"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

9 | giugno 2001

9788894840070

Giovanni VIII Paleologo: un imperatore e il suo ritratto

Profili e suggestioni, potenza e fortuna di un’immagine

English abstract | Compendium

Alessandra Pedersoli

L’arrivo di Giovanni VIII Paleologo in Italia, per il concilio di Ferrara-Firenze del 1438-39, è l’occasione che ha dato il via alla diffusione di una particolare tipologia iconografica legata al potere, all’Oriente, alla romanità, che ha resistito nelle arti del Rinascimento, attraverso perdite e recuperi altalenanti di significato, per quasi un secolo.

La mattina dell’8 febbraio 1438, accompagnato da una folta schiera di notabili e dignitari, tra i quali il patriarca Giuseppe II e il Cardinale Bessarione, Giovanni VIII Paleologo giunse a Venezia, tappa che avrebbe poi lasciato per Ferrara, la città scelta per ospitare il concilio ecumenico. Nella città lagunare l’imperatore – che versava in gravi ristrettezze economiche – venne ospitato, a spese della Repubblica di San Marco, nel palazzo del marchese di Ferrara (noto come Fondaco dei Turchi), dove soggiornò sino al 28 febbraio: a quella data il corteo dei greci si mosse alla volta della città conciliare. Non era la prima volta che il sovrano si recava in Italia: il primo suo viaggio nella penisola era avvenuto negli anni 1423-1424, quando ancora non era stato insignito della porpora imperiale. Dunque a Venezia era giunto per la prima volta il 15 dicembre 1423, da dove aveva proseguito per Milano, poi Mantova e infine Pavia (Zorzi 1996, 197-200).

Giovanni era il figlio primogenito di Manuele II Paleologo e di Elena Draga: nato il 17 dicembre 1392, era divenuto imperatore alla morte del padre, il 21 luglio 1425, non ancora trentatreenne. Alla sua morte, avvenuta il 31 ottobre 1448, non avendo avuto eredi, gli succederà il fratello Costantino XI, che sarà l’ultimo imperatore romano d’Oriente e morirà nella difesa di Costantinopoli, definitivamente in mano turca il 29 maggio 1453 (Djuri, [1989] 1995, 27-28, 124-125).

Le circostanze politiche che portarono ai viaggi del Paleologo in Italia sono ben note: sempre più vulnerabile alla pressione turca, l’impero romano d’Oriente, ma soprattutto la sua favolosa capitale, necessitava dell’aiuto militare delle potenze occidentali: la cristianità intera era chiamata alla guerra santa contro gli infedeli, e il presupposto per questa crociata unitaria era la riconciliazione della Chiesa cattolica con quella ortodossa. Da parte sua anche l’Occidente – e soprattutto Venezia, ora appoggiata dal Papa veneziano Eugenio IV Condulmer – aveva tutto l’interesse a rinsaldare, mediante l’unione delle Chiese, le relazioni con Bisanzio, specie nell’imminenza della conquista turca. Il 6 luglio 1439 a Firenze – dove il concilio si era spostato per un’epidemia – venne sancita l’unione tra le Chiese d’Oriente e d’Occidente, ma l’obiettivo politico-teologico, come noto, fallì: solo pochi anni dopo Costantinopoli cadde, provocando un’ampia eco per tutto l’Occidente.

Ma il concilio non fu del tutto vano: l’arrivo dei bizantini rappresentò il primo grande esodo in Occidente degli eruditi greci. Inoltre l’arrivo del Paleologo a Venezia e nelle corti destò grande impressione e la potenza del profilo imperiale, delle vesti, dei cortei suggestionò gli occhi e le menti degli artisti occidentali avidi di immagini che erano allo stesso tempo romane, orientali ed esotiche. Il soggiorno di Giovanni VIII era stato lungo a sufficienza per permettere a molti di poterlo osservare dal vivo, magari da vicino, durante le processioni, gli spostamenti e i ricevimenti pubblici e privati nelle città conciliari e a Venezia. Infatti, dopo la proclamazione dell’unione delle Chiese nel luglio del 1439, l’imperatore raggiunse la città lagunare solo il 13 di agosto dove soggiornò – stavolta ospite presso il monastero di San Giorgio, come in occasione del primo viaggio – fino al 19 ottobre (Zorzi 1996, 201). Sicuramente, durante gli oltre venti mesi del suo soggiorno nelle corti italiane, il profilo e la foggia delle vesti del sovrano furono oggetto di attenta curiosità.

