"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

122 | dicembre 2014

9788898260676

I limiti dell'amore

Presentazione del libro Adone. Variazioni sul mito, Venezia 2014

Alessandro Grilli

English abstract


 

Quell’ottuso oggetto del desiderio

A una persona di cultura non specialistica, il nome di Adone evoca oggi in prima battuta – forse anche senza altre associazioni – un modello canonico di bellezza maschile. Per l’uomo della strada, insomma, Adone è semplicemente… un adone: il personaggio del mito, giunto a noi attraverso così tante e varie incarnazioni poetiche e figurative, tende a sparire dietro la preziosa antonomasia, da lungo tempo lessicalizzata, con cui l’italiano e altre lingue europee designano ogni ragazzo molto bello[1]. Se scaviamo appena oltre, vediamo che a questa bellezza si associano connotazioni disparate, se non contraddittorie: per alcuni, l’avvenenza di Adone è sinonimo di leggiadria effeminata e leziosa, e rimanda a un esausto repertorio classicistico o addirittura accosta il personaggio all’ideale pederotico[2]; per altri, al contrario, Adone è invece l’emblema di una bellezza maschile muscolosa e compiaciuta, fatta di palestra e di unguenti, che si realizza in una costruzione statuaria tanto perfetta quanto inaccessibile[3].

Com’è possibile che da uno stesso personaggio del mito procedano associazioni di idee così diverse, così contraddittorie? Per capirlo, è necessario tener conto di alcuni aspetti peculiari della figura mitica di Adone, e della sua frastagliata fortuna nelle culture antiche e moderne. Il dato senz’altro più importante è la frammentazione dei punti di irraggiamento: a differenza di quanto succede per alcuni miti, soprattutto tragici, che possono contare su archetipi letterari di grandezza incontrastata (si pensi a Edipo o a Medea e alla loro dipendenza dai capolavori di Sofocle e di Euripide), fin dall’antichità il mito di Adone non si cristallizza intorno a un modello poetico unico o comunque predominante. Questa peculiarità determina uno sviluppo disomogeneo della tradizione, che, pur muovendo da testi letterari anche importanti, lascia comunque ampio margine ad altri spunti disparati, che vanno dal trattato mitografico al dialogo filosofico, dalla concreta prassi rituale al metadiscorso degli allegoristi. Questo fa di Adone una figura sospesa tra religione e poesia, tra mito e occasione festiva, e la tradizione adonia si configura di conseguenza come un percorso tra i più complessi e tortuosi dell’intera mitologia greco-latina, con precedenti mediorientali (a partire dal III millennio a.C.) e propaggini che attraversano, dopo quella classica, tutte le culture dell’Occidente. Nel corso di una disseminazione così ampia e variegata Adone assume molti aspetti, ma curiosamente, a ogni tappa, sembra spogliarsi di qualche tratto specifico, finché di tutta la sua complessità primitiva resta, nella tradizione più recente, solo la bellezza, una bellezza tanto perfetta quanto vuota. «Adone, Adone, Adone»: così culmina, in un poema drammatico di Marcello Macedonio pubblicato nel 1614, lo strazio di Venere alla morte del ragazzo; ed è a mio parere proprio questo verso, un verso che siamo incerti fino in fondo se considerare pedestre o sublime, a esprimere nel modo più icastico la natura proiettiva, ecolalica, autoreferenziale del personaggio e della sua forma. L’Adone che la tradizione lascia giungere fino a noi è essenzialmente un vacuum, un’assenza, un silenzio («ma tu già taci Adone», lamentava appunto la Venere di Macedonio), un oggetto indeterminato del desiderio che ogni contesto culturale può risemantizzare di volta in volta a suo arbitrio.

Non è un caso che, nelle principali versioni antiche del mito, Adone non parli mai: di lui non ci giungono le parole, e non solo perché per un buon tratto della vicenda a lui tocca la parte del morto, ma perché anche nel resto del tempo lo sospinge ai margini della scena la presenza molto più ingombrante della dea. Nelle Metamorfosi, ad esempio, Venere lo travolge sotto un mare di racconti, affabulazioni, consigli, e le parole del ragazzo non vengono nemmeno registrate, compresse in un’unica domanda: alla menzione dell’odio che oppone la dea alle bestie feroci, Adone «le chiede perché» (Quae causa roganti, v. 552), e quella richiesta, riportata per di più solo in forma indiretta, rimane l’unico suo contributo discorsivo registrato dall’autore.

Anche quando i poeti moderni capovolgeranno la versione ovidiana del mito facendo di Adone un ragazzo la cui vita si rinnova ciclicamente, come il Keats nel II libro dell’Endymion (vv. 387-587), la rappresentazione del giovinetto sarà comunque muta: lì Adone si sveglia tra i fiori, si stiracchia, sbadiglia, si mostra nella sua impareggiabile bellezza, ma sta zitto – mentre un amorino e poi Venere esaudiranno con dettagliatissimi ragguagli ogni curiosità di Endimione, che ha appena assistito allo spettacolo.

Del resto che Adone non parli mai, o quasi, non è poi così incomprensibile, se si pensa che le uniche parole che la più antica tradizione letteraria gli attribuisce sono tre versi della poetessa Prassilla di Sicione[4], in cui si immagina che Adone risponda ai morti che lo accolgono nell’oltretomba chiedendogli cosa rimpianga di più del mondo di sopra:

La cosa più bella che lascio è la luce del sole,

La seconda le stelle splendenti e il volto della luna

E poi i meloni maturi, e le mele e le pere[5].

