"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

127 | maggio/giugno 2015

9788898260720

Introduzione a “Il Mondo Mutato (1932)*

Ernst Jünger
traduzione di Angelica Basso, Monica Centanni e Daniele Pisani

testo originale tedesco

Fra gli svariati segnali dell’insorgere di un nuovo primitivismo si registra anche il fatto che il libro illustrato torna a giocare un ruolo. Resta da vedere se questo stesso primitivismo sia da considerare in modo positivo o negativo. Quel che a ogni modo risulta certo è che ci si deve fare i conti.

A prescindere da questo, molti sono i fenomeni del nostro tempo che sono in realtà assai meno nuovi di quanto possa apparire a un primo sguardo. Nuovi sono piuttosto i mezzi, il cui impiego disinvolto permetterà di tenere sotto controllo quei fenomeni, così come è avvenuto per i mezzi in ogni altro tempo. La storia delle immagini come mezzo di rappresentazione di situazioni di conflitto è antica quanto la stessa storia dell’uomo. Altrettanto antica è l’attenzione posta nel ritrarre l’avversario in una posizione di sottomissione o di vulnerabilità, in ogni tempo in cui ciò sia accaduto e indipendentemente dal materiale di cui ci si sia serviti. Un’attenzione che si manifesta già negli schizzi con cui il cacciatore primitivo disegna la sua preda e che si ritrova nuovamente nei bassorilievi dei templi in cui si vede il faraone troneggiare al di sopra di schiere di prigionieri in catene, così come nei graffiti pompeiani e nelle xilografie e nei volantini a stampa della Riforma e della Controriforma, ma anche nell’ondata di caricature che provoca la censura, fino alle riproduzioni delle stampe su rotativa, che ci sono ben note perché utilizzate nei moderni scontri fra partiti. In tutti questi casi si nota, indubbiamente, che l’appello all’immediatezza della visione ha un effetto più forte e incisivo della raffinatezza dei concetti.

Solo relativamente tardi si è riconosciuta la possibilità di utilizzare anche la fotografia come uno strumento politico. Questo, da una parte, dipende dal fatto che il rango di tecnica affidabile e precisa è stato riconosciuto alla fotografia per la prima volta solo ai nostri tempi; d’altra parte, però, c’è anche il fatto che per molto tempo si è avuta la propensione a considerare la fotografia come un mezzo neutrale o “obiettivo”, e quindi come per sua natura escluso dalla sfera politica. È evidente che l’immagine di un uomo o di un evento riprodotta con il carattere obiettivo di un ritratto fotografico non può essere tendenziosa come il disegno uscito dalla matita di un caricaturista. La duttilità del materiale era ulteriormente accresciuta dal fatto che, per motivi tecnici, gli scatti dovevano essere presi “in posa” ed erano privi pertanto di quell’impressione di vitalità che è uno requisiti della capacità di cogliere nel segno.

Già ai tempi della Grande Guerra, quando si tentò di introdurre vari strumenti tecnologici tra cui la fotografia, questi difetti emersero con tale evidenza che non si può parlare di un suo efficace uso a fini propagandistici. Tra i molti documenti, utilizzati per deprecare duramente la barbarie o ridicolizzare una certa posizione culturale, la fotografia aveva un ruolo ancora subordinato; e considerando le tante fotografie in posa e ritoccate, la pretesa di oggettività è così evidentemente artificiosa da contraddire il suo fin troppo chiaro intento. Molto presto, dopo la guerra, si riscontra però la capacità di utilizzare in modo disinvolto la fotografia. E ciò si nota in particolare quando la fotografia viene impiegata in ambito cinematografico. Il primo tentativo davvero riuscito in questa direzione è il film, ora celeberrimo, La corazzata Potëmkin1, innanzitutto perché soddisfa l’esigenza principale di ogni forma di propaganda politica, cioè quella di non annoiare. Noiose risultano invece le immagini quando, al di là della pura visione, pretendono di essere lo strumento di rappresentazione di idee, pensieri o semplici opinioni. Così, per citare un altro esempio, nel film Metropolis2 è tanto avvincente tutto ciò che riguarda la trama, le scenografie o le macchine, quanto risulta invece pesante il tentativo di rappresentare un’idea di società. Ugualmente, nei film nazionali, non è tanto il tema a promuoverli al rango di propaganda governativa, quanto piuttosto la magistrale padronanza del mezzo con qualsiasi argomento.