La fortuna in Oriente dell’immagine del sovrano non è paragonabile a quella in Occidente: i rigidi canoni estetici bizantini e la ieraticità tipica delle figure offrono un’immagine quasi congelata del Basileus Rhomaion; un esempio si trova nel particolare del sakkos del metropolita Fozio, conservato al Cremlino, che risale alla prima metà del XV secolo.

L’immagine di Giovanni VIII che ci presenta risponde pienamente a quelli che sono i canoni estetici e i dettami dell’iconografia bizantina. Giovanni, non ancora imperatore, bensì figlio primogenito del sovrano e quindi erede al trono, si fregiava del titolo di despota; in ossequio alla sua carica porta infatti lo skiadion, un copricapo ad ogiva occasionalmente anche coperto di perle; il tamparion, la sopravveste decorata in genere di colore rosso; le calze, che dovevano essere anch’esse rosse e le scarpe rigorosamente viola e bianche. È da menzionare anche un altro abito molto usato, una sorta di mantello: il kabbadion, generalmente di colore viola o rosso (Piltz 1994, 13).

La tradizione delle fogge e dei colori delle vesti imperiali – come pure del cerimoniale –, che da spunti simbolico-liturgici romani si era evoluta in sfarzo e complessità per oltre un millennio, era stata da tempo raccolta e sistematizzata nel Libro delle cerimonie da Costantino Porfirogenito. Costantino VII, che scrisse questa sorta di “manuale” del X secolo per il figlio, dedica un intero capitolo a come si dovevano abbigliare i sovrani in occasione di feste e cortei. È da questa preziosa testimonianza che si ricavano con esattezza i colori degli indumenti precettati: naturalmente il rosso, il bianco, il blu e l’oro (Vogt 1967, 175-179). Come vedremo, nella diffusione della sua immagine in Occidente, si registrerà l’uso quasi esclusivo proprio di questi quattro colori associati soprattutto alla veste, alle calzature e al copricapo, lo skiadion, che godrà di enorme fortuna.

L’immagine ufficiale più famosa del penultimo imperatore bizantino si deve a Pisanello: si tratta della famosa medaglia realizzata dall’artista proprio in occasione del concilio di Ferrara-Firenze del 1438-39. Fu proprio durante la visita dell’imperatore a Ferrara che il più acclamato artista del tempo ebbe modo di vedere il sovrano e poté così ritrarlo in una serie di schizzi: disegni preparatori per la medaglia, ma, non è da escludere, forse anche per un dipinto (Olivato 1992). Anche se la critica oggi non considera la medaglia di Giovanni VIII la prima del Rinascimento (Syson 1994, 474), potrebbe valere al contrario l’osservazione che la tipologia scelta dall’imperatore non si confà a quella in uso nella coeva tradizione bizantina, bensì a quella che si riallaccia alla tradizione imperiale romana dei primi ‘Cesari’, riportata in auge già dall’Umanesimo e testimoniata dal medagliere estense.

La tipologia ritrattistica della medaglia celebrativa, invenzione rinascimentale, godeva di enorme fortuna presso le corti: era un ottimo strumento di propaganda, proprio perché consentiva una rapida e immediata diffusione del profilo della persona effigiata.

La medaglia, oggi nota in numerosi esemplari (Firenze, Venezia, Londra, Parigi, ecc.; cfr. Hill [1930] 1984, 19-20), venne commissionata a Pisanello con ogni probabilità dallo stesso imperatore (Olivato 1992, 206-207); datata 1438-1439, ad esempio l’esemplare conservato al Museo Nazionale del Bargello a Firenze, di bronzo, dal diametro di 102 mm, ha un peso di 121 gr (Pollard 1984, I, 29).

