"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

10 | luglio 2001

9788894840087

Mater Gonzaga: una dama del Rinascimento ritratta nella Madonna dal collo lungo di Parmigianino

English abstract | Compendium

Gianna Pinotti

Secondo la nostra ipotesi, nelle vesti della sublime e sofisticata Madonna dal collo lungo, eseguita da Parmigianino attorno al 1534-35 su commissione di Elena Baiardi Tagliaferri, viene ritratta con tutta probabilità una celebre dama del Rinascimento: Paola Gonzaga Sanvitale. Per lei Parmigianino eseguì attorno al 1523 il noto ciclo di affreschi raffiguranti le Storie di Diana e Atteone, nella rocca Sanvitale a Fontanellato presso Parma. L’episodio che ispirò il soggetto del quadro, oggi agli Uffizi, è il reale, intimo dramma di Paola Gonzaga, che aveva perso uno dei figli, ancora neonato. In questo caso, dunque, la Madonna con il Bambino sembra rivestire appieno la funzione di Madonna in Morte che offre il proprio figlio in sacrificio al mondo. I livelli iconologici si intrecciano mirabilmente unendo la realtà al simbolo, al mito e alla classicità, quest’ultima reinterpretata modernamente da uno degli artisti più inquieti e singolari del Cinquecento.

La vita nell’arte. Paola Gonzaga a Fontanellato

Paola Gonzaga, probabilmente la maggiore delle sei affascinanti figlie di Ludovico marchese di Sabbioneta, è sorella della famosa Giulia Gonzaga Colonna e del valoroso Luigi detto Rodomonte, celebre capitano imperiale. Sposò nel 1516 circa il conte Gian Galeazzo Sanvitale (nato nel 1496 e morto nel 1550), signore di Fontanellato presso Parma. Visse da allora in poi nel castello posto oltre il Po, a una quarantina di chilometri da Sabbioneta.

Proveniente da una famiglia accesamente filoimperiale (suo padre Ludovico era legato a Massimiliano I, mentre il fratello Rodomonte, fedelissimo di Carlo V, nel 1527 capitanava gli imperiali durante il Sacco di Roma, guidando l’attacco a Castel Sant’Angelo) sposò invece un uomo che fu sempre alleato dei francesi e del papa e che nutriva particolare amicizia per la stirpe dei Farnese.

Nel 1547, dopo l’uccisione di Pier Luigi Farnese durante la conquista di Piacenza, Ferrante Gonzaga, figlio di Isabella d’Este, marciava contro Parma in nome di Carlo V. In tale occasione lo stesso Ferrante tentò di convincere Galeazzo Sanvitale con generose offerte affinché cedesse Fontanellato ed abbracciasse il partito filoimperiale. Ma il marito di Paola rifiutò ogni lusinga e volle restare devoto al papa Paolo III, Alessandro Farnese. Non solo: organizzò una scorreria verso Cremona per conto della Francia, di cui era colonnello; d’altronde, suo fratello maggiore Gian Francesco era al servizio di Carlo VIII e aveva combattuto nella battaglia di Fornovo.

Ricordiamo che i figli di Galeazzo furono tutti di parte francese e papale: Giacomantonio fu Cavallerizzo e Scudiere del re, al cui servizio militò contro Carlo V comandando la compagnia di cavalleggeri del fratello Federico. Luigi fu pure al servizio della Francia. Eucherio fu Cameriere segreto e coppiere di papa Paolo III; fu inoltre ambasciatore del duca Ottavio Farnese presso il re di Francia quando fu necessario negoziare la restituzione di Piacenza, caduta appunto nelle mani degli imperiali. Probabilmente proprio per questo motivo l’affascinante figura di Paola, proveniente dalla famiglia più importante del mantovano, resta avvolta da un certo mistero: nell’ambito della storia della famiglia Sanvitale la contessa non assume il rilievo che merita. Ireneo Affò, nelle Memorie di tre celebri principesse della famiglia Gonzaga del 1787, opera dedicata proprio al conte Stefano Sanvitale parmigiano in occasione delle sue nozze con Luigia Gonzaga mantovana, ci racconta la vita di Giulia, sorella di Paola. Parlando di Giulia così esordisce:

