"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

5 | gennaio 2001

9788894840032

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Piranesi e la malinconia

Francesco Dal Co*

English abstract | Compendium

L’opera piranesiana evoca la figura di Giano Bifronte. La profondità del tempo, che le rovine annunciano e nello stesso tempo nascondono, la casualità quale immagine di un’idea di ordine rappresentato, appunto, come perdita, sono alcuni dei temi che ricorrono quasi ossessivamente nelle incisioni. Da questa riflessione hanno origine sia l’angoscia, sia l’audacia dell’invenzione come unico modo possibile di agire, sotto il segno però dell’arbitrarietà. Troppo moderna e ‘morbosa’ per essere compresa dai suoi contemporanei, la malinconia di Piranesi ha attratto molti artisti dell’Otto e Novecento, che nelle sue visioni hanno ritrovato la propria ‘mente nera’.

1. L’antica grandezza e il Mondo nuovo
2. La Meraviglia e l’Angoscia
3. I labirinti delle Carceri
4. L’architetto ‘custode’ di Aiòn
5. Imago urbis
6. Piranesi e Winckelmann
7. "Sporcare per trovare"
8. Piranesi architetto
9. L’allegoria della nave

Nel 1763 Clemente XIII Rezzonico affida a Giovan Battista Piranesi il compito di rinnovare la parte absidale della basilica di San Giovanni in Laterano. Informato di questa decisione, Luigi Vanvitelli scrive al fratello Urbano:

Invero se faranno fare qualche fabbrica al Piranesi, si vedrà cosa puol produrre la testa di un matto, che non à nessun fondamento. Né ci vuole un pazzo per terminare la tribuna di San Giovanni in Laterano, abenché il Borromini, che ristaurò la chiesa, non fosse uomo molto savio [...].

Questo giudizio di Vanvitelli riflette un mutamento di mentalità nei confronti della follia, che proprio nel XVIII secolo conosce la sua istituzionalizzazione. Non più accolta come estrema manifestazione della ragione, la follia appare quale irrimediabile devianza allorché rivela un agire apparentemente privo di fondamenti. Non è però un caso che proprio l’insondabilità dei fondamenti di cui è espressione, le ossessioni che la tormentano, abbiano assicurato all’opera di Piranesi una fortuna ineguagliata nei secoli successivi. Dall’Ottocento in poi, poeti, scrittori, artisti si sono accostati all’opera piranesiana come all’estrema, inattuale manifestazione del coappartenersi della coscienza critica e dell’esperienza tragica e, viceversa, di un altrettanto attuale modo di percepire il mondo malinconicamente.

Se Coleridge e De Quincey consideravano le visioni piranesiane prove dell’identità di sogno e creazione (la “prerogativa più specifica della malinconia”, secondo Walter Benjamin), da Victor Hugo a Baudelaire, da Walpole a Huxley, a Marguerite Yourcenar, passando per le originali interpretazioni delle Carceri di Sergej Ejzenstein e dell’archeologia piranesiana di Hans Magnus Enzensberger, un’altra figura viene evocata per spiegare l’origine delle rappresentazioni piranesiane ed è quella della sua ‘mente nera’. Anche quest’espressione rimanda al tema della mestizia, alla ‘voluttà nera’ di cui parlava Petrarca, al dono più prezioso e pericoloso, perché prossimo alla demenza, che Saturno può concedere ai ‘viri letterati’, come sostenne Ficino.

Ciò che Vanvitelli, pertanto, non poteva comprendere, e non solo per ragioni riconducibili alla rivalità professionale, è la malinconia che anima l’opera dell’architetto veneziano, che del carattere proteiforme di questa parola interpreta insieme i tratti moderni, morbosi, e quelli saturnini, descritti dalla tradizione umanistica. Ciò rende impossibile il tentativo, in vari modi compiuto dalla copiosa letteratura che ha onorato l’opera piranesiana, di individuare su quale versante del tempo storico la si debba collocare. Ovvero, semplificando sino al limite del lecito una vasta gamma di interpretazioni storiografiche, se l’opera di Piranesi coincida con la definitiva dissoluzione del valore e dei significati del classico, dell’idea stessa di ordine di cui la tradizione postvitruviana ritiene l’architetto custode, oppure con un inizio, con la definizione di un nuovo canone estetico.

Come consiglia la sua natura melanconica, è invece opportuno invocare per l’opera di Piranesi l’allegoria del Giano bifronte. Da un lato, essa porta alle estreme conseguenze la dissoluzione della concezione classica, secondo la quale la stabilità delle norme consente all’architettura di rinnovarsi continuamente come verità e, dall’altro, trasforma l’architettura in una pratica che null’altro può provare se non l’incompatibilità tra il soggetto, che dispone di un linguaggio atto a nominare le cose, e l’oggetto, ovvero le cose che non rispondono più a quelle denominazioni.

1. L’antica grandezza e il Mondo nuovo

La messa in scena della malinconia piranesiana avviene in luoghi segnati dalla malinconia. A Venezia, Piranesi apprende i primi rudimenti della sua arte dallo zio, Matteo Lucchesi, che presta servizio presso il Magistrato alle Acque. Con Giovanni Scalfarotto, superiore del Lucchesi e progettista di quella irrisolta contaminazione di modelli romani e bizantini che è la chiesa di San Simeon Piccolo sul Canal Grande, il giovane Piranesi continua il suo apprendistato.

 

Approda quindi nella bottega dell’incisore Carlo Zucchi, dove viene divulgato, con intenti eminentemente commerciali, ciò che Guardi e Canaletto vanno sperimentando nelle loro vedute di Venezia, non più “classica città dell’avventura”, bensì palcoscenico disponibile ad accogliere le nostalgie che affliggono la cultura europea del Settecento.

   

Nell’affresco Il mondo nuovo, che Giandomenico Tiepolo dipinge per la sua villa di Zianigonel 1791, svanisce una Venezia postuma. Sei anni dopo verrà deposto l’ultimo doge, e nel Mondo nuovo è affidato a dei ciarlatani il compito di illustrare a un pubblico di spettatori indolenti un futuro precluso a chi ha disertato il mondo antico.