Sul recto si riconosce il busto del Basileus Rhomaion rivolto a destra; il volto maturo, caratterizzato da lunghi baffi e barba appuntita, è segnato dal profilo deciso e marcato dei lineamenti e del naso aquilino; indossa un alto cappello a cupola con larga tesa – lo skiadion – dal quale fuoriescono tre boccoli che ricadono sull’ampio collo della sopravveste decorata che cela a sua volta la veste. Recentemente il cappello, che sicuramente rappresenta l’attributo più significativo del sovrano, è stato interpretato come evocazione suggestiva della cupola di Santa Maria del Fiore di Firenze – città conciliare –  opera del Brunelleschi, che già nel 1436 doveva essere grosso modo completata e della quale richiamava “l’inconfondibile gabbia costolonata” (Rugolo 1996, 146). Lungo il diametro della medaglia, a contorno dell’effigie del sovrano, corre una scritta greca:


ΙΩΑΝΝΗΣ  ΒΑΣΙΛΕΥΣ ΚΑΙ ΑΥΤΟΚΡΑΤΩΡ ΡΩΜΑΙΩΝ Ο ΠΑΛΑΙΛΟΛΟΓΟΣ 
(Giovanni re e imperatore dei romani, Paleologo).

Nel verso compare un altro ritratto di Giovanni VIII: è a cavallo, di profilo, rivolto a destra, in vesti da cacciatore con arco e faretra; è riconoscibile dai particolari tratti fisiognomici, dalla barba a punta e dall’ormai noto cappello a cupola con larga tesa.  È ritto davanti a una croce latina, con la mano destra levata a mezz’aria. Alle sue spalle compare un’altra figura a cavallo vista da tergo, mentre lo sfondo è decorato da un paesaggio roccioso. Anche nel verso compaiono delle scritte; si tratta della doppia firma dell’autore: la prima in latino (OPUS PISANI PICTORIS) è collocata nella parte superiore, la seconda, in greco (ΕΡΓΟΝ ΤΟΥ ΠΙΣΑΝΟΥ ΖΩΓΡΑΦΟΥ) si trova invece in quella inferiore. La composizione del recto, è stata interpretata non solo come manifesto dell’Unione tra le due Chiese, ma anche come perentoria affermazione dell’imperatore d’Oriente come difensore della cristianità e “unico e indefesso baluardo contro il demonico invasore” (Olivato 1992, 203-205); una sorta di identificazione del sovrano come “santo guerriero in lotta contro gli infedeli”. Questa lettura è tanto più attendibile se il ritratto del sovrano cacciatore è raffrontato a quello del santo cacciatore che compie il medesimo gesto davanti alla croce latina che gli appare: il famoso dipinto della Visione di Sant’Eustachio ora conservato alla National Gallery di Londra, che Pisanello aveva completato pochi anni prima.

Al Louvre sono conservati alcuni disegni attribuiti a Pisanello, rintracciati dalla critica come schizzi preparatori della medaglia. Il primo è un ritratto a mezzobusto dell’imperatore rivolto a sinistra: i tratti del volto sono gli stessi del recto della medaglia, così come il copricapo, lo skiadion. Il secondo foglio è decorato da entrambi i lati.

  