Se le illustri Matrone allora più accrescono splendore alle famiglie nobili, cui si congiungono, quando all’antica generosità della Stirpe il pregio accoppiano di annoverar tra i viventi loro congiunti Uomini celeberrimi o per ampiezza di Signorie, o per fulgor di Porpore e Mitre, o per gloria di armi e di lettere famosi e chiari, io non saprei qual più di Paola Gonzaga apportasse nè tempi andati lustro maggiore alla Famiglia Sanvitale, come colei, che Duchi, Principi e Baroni di molti Stati contava del suo sangue paterno, ebbe un Fratello e più Cugini ad un tempo assai distinti nel Sacro Collegio de’ Cardinali, e fra tanti prodi guerrieri di suo Casato vantar poté per fratelli Luigi detto Rodomonte, e Gianfrancesco soprannominato Cagnino sì poderosi e valenti. Ma non fu per avventura minore il vantaggio per lei recato al Conte Galeazzo amorevolissimo suo marito, nel renderlo cognato della più famosa tra le donne di quella età Giulia Gonzaga[...].

La saletta di Diana e Atteone

Tra il 1516 e il 1530 la corte del conte Gian Galeazzo, figlio di Jacopo Antonio e Veronica da Correggio, divenne un centro culturale ed artistico di rilievo; a Fontanellato Francesco Mazzola detto il Parmigianino (1503-1540) affrescò, proprio per Paola, nel 1523 circa, la saletta con le Storie di Diana e Atteone: la nobile dama venne qui ritratta in una delle lunette.

Soffermiamoci brevemente su questi affreschi poiché essi sono, secondo la nostra ipotesi, il fondamentale riferimento contenutistico per l’elaborazione della celebre Madonna dal collo lungo, oggi agli Uffizi, pala commissionata a Parmigianino nel 1534 dalla sorella di Francesco Baiardo, Elena Tagliaferri, per ornare la propria cappella in Santa Maria dei Servi a Parma (contratto del 23 dicembre 1534).

La saletta di Diana e Atteone, che a un primo sguardo mostra prevalente la suggestione mitologica, può essere considerata anche una prefigurazione dei contenuti sacri della Madonna degli Uffizi. Il mito dipinto da Parmigianino è tratto dalle Metamorfosi di Ovidio. Il giovane Atteone, durante una battuta di caccia, sorprese Artemide e le sue ninfe al bagno; per un incantesimo della dea adirata, Atteone venne trasformato in cervo, e i suoi cani, non riconoscendolo sotto quelle spoglie, lo sbranarono.

La storia di Atteone si svolge nelle quattordici lunette poste al di sopra della cornice lignea che le divide dalle pareti. La volta presenta un’architettura illusionistica, interrotta da piccoli oculi aperti sopra un cielo abbastanza cupo e cieco, e un graticcio, coperto di fronde che terminano in una siepe ottagonale di rose bianche entro cui si apre nuovamente il cielo. Infine, al centro di questo squarcio azzurro, vi è uno specchio circolare con la scritta RESPICE FINEM, “osserva la fine”. 

Lungo la cornice lignea sotto gli affreschi corre la scritta: AD DIANAM/DIC DEA SI MISERUM SORS HUC ACTEONA DUXIT A TE CUR CANIBUS/TRADITUR ESCA SUIS NON NISI MORTALES ALIQUO/PRO CRIMINE PENAS FERRE LICET: TALIS NEC DECET IRA/ DEAS, dove le divisioni da noi segnate corrispondono al passaggio da una parete all’altra. Queste parole possono essere tradotte come una invocazione e una supplica rivolta a Diana:

A Diana: Dì, o dea, se è stato il destino a condurre qui lo sventurato Atteone, per qual ragione viene da te dato in pasto ai suoi stessi cani? I mortali possono essere puniti soltanto se hanno commesso un delitto: un’ira così grande non si addice alle dee.

La scritta mette in evidenza un contrasto: da un lato sta la misera condizione dei mortali e il fatto che la sorte ha condotto Atteone ad incontrare la Dea; d’altra parte viene evidenziata la superiorità della divinità sugli uomini, e in particolare l’eccesso dell’ira di una dea come Diana, che qui dà la morte quando altrove è soprattutto protettrice della vita (Artemide Luna è infatti protettrice delle nascite e delle partorienti).