Piranesi muore diciannove anni prima dell’arrivo delle truppe napoleoniche a Venezia; ma l’intera sua opera esprime un ultimo, tragico, folle tentativo di reagire alla decadenza dell’oblio, che egli sperimenta nella giovinezza e che si compie, in termini politici, nel 1797. Nella bottega dello Zucchi apprende le tecniche dell’incisione e, insieme, l’arte del commercio; impara la prospettiva e conosce le innovazioni che Ferdinando Bibiena divulga con Architettura civile (1711 e 1731-32).

Negli ambienti che il giovane Piranesi frequenta sono all’opera anche fermenti destinati a lasciare una traccia profonda sulla sua formazione. Tra questi la lezione rigorista di Carlo Lodoli, il più originale tra i teorici dell'architettura della prima metà del Settecento. Lodoli non è solo colui che ritiene la funzione l’unico fondamento affidabile di ogni pratica progettuale, l’architettura un’arte avversa alla mimesi, ma è anche il fautore della pubblicazione a Venezia (1728) dell’Autobiografia di Giambattista Vico. Numerose ragioni inducono a sottolineare la consonanza tra il pensiero di Vico e quello di Piranesi, così come esso si viene dispiegando una volta consumatosi il suo distacco da Venezia (1740). Non solo la genealogia vichiana, tesa a mettere in discussione il principio secondo il quale è l’uomo la misura della creazione, ma anche lo scavo in un mondo tenebroso e infranto, il culto per le rovine come disiecta membra, il recupero che il filosofo napoletano compie delle “ombre della notte, dei tumulti del corpo, degli spasmi della passione [...] del dizionario mentale della storia”, si rivelano analoghi ai meccanismi che animano la potenza metaforica che Piranesi saprà dispiegare nel conquistare “la possibilità di fare di una natura estranea un mondo suo” e di “vivere”, ricorrendo qui alle parole utilizzate da Hans Blumenberg per Vico, “con ciò che non abbiamo fatto e non potevamo fare [che] è l’arte nostra e ben presto l’arte”.

Vivere di e con questa impossibilità: è questo il senso della produzione artistica e della ricerca teorica che Piranesi sviluppa una volta trasferitosi a Roma, dove giunge per la prima volta nel 1740, al seguito di Marco Foscarini, ambasciatore veneziano presso Benedetto XIV.

2. La Meraviglia e l’Angoscia

Nell’ambiente romano di palazzo Corsini, Il Principe di Machiavelli è un riferimento imprescindibile: virtù, fortuna, necessità, le “parole che riecheggiano con suono di bronzo” negli scritti di Machiavelli, risuonano nelle discussioni che si svolgono nel palazzo e informano la convinzione che ‘antico’ non significa ‘altri tempi’ bensì ‘di sempre’ (Meinecke). Sono quindi facilmente spiegabili le ragioni per le quali, quando nel 1743 appare la prima raccolta di incisioni di Piranesi, ovvero Prima Parte di Architetture, e Prospettive, la dedica all’impresario romano Nicola Giobbe contiene un riferimento a Il Principe, e contrappone all’allegoria della decadenza, che compare nel frontespizio, l’evocazione della meraviglia che suscita l’antico, con accenti simili a quelli utilizzati nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio.

Meraviglia: come riprodurre e rappresentare, a partire dalle immagini infrante dell’antico che il tempo trasmette, dai relitti che la storia accumula casualmente, lo stupore e la meraviglia che esse sono in grado di produrre? Il mondo visibile ha le sue radici nella lontananza dell’antico: questa distanza è colmabile? E come?

  

Le incisioni che compongono la Prima Parte di Architetture, e Prospettive registrano l’effetto di stupore e meraviglia che l’antico produce e che Piranesi si sforza di rappresentare con virile brevità e con quell’audacia nella ricerca degli effetti, consentitagli dalla conoscenza degli esperimenti compiuti in campo teatrale dai Bibiena e da Juvarra. Denunciano, però, anche il suo sconcerto di fronte alla difficoltà di rendere visibile l’insondabile profondità del tempo, che le apparenze colte dalle incisioni annunciano e nascondono.

Queste prime tavole anticipano le problematiche che Piranesi affronterà nelle opere successive e, in particolare, il nodo del rapporto tra il limitato, che la precisione documentaria e archeologica impone di rispettare, e l’illimitato, che di questo tipo di conoscenza è il correlato.

Significativo è che nella Prima Parte di Architetture, e Prospettive compaiano insieme tavole quali Sala all’uso degli antichi Romani con Colonnee Camera sepolcrale inventata, che denunciano, la prima una sorta di apprensione panica nell’attribuire allo spazio un’immagine conclusa, l’altra un’evidente angoscia nel cogliere il conflitto che il tempo e la natura, ora alleati, instaurano con l’evocazione dell’antico.

  

Vittime di tale conflitto, in questo secondo caso, sono le figure umane, chiaramente individuate nella Sala all’uso degli antichi Romani, larve casualmente confuse tra resti ed escrescenze naturali nella Camera sepolcrale.

  

In modo analogo, le figure umane compaiono nei Grotteschi, fantasie che Piranesi compone dopo essere ritornato a Venezia, probabilmente nel 1744, veri e propri grovigli di simboli svuotati, accostabili ai Capricci di Juvarrae Marco Ricci, ma, soprattutto di Giovan Battista Tiepolo, generosamente rappresentato nella collezione conservata a palazzo Corsini.

  

Variamente interpretati, come espressioni, ad esempio, degli interessi esoterici di Piranesi, oppure quali prove a sostegno dell’aspirazione ad accedere all’Arcadia (di cui Piranesi fa parte con lo pseudonimo di Salcindio Tiseio), i Grotteschi descrivono un processo di brulicante decomposizione che coinvolge memorie, figure, persone, natura, senza più nulla concedere alla vena nostalgica che serpeggia nelle tavole della Prima Parte di Architetture, e Prospettive.

3. I labirinti delle Carceri

        

Il panico e l’angoscia che abbiamo colto nella Prima Parte di Architetture, e Prospettive si fondono nelle Carceri. Nelle versioni divulgate nel 1760 assumono evidenza palpabile. Lo spazio assume la forma definitiva di un labirinto, privo di uscita e di soluzione, simile a un inviolabile enigma. L’interno e l’esterno si coappartengono; nella loro continuità, il movimento si svolge come un eterno ritornare a un inizio, che tale non è. Uly Vogt-Göknil ha dimostrato come l’affollarsi di figure, il loro infinito moltiplicarsi, in queste tavole non abbiano ragioni e presuppongano l’uso di continue distorsioni e inganni prospettici (solo echi lontani si avvertono nelle opere letterarie che a esse si sono ispirate, come Mario Praz ci conferma parlando del Castello di Otranto di Walpole).