Il recto appare molto interessante: compare infatti nella parte superiore una scritta in caratteri thuluth entro un abbozzo di cornice ornamentale; la scritta è stata così tradotta : “Gloria al nostro padrone il sultano, il re, al-Malik-al-Mu’ayyad Aboul-Nasr’ Shaykh, che la sua vittoria [sia gloriosa]” (Cordellier 1996, 368); lungo il margine sinistro, pressappoco al centro, l’artista ha schizzato un riquadro con annotazioni sul colore delle lettere: con ogni probabilità si trattava della decorazione di un capo di vestiario che l’imperatore aveva avuto in dono dal successore del sultano menzionato nella scritta e che Pisanello ebbe modo di vedere sino a rimanerne talmente impressionato tanto da prendere appunti (Olivato 1992, 198). Al centro del foglio compare il capo di un cavallo con doppie redini e narici tagliate, particolare estremamente realistico che va riferito — come è stato da più parti osservato — alla pratica in uso nei paesi continentali dell’est per permettere agli animali di respirare meglio; inoltre compare una figura maschile in vesti orientali ritratta di spalle e di profilo e il ritratto equestre di Giovanni VIII come appare nel verso della medaglia. Altre due figure maschili sono invece ritratte nell’angolo in basso a sinistra. Ciò che più interessa del foglio è però una scritta in volgare collocata su due colonne proprio al centro, a destra:

Lochapelo de linperadore sie biancho dessoura / erouersso rosso el profilo da torno nero la zupa verde / de damascin e lagonade soura de chermezin in de la / facia palida la barpa negra chapelj e cilglj el simile / hochi grizy e tra in verde e chine le spale picholo di / p[er]sona; a sinistra: elrouesso del vestj rosso / el chapelo turchin fodrado de pance de varo / listiualj de chuoro zallo smorto / la guaina del larcho bizacha e grenelossa / eco si quella de turcasso e de la simitarra (Cordellier 1996, 368).

La descrizione, preziosa testimonianza dell’interesse che l’imperatore d’Oriente aveva suscitato presso i contemporanei, è minuziosa sin nei più piccoli particolari; forse doveva servire per un ritratto pittorico da contrapporre a quello dell’imperatore Sigismondo (Olivato 1992, 207), dipinto con ogni probabilità attorno agli inizi degli anni trenta del Quattrocento da un artista boemo e ora conservato al Kunsthistoriches Museum di Vienna (Franco 1996, 129). Nel verso del foglio, forse meno interessante del precedente, compaiono altre figure, tra le quali, al centro, inconfondibile è il profilo di Giovanni VIII.

Grazie all’ampia circolazione della medaglia celebrativa, l’immagine del Basileus Rhomaion resta impressa nell’immaginario degli artisti rinascimentali, ma non solo; anche nelle cosiddette ‘arti minori’ si ravvisa un’eco immediata. In una collezione privata veneziana è infatti conservata una ceramica ferrarese datata alla metà del XV secolo, che ritrae una figura maschile di profilo del tutto simile al sovrano bizantino. Il piatto, decorato a colori vivaci – giallo, arancio, verde e blu – riporta al centro l’ormai noto profilo del sovrano, caratterizzato anche in questo caso dal copricapo a larga tesa e cupola rialzata, ma soprattutto dalla tipica barba appuntita e dal naso aquilino.

La prima ripresa quasi filologica del profilo della medaglia si trova invece a Verona: si tratta di un tondo della decorazione della cappella di San Gerolamo nella chiesa di Santa Maria della Scala, opera di Giovanni Badile. L’opera, datata tra il 1443 e il 1444, riprende esattamente lo stesso ritratto di Giovanni VIII che compare nel recto della medaglia, con gli stessi particolari delle vesti e del copricapo. L’opera è di notevole importanza perché rappresenta, come è stato di recente nuovamente ribadito (Rugolo 1996, 144), un sicuro termine ante quem per la datazione della medaglia.

Si deve al Filarete la trasposizione in scultura del profilo del sovrano in un busto  e nelle porte bronzee della basilica di San Pietro nel 1433-45.

      

Nei casi finora analizzati (con la sola eccezione della ceramica che, anche se in occasioni ufficiali e cerimoniali, attesta un uso parzialmente decontestualizzato dell’immagine ormai alla moda), l’effigie del sovrano è indissolubilmente legata alla figura storica di Giovanni VIII. Ma la fortuna del suo caratteristico profilo d’ora in poi migrerà, prestando di volta in volta le sue fattezze ai personaggi più disparati, personaggi che vedremo però in qualche modo tutti legarsi agli ambiti semantici del potere, dell’Oriente, della romanità.