Un dato ancor più recente è l’impiego deliberato della fotografia istantanea, sia in numerose riviste illustrate, sia in determinate raccolte di serie di immagini. Questa è una pratica che si svilupperà via via che il materiale a disposizione diverrà più vario e completo. Già al giorno d’oggi non accade praticamente nulla al mondo che non finisca per giocare un ruolo soltanto per il fatto di venire documentato fotograficamente. In tal modo è già sorta tutta una serie di archivi in cui si trova depositata una prodigiosa messe di documenti fotografici. Il modo in cui verranno utilizzate queste riserve che vanno moltiplicandosi giorno dopo giorno si può presagire piuttosto che afferrare in tutto e per tutto.

Non occorre dire che, grazie all’impiego delle immagini, si sfonda tutta una serie di barriere che ostacolano la possibilità di comprensione. Non importa quale sia la lingua parlata dall’osservatore e nemmeno se egli sappia leggere o scrivere. Tanto meno si potrà arginare l’effetto esercitato dalle immagini ricorrendo a una particolare idea del mondo, e se pure i giornali si distingueranno per l’articolo di fondo, per i loro feuilleton e pure nelle versioni dei fatti che riporteranno, finiranno per risultare tutti identici quanto alla parte illustrata. Ne consegue che la stessa immagine può venire impiegata per fini affatto contrapposti, e ad esempio, nel caso dell’immagine di un armamento, sia chi è a favore delle armi sia chi è contro di esse tenterà di ricondurla ai propri fini. Il dato di fatto che si cela dietro fenomeni così rilevanti è che la tecnica diviene un mezzo esistenziale, mentre la differenza delle opinioni non gioca altro che un ruolo subordinato. Ciò vale anche per la fotografia, in quanto documento specifico in ambito tecnico.

Con ciò non si intende affatto dire che la fotografia ha un carattere “oggettivo”. Come in ogni fonte, così anche nella fotografia fluisce la corrente determinata da un tempo specifico, rispetto alla quale sono proprio i contemporanei i meno capaci di formarsi un giudizio. Solo un animo ingenuo può pertanto ritenere che nella fotografia le cose siano rispecchiate “così come sono”. Il procedimento tecnico assomiglia piuttosto a un filtro che è permeabile solo per un determinato strato di realtà. Questo rapporto emerge soprattutto nell’universo formale della tecnica, come ad esempio nel caso della voce registrata, che non va considerata come una pura riproduzione della voce umana, bensì come la sua traduzione in uno specifico medium. È perciò verosimile che anche il ritmo e il timbro di una voce saranno un’esperienza misteriosa, o addirittura spaventosa, per un uomo di tutt’altra epoca.