L’angoscia del tempo invade e modella lo spazio. Piranesi domina perfettamente questo scambio simbiotico e lo trasforma in una vastissima allegoria che mira a generare un effetto di vertigine “provocata non dalla mancanza di misure” (perché mai Piranesi fu più geometra), ha scritto Marguerite Yourcenar, “ma dalla molteplicità di calcoli che si sanno esatti e che conducono a proporzioni che si sanno sbagliate”. In tal modo le Carceri mirano a trasmettere un senso di malessere, destinato a evolvere sino all’incubo, dato che questo mondo è “privo di centro ed è nello stesso tempo perpetuamente espandibile”.

Le Carceri sono il prodotto e l’arena dell’invenzione e dell’audacia. L’invenzione rende parlante il sapere di letterato e archeologo di cui Piranesi intende dar dimostrazione, mentre l’audacia gli consente di rappresentare un mondo dove la decisione è abolita, in cui le figure dei torturati si accoppiano alle evocazioni di antichi eroi, dove nella folla si confondono giudici e condannati, e profili di macchine gigantesche oscurano o velano le prospettive di gloriosi monumenti. Lo spazio e il tempo che le Carceri evocano sono “modi in cui il diverso e il contraddicentesi vengono alla luce, forme della contraddizione, ossia dell’assurdo” (Rensi). Eppure, questo assurdo è il riflesso di un’idea di ordine, come la Yourcenar ha compreso: l’ordine è rappresentato come perdita e proprio per questa ragione è ancor più evidente e presente. Ciò spiega il carattere intimamente trasgressivo delle Carceri e, di conseguenza, le difficoltà di offrirne interpretazioni aderenti alle visioni politiche del tempo.

Nelle Carceri Piranesi non sceglie; non si schiera dalla parte dei torturati né da quella dei torturatori; non è a favore di quanti infrangono la legge né di coloro che l’applicano: il passato presuppone la decadenza, la porta in sé; l’antico non è che anticipazione di una fine. Da ciò l’ineluttabilità dell’arbitrio e, quindi, l’audacia dell’invenzione, che in quanto tale non può tradursi in una scelta, né è sinonimo di un modo per prendere partito. L’audacia delle Carceri si compie nel mostrare che nessuna salvezza è consentita in un mondo dove tutto si mescola in modo imprevedibilmente casuale, dato che anche la storia, così come Piranesi la rappresenta, “non è che vita ed esplicitazione d’una realtà irrazionale e non può essere e non è che una serie di casi, ossia di assurdi” (Rensi).

Il fare non implica la scelta, ma solo la decisione del fare, che obbliga a una irrisolvibile doppiezza, tema, questo, intorno al quale Piranesi costruisce il suo capolavoro teorico, il Parere su l’Architettura del 1765. La doppiezza è però l’abito mentale del libertino; nel caso di Piranesi il suo contrassegno è l’invenzione, così come per de Sade lo è l’immaginazione.

Impossibile non cogliere come il materiale trasfigurato nell’allegoria della casualità offerta dalle Carceri derivi da quello eterogeneamente accumulato da Piranesi nel frattempo, di cui le Varie vedute di Roma Antica e Moderna (1741-48) offrono un primo esempio. John Wilton-Ely, tra gli altri, ha dimostrato come queste tavole siano di diverse provenienze, tanto che alcune di esse vennero utilizzate per illustrare guide turistiche stampate prima della metà degli anni sessanta del Settecento.

Ma le Varie vedute non hanno nulla di ingenuo; in ogni tavola l’invenzione prevale sulla mimesi, l’interpretazione prospettica si ingegna di forzare le piccole dimensioni dei fogli in cui le rappresentazioni risultano compresse. Inoltre le rappresentazioni dei monumenti antichi ridotti a frammenti sono tanto oscure quanto precise, invece, sono le incisioni dei grandi palazzi della Roma moderna, al punto che la luminosità funge qui da misura di uno iato storico.

In realtà, questi documenti si riferiscono solo apparentemente a età lontane, al passato dell’antico e al presente del moderno, poiché a ben vedere condividono un tempo dato come unico e configurano, ancora una volta, una rappresentazione metaforica del terribile potere di Crono. Piranesi, infatti, rappresenta questi luoghi abitati da una vita che si ripete, individuata dalle figure umane che si aggirano sperdute e piegate tra queste quinte, ma non inermi.

Non meno della natura, la vita, il corpo stesso verrebbe da dire pensando alle Carceri, ha fondamentalmente la funzione di corrompere. La vita, metafora del tempo, è corruzione, consumo, oblio, agente rovinoso, ed è questo il tema che si rincorre nelle tavole delle Vedute di Roma (1740 c. 1760) e delle Antichità Romane (1756).

La malinconia piranesiana affiora prepotentemente proprio dalle 250 tavole delle Antichità, raccolte in quattro volumi accuratamente organizzati e destinati a dimostrare la solidità delle conoscenze antiquarie del loro autore. Non a caso, un anno dopo la presentazione delle Antichità, Piranesi diviene Honorary Fellow della Society of Antiquaries di Londra.

Inizialmente il sostegno finanziario per la pubblicazione delle Antichità viene assicurato da James Culfield, lord di Charlemont, al quale Piranesi dedica la raccolta. Ma, quando il volume è già stato presentato, gli appoggi finanziari promessi vengono negati e Charlemont ignora le lettere con le quali Piranesi gli ricorda gli impegni assunti. Le decisioni prese da Piranesi in quest’occasione meritano un’attenzione particolare.

4. L’architetto ‘custode’ di Aión

Nel 1757, Piranesi pubblica le Lettere di Giustificazioni scritte a Milord Charlemont. È il suo primo pamphlet polemico, approntato per denunciare il suo infido protettore; sua intenzione è di diffonderlo tra amici, conoscenti, esponenti del mondo degli eruditi.

Nel colophon, compare un’incisione che rappresenta gli strumenti dell’architetto, disposti a formare un quadrato, all’interno del quale è scritto il nome dei destinatari dell’opera. Gli strumenti sono alternativamente sovrapposti a e sormontati dal cerchio perfetto formato da un serpente.

