberg, autore del primo trattato noto sui musei (Quiccheberg, Inscriptiones). In accorto col testo di Quiccheberg, la kunstkammer era allestita su due piani in quattro gallerie che correvano attorno a un cortile centrale. In tal modo si ricreava quello spazio orbicolare derivato dall’anfiteatro antico romano che, come s’è visto, costituisce una variante dello spazio centrico (Seeling 1985; Diemer et alii 2008; Kuwakino 2010, 165-134).

Le forme architettoniche elementari si possono giustapporre per creare composizioni complesse non solo in pianta ma anche in elevato, secondo un modello che si può definire di crescita verticale. In questo caso, una serie di spazi identici si susseguono uno sopra l’altro; spesso ogni piano è caratterizzato da una diversa funzione o da distinte tipologie di collezione. Il tipo di edificio museale a crescita verticale si diffonde in epoca più tarda, all’incirca a partire dalla metà del secolo XVII, soprattutto in ambito europeo. Un primo esempio è offerto dalla Kunstkammer reale di Danimarca, voluta da Federico III nel 1665 per ospitare le crescenti collezioni. Il nuovo edificio consisteva di tre identici piani, il primo dedicato all’armeria, il secondo alla biblioteca e il terzo al gabinetto di curiosità (Dam-Mikkelsen, Lundbaek 1980; Gunderstrup 1985; Schepelern 1985). Identica impostazione ebbe, a dispetto delle ridotte dimensioni e del diverso status di istituto universitario, l’Ashmolean Museum di Oxford, istituito nel 1683 in seguito alla donazione di Elias Ashmole. In questo caso i tre piani erano così suddivisi: un laboratorio chimico nel seminterrato, una sala per la scuola di storia naturale al piano terreno e l’esposizione vera e propria al primo piano (MacGregor 1983; Id. 1985).

Più raramente il modello museale a crescita verticale assume la forma di una torre vera e propria ma, quando ciò accade, vi è sovente la necessità di raggiungere un’altezza considerevole per poter stabilire in sommità un osservatorio astronomico. Al di là dei più noti esempi di Greenwich e Parigi, che fanno eccezione, l’innalzamento di torri al di sopra di molte sedi di accademie e università era spesso indispensabile per poter cogliere, al di sopra dei tetti cittadini, la linea dell’orizzonte (Bònoli 2009). Anche in ambiti distanti, nei primi decenni del Settecento, situazioni di questi tipo si ripetono, come a Palazzo Poggi, sede dell’Istituto delle scienze di Bologna (Cavazza 1991; Baiada, Bònoli, Braccesi 1995; Zini 2011), e nella Kunstkamera di San Pietroburgo, l’edificio dell’Accademia delle scienze russa (Guarneri 2011), in cui le torri vengono usate sia come osservatori, sia come luoghi espositivi. Tuttavia, il caso più eclatante è certamente la cosiddetta Torre Matematica dell’Abbazia di Kremsmünster, nell’Alta Austria. Si tratta di una torre di sette piani attraverso i quali si dispiega l’esposizione di una collezione sul tipo della kunstkammer, ordinata per creare un passaggio graduale, quasi ascetico, verso l’alto: dai naturalia agli artificialia, quindi gli strumenti matematici e astronomici, infine la terrazza dell’osservatorio (Klamt 1999).

Senza alcun dubbio, però, la combinazione di forme architettoniche elementari che ha avuto maggiore successo nella storia dell’edificio museale è quella mista in cui stanze a pianta centrale si alternano a spazi a sviluppo longitudinale. Nel corso del secolo XVIII, come bene evidenziano i saggi di Cristina De Benedictis e di Luca Basso Peressut, grandi edifici museali, autonomi anche se in genere collegati a residenze principesche, cominciano a essere progettati sempre di più sulla base di combinazioni di gallerie e sale centralizzate – quadrate, circolari, ottagonali e pure con piante mistilinee. Particolarmente sfruttata è la composizione simmetrica incentrata su una rotonda, segnalata all’esterno dall’emergenza di un pronao d’ingresso o di una cupola estradossata, affiancata da due identiche gallerie laterali. Questo semplice modello compositivo è già connaturato, sebbene in nuce, a uno dei primi edifici per il collezionismo dell’epoca moderna, gli Uffizi. L’ossatura di questo complesso museale era infatti articolata attorno a due poli strettamente associati: il lungo corridoio, con l’esposizione delle sculture e della serie gioviana degli uomini illustri, e la tribuna ottagonale cupolata, contenente le migliori pitture e i piccoli oggetti – monete, cammei, pietre preziose, reperti di storia naturale – provenienti dallo studiolo di Palazzo Vecchio (Barocchi 1982; Barocchi, Ragionieri 1983; Wellington Gahtan 2012). L’associazione di questi distinti elementi come parte costitutiva dell’intera composizione non mancarono di essere rilevati già alla fine del Cinquecento, quando Francesco Bocchi descriveva così il secondo piano degli Uffizi: “Nel mezzo di una Galleria è una Cupola, la quale da tutti è chiamata Tribuna” (Bocchi, Bellezze, 51).