Allo stesso modo in cui ci sono voci alle quali non si addice affatto il microfono, ad esempio quelle dei conferenzieri vecchio stile, l’amplificazione meccanica dei quali ne svela impietosamente il pathos inautentico, così esistono oggetti e processi inadatti a essere colti dalla fotografia. Ciò riguarda in particolare i processi privi di una relazione decisiva con il nostro spazio e con il nostro tempo. Ci si ricordi, a tale riguardo, di un fatto ben noto, ossia che il disco o il film non registrano i trucchi del prestigiatore orientale – e di fronte a un fatto come questo non è lecito accontentarsi dell’ovvia spiegazione secondo cui tutto ciò sarebbe un segno di particolare integrità del mezzo. Si tratta di un’integrità oggettiva che non va imputata soltanto ai mezzi, ma anche al ben preciso atteggiamento di chi se ne serve, il cui pregio, altrettanto notevole, consiste nel percepire certe cose e non vederne delle altre. Questi nessi si fanno intellegibili, forse, nel momento in cui si riflette su come sia impossibile rappresentare un evento relativamente familiare quale un’esecuzione teatrale naturalistica in un modo che corrisponda ancora al significato che assegniamo comunemente a un tale evento. Rappresentazioni del genere ci fanno già l’effetto di spettacoli da teatro di marionette; nel giro di cinquant’anni risulteranno assolutamente incomprensibili allo spettatore. Occorre avere le idee altrettanto chiare sul fatto che le fotografie di paesaggi lunari, tribù negre e scogliere coralline, così come le inquadrature aeree o sottomarine, registrano le cose in un modo che va imputato a una peculiare e singolare facoltà. Già soltanto nel puro e semplice atto di “inquadrare” si compie una valutazione che corrisponde all’incirca a quella con cui, del tutto inconsapevolmente, si commisura ogni fatto possibile e immaginabile sull’asta graduata di un determinato sistema spirituale.

Quale postura sia all’altezza – e quale non lo sia – di questo ricorso, di questa prova, di questo attacco condotto attraverso mezzo ottici – perché è di questo che si tratta – questa sì che è una domanda davvero assai istruttiva. Abbiamo già accennato al fatto che sussistono qui delle differenze e che le si potranno riconoscere prendendo in esame i casi singoli, già ancor prima di aver indovinato la logica che li sottende. Come mai avviene, per esempio, che determinati oggetti, paesaggi, eventi, volti o assembramenti di persone appaiono noiosi o addirittura ridicoli in fotografia, e altri no? Come mai si può sempre distinguere uno scatto in posa da uno “naturale”? E qual è il genere di natura o di inclinazione che si addice nello specifico alla fotografia?

A tali domande si può dare una risposta di puro istinto compiendo un’osservazione comparata di una grande massa di fotografie. Si farà allora una serie di considerazioni, il rapporto tra le quali resta in larga parte oscuro. Trova così conferma un’esperienza di cui hanno per primi fatto esperienza i Russi – ossia che, di fronte alla macchina fotografica, l’attore professionista non risulta affatto più convincente di uomini e donne che si sono formati solo alla scuola del loro mestiere. Con interpreti del genere, una scena di lavoro in una qualsiasi impresa, industriale o agricola che sia, risulta più credibile da ogni punto di vista. È inoltre degno di nota il fatto che determinati paesi facciano un uso incomparabilmente più massiccio di fotografie, particolarmente riuscite quali immagini in quanto tali. Lo stesso vale per gli uomini e gli strumenti che si trovano in una relazione decisiva con le nuove forme della lotta per il potere; e dire di un politico che non è fotogenico è, al giorno d’oggi, un’obiezione non da poco. In genere vediamo infatti che il dittatore con largo seguito trae assai più vantaggio dalla propria esibizione di quanto non faccia il monarca di un governo costituzionale – la qual cosa getta luce su come la fotografia sia da annoverare tra i mezzi democratici. In tutti i casi, con questa considerazione non si deve trascurare l’importante differenza che passa tra la democrazia e il liberalismo – così non sarà difficile riconoscere che anche la mimica del politico liberale della vecchia scuola fa un effetto antiquato in fotografia e, nella lotta politica, questa circostanza si sfrutta con successo. Le stesse differenze emergono anche per quel che riguarda gli scatti di gruppo; si scopre già a un primo sguardo che i raggruppamenti sono dotati di un ordine nuovo. È facile accorgersene se il comparano gruppi di delegati o riprese del parlamento con le immagini di quelle centene che sono sorte nel corso della moderna lotta per il potere. E lo stesso vale pure per tutte le foto di gruppo di politici, nelle quali quanto è caratteristico della società sovrasta quanto è dello stato. A poco a poco, si è così notato che si è privi di istinti quando ci li lascia fotografare nelle grandi tavolate dei dibattiti politici.