John Wilton-Ely ha spiegato il significato di questa incisione sostenendo che la figura del serpente, simbolo dell’eternità, ha lo scopo di confermare l’altrettanto perenne valore dell’arte. Conseguentemente, l’incisione avrebbe un intento ulteriormente denigratorio nei confronti di Charlemont e confermerebbe la convizione piranesiana secondo la quale la gloria del mecenate non è che riflesso di quella dell’artista.

Oltre questa condivisibile interpretazione è possibile formularne una seconda. Stando alla tradizione e non solo a quella alchemica, il serpente che si morde la coda, Uroboros, è simbolo dell’eterno ritorno (Aión) e, al contempo, del perenne rinnovamento, usualmente identificato con la regolarità con cui i rettili mutano la pelle. Anche nell’incisione piranesiana, come accade nella successione delle tavole delle Antichità, questi due significati si sovrappongono sino a mescolarsi.

Il serpente evoca Aión, “il fanciullo, Dioniso, un nome per designare lo stato originario” (Colli), e il ruolo che spetta all’arte di ricordarne l’unicità e l’arché; gli strumenti del disegno, i saperi che rendono trasmissibile questa memoria. Si può quindi supporre che se il serpente è figura del tempo come Aión, gli strumenti del disegno, a essa sovrapposti, rappresentino il fare che, rendendone visibili le manifestazioni, ne ricorda (e custodisce) l’essenza.

Se nelle Carceri il tempo e lo spazio si sovrappongono come la coda e la bocca del serpente, nelle Antichità la catalogazione archeologica allude a un inattingibile Aión, allineando una accanto all’altra e disponendole sulle tacche di un lungo strumento di misurazione, le tracce che consentono di vederne la corruzione e, al contempo, di percepire come sia proprio questo corrompimento che ne conserva l’origine.

Risultati inutili gli appelli a lord Charlemont, Piranesi elimina la dedica originale e la sostituisce con la breve iscrizione: “Aivo suo posteris et utilitati publicae”. Le Antichità rivelano dunque la loro finalità, che è possibile illustrare con le parole di Thomas Browne (artefice di uno dei primi tentativi di dare uno statuto scientifico all’interesse erudito per l’antico), che nel 1686 scrive: “È il momento di guardare indietro, di contemplare i tempi passati e i nostri Avi. I grandi esempi si assotigliano, bisogna cercarli nel mondo scomparso [...] Siamo molto impegnati a trovare una nostra stabilità tra presente e passato, e l’intero teatro delle cose è appena sufficiente a istruirci”.

Il catalogo delle Antichità ha dunque come scopo l’‘utilità pubblica’, ovvero scuotere l'oblio, riconfermare il potere di ammonire che l’antico possiede, soprattutto, conservare. Congruente con questa finalità è la struttura dell’opera in crescendo: il primo volume offre la ricostruzione per frammenti dell’identità urbana dell’antica Roma, il secondo e il terzo la riproduzione delle tombe e dei monumenti sepolcrali, il quarto un vero e proprio inventario eroico delle principali opere pubbliche.

Il lavoro compiuto da Piranesi è il risultato della sintesi di diversi approcci all’antico. Egli non si limita solo a cogliere con precisione le forme dei monumenti che rappresenta, sino a renderli ermetici per un eccesso di chiarezza, ma ne espone l’intima struttura avvalendosi di piante e sezioni, ne ‘descrive’ i siti, si avvale di “continui riferimenti alle fonti e al rapporto con la topografia della città moderna”, con il fine di porre le premesse di una “ricostruzione completa della Roma antica”.

Questo progetto, peraltro, è in sintonia con quanto si va sperimentando a Roma, proprio a partire dal 1740. La Nuova Pianta di Roma disegnata da Giovanni Battista Nolli (1748), è un documento inequivocabile della volontà condivisa dalla cultura romana alla metà del Settecento di ripensare e riprogettare il ruolo della città eterna, oltre che espressione della politica cautamente aperta al riformismo di Clemente Xll e di Benedetto XIV. Sostanzialmente diversa per significato e caratteri è l’opera con cui Piranesi implicitamente risponde, ovvero Il Campo Marzio dell’Antica Roma (1762), risultato di un lavoro protrattosi per più di sette anni.

5. Imago urbis

Se la Pianta del Nolli è un “vero e proprio strumento di analisi urbana", dove "il potere evocativo della città antica [è] una sovrastruttura culturale totalmente assimilata” (Bevilacqua), il Campo Marzio è invece la più complessa costruzione metaforica tra quelle realizzate da Piranesi. La metafora prende avvio dalla configurazione, “secondo un metodo di associazione arbitrario, il cui principio di aggregazione esclude ogni organicità” (Tafuri), dell’area compresa tra il Tevere, il Campidoglio, il Quirinale e il Pincio, dove le nuove istituzioni della Roma moderna si erano venute localizzando. Questa Roma moderna viene così sottoposta al confronto con l’antico, che Piranesi intende dimostrare fondante la decadenza contemporanea.

Egli identifica l'antico come un infranto non ricomponibile. Il passato, chiariscono le Antichità e ora Il Campo Marzio conferma, non offre alcun insegnamento e non trasmette messaggio alcuno, se la ‘uriosità’ non lo interroga e ‘l’invenzione’ non lo interpreta. Le figure che Piranesi colleziona, infatti, non sono immagini che imitano una realtà ideale, bensì semplici apparenze, create per produrre “un’esibizione indiretta, simbolica, di qualcosa di cui si avverte la presenza intorno a sé, al disopra di sé, qualcosa dí cui non si può più garantire una diretta personificazione” (Wunenburger). Ciò coinvolge tutti i monumenti che si affollano nelle tavole piranesiane intorno ai capisaldi rappresentati dal corso del Tevere, dall’anfiteatro Flavio, dal Pantheon e dalle Terme, dove le figure si aggregano in maniera paratattica.

Il Campo Marzio è un vero e proprio collage di frammenti: dissolve l’ossessione seicentesca per la concatenatio, ritenuta da Maravall all’origine dell’immobilismo che regge la riduzione barocca del mondo a grande teatro, e conclude il processo di identificazione, avviato peraltro in pieno Quattrocento, di dissolutum e compositum. Infine, Il Campo Marzio non rivela alcuna preoccupazione tassonomica e non è paragonabile a un kircheriano “teatro della memoria”, dove l’inatteso si ordina, in analogia a quanto avviene nel campo degli studi archeologici.