La studiosa tedesca Ute Davitt-Asmus, nei suoi studi su Fontanellato, ha messo in evidenza la spietatezza della dea in relazione all’immeritata morte di Atteone, collegandola all’ingiusta morte del piccolo figlio di Galeazzo e Paola, identificato negli affreschi. La scomparsa del piccolo risulta essere l’episodio che spinse i committenti a realizzare la particolare iconografia. Secondo le testimonianze documentarie, Paola Gonzaga, all’epoca in cui Parmigianino realizzò gli affreschi di Fontanellato, avrebbe avuto, oltre a tre bambine, un figlio maschio morto nel sonno prematuramente, a causa di gravi problemi respiratori. Il senso profondo della scritta è in sintonia, dunque, con questo tragico evento. Del 4 settembre 1523 è il documento – ritrovato dalla studiosa tedesca – di battesimo del figlio maschio di Galeazzo Sanvitale e Paola Gonzaga: il cardinale Innocenzo Cybo nomina due delegati per somministrare il sacramento a questo bimbo di cui non si hanno poi altre notizie. Il sacramento viene infatti sollecitato con impazienza.

I pennacchi della volta della saletta sono movimentati da otto putti. A questi si aggiungono, nei due piedritti centrali delle pareti più lunghe, due coppie di bambini, ritenuti i figli di Paola e Gian Galeazzo. Il bambino della parete destra che tiene in mano un ramo di ciliegio è certamente lo sfortunato neonato, che viene sostenuto dalla sorellina.

  

Ma a mio avviso è opportuno focalizzare l’attenzione sulle due ninfe al bagno ritratte in una delle lunette, poiché esse sarebbero due ritratti delle figlie della giovane coppia. Approfondiremo tra breve il tema della rilevante presenza nei dipinti dei figli di Paola, confrontando i volti di questi con le fisionomie dei fanciulli che si accalcano a fianco della Madonna degli Uffizi, sotto la quale potrebbe celarsi un ritratto della nobile dama.

La collana di corallo e perle. La spiga, la coppa e gli zaffiri

Alcuni particolari iconografici presenti nella saletta della rocca appaiono rilevanti poiché indicano non solo la malattia e la morte del piccolo ma anche quella fusione con la figura di Cristo Bambino che sarà pienamente realizzata nel quadro eseguito una decina di anni più tardi. Il figlio piccolo, come abbiamo visto, viene ritratto nel peduccio centrale della parete sinistra e, come hanno osservato gli studiosi, tiene in mano le ciliegie, simbolo funerario; esse sono anche frutto del Paradiso e del Cielo. Ma un altro particolare si rivela assai significativo in rapporto al senso nascosto degli affreschi: il bambino indossa una collana di pietre preziose di forma sferica; assai probabilmente si tratta dunque di perle e coralli e non di granati, come è stato osservato in passato.

Al corallo rosso, in epoca medievale, venivano attribuite proprietà curative e il potere di rimuovere il malocchio. Spesso, con tale funzione, lo si appendeva al collo dei bambini. La sua reputazione amuletica risale all’antichità: i Romani lo facevano indossare ai piccoli per metterli al riparo dagli spiriti malvagi, dai sortilegi e da tutti i pericoli. In Toscana, le madri lo attaccavano al collo del neonato e bevevano polvere di corallo prima di allattarlo. Il corallo era ritenuto, sin dal medioevo, un rimedio per le malattie cutanee, la dissenteria, la gotta, la peste, la tubercolosi e l’epilessia. Indossarlo fortificava la vista e proteggeva da ogni epidemia; inoltre, in chiave religiosa sembra richiamare, anche nel nostro caso, il sacrificio del Cristo; talvolta lo troviamo al collo del Bambin Gesù (nella Pala di Brera e nella Madonna di Sinigallia di Piero della Francesca) o pendente sopra il capo della Vergine (nella Madonna della Vittoria di Andrea Mantegna).