Di esempi come questi si potrebbe moltiplicare il numero a volontà. Bastino per indicare che i rapporti di forza sussistenti o in via di delinearsi non possono non ripercuotersi con esattezza anche nella fotografia, così come del resto in ogni cosa di questo mondo. E se, malgrado tutto, sono così tante le raccolte di immagini che vanno in ultima istanza a finire in combinazioni che si escludono a vicenda o in stanche ripetizioni, questo dipende dal fatto che i rapporti di forza sono assai difficili da cogliere. Non ogni idea è suscettibile di venire efficacemente documentata per mezzo della fotografia; il suo impiego può anzi aver luogo solo a patto di adeguarsi alla sua logica peculiare.

È lampante come tale principio abbia la sua importanza anche laddove si tratti di offrire una panoramica di un mondo che è mutato o che sta mutando. Sta allo spettatore di decidere se e quanto tale compito sia stato assolto in questa sede.

Note

L’introduzione fu pubblicata su “Tägliche Rundschau, Unabhängige Zeitung für sachliche Politik, für cristliche Kultur und deutsches Volkstum”, LI, 278 (25 novembre 1932), supplemento culturale, 1; Das Lichtbild als Mittel im Kampf, Wiederstand. Zeitschrift für nationalrevolutionäre Politik”, VII, 12 (dicembre 1932), 376-379. Il volume apparve prima dell’aprile 1933. Si veda la recensione che ne scrisse Hans Pehl, Zwei Bilderwerke, “Rhein-Mainische Volkszeitung”, 7 (aprile 1933), supplemento letterario. Edmund Schultz (1901-1965) riconobbe nel settembre 1927 Ernst Jünger incontrandolo in una stazione della metropolitana berlinese (si veda la lettera di Ernst a Friedrich Georg, 9 settembre 1927, DLA, NL, Depositum F.G. Jünger) e gli rivolse la parola. Da quell’incontro nacque un’amicizia tra Schultz, sua moglie Margret e i coniugi Jünger, rafforzata dalla stretta confidenza tra le due signore e dalla comune passione per gli scacchi dei due uomini. Schultz, provvisto di talento per il disegno, era anche un dotato fotografo e si guadagnava da vivere collaborando occasionalmente con i giornali; il volume fotografico qui recensito doveva essere nato per un accordo tra Schultz e Jünger, a meno che non ne avesse concepito il progetto il solo Schultz. Jünger stimava l’amico, tra l’altro, per il suo “straordinario repertorio di letture e per l’abilità con cui esprimeva valutazioni di finezza sismografica”. Si veda la lettera di Jünger ad Armin Mohler, datata 12 agosto 1948, DLA, Depositum Mohler. Gretha Jünger fece di Schultz un ritratto intitolato Groznynkow; si veda Gretha von Jeinsen, Silhouetten, Neske, Pfullingen 1955, 106-113.

1. Il film, nonostante i vari tagli subiti dalla pellicola, fu proibito dalla commissione per la censura cinematografica del Reich per ben tre volte nella primavera e nell’estate 1926. Infine, il 2 ottobre dello stesso anno, ne fu definitivamente ammessa la proiezione. Jünger aveva già visto il film nel giugno 1926 e vivamente consigliato al fratello di fare lo stesso: “[...] ne emergono alla luce nuovi retroscena del bolscevismo”. Si veda Ernst a Friedrich Georg Jünger, 24 giugno 1926, Depositum F.G. Jünger.