Non proprio una risposta memorabile… O meglio: memorabile sì, ma per la sua spiazzante ingenuità (si ricordi che il ragazzo era appena uscito dal letto di Afrodite…). E infatti queste parole ci sono tramandate non da un ammiratore di Prassilla, bensì da un raccoglitore di proverbi che cerca di spiegare l’origine di un modo di dire apparentemente ancora in uso in epoca bizantina: «più stupido dell’Adone di Prassilla»[6]. Insomma, per quanto si possano trovare giustificazioni simboliche per quella singolare affermazione, sembra proprio che Adone sia solo un antecedente maschile di Jessica Rabbit, un corpo sommamente desiderabile senza (diciamo così…) una personalità troppo determinata.

Molta di questa indeterminatezza, lo si può agevolmente dimostrare, è un riflesso della natura ideale e universale della bellezza adonia, e della sua posizione inerzialmente ogget­tua­le, che la connota, di necessità, come uno spazio vuoto: la bellezza di Adone è quella che, di volta in volta, ogni epoca o ogni gruppo culturale sono disposti ad attribuirgli; meno tratti salienti marcano il personaggio, dunque, meglio è. Ma uno sguardo alla tradizione antica del mito – una tradizione che comunque si dispiega lungo un arco di molti secoli – permette forse di capire meglio quali rinunce abbia comportato cristallizzare la bellezza assoluta in un emblema, e soprattutto quali ampiezze di significato sottenda l’apparente stabilità semantica di quell’emblema.

Note
  • [1] A un’analisi della figura di Adone come canone di bellezza corporea è dedicata la prima parte di un importante studio generale sulla bellezza: W. Menninghaus, Das Versprechen der Schönheit, Frankfurt/M., Suhrkamp, 2003, pp. 13-65. Una discussione critica delle tesi tutt’altro che convincenti di Menninghaus si trova nella mia recente monografia sulla fortuna del mito di Venere e Adone nella cultura europea: A. Grilli, Storie di Venere e Adone. Bellezza, genere, desiderio, Milano-Udine, Mimesis, 2012, in particolare pp. 13-22.
  • [2] Una tendenza piuttosto rara nei testi protomoderni (presente ad esempio nelle Stanze nella Favola di Adone, di Lodovico Dolce, pubblicate nel 1545), ma più frequente a partire dall’immaginario del decadentismo (un esempio emblematico, dei molti possibili, è una raccolta di liriche del conte Jacques d’Adelswärd-Fersen (L’Hymnaire d’Adonis: à la façon de M. le marquis de Sade, Paris, Vanier, 1902), che uno scandalo pederotico spinse a trasferirsi da Parigi a Capri pochi anni dopo la pubblicazione del volume. La valenza omoerotica di Adone prevale invece decisamente nel XX secolo, anche se non sempre in relazione a ideali pederastici (si vedano ad esempio la raccolta di liriche di Marc Almond, The Angel of Death in the Adonis Lounge, London, Gay Men’s Press, 1988).
  • [3] Questa visione del personaggio forza in modo lampante la documentazione antica, che attesta un Adone talora sì valoroso (ad esempio nelle Dionisiache di Nonno di Panopoli), ma pur sempre di bellezza efebica. Viceversa la cultura popolare novecentesca tende a immaginare Adone come amante di Venere, dunque bello e desiderabile, senza desumere i tratti di questa bellezza dalle indicazioni pur esplicite nelle testimonianze classiche. Ecco perché quando gli psichiatri Harrison, Phillips e Olivardia si sforzano di introdurre una nuova etichetta per definire la dipendenza da anabolizzanti propria dei culturisti scelgono di chiamare il disturbo «complesso di Adone», ignari del rapporto semmai di antagonismo che sussiste tra la bellezza adonia e la corporatura erculea (sull’opposizione Adone/Eracle si veda in particolare P. Berrettoni, Il maschio al bivio, Torino, Bollati Boringhieri, 2007).
  • [4] Vissuta nel V sec. a.C.; i versi provengono da un Inno in onore di Adone, fr. 1 Page.
  • [5] Ove non diversamente indicato, sono mie le traduzioni dei testi non compresi nella presente antologia.
  • [6] Zenobio, Centurie 4.21, 1.89 Leutsch-Schneidewin.

English abstract

Presentation of the book “Adone. Variazioni sul mito“ (Venezia, 2014). Unlike what happens for some myths, especially tragic ones, which can count on literary archetypes of unchallenged greatness, since ancient times the myth of Adonis has not crystallized around a single or in any case predominant poetic model. This makes Adonis a figure suspended between religion and poetry, between myth and festive occasion, and the Adonia tradition is consequently configured as one of the most complex and tortuous path of the entire Greek-Latin mythology, with Middle Eastern precedents (starting from III millennium BC) and offshoots that cross, after the classical one, all the cultures of the West.

 

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Per citare questo articolo / To cite this article: A. Grilli, I limiti dell’amore. Presentazione del libro Adone. Variazioni sul mito, Venezia 2014, “La Rivista di Engramma” n. 122, dicembre 2014, pp. 61-65 | PDF di questo articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2014.122.0008