Il Parmigianino, nella Madonna della rosa di Dresda, posteriore di qualche anno rispetto agli affreschi di Fontanellato, dipinge il Bambin Gesù con un bracciale di corallo rosso. Questa scelta iconografica risulta dunque significativa. A tale proposito ricordiamo che un’antica tradizione popolare appenninica consigliava di cingere il polso sinistro dei bambini con un bracciale di corallo come valido antidoto contro l’invidia degli uomini.

Inoltre, la collana del piccolo alterna ai coralli le perle. La perla, per la sua bellezza, è un prezioso molto diffuso sin dall’antichità; essa si trova raffigurata in numerose opere d’arte ed affreschi cristiani. La sua tipica purezza l’ha elevata a simbolo di Cristo, della rinascita spirituale e, come frutto della conchiglia, dell’Immacolata Concezione di Maria. Ma, per quanto ci riguarda, l’aspetto più importante della perla è il ruolo che essa gioca nella medicina, sia orientale che occidentale.

In Oriente la perla assicurava forza e santità; essa veniva impiegata per combattere le emorragie, contro l’itterizia e nei casi di possessione o di follia, per i malanni degli occhi e come antidoto efficace nei casi di avvelenamento. Nel testo indiano detto Kathasaritsagara troviamo che la perla, proprio come gli elisir degli alchimisti, sconfigge il veleno e i demoni, la vecchiaia e la malattia. Essendo l’emblema della forza acquatica e generatrice, la perla diviene un afrodisiaco, un rimedio per la melanconia, e in genere per tutti i morbi derivanti dall’influenza lunare, dunque per tutto ciò che si relaziona al femminile, all’acqua e all’erotismo. Ai confini della magia e della medicina, sottolinea Mircea Eliade, la perla ha assunto il ruolo ambiguo di talismano: essa garantirebbe una sorte ideale post mortem. Anche oggi in Oriente una perla depositata in una tomba introduce la morte in un ciclo cosmico di vita, morte e rinascita; in India il prezioso è simbolo dell’immortalità e della rinascita spirituale, e dunque della vita eterna.

Da Origene viene assimilata al Cristo, in quanto prefigurazione del regno dei cieli. Nello scritto gnostico degli Atti di Tommaso, la ricerca della perla simboleggia il dramma spirituale della caduta dell’uomo e della sua salvezza: l’anima umana, precipitata nelle tenebre, deve attraversare prove difficili per ritrovare il prezioso oggetto, e quest’ultimo diviene portatore del mistero della trascendenza, della manifestazione di Dio nel Cosmo, del Salvatore salvato. Ma c’è di più. Nel ciclo di Fontanellato la bella Paola, in veste di Demetra, tiene nelle mani due spighe e un kantharos, una coppa di tipo greco con corpo a calice; inoltre, particolare del tutto trascurato, ella porta attorno al braccio destro una fascia con incastonate pietre scure. Queste pietre potrebbero essere zaffiri, a indicazione di un lutto incombente.

Lo zaffiro, per il suo colore azzurro scuro, è simbolo del Paradiso e del Cielo. Secondo una tradizione che ritroviamo presso i Greci, la sua applicazione sulla fronte guariva dalle malattie degli occhi; l’uso della pietra, considerata anche un antidoto contro i veleni dei rettili e contro la rabbia, passò in Arabia e in tutto il Medio Oriente, dove era ritenuta un efficace talismano contro la peste. In ambito cristiano essa simboleggia la purezza, la forza luminosa del reame di Dio (zaffiro deriva dall’arabo saphir, splendente). Inoltre, anche lo zaffiro veniva considerato un potente amuleto; proprio per il suo colore blu, si riteneva togliesse il malocchio e proteggesse contro i sortilegi. Alberto Magno credeva che questa pietra preziosa portasse pace e armonia e rendesse devoti e puri.

Questi elementi iconografici ci parlano della grave malattia del bimbo, della afflizione di Paola, ma anche della speranza di una rigenerazione post mortem. Come sostengono i recenti studi, la stanza venne dipinta per la nobile dama come rifugio e luogo di meditazione sulla morte, in un momento cruciale della sua esistenza di madre: il mito e gli eventi si fondono come sublimazione del tempo e della storia. Così, Paola tiene in mano il grano, che nella tradizione classica è attributo di Demetra e, nella simbologia funeraria connessa ai suoi misteri, è promessa di ritorno della vita. Ma il grano anche nel linguaggio iconografico cristiano è simbolo eucaristico.