2. Il film di Fritz Lang fu proiettato per la prima volta all’UFA-Palast di Berlino il 10 gennaio 1927.

Einleitung zu der “Veränderte Welt”

Ernst Jünger

Zu den mannigfaltigen Anzeichen einer neuen Primitivität gehört auch die Tatsache, daß das Bilderbuch wieder eine Rolle zu spielen beginnt. Es sei dahingestellt, ob diese Primitivität selbst als erfreulich oder unerfreulich zu bezeichnen ist. Jedenfalls ist gewiß, daß man mit ihr zu rechnen hat.

Davon abgesehen, sind sehr viele Erscheinungen unserer Zeit weit weniger neu, als das auf den ersten Blick scheinen mag. Neu sind vielmehr nur die Mittel, deren treffsichere Anwendung heute ebenso beherrscht werden will, wie dies in bezug auf die Mittel jeder anderen Zeit der Fall gewesen ist. Die Geschichte des Bildes als eines Mittels zur Darstellung von Kampfsituationen ist so alt wie die Geschichte des Menschen selbst. Ebenso alt ist auch das Bestreben, den Gegner in einer unter-legenen oder angreifbaren Lage darzustellen, gleichviel zu welcher Zeit das geschieht und welches Materials man sieh bedient. Dieses Bestreben tritt bereits auf jenen Zeichnungen hervor, die der Urjäger von seiner Beute entwirft, und man findet es wiederholt von den Tempelfriesen, auf denen der Pharao über Scharen von gefesselten Gefangenen thront, von den pompejanischen Grafittis, von den Holzschnitten und den Flugblättern der Reformation und Gegenreformation, von der Flut der Karikaturen, die die Aufhebung der Zensur entfesselte, bis zu den Vervielfältigungen der Rotationspresse, die uns aus dem modernen Parteikampfe geläufig sind. Überall ist es unbestreitbar, daß der Appell an die unmittelbare Anschauung kräftiger und einschneidender wirkt als die Schärfe, des Begriffs.

Erst verhältnismäßig spät hat man die Verwendbarkeit auch des Lichtbildes als eines politischen Mittels erkannt. Dies hängt einmal damit zusammen, daß die Photographie erst in unserer Zeit in den Rang einer zuverlässigen und präzisen Technik eingetreten ist, zum anderen aber damit, daß man lange dazu neigte, das Lichtbild als ein neutrales oder „objektives”, und damit natürlich von der politischen Sphäre ausgeschlossenes Mittel zu sehen. Es leuchtet ein, daß dem Bilde eines Menschen oder eines Ereignisses, dem man objektiven Porträtcharakter zubilligt, nicht in einer Weise Tendenz gegeben werden kann, wie das dem Zeichenstift des Karikaturisten möglich ist. Erhöht wurde diese Sprödigkeit des Materials noch dadurch, daß lange Zeit aus technischen Gründen die Bilder „gestellt” werden mußten, und damit jenes lebendigen Eindruckes ermangelten, der zu den Voraussetzungen der Treffsicherheit gehört.

Noch im Weltkriege, in dem man wie alle anderen technischen Mittel, so auch das Lichtbild einzusetzen suchte, treten diese Mängel so deutlich hervor, daß von einer wirksamen Anwendung der Photographie innerhalb der Weltpropaganda nicht die Rede sein kann. Unter den zahlreichen Dokumenten, durch die der Vorwurf der Barbarei erhärtet oder ein bestimmter Kulturanspruch lächerlich gemacht werden soll, spielt daher das Lichtbild noch eine untergeordnete Rolle; und aus zahlreichen gestellten und retouchierten Aufnahmen tritt der Anspruch auf Objektivität so aufgetragen hervor, daß die allzudeutliche Absicht notwendig verstimmen muß.