7 | Kunstkamera, San Pietroburgo, piante, iniziata nel 1718, da Palaty sanktpeterburgskoj imperatorskoj Akademii nauk, Biblioteki i Kunstkamery, San Pietroburgo 1741, tav. V.

8 | J. B. Fischer von Erlach, Hofbibliothek, Vienna, pianta, iniziata nel 1722.

9 | J. B. Fischer von Erlach, Hofbibliothek, Vienna, sezione, iniziata nel 1722.

Nel primo Settecento due edifici pensati per l’esposizione di collezioni principesche definiscono il modello che nel corso del secolo diverrà canonico. Da un lato la già citata Kunstkamera di San Pietroburgo, iniziata nel 1718 per volere di Pietro il Grande [fig. 7]. Impostata attorno a una torre centrale composta da una rotonda, inizialmente pensata come planetario ma in seguito adattata a teatro anatomico, e dai locali per l’osservatorio astronomico, l’edificio si sviluppa in due ali simmetriche, l’una per la biblioteca, l’altra per l’esposizione vera e propria, formate in origine da grandi gallerie con due ordini di balconate e chiuse alle estremità da gabinetti di dimensioni più ridotte (Stanjukovič 1953; Neverov 1985; Karpeev, Šfranovskaja 1996; Buberl 2003; Driessen 2004; Guarneri 2010). Dall’altro lato l’edificio della Hofbibliothek di Vienna, iniziato nel 1722 su progetto di Johann B. Fischer von Erlach (Buchowiecki 1957; Sedlmayr [1976] 1996, 313-320, 391; Kreul 1995; Dotson 2012, 7-17). A eccezione della pianta ellittica della rotonda centrale, non vi si riscontrano in quest'ultimo edificio variazioni di rilievo nella composizione generale rispetto alla Kunstkamera [figg. 8-9].

Da questi modelli deriva anche il disegno del museo ideato da Francesco Algarotti a Dresda tra il 1742 e il 1746 per le collezioni d’arte del re di Polonia Federico Augusto III, puntualmente ricostruito nelle forme, nelle vicende e nelle opere nel saggio di Cristina De Benedictis. Algarotti non fece altro che moltiplicare il modello simmetrico con sala centralizzata e gallerie laterali, che diveniva così l’elemento modulare con cui comporre un più grande edificio museale. Nel proprio progetto il veneziano previde la costruzione, attorno a un cortile quadrato, di quattro ali di questo tipo, collegate da altrettante sale centralizzate utilizzate come elemento di snodo agli angoli. In questo modo la perfetta alternanza di rotonde e gallerie garantiva anche la massima varietà nei sistemi di illuminazione, zenitale nelle rotonde e laterale nelle gallerie.

Nei progetti presentati alle edizioni del Prix de Rome – lo ha mostrato Basso Peressut – gli architetti lavoreranno ancora in questa direzione portando il numero della ali dalle quattro del museo di Algarotti a sei, sempre mantenendo però la rigorosa alternanza tra gli spazi centralizzati e quelli a sviluppo longitudinale. Sarà però il museo contenuto nel Précis di Durand, da cui è partita la trattazione, a costituire il prototipo pronto a essere ulteriormente rielaborato in infinite variazioni dalle successive generazioni di architetti che, dall’Altes Museum di Berlino alla National Gallery di Washington, ne fecero uso per oltre un secolo; almeno fino a quando il Movimento Moderno non fu in grado di offrire dei validi modelli alternativi.

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English abstract

The essay aims to trace an outline of a possible architectural history of early-modern museums in Europe. In the first instance, Guarneri sums up an extremely etherogeneous state of the art, composed by researches carried out by scholars in several academic disciplines. In an architectural perspective, museum design has origins in two distinct elementary spaces, the central-planned space (cabinet) and the longitudinal-planned space (gallery), which use characterizes the five-century long history of museums from the sixteenth till the twentieth century. The elementary architectural forms, in Guarneri’s view, are two ways of display, order and enjoy the collections, one static, and the other dynamic. Since different kinds of objects require different ways of display, the elementary architectural spaces fit diverse types of collections. On the one hand, the cabinet meets the preferences of the natural history collections while, on the other hand, the gallery serves better for works of art. When the collections grew beyond the walls of a single room, architects and collectors continue in designing museums according to elementary architectural spaces, now grouped in original compositions. While series of cabinets create longitudinal path through them, systems of galleries located around a central courtyard give the idea of a central-planned composition. Combining the elementary architectural spaces, particularly alternating rotundas and galleries in plan, in seventeenth and eighteenth centuries architects develop more and more the museum as an autonomous building. The institutions of the national public museums will base its architecture on the experiences worked out during the previous three centuries, creating a real building type.

 

keywords | Architecture; Memory; Europe; Museums; Gallery; Exhibition design; Cabinet.

Per citare questo articolo: C. Guarneri, Architetture del sapere. Per una storia dell’architettura museale nell’Europa moderna, “La Rivista di Engramma" 126, aprile 2015, pp. 8-36 | PDF dell’articolo