Il fatto che nella raffigurazione di una storia mitologica come quella di Diana e Atteone compaiano il corallo, le perle, il calice con il vino e le spighe, tutti simboli eucaristici in raffigurazioni della Vergine con il Bambino, depone a favore della nostra ipotesi che vede nei ritratti di Fontanellato una prefigurazione dei contenuti della Madonna degli Uffizi.

La Madonna dal collo lungo e la nuova ipotesi identificativa.

Se facciamo un confronto iconografico tra il ritratto di Paola a Fontanellato e la Madonna oggi agli Uffizi non possiamo non riconoscere in quest’ultima la Gonzaga, ideale modella di “Madonna in Morte”.

A tale proposito si può notare come dietro l’iconografia parmigianinesca della Madonna Mater Gonzaga si celi l’archetipo della Mater Matuta, l’antica divinità italica della fecondità, corrispondente alla greca Eos-Aurora (cfr. Lucrezio, De rerum natura V, 656-7): la Madre del Mattino, che ogni giorno rinnova il ciclo della Vita.

Se prendiamo in considerazione l’immagine della kourotrophos, la figura femminile con neonato poppante o semplicemente coricato tra le braccia, tipico dono votivo rinvenuto nei santuari dedicati a divinità femminili (citiamo qui le importanti statuette preromane del museo di Capua provenienti dal santuario Fondo Patturelli; notiamo come, attraverso un reale evento luttuoso che colpisce Paola Gonzaga, giovane madre di famiglia, nella Madonna degli Uffizi si riassumano i contenuti della stessa kourotrophos, precisamente: il senso profondo dell’offerta votiva propriamente rivolta alla Mater Matuta, come auspicio di fertilità o ringraziamento per la gravidanza portata a buon fine; la natura funeraria della divinità infernale che porta in braccio il defunto sotto forma di infante che rinasce dal suo seno.  

Se concepiamo la morte come rinascita a una nuova vita concludiamo che Morte e Vita formano anche nella Mater Matuta un insieme inscindibile. Ricordiamo ancora che, in ambito cristiano, nella nascita di Cristo riposa implicitamente anche la sua morte, e, nel medesimo contesto, l’iconografia che si propone come l’estrema sintesi del tema della madre della Vita e della Morte è senza dubbio quella della Pietà.

Inoltre la connessione con Demetra (etimologicamente Da Mater), la nutrice per eccellenza del mondo greco, nelle cui vesti viene ritratta Paola Gonzaga a Fontanellato, arricchisce questi riferimenti calati nell’immagine parmigianinesca. Demetra è colei che piange la perdita della figlia Persefone, rapita da Ade. Persefone diviene dunque sovrana degli Inferi e regina dei morti. Non solo. Dall’Inno omerico a Demetra (vv.164-168) sappiamo che a Eleusi la dea viene accolta come nutrice dalle figlie di Celeo che le propongono di occuparsi dell’amatissimo figlio di Metanira, Demofonte. E da questo mito, che racconta il tentativo di Demetra di trasmettere l’immortalità al bambino, ha origine il rituale misterico eleusino della salvezza. Il motivo iconografico della Mater Matuta ritorna per engramma (e non per deduzione da modello) nella Madonna del Parmigianino.

Paola/Demetra piange la perdita del figlio/a e la Madre di Vita e di Morte corrisponde dunque alla vita che nasce dalla terra per tornare ad essa. Torniamo ai confronti fisiognomici. Nella Madonna del Parmigianino il bambino ha gli occhi chiusi ed è molto pallido. Inoltre, arriva a toccare con la mano la fascia da lutto che la madre indossa sul braccio sinistro. Questi particolari possono certamente confermare lo stato morboso e la grave malattia.

Accanto alla Madonna appare una giovane, in tutto simile alla ninfa ritratta a Fontanellato. A nostro parere, si tratta di una delle figlie di Paola, come denota anche la grande somiglianza tra lei e la stessa Madonna. Inoltre, il Parmigianino ritrarrà nuovamente il medesimo personaggio: il quadro di Capodimonte in cui viene dipinta una giovane, già identificata senza probanti motivi con la cortigiana romana Antea (confronto C), è a mio avviso un’altra effigie della figlia di Paola e Gian Galeazzo Sanvitale.