Come abbiamo già avuto modo di sottolineare, il fascino esercitato dallo sfarzo e dagli esotici costumi del corteo imperiale, e in modo particolare dello stesso imperatore, non lasciò indifferenti gli artisti rinascimentali, primo fra tutti Piero della Francesca. Nella sua opera aretina più famosa, la Leggenda della vera croce (ciclo di affreschi conservato presso la cappella Bacci in San Francesco, che prende spunto dall’omonimo racconto contenuto nella Legenda aurea di Jacopo da Varagine), e in particolare nell’episodio della Vittoria di Costantino su Massenzio, datata tra gli anni 1452-1466, l’artista ritrae al centro del riquadro Costantino il Grande, l’imperatore romano che sancì con l’Editto di Milano, nel 313, la libertà di culto per i cristiani all’interno dell’impero romano.

La figura maschile in questione, ritratta a cavallo, sebbene parzialmente cancellata da ampie lacune nella pellicola pittorica, risulta fortemente tipizzata rispetto alle altre che le fanno da contorno: si leggono chiaramente i tratti del volto colto di profilo e un braccio teso in avanti. La mano destra stringe una piccola croce chiara: è il segno che gli assicurerà la vittoria su Massenzio, predetta nel sogno che viene raffigurato proprio nell’affresco attiguo. Sono però i tratti fisiognomici e l’abbigliamento a colpire in modo significativo: il volto bruno è caratterizzato da una barba scura il cui andamento, sebbene incerto nelle cadute di colore, appare appuntito, il naso è poi vistosamente marcato, mentre gli occhi scuri risultano profondi e acuti. Le vesti, ma soprattutto l’alto cappello a cupola con larga tesa che indossa, colpiscono per la scelta dei colori: il blu scuro molto intenso e il rosso sbiadito non lasciano dubbi: si tratta di una fedele citazione del profilo imperiale effigiato nella medaglia pisanelliana.

      

Il raffronto, operato per primo da Warburg (Warburg [1932] 1966, 291-292), e ribadito anche nella tavola 30 del suo Atlante della memoria, acquista notevole importanza se si considera che la datazione dell’affresco risale esattamente al periodo della caduta di Costantinopoli e che il personaggio principale, Costantino il Grande, figlio di Costanzo Cloro e di Elena, è anche l’imperatore romano che rifondò la città di Bisanzio come Nuova Roma dandole il suo stesso nome. Non solo: è significativo che il nome Costantino torni a designare anche l’ultimo imperatore romano d’Oriente (e quindi anche l’ultimo imperatore romano): Costantino XI Paleologo, fratello di Giovanni e figlio di Manuele II, che lo ebbe dalla moglie serba Elena Draga. Secondo una profezia, ripresa nel XV secolo dal patriarca Gennadio, Costantinopoli sarebbe caduta solo “quando avesse regnato un imperatore con lo stesso nome del primo e, come il primo, figlio di una Elena” (Pertusi 1994, 30).

Un altro particolare risulta altresì interessante: si tratta degli stendardi che nell’affresco di Piero sono insegna dell’esercito di Costantino e di Massenzio, ripresi anche da una copia ad acquerello dell’affresco del 1843, eseguita da Johann Anton Ramboux, ora conservata presso l’Accademia di Düsseldorf; nel vessillo costantiniano si riconosce l’aquila monocipite, insegna imperiale che sovente era alternata a quella bicipite, adottata poi definitivamente proprio da Giovanni VIII (Zorzi 1996, 225 n. 8). Qui l’aquila monocipite compare come simbolo della romanità opposta alle insegne di Massenzio raffiguranti una testa di moro e un drago: riferimento diretto la prima, metafora diffusasi nell’immaginario collettivo la seconda (Gentili 1996, 78-81), per indicare la paura sempre più concreta e minacciosa dell’avanzata del Turco.