Il Pantheon e gli altri monumenti che compaiono nel Campo Marzio non sono centri o capisaldi di uno strutturato ordine urbano e neppure definite tipologie. Ciascuna costruzione è presentata come eccezione e la geometria che governa le aggregazioni delle forme non genera alcuna concatenazione ma soltanto un susseguirsi di addizioni.

Si riproduce così un meccanismo che Piranesi aveva già sperimentato nell’incidere la Pianta di Ampio Magnfico Collegio, che compare nell’edizione del 1750 delle Opere Varie di Architettura. Manfredo Tafuri sostiene:

L’ampio magnifico Collegio è una struttura teoricamente ampliabile all’infinito. L’indipendenza delle parti e il loro montaggio non seguono altra legge che quella della pura continuità. Il Collegio, dunque, costituisce una sorta di gigantesco punto interrogativo sul significato del comporre architettonico: la ‘chiarezza’ della scelta planimetrica è erosa sottilmente dal processo con cui le varie parti entrano in colloquio fra di loro; il singolo spazio mina segretamente le leggi cui finge di assoggettarsi.

6. Piranesi e Winckelmann

Nel 1755 Johann Joachim Winckelmann, sovvenzionato dal re di Prussia, giunge in Italia. Di lì a poco egli entra al servizio, come bibliotecario, del cardinale Alessandro Albani, nipote di Clemente Xl. Villa Albani è, al contempo, un Parnaso (tale è il tema del più importante affresco presente nella villa, opera di Anton Raphael Mengs) e un museo.

Quando la Villa Albani tentava di mettersi in concorrenza con la Villa Adriana – ha osservato Bredekamp – per Winckelmann era come un test per verificare se il presente possedesse la capacità di raggiungere nuovamente il livello dei greci – sia nelI’arte sia nella costituzione politica.

La Grecia, idealizzata patria della libertà per Winckelmann, modello di semplicità e grandezza, è il mito da cui traggono giustificazione le aspirazioni sovranazionali dell’llluminismo. Inoltre, secondo la concezione evolutiva di Winckelmann, l’arte, sviluppandosi dal necessario al superfluo, è un’articolata ed esaustiva dimostrazione della possibilità di comporre ogni conflitto e del primato della ragione. Pertanto egli studia l’arte greca come fonte di una necessaria e ammonitrice nostalgia.

Probabilmente, non vi è pagina che evidenzi con più chiarezza la distanza che separa la malinconia piranesiana dalla voluttà nostalgica con cui Winckelmann scava nell’antico, ritenendo il passato lo scrigno della verità, di quella che conclude Geschichte der Kunst des Alterthums, del 1764.

Come la donna amata che dalla riva del mare segue con gli occhi colmi di pianto l’amato che si allontana, senza speranza di rivederlo [...] anche a me [...] resta solo l’ombra dell’oggetto dei miei desideri. [...] Rispetto agli antichi, noi siamo come eredi insoddisfatti; ma noi rivoltiamo ogni pietra, e attraverso le deduzioni di molti singoli giungiamo almeno a una ipotetica certezza [...].

L’idealizzazione della Grecia comporta necessariamente un giudizio negativo sulla civiltà artistica romana, ritenuta essenzialmente imitativa. Winckelmann apprezza le virtù dei primi tempi repubblicani e, in particolare, la “semplicità dei costumi” di quella “Repubblica di guerrieri”. Ma proprio perché lo “Stato era sempre in guerra, scarse dovettero essere le occasioni di coltivare l’arte”; per questa ragione, sostiene, “io mi sento autorizzato a ritenere frutto di immaginazione l’idea di uno stile romano. [...] Gli artisti romani del tempo della Repubblica imitarono nelle loro opere l’arte etrusca”, afferma e “gli artisti etruschi ebbero a Roma il ruolo che fu più tardi degli artisti greci”.

Con Della magnificenza ed architettura de’ Romani, del 1761, una delle sue opere più impegnative dal punto di vista teorico, Piranesi completa quanto annunciato dalle Antichità, e affronta in realtà un serrato confronto polemico. Per l’autore della Magnificenza, l’architettura romana dell’età repubblicana è il culmine di una tradizione fondata. Prendendo le mosse da Tito Livio, egli stabilisce una stretta correlazione tra l’idea di ‘magnificenza’ e il primato dell’“utilità” che esclude lodolianamente il lusso e rinnova il valore discriminante della semplicità coltivata dagli etruschi.

L’obiettivo di fondo dell’opera è confermare “come voleva l’insegnamento di Vico e dei primi etruscologi, che l’architettura romana altro non sarebbe stata che lo specchio della legge romana” (Rykwert). A esso correlato è il tentativo di dimostrare analiticamente il ruolo subordinato della decorazione all’utilitas, poiché il ‘capriccio’ non si addice all’architettura. Operare rettamente significa adattarsi alla ‘natura e al fine’, ma soprattutto, opporre la ‘parsimonia’ al ‘lusso’, poiché, afferma Piranesi, ribadendo con stupefacente chiarezza una netta opposizione tra ‘dignità’ e ‘decorazione’, “negli edifizi [...] la stessa gravità e dignità serve loro da ornato”.

7. “Sporcare per trovare”

Della magnificenza anticipa quanto Piranesi sistema organicamente nella sua opera teorica più importante, il Parere sull’architettura del 1765. Dopo la prima edizione, egli aggiunge alcune tavole. Nell’ultima, una stupefacente fantasia architettonica risultato di una sovrapposizione di figure diverse e di piani schiacciati, solo il coronamento non risulta sporcato da alcuna presenza decorativa; su di esso appare l’iscrizione, tratta da Sallustio, Novitatem meam contemnunt, ego illorum ignaviam.

Questa iscrizione, che dà la misura dell’orgoglio messo in campo nella costruzione del Parere, va accostata a un’incisione che Piranesi trae da un disegno del Guercino nel 1764: lo sguardo di un vecchio dolente e stanco si perde nella visione dell’antico e il senso di lutto che pervade la tavola è reso palpabile dall’allusione autobiografica che la testa tagliata di Giovanni Battista nella parte bassa dell’incisione esplicita. Al centro dell’allegoria è raffigurata, in prospettiva, una tavolozza; tra i colori si legge la frase: “col sporcar si trova”.