Già Freedberg (1950) osserva come il volto della pseudo-cortigiana corrisponda a quello della giovinetta posta sulla sinistra della Madonna dal collo lungo. Possiamo confrontare non solo la fisionomia, ma anche l’acconciatura molto particolare e ricorrente. Dunque, le forti affinità fisiognomiche tra il ritratto della giovane donna e il volto della fanciulla situata alla destra della Madonna hanno indotto a pensare che il soggetto effigiato corrispondesse ad un medesimo personaggio: ed è significativo che alcuni abbiano pensato ad una donna della famiglia Tagliaferri-Baiardi, committente della tavola fiorentina. Ma il Parmigianino sembra volgersi ad un soggetto a lui più caro, appartenente alla famiglia da lui meglio conosciuta in passato. Inoltre, è stata sempre trascurata la forte somiglianza della ragazza rispetto al viso della Madonna. Nella medesima pala, un giovane angelo porta il grande vaso ad anfora su cui è incisa una croce che allude certamente alla morte di Cristo. Ma l’oggetto si presenta anche come vaso unguentario, simbolo di un’estrema unzione impartita al bimbo.

Un piccolo vaso di significato consimile, sempre in riferimento al Cristo infante, è tenuto in mano da Maria Maddalena in un altro quadro di Parmigianino conservato agli Uffizi: la Madonna con Bambino, San Giovannino e San Zaccaria. Il volto di questo giovane angelo portavaso assomiglia incredibilmente a quello della seconda ninfa al bagno negli affreschi di Fontanellato; è da supporre dunque che si tratti di un altro dei figli o figlie di Paola. Proporrei inoltre un interessante confronto iconografico tra i volti degli altri ragazzini che si accalcano a fianco della Madonna e i due bambini che giocano animatamente ritratti nella saletta a Fontanellato.

Il tempo è trascorso e i personaggi rivivono in una raffinata pala che ha ben altra funzione rispetto alla saletta privata della rocca; dunque i ritratti dei ragazzi sono non solo più maturi, ma anche più raffinati e definiti rispetto allo stile ‘corsivo’ delle pennellate adottato da Parmigianino nell’affresco. Sempre nella pala, il santo o profeta sullo sfondo a destra svolge il rotolo delle Sacre Scritture ed insieme sembra annunciare alla popolazione la morte del piccolo Principe. L’alta e sottile figura di madre in atteggiamento pacato e impassibile con gli occhi rivolti al figlio sulle ginocchia esprime la stessa serenità che scorgiamo sul viso di Paola a Fontanellato.

Dalla rappresentazione mitologica alla rappresentazione sacra

Dunque un drammatico episodio della vita di Paola Gonzaga interessa l’artista a tal punto da essere da lui ripreso dieci anni più tardi in una pala d’altare destinata ad un’altra committente. La Madonna dal collo lungo appartiene alla maturità artistica di Parmigianino; l’opera è il risultato di una complessa meditazione, l’espressione di un ideale formale intellettualizzato.

Ecco dunque che l’episodio viene rivestito di abiti sacri, che riescono a velare i veri volti dei personaggi ritratti, mentre nella rocca era il volto della committente a velare la veste sacra soggiacente all’episodio. D’altra parte, quale modella poteva meglio interpretare una Madonna in Morte, se non una vera Madre in Morte, peraltro già ritratta in una precedente opera?

A Fontanellato, nella prima elaborazione artistica, la tragedia che coinvolge la committente e i suoi figli si rappresenta in una figurazione mitologica – la storia di Diana e Atteone – che sembra iconograficamente prevalente: ma il soggetto mitico non ha una valenza narrativa autonoma, e tanto meno una funzione astrattamente decorativa. Il mito si propone ancora una volta come linguaggio simbolico perfettamente congruente rispetto alla realtà e all’urgente pathos dell’evento. 