Si registra quindi un passaggio degli attributi da Costantino I, attraverso Giovanni VIII, fino a Costantino XI, l’ultimo dei Paleologi, caduto proprio nella più importante e drammatica battaglia, quella definitiva, nel segno della croce, contro gli infedeli. Da qui in poi un altro degli ‘usi’ che verranno fatti del profilo pisanelliano sarà per segnalare la massima autorità politica – quella imperiale – e anche la stessa discendenza Paleologa, come testimonia il rilievo della tomba di Pio II, eseguito da un seguace di Andrea Bregno attorno al 1470, conservato nella chiesa romana di Sant’Andrea della Valle, che ritrae Tommaso Paleologo (despota di Morea, fratello minore di Giovanni VIII e Costantino XI) in occasione del suo arrivo a Roma nel 1461 (Pertusi 1994, 31).

Un altro esempio in cui Giovanni VIII si troverà invece a prestare il suo profilo ancora a un imperatore romano si ha a Roma, in Vaticano, e precisamente negli appartamenti Borgia, dove Pinturicchio dipinse negli anni 1492-94 la Disputa di Santa Caterina d’Alessandria: l’accusatore e giudice della santa – l’imperatore Diocleziano – ha le fattezze fisiche del Paleologo, come pure gli abiti mondani con l’ormai immancabile cappello. Ma anche in un’area periferica come la Valcamonica si riscontra la medesima ricezione dell’immagine con analoga accezione: nell’affresco con le Storie di San Sebastiano, e in particolare nell’episodio della Condanna di San Sebastiano, attribuito al pittore locale Giovanni Pietro da Cemmo, datato attorno al 1504 e conservato nella chiesa di San Lorenzo di Berzo Inferiore, si riconosce una figura maschile, posta al margine sinistro del riquadro e seduta su uno scranno ligneo rialzato, che presenta i tratti fisiognomici caratteristici del sovrano bizantino ormai convenzionali: barba appuntita, naso aquilino e cappello a cono . Anche in questo caso, secondo la tradizione agiografica, Sebastiano sarebbe stato perseguitato e condannato a morte da Diocleziano, presso il quale era a servizio, che, venuto a conoscenza della sua fede cristiana, lo fece fustigare e poi gettare nella Cloaca Massima.

     

Un ulteriore passaggio di significato avviene ancora in Piero della Francesca. Una forte somiglianza col profilo della medaglia – già segnalata dalla critica – si trova in un’altra famosissima opera, la Flagellazione, datata attorno al 1459-1460, oggi conservata presso la Galleria Nazionale delle Marche di Urbino. Si tratta del misterioso personaggio maschile ritratto al margine sinistro dell’immagine, in prossimità degli aguzzini che, proprio davanti ai suoi occhi stanno fustigando Cristo legato a una colonna di marmo, sormontata da una statua dorata.

              

L’ uomo siede su un seggio collocato su una predella; il volto e le vesti che indossa, soprattutto il copricapo, rimandano alla figura di Giovanni VIII e del Costantino dell’affresco aretino. Il personaggio è stato interpretato da tempo come Ponzio Pilato (Babelon 1930, 372-73), il governatore romano che nei Vangeli è indicato come colui che ordinò la flagellazione di Cristo: solo brevi cenni compaiono in Luca (Lc 23, 16), mentre in Matteo, Marco e Giovanni le testimonianze sono più esplicite. Per tutti: “Allora Pilato prese Gesù e lo fece flagellare” (Gv 19, 1). Pilato assurge a simbolo dell’indecisione, della debolezza, della volontà impotente (Babelon 1930, 374-75), ma si fa anche nuovo veicolo di diffusione per l’immagine di Giovanni VIII Paleologo, che qui, in una composizione in cui si può riconoscere anche una valenza allegorica contestualizzata con i fatti storici del tempo, assiste impotente (o per lui il fratello Costantino XI) alla caduta di Costantinopoli e con essa alla fine dell’impero romano e alla cristianità d’Oriente.