Questa rappresentazione dà la misura della distanza che separa Piranesi da Winckelmann e dalle concezioni dell’antico con le quali il Parere polemizza. Inoltre, introduce a uno dei temi centrali che nel loro colloquiare Didascalo e Protopiro, i protagonisti di questo dialogo, affrontano.

  

Si osservi anche la Parte di ampio e magnifico Porto dalle Opere Varie (1750), oppure la Veduta della Dogana di Terra a Piazza di Pietra nelle Vedute di Roma: nel primo caso, un denso fumo oscura parte della gran Piazza per Comercio, nel secondo un cielo tormentato dalle nuvole getta ombre minacciose sulle antiche colonne. L’invenzione comporta un impiego costante dell’impurità. Lo sporco che il tempo deposita sulle cose non è che il risultato evidente dell’azione corrosiva che esso esercita; nel rappresentarlo, per coglierne l’essenza, l’invenzione deve abolirne ogni valenza naturalistica, deve “sporcare per trovare”, avventurarsi, come Didascalo sostiene, tra “ornamenti tutti stranieri”. Ma l’impurità non è solo il prodotto del tempo; infetta è l’architettura, la sua lingua, sin dai suoi fondamenti e così essa a noi ritorna, poiché nella ‘magnificenza’ quella corruzione si riproduce e propaga. “Un rigorista rimproverava i Romani di aver corrotta l’architettura de’ Greci, ed egli [Piranesi] dovette fargli vedere, che i Romani tutt’al contrario, non potendo sanare le piaghe di un'architettura infetta nella radice, poiché l’avevano abbracciata, avevan tentato di mitigarle” afferma Didascalo.

Non vi è conclusione nel Parere; l’andamento del dialogo presuppone che i due contendenti rimangano fedeli ai propri assunti e nulla concedano alle argomentazioni dell’altro. Le domande e le risposte entrano in un equilibrio tautologico. L’indifferenza di Didascalo è il riflesso di quella di Protopiro: è il prodotto e l’immagine dell’infondatezza del tema discusso. Il senso stesso del fare architettonico risulta così sinonimo della più radicale arbitrarietà, simile a quella all’origine di un gioco retorico, palestra per eccellenza dell’intelligenza del libertino, custode dell’idea di tradizione quale sinonimo di invenzione-scoperta-interpretazione.

8. Piranesi architetto

Alla morte di Benedetto XIV Lambertini, nel 1758, viene eletto papa Carlo Rezzonico. Clemente XIII e i suoi nipoti divengono i principali committenti di Piranesi, quelli che gli consentono di cimentarsi nel campo dell’architettura, affidandogli i progetti per la riforma di San Giovanni in Laterano e per la chiesa di Santa Maria del Priorato sull’Aventino, e la sistemazione di appartamenti a Castel Gandolfo, al Quirinale, in Campidoglio.

Nel 1743, Clemente XIII commissiona a Piranesi il nuovo altar maggiore in San Giovanni Laterano. Ventitré magnifici disegni conservati all’Avery Library della Columbia University consentono di analizzare l’evoluzione di questo progetto. Piranesi ne elabora diverse versioni. La più impegnativa è quella che John Wilton-Ely individua come la terza.

Se inizialmente Piranesi si confronta con prudenza con l’opera borrominiana e sembra puntare sulla continuità e la mimesi, con il terzo progetto decide di invadere lo spazio del transetto e inventa una struttura notevolmente articolata e impegnativa, costituita da un binato di colonne su balaustrini disposto intorno al recinto dell’altare; le colonne individuano, a loro volta, un ampio deambulatorio esterno. Inoltre, lo spazio absidale così riconfigurato viene separato dai preesistenti prospetti della navata, il cui ritmo, pertanto, risulta spezzato per privilegiare la vista della porzione absidale.

Sulla parete ricurva dell’abside, Piranesi immagina di diffondere una luce diretta e decisamente direzionata, proveniente da una bocca superiore nascosta. Si tratta di una luce ben diversa da quella omogenea che illumina gli astratti elementi compositivi borrominiani nella navata. Tutto ciò finisce per configurare una machina architettonica che afferma la propria estraneità rispetto al contesto spaziale che l’accoglie. Questa machina si esibisce come un’invenzione; in quanto tale si presenta tramite l’eterodossia dei dettagli, come si può intuire osservando i capitelli raddoppiati che sormontano le colonne.

La luce che scende dall’alto lungo le pareti dell’abside tende ad annullare l’evidenza del ricco e diffuso apparato decorativo. Le decorazioni, infatti, divengono più percepibili mano a mano che la luce, scendendo, si affievolisce e nella parte superiore risultano cancellate, sopraffatte da un’illuminazione quasi radente. In tal modo, viene messo in scena un paradosso, ovvero un confronto tra situazioni sovrabbondanti: I’eccesso di luminosità vanifica l’eccesso decorativo, I'esagerata ornamentazione svanisce progressivamente nell’atonalità delI’involucro.

Questa invenzione fa sì che solo la forma geometrica della semicupola dell’abside risulti chiaramente percepibile. Ogni dettaglio diviene invisibile e alla vista si offre una pura forma geometrica. Il molteplice composto da Borromini nella navata è ridotto a una ritmica scansione spaziale che ha la funzione di introdurre all’esibizione di una radicale diversità, a una forma che non ha ritmo, che contiene solo se stessa, che mostra unicamente la sua alterità e arbitrarietà.

Il confronto con Borromini si risolve allorché Giovanni Battista Rezzonico affida a Piranesi il compito di riformare radicalmente la chiesa di Santa Maria del Priorato. A quest’opera egli si dedica tra il 1764 e il 1767, mentre è impegnato nella stesura del progetto per San Giovanni e del Parere. Alla Avery Library della Columbia University è conservato un libro che riporta i computi dei lavori realizzati nella chiesa dal novembre 1764.

Giovanni Battista Rezzonico è gran priore dell’Ordine di Malta dal 1761. Il compito che egli affida a Piranesi è quello di “rinnovare e non restaurare” la preesistente chiesa cinquecentesca e gli annessi, dando al complesso un nuovo assetto monumentale, atto a esprimere la dignità dell’Ordine e i meriti dei Rezzonico.