Sehr bald nach dem Kriege jedoch ist zu beobachten, daß man in unbefangener Weise vom Lichtbild Gebrauch zu machen weiß. Dies tritt im besonderen dort in Erscheinung, wo das Lichtbild im Rahmen des Lichtspieles zur Anwendung kommt. Als der erste wirklich gelungene Versuch in dieser Richtung ist der sehr bekannt gewordene Film vom Panzerkreuzer Potemkin zu nennen – vor allem deshalb, weil er den wichtigsten Anspruch erfüllt, der an jede politische Propaganda zu stellen ist, den Anspruch nämlich, daß sie nicht langweilen darf. Langweilig aber wirkt das Bild dann, wenn man es jenseits der reinen Anschauung, also etwa als ein Mittel zur Darstellung von Ideen, Gesinnungen oder bloßen Meinungen zu verwenden sucht. So ist, um ein anderes Beispiel anzuführen, in dem Film Metropolis alles, was die Handlung, die Bauten oder die Maschinen anbetrifft, ebenso fesselnd, wie der Versuch, gleichzeitig noch eine soziale Weltanschauung zu entwickeln, ermüdend ist. Ebenso ist es am nationalen Film nicht das Thema, das ihn in den Rang einer nationalen Propaganda erhebt, sondern die überlegene Meisterung der Mittel, die an jedem beliebigen Stoffe nachgewiesen werden kann.

Noch jüngeren Datums ist die planmäßige Verwendung der Momentphotographie, wie sie einerseits in zahlreichen illustrierten Zeitschriften, andererseits durch Zusammenstellung bestimmter Bildergruppen geschieht. Diese Verwendung wird sich in demselben Maße entwickeln, in dem das zur Verfügung stehende Material mannigfaltiger und lückenloser wird. Schon heute vollzieht sich auf der Welt kaum noch ein Vorgang, bei dem die Berichterstattung durch das Bild nicht eine Rolle spielt.
Es ist auf diese Weise bereits eine Reihe von Archiven entstanden, in denen eine ungeheure Ausbeute an optischen Dokumenten ruht. Die Art, in der diese sich täglich vermehrende Ausbeute zu benutzen ist, wird vorläufig mehr geahnt als systematisch erfaßt.

Es braucht kaum gesagt zu werden, daß durch die Anwendung des Bildes zahlreiche Beschränkungen zu durchbrechen sind, denen sonst die Verständigung unterworfen ist. So kommt es nicht darauf an, welche Sprache der Betrachter spricht, ja nicht einmal darauf, ob er lesen oder schreiben kann. Ebensowenig werden der Wirkung des Bildes durch eine besondere Weltanschauung Grenzen gesetzt, und so sehr sich die Zeitungen in bezug auf ihre Leitartikel, ihre Feuilletons, ja selbst. ihre Tatsachenberichte unterscheiden, so einheitlich wirken sie in bezug auf ihren Bilderteil. So kommt es auch, daß oft ein und dasselbe Bild in ganz entgegengesetzten Richtungen verwendet wird – indem etwa durch die Darstellung einer Kriegsmaschine sowohl der Freund als auch der Gegner der Rüstung in seinem Sinne zu wirken sucht. Die Tatsache, die sich hinter dieser merkwürdigen Erscheinung verbirgt, ist die, daß die Technik den Sinn eines existentiellen Mittels besitzt, demgegenüber die Verschiedenheit der Meinungen nur eine untergeordnete Rolle spielt. Dies gilt auch für das Lichtbild als für eines der speziellen Dokumente im technischen Raum.

Mit dieser Feststellung ist jedoch keineswegs gesagt, daß das Lichtbild einen „objektiven” Charakter besitzt. Wie in jede Quelle, so fließt vielmehr auch in das Lichtbild die eigenartige Strömung ein, die eine Zeit bestimmt, und über die gerade der sie Erlebende sich am wenigsten ein Urteil zu bilden vermag. Daher kann nur ein naives Gemüt der Ansicht sein, daß hier die Dinge gespiegelt werden „so wie sie sind”. Das technische Verfahren gleicht vielmehr einem Filter, der nur für eine ganz bestimmte Schicht der. Wirklichkeit durchlässig ist. Dieses Verhältnis tritt überall in der technischen Formenwelt hervor, so zum Beispiel auch in bezug auf die künstliche Stimme, die nicht als eine einfache Reproduktion der menschlichen Stimme aufzufassen ist, sondern als ihre Übersetzung in ein ganz bestimmtes Medium. Daher würden denn auch wahrscheinlich der Rhythmus und die Klangfarbe dieser Stimme für den Menschen einer ganz anderen Zeit ein geheimnisvolles oder auch schreckliches Erlebnis sein.