La diffusione dell’iconografia del Paleologo come Pilato ebbe un immediato riflesso in un’opera di Biagio d’Antonio, datata 1469, ora conservata a Philadelphia presso la collezione John G. Johnson; si tratta di quattro scomparti di una predella lignea raffiguranti quattro momenti della Passione di Cristo: l’ Ultima cena, la Cattura, la Condanna e la Salita al Calvario. Nel penultimo degli episodi si riconosce chiaramente la figura di Pilato al margine destro, ritratto nell’atto di lavarsi le mani: gli abiti e il cappello che indossa – ma non i tratti del viso – sono quelli ormai noti. Solo Oltralpe pare continuare la trasmissione anche dell’intero profilo: in Holbein il Vecchio e in Urban Görtschacher.

     

Un ulteriore livello interpretativo della traslazione del profilo del Paleologo è emerso dall’analisi di un ciclo di affreschi conservato nella chiesa conventuale dell’Annunciata di Piancogno ancora in Valcamonica. Nella parete divisoria che separa la navata dal presbiterio trovano spazio le Storie della vita di Cristo, datate 1479, che occupano l’intero tramezzo.

Sono in tutto 32 riquadri organizzati in più registri che, partendo dall’Annunciazione, con brevi inserti di figure veterotestamentarie, giungono sino alla Crocifissione. Una tipologia iconografica che ricorre spesso nel ciclo, soprattutto nel quinto registro dall’alto, che raccoglie le scene di giudizio legate alla Passione (giudizio di Anna, giudizio di Caifa, flagellazione e rinnegamento di Pietro, giudizio di Erode, giudizio di Pilato e condanna a morte), è quella del Potente, cioè di un personaggio investito di potere temporale o religioso. Gli attributi iconografici ricorrenti sono pressoché gli stessi: vesti regali, copricapi vistosi e calzature che stridono con la figura del Cristo, presentato sempre a piedi nudi con abiti semplici e dimessi.

La figura che qui si avvicina di più alla tipologia del sovrano imperiale diffusa a partire da Pisanello non è quella di Pilato, bensì di Erode. Il re dei Giudei è presente nel ciclo in due circostanze: come Erode il Grande nell’episodio della Strage degli innocenti e come Erode Antipa nell’Interrogatorio a Gesù. Ma spesso accade che i due Erode risultano confusi in un solo personaggio. Il confronto tra le due figure, per altro molto simili, è complicato dal fatto che nel primo caso – l’episodio della Strage degli innocenti – Erode è dipinto proprio in corrispondenza dell’intradosso dell’arco sul quale è debordato il riquadro: si individuano comunque tratti simili soprattutto nell’abbigliamento e nella fisiognomica. Anche in questo caso infatti i tratti del volto sono gli stessi che compaiono nella medaglia pisanelliana, ma soprattutto le vesti avvicinano la figura a quella ritratta nella Flagellazione di Piero della Francesca. In questo caso la figura di Giovanni VIII viene trasposta e assolutizzata come a immagine tipica del sovrano orientale.

Da tenere in considerazione nella lettura degli affreschi di Piancogno la formazione del committente – il beato Amedeo Mendez da Silva – per il quale è stato di recente ipotizzata un’ascendenza ebraica (Ferri Piccaluga 1990, 110). Nelle fonti Erode, che era addirittura di madre araba, non era propriamente giudeo: la stirpe alla quale apparteneva – gli Idumei o Edomiti – non faceva parte della comunità cultuale giudaica, e pertanto ricevette un’educazione ellenistica e, divenuto re, cercò di farsi accettare come ebreo anche se il popolo lo considerò sempre come uno straniero (Bocian [1989] 1997, 130-31). In un ciclo dalla committenza teologica così rilevante, l’immagine di Erode come sovrano orientale secondo l’iconografia ebraica, potrebbe essere quindi del tutto giustificata.