Piranesi interviene, dopo aver demolito le strutture del monastero altomedievale, sistemando gli accessi e ricavando “un’impressionante piazza rettangolare, fronteggiata sul lato del Priorato da un bel muro di recinzione, la cui porta si apriva sul viale alberato, già esistente, allineato sulla cupola di San Pietro” (Wilton-Ely). Aggiunge poi un attico, andato in seguito distrutto, affacciato sul Tevere e procede al consolidamento delle strutture della chiesa, di cui ridisegna il prospetto e riconfigura l’interno, in particolare la copertura e l’abside.

Nel ripristinare il preesistente portale d’ngresso e i muri intorno alla piazza, si avvale della tecnica del collage utilizzata per comporre le tavole del Campo Marzio. L’obiettivo che persegue, immergendo nelle superfici murarie materiali eterogenei ma perfettamente finiti e singolarmente eloquenti, è di suggerire continue associazioni, evocative delle glorie dell’Ordine di Malta e dei meriti dei Rezzonico.

In tal modo crea un intreccio simbolico chiaramente allusivo alla rinascita dell’Aventino, il colle più misterioso di Roma e il cui nome rimanda alle leggende sulle origini dell’Urbe. Il sistema iconografico che appronta sembra mirare a rendere evidente come la vera impresa da ascrivere a merito dei Rezzonico sia quella di aver promosso un’opera destinata a dare nuova vita all’antico, riattualizzando i miti collegati sin dalle origini al nome del colle. Ciò spiega il carattere teatrale che le sistemazioni esterne posseggono. Piranesi, infatti, riconfigura il portale d’ingresso come la scena per la piazza, componendo una serie di sprezzature e di ironiche (per eccesso di eloquenza) trasgressioni al canone e alle norme classiche.

Inoltre, mentre inserisce nel prospetto e nei muri copie tratte dagli archi di trionfo, dalla colonna Traiana, dai ‘trofei di Mario’ in Campidoglio, allusivi alle glorie militari dell’Ordine, non tralascia di ricorrere a un’iconografia seconda, ove intreccia simboli atti a celebrare le radici etrusche della cultura italica. Le sistemazioni esterne, I’ingresso e la piazza finiscono così per configurarsi come un percorso di iniziazione. Dopo averlo attraversato, si accede alla chiesa. Nella facciata, sopra il timpano di ingresso, è posto in evidenza l’occhio centrale, fasciato da una corona di lauro. L’apertura circolare è inserita nel prospetto di un sarcofago egizio, al quale si addossano sui lati opposti, come mensole, due serpenti.

La celebrazione della dignità dell’Ordine, pertanto, si accompagna all’evocazione dell’antico nome dell’Aventino, denominato da Giunone ‘monte del serpente’. Il ricorso all’inedito motivo del sarcofago egizio permette a Piranesi di proiettare in facciata il significato della chiesa, luogo di sepoltura dei priori dell’Ordine di Malta. Come il portale, anche questo prospetto è uno schermo, su cui Piranesi distribuisce un fantasioso corredo iconografico. Questo apparato disegna un sipario in procinto di aprirsi, predisposto per ruotare, si può immaginare, sui cardini rappresentati dalle coppie delle paraste laterali.

All’interno il confronto con Borromini riprende serrato. Una volta colto il messaggio che la facciata trasmette, nella chiesa lo spazio e gli effetti luminosi funzionano in modo da isolare la parte absidale. Risultato del sovrapporsi di rivestimenti dai significati formali e simbolici diversi, la conchiglia, il nido d’ape, il festone e lo scudo, la semicupola che sormonta l’abside sembra dissolversi in una nuvola. Una luce diffusa e una luminosità misteriosa si mescolano nell’abside, sommatoria di segni disarticolati. La prima è diffusa dall’apparato di ispirazione teatrale che riveste la semicupola e dalla lanterna ricavata nella crociera, la seconda proviene da un’apertura nascosta, analoga a quella progettata per l’abside di San Giovanni. In questo modo l’altare di San Basilio, che si leva a separare la navata dalI’abside, è fatto oggetto di una parossistica attenzione, che sortisce un risultato paradossale e produce un effetto estraniante che ne decretano l’isolamento nello spazio della chiesa. Risultato di molti studi, l’altare appare come l’allegoria conclusiva di una costruzione che è metafora della precarietà.

Nell’iconografia del complesso, i simboli marinari hanno un peso rilevante e alludono al ruolo storico dei priori italiani dell’Ordine di Malta. Ma l’intera chiesa può essere interpretata come metafora di una ‘nave’, simbolo unificante la celebrazione delle glorie dell’Ordine con l’idealizzazione dell’Aventino, che Piranesi immagina simile a un vascello attraccato nel porto di Ripa Grande tramite i resti del ponte Sublicio. Questi temi si rincorrono nelle metafore spaziali della chiesa; da esse l’altare si distacca, dimostrandone con la propria paradossalità il significato puramente retorico.

9. L’allegoria della nave

Sull’altare San Basilio, I’asceta, è rappresentato nel momento della trasfigurazione. Dal sarcofago che costituisce la pietra per la celebrazione liturgica, luogo pertanto dell’estremo sacrificio, il santo sale al cielo assiso sul mondo. Il globo poggia su un’antica nave, simbolo dell’instabilità dei fondamenti: la nave trasmette al mondo quanto le è proprio rappresentare e il mondo beccheggia sulle tavole del suo ponte, nell’incertezza della rotta da seguire.

La retorica rappresentazione della trasfigurazione di San Basilio è l0esatto opposto di questa precarietà: è il viaggio verso la certezza che si colloca al di là del mondo, da cui il mondo è escluso. Solo il sacrificio libera l’uomo dalla sua condizione di navigante; solo la rinuncia dà senso al viaggio che egli compie nella vita. Nell’altare di San Basilio, “la mensa, il dorsale, il tronco di piramide del sarcofago a pianta ovale posto a coronamento, il medaglione centrale sopra il ciborio, il globo con il gruppo statuario del volo del santo inserito nella piramide, si ricompongono come immagine labirintica, immersa in una totale ambiguità. Il complesso descritto, infatti, si trova in controluce rispetto all’abside, ma direttamente investito dalla luce proveniente dall’alto” (Tafuri). Tutto quello che questa luce investe si dispone con chiarezza e configura una complessa ma eloquente allegoria.