Ebenso wie es nun Stimmen gibt, die für das Mikrophon in keiner Weise geeignet sind, etwa die jener Konferenziers alten Stiles, deren falsches Pathos die mechanische Wiedergabe unbarmherzig enthüllt, so gibt es auch Gegenstände und Vorgänge, die der photographischen Erfassung unangemessen sind. Es handelt sich hier im besonderen um Vorgänge, die zu unserem Raume und zu unserer Zeit nicht n entscheidendem Verhältnis stehen. Es sei in diesem Zusammenbange an die bekannte Erscheinung erinnert, daß die Platte oder der Film die magischen Kunsttücke orientalischer Gaukler nicht festhalten – eine Erscheinung, der gegenüber man sich nicht mit der naheliegenden Erklärung begnügen darf, daß sie gerade das Kennzeichen einer besonderen Unbestechlichkeit sei. Diese sachliche Unbestechlichkeit ist nicht allein den Mitteln zuzurechnen, sondern auch einer ganz bestimmten menschlichen Haltung, die sich dieser Mittel bedient, und die ebensogroßen Wert darauf legt, gewisse Dinge wahrzunehmen, wie darauf, andere Dinge nicht zu sehen. Deutlicher werden diese Zusammenhänge vielleicht, wenn man sich überlegt, wie unmöglich es ist, einen uns verhältnismäßig noch so nahe liegenden Vorgang wie den einer naturalistischen Theateraufführung in einer Weise aufs Bild zu bringen, die der uns noch völlig geläufigen Bedeutung dieses Vorganges entspricht. Derartige Bilder machen uns bereits heute den Eindruck marionettenhafter Darstellungen; sie werden in fünfzig Jahren dem Betrachter ganz unverständlich sein. Ebenso muß man sich darüber im klaren sein, daß Photographien von Mondlandschaften, Negerstämmen, Korallenriffen, ähnlich wie Aufnahmen aus Flugzeugen oder Unterseebooten, die Dinge in einer Weise feststellen, die einem besonderen und eigenartigen Vermögen zugeordnet sind, Es findet bereits durch den reinen Akt der „Aufnahme” eine Wertung statt, die etwa jener entspricht, mit der man ganz unbewußt jede mögliche Erscheinung an den Maßstäben bestimmter geistiger Systeme mißt.

Es ist nun eine sehr aufschlußreiche Frage, welche Haltung dieser Inanspruchnahme, dieser Prüfung oder diesem Angriffe durch optische Mittel, denn um einen solchen handelt es sich hier, gewachsen ist, und welche nicht. Wir deuteten bereits an, daß hier Unterschiede bestehen, und man wird diese Unterschiede im Einzelfalle durch die Anschauung erkennen, bereits ehe man die ihnen zugrunde liegende Gesetzmäßigkeit errät. Wie kommt es etwa, daß gewisse Gegenstände, Landschaften. Vorgänge,. Gesichter oder Menschengruppen im Lichtbilde langweilig oder auch lächerlich erscheinen und andere nicht ? Wie kommt es, daß man immer deutlicher eine gestellte von einer „natürlichen” Aufnahme zu unterscheiden vermag? Und welche Art von Natur oder Eignung ist es, die dem Lichtbilde im besonderen angemessen ist?