 È interessante sottolineare come l’accezione originale – il sovrano orientale – non vada del tutto perduta, anche quando si perde memoria del portatore fisico in Occidente di questo stesso messaggio, Giovanni VIII Paleologo. Se la memoria del ‘vero’ Paleologo si conserva solo per un breve periodo, l’immagine ha una persistenza più duratura come maschera convenzionale di altri ritratti. Una ricerca iconografica mi ha così condotto a collezionare una serie numerosa di dipinti, miniature e incisioni, raccolte in una Galleria del Paleologo, dove il profilo e i costumi del celebre imperatore vengono associati ai personaggi più disparati, tutti comunque legati a personaggi imperiali, orientali o insigniti di potere temporale e non.

La fortuna dell’immagine sembra esaurirsi attorno alla fine del XV e gli inizi del XVI secolo: oltre questa data, sulla base dei dati raccolti, si può affermare che il profilo del Paleologo – ormai slegato dal personaggio stesso – scompaia progressivamente. Le ultime tappe del peregrinare dell’immagine giungono, per dare programmatico significato, a un’applicazione paradossale: a Norimberga, nell’ultimo decennio del Quattrocento, nel Liber Cronicarum compare l’ormai famoso profilo del dimenticato Giovanni VIII come ritratto del suo grande rivale: il conquistatore di Costantinopoli Maometto II (Weiss 1966, 28).

Riferimenti bibliografici
Compendium

Anno MCDXXXVIII Iohannes VIII Paleologus ut Concilio Ferrariensi-Florentino interesset Venetias pervenit. Dum in Italia 'Basileus Rhomaion' moratur, Pisanus Pictor, cui ipse imperator mandatum dederat, eius effigiem in celeberrima medalia impressit. Haec pisanelliana regalis imago, aliter a byzantino modo inventa - e caesarum capitibus in nummis descripta - una forma in diversas significationes ita diffundebatur ut exemplum iconographicum fieret. In omnibus artibus effigies exemplaris pervulgata videtur: in primis in pictura a Piero della Francesca et in sculptura a Filarete recepta, deinde in arte et impressoria et miniata et fictili ubicumque reperitur. Nam Iohannis VIII imago obliqua et vestimenta byzantina plurimis operibus Rinascimentalibus inest, plurima significans in figurationibus quae vel ad antiquos principes romanos vel ad civitatem orientalem vel ad regiam potestatem pertinent. Per aliquot annos, usque ad XVI saeculum iens, Costantinus Magnus, Diocletianus, sed etiam Pilatus et Herodes, non suis sed Paleologi lineamentis ficti sunt. Tandem et ipse etiam Mahometus II, Paleologis strenuus inimicus et Byzantii ultimus hostis, in effigie quadam impressa Iohannes Paleologus fit.

English abstract

Giovanni VIII Paleologo’s journey to Italy for the 1438-39 Council of Ferrara-Florence was the occasion that marked the diffusion of a particular type of iconography of the Renaissance. In the west, the image of the sovereign was completely independent, varied and rich in meanings although it had developed parallel to Byzantine traditions. During his stay in Italy, Giovanni VIII, the last but one Basileus Rhomaion, had the opportunity to have his portrait painted by Pisanello on the famous celebrative medal. From this moment on, the profile of the sovereign aroused the fascination of Renaissance artists and became an iconographic typology affecting all the arts, from painting in primis with Piero della Francesca, to sculpture with Filarete, from miniature engravings to ceramics.

Giovanni VIII’s profile and garments are present in works of the Renaissance that are linked to power, the East, the Roman world with a large range of meanings. In painting the Pope’s face is used to represent Constantine the Great, Diocletian, Pilate, Herod but the list of those who are testimony to this in the form of miniatures and engravings is even longer, the most frequent being Mohammed II, the great enemy of Constantine who conquered Constantinople.

keywords | John VIII Palaiologos; Constantinople; iconographic tradition; Pisanello.

Per citare questo articolo / To cite this article: A. Pedersoli, Giovanni VIII Paleologo: un imperatore e il suo ritratto. Profili e suggestioni, potenza e fortuna di un’immagine, “La Rivista di Engramma” n. 9, giugno 2001, pp. 7-20 | PDF 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2001.9.0004