Come è già stato sottolineato, un’attenta lettura del testo di Giordano Bruno De gli eroici furori (1585) ci fa capire come Atteone, novello Odisseo, divenga simbolo dell’abile eroe alla ricerca del contatto con il divino. Ma l’incontro con l’assoluto porta alla contemplazione non tanto del divino fuori di sé, bensì del divino in sé (per questo Atteone si trasforma in cervo, che nella simbologia cristiana diverrà anche animale totemico di Cristo). La visione conduce istantaneamente l’eroe alla morte, anche se sotto forma simbolica, parziale ed intima. Così troviamo scritto in Giordano Bruno:

Degli suoi cani, degli suoi pensieri egli medesimo venne ad essere la bramata preda, perché, già avendola contratta in sé, non era necessario cercar fuori di sé la divinità.

Il sacrificio di Atteone e del piccolo Sanvitale viene paragonato a quello di Cristo (come spiega la Davitt-Asmus), poiché esso appare il passaggio necessario, e accettato con rassegnazione dalla vittima, per raggiungere la salvezza dello spirito. Il mito di Diana e Atteone dunque, secondo questa lettura, si presta a dire per allegoria il destino di una morte sconvolgente e imprevista provocata da un eccezionale e sorprendente incontro con il divino. L’evento è fatidico, veloce e irreversibile: proprio come può essere la malattia improvvisa e senza rimedio del bambino di Paola Gonzaga, vittima innocente dall’ineluttabilità del fato.

Parmigianino nel costruire l’immagine della Madonna dal collo lungo è ancora influenzato dalla tragedia che aveva colpito i suoi committenti alcuni anni prima. E quell’evento ritorna nella sintesi sublimata del nuovo soggetto sacro, ma anche, puntualmente, nelle fisionomie dei personaggi che compaiono nella tela. Il viso fine e sofisticato di Paola era penetrato nel canone estetico dell’artista, e si era trasfigurato sottilmente in altri visi.

La caratteristica fisionomia di Paola, e in generale del ramo dei Gonzaga di Sabbioneta – la fronte spaziosa, i grandi occhi coronati da sopracciglia ad ampio arco, le dita lunghe e affusolate, i capelli color biondo ramato – era stata dunque innalzata a modello di bellezza spirituale dal Parmigianino. Ma anche per la sua dolorosa vicenda personale, Paola Gonzaga era la modella ideale per la figura della Madonna in Maestà, che già nell’icona della trionfante maternità divina, preannuncia la perdita del Figlio.

Riferimenti bibliografici
English abstract

A series of iconographic comparisons reveals a famous lady of the Renaissance in the sophisticated Madonna dal collo lungo by Parmigianino, dated 1534-35. According to the hypothesis underlying this study, the event that inspired the subject of the picture is the true, personal drama of Paola Gonzaga who had lost a newly born boy years before. Indeed, this tragic event in the Gonzaga-Sanvitale family had already inspired the cycle of Parmigianino’s mythological frescoes in Fontanellato with the stories of Diana and Atheon. Behind the image of the Madonna on the throne with child, the morphological archetype of the “Mother of life and death” can once again be seen, invariably legible in the particular re-emergence of the antique Pathosformel of the Mater Matuta.

Compendium

Per imagines collatas, in tabula Madonna dal collo lungo a Parmigianino picta MDXXXIV-MDXXXV anno, agnoscenda dominae rinascimentalis imago. Prioribus annis Paola Gonzaga-Sanvitale infantem filium amiserat: Parmigianino, hac praematura morte motus, opera a fresco de fabula Dianae et Acteonis in villa apud Fontanellato pinxerat. Post aliquot annos ipse pictor, funestum eventum recordatus, sub specie Matris Dei in throno (cum filio in gremio dormienti quasi in somnio mortis laxato) elegantem imaginem dominae gonzagensis finxit. Hac figura, antiquissima Pathosformel Matris Matutae, vitae mortisque dominae, exprimitur.

keywords | Parmigianino; Madonna dal collo lungo; Paola Gonzaga; Mother of Life and Death.

Per citare questo articolo / To cite this article: G. Pinotti, Mater Gonzaga: una dama del Rinascimento ritratta nella Madonna dal collo lungo di Parmigianino, “La Rivista di Engramma” n. 10, luglio 2001, pp. 7-21 | PDF 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2001.10.0004