Derartige Fragen lassen sich rein instinktmäßig beantworten, wenn man große Mengen von Lichtbildern einer vergleichenden Betrachtung unterzieht. Man wird hier eine Reihe von verschiedenartigen Beobachtungen machen, deren Zusammenhang zunächst noch im Dunkel liegt. So wird man etwa eine Erfahrung bestätigt finden, die zunächst von den Russen praktisch ausgewertet wurde, – die Erfahrung nämlich, daß der Berufsschauspieler vor der Kamera durchaus nicht überzeugender wirkt als Männer und Frauen, denen nur die Schulung durch den eigenen Beruf zuteil geworden ist. Mit einer solchen Besetzung wirkt eine Arbeitsszene innerhalb eines beliebigen industriellen oder landwirtschaftlichen Betriebes unter allen Umständen glaubwürdiger. Merkwürdig ist es ferner, daß einige ganz bestimmte Länder einen unverhältnismäßig hohen Prozentsatz von Bildern stellen, die rein als Bilder besonders gelungen sind.

Dasselbe gilt für die Menschen und Mittel, die zu den neuen Formen des Machtkampfes in einem entscheidenden Verhältnis stehen, ‘und es ist heute sehr wohl ein Einwand gegen einen Politiker, daß er schlecht zu photographieren ist. Gemeinhin sehen wir denn auch, daß sich der erfolgreiche Diktator in günstigeren Positionen darbietet als der konstitutionelle Monarch, was – auch insofern einleuchtet, als das Lichtbild den demokratischen Mitteln zuzuzählen ist. Allerdings darf man bei dieser Feststellung den wichtigen Unterschied nicht außer acht lassen, der zwischen der Demokratie und dem Liberalismus besteht, – so wird man leicht erkennen, daß auch die Gestik des liberalen Politikers alter Schule im Lichtbild einen antiquierten Eindruck macht, und man hat sich dieser Tatsache bereits mit Erfolg im politischen Kampfe bedient. Auch hinsichtlich der Aufnahme von Menschengruppen treten diese Unterschiede hervor; man findet hier auf den ersten Blick die Gruppierungen heraus, denen eine neue Ordnung innewohnt. Dies ist leicht wahrzunehmen, wenn man Gruppen von Abgeordneten oder Parlamentsszenen mit den Bildern jener Hundertschaften vergleicht, wie sie im modernen, Machtkampfe entstanden sind. Dasselbe gilt für alle politischen Gruppierungen, bei denen der gesellschaftliche Charakter den staatlichen überragt. So hat man allmählich gemerkt, daß es instinktlos ist, wenn man sich bei politischen Plaudereien an gefüllten Tafeln photographieren läßt. Diese Beispiele, deren Zahl sich beliebig vermehren läßt, mögen genügen, um anzudeuten, daß ein bestehendes oder sich anbahnendes .Machtverhältnis wie in allen Dingen der Welt, so auch im Lichtbilde seinen genauen. Niederschlag finden muß. Wenn es trotzdem soviele Bildersammlungen gibt, die letzten Endes auf sich selbst aufhebende Zusammenstellungen oder ermüdende Wiederholungen hinauslaufen, so liegt das daran, daß dieses Machtverhältnis selbst sehr schwierig zu erfassen ist. Es sind nicht beliebige Anschauungen, die sich durch das Lichtbild wirkungsvoll belegen lassen, sondern die Verwendung des Lichtbildes kann nur in einer, seiner eigentümlichen Gesetzmäßigkeit korrespondierenden Weise geschehen.

Es leuchtet ein, daß dieser Grundsatz auch dort von Wichtigkeit ist, wo ein optischer Überblick über eine veränderte öder sich verändernde Welt gegeben werden soll. Es sei dem Betrachter anheimgestellt zu entscheiden, ob oder inwiefern diese Aufgabe hier gelungen ist.

Per citare questo articolo/ To cite this article: Ernst Jünger, Introduzione a “Il Mondo Mutato”(1932), traduzione di Angelica Basso, Monica Centanni e Daniele Pisani, “La Rivista di Engramma” n. 127, maggio-giugno 2015, pp. 229-242 | PDF dell’articolo