Ma poi, un’altra luminosità di cui si può solo intuire la provenienza, il movimento e il ritmo della successione dei pilastri e delle colonne, la nuvola che smaterializza la volta obbligano ad abbandonare la vista frontale dell’altare. Compiuto un breve percorso semicircolare, ci si trova a osservare il risultato di una strabiliante metamorfosi. Una cascata di forme accoglie il visitatore che si avvicina all’altare; una sfera di purissima fattura, sorretta da un’altrettanto ermetica figura geometrica, si presenta improvvisa alla vista di chi, seguendo le indicazioni di Piranesi, non si accontenta della messa in scena delle apparenze che la navata accoglie.

L’altare possiede due volti e nuovamente evoca la figura del Giano Bifronte. Due facce inconciliabili, irriducibili l’una all’altra, tra le quali non vi è comunicazione diretta; solo un complicato esercizio mentale le può riconoscere coappartenentisi, proprio come avviene allorché si ascolta il dialogare di Protopiro con Didascalo. Ma l’una faccia è necessaria all’altra; un volto senza l’altro resterebbe muto come i busti degli antichi filosofi.

L’altare di San Basilio è fatto di oggetti; degli oggetti descrive l’ingovernabile molteplicità e la vocazione alla casualità associativa. Sono oggetti tutti necessari a illustrare che l’invenzione ha quali presupposti, come le cose del mondo, la precarietà, la casualità e l’arbitrio. Vuoto e pieno, silenzio e narrazione; ermetismo e retorica; astrazione e mimesi, finito e incompiuto: l’elenco delle coppie di opposti che l’altare di San Basilio suggerisce è in realtà senza fine. In ciò risiede il suo messaggio, questa è la sua natura di irresolubile allegoria. La celebrazione dell’incompiutezza dialettica genera un tormento simile a quello che si prova allorché si cerca di individuare una via tra le troppe che le Carceri sembrano offrire, un modello tra le ‘meraviglie’ delI'antico che Piranesi ha raccolto sulle spiagge dove si sono consumati i naufragi della storia.

Anche dal Priorato e dalla chiesa di Santa Maria è impossibile uscire (nell’altare non è dato cogliere alcun modello, dal collage della piazza provengono solo ammonizioni frammentarie) perché dal paradosso non è consentito liberarsi. Ma il paradosso al quale Piranesi ha dato forma sull’Aventino è il medesimo che ha tormentato la sua vita; è la fonte della sua moderna, attuale malinconia, quella di chi sa che “il creatore è un distruttore: non siamo grandi abbastanza per creare e distruggere” (Nietzsche).

*La versione completa del saggio è disponibile in forma cartacea in Storia dell’architettura italiana. Il Settecento, Electa, Milano 2000 (riduzione a cura di Piera Parpaglioni).

Compendium

a Giacomo Dalla Pietà latine versum

Melancholia quaedam opera atque artificia Piranesi perfundit; animus eius morbosus et saturninus - sic iam in humanesimo descriptus - Venetiis et Romae explicatur, in ipsis urbibus ubi finis historiae praesertim sentiebatur. In Piranesi extremis signis dissolvitur aliqua classica traditio cuius praeceptis, ordinibus, rationibusque et ad summam reivento canone, architectura in saecula continuata et semper renovata videbatur.

Ex obscuris atque fractis finibus antiquitatis exortus erat Classicismum - sub versione Vichiana cuius grammaticam mentalem Piranesi acceperat - et scientia antiquaria atque ruinarum studio alebatur, cum peculiaris modus exprimendi in fragmentis antiquis inveniretur. Piranesi ipse se applicat ad realia antiqua perverstigandum, potius quam ad instituendum legum rationumque corpus absolutum, sempiternum atque in se conclusum, ut a Winckelmann proponebatur. Eorum sententia humanitas et omnino antiquitas aetas iam praeteritae videbantur, nondum receptae: itaque eruditione antiquaria exhibebatur antiquitatis imago una et perfecta. Tamen hic prospectus dissonabat cum corruptionis visu et ruinae angore, tempore ac natura evocato. Ita nexibus cum traditione classica per phantasmata antiquitatis Piranesi revocat in scaenam aeternam discordiam inter finitum et infinitum, inter impulsionem ad perfectum et sensum imperfectionis. Propterea disciplina architectonica quasi thesaurus formarum antiquarum ut renovata archaiologia ostenditur; verum formae antiquae videntur reliquiae corruptae consumptaeque, in oblivione iactae. Dum antiquitas a Piranesi reficitur et restituitur sub specie imaginis propriae in historia relictae et dissolutae. Tempore in ruinis sordidus situs deponitur; angore spatium pervaditur atque conformatur; corruptione columna spolium fit; at haec dissolutio non efficit ut Classicismus albidus et algidus praevaleat. Nam antiquitas a Piranesi reinventa est materia fecunda apta novae interpretationi, quasi inexhaustus ludus.

English abstract

A deep sadness animates the work of Piranesi, which depicts the modern, morbid and saturnine treatises of the humanist tradition, and reveals itself in those territories which are marked by the end of their history (Venice and Rome). The definitive dissolution of classical thought according to which the stability of norms, rules and canons enabled architecture to renew itself constantly giving continuity to tradition, took place during his era. ‘Classicism’ derived from a mysterious and broken world and fed off ancient learning and the cult of ruins. It had as its basic cypher (as his theoretical works show) ‘fragments’, an analytical study of Graeco-Roman art, rather than an abstract fusion of idealised norms. The classical was the ‘ancient’, a temporal dimension which no longer existed, and remained unfathomable; it presented itself in scholary work, in a perfectly complete representation, which however clashed with the agonising notion of decadence and corruption that time and confusion promote. So the relationship between the classical tradition and representations of antiquity highlighted the eternal conflict between the limited and unlimited, and the tension between the finite and infinite. Architecture revealed itself as an archaeology of forms which were worn-out, adulterated and forgotten by the world. It recreated and reconstructed antiquity on the evidence of forms which were the fragments of history. The dirt which time deposits on things, and the corrosive action that transforms a pillar into a ruin which in turn becomes a model for a new architectural concept, do not establish an inflexible classicism, but they do define the terms for a continuous discovery, interpretation and re-invention of the ancient world.

keywords | Piranesi; architecture; engravings; melancholy.

Per citare questo articolo / To cite this article: F. Dal Co, Piranesi e la malinconia, “La Rivista di Engramma” n. 5, gennaio 2001, pp. 1-23 | PDF