"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

L’ombra di Bruno (Giordano Bruno, Marcel Duchamp, Octavio Paz)

Roberto Diodato

Compendium | English abstract

Octavio Paz mette in luce le connessioni tra l’opera di Marcel Duchamp e gli scritti di Giordano Bruno: l’intuizione estetica dell’Ombra si proietta attraverso i nessi che vincolano la percezione fisico-metafisica degli oggetti d’amore con l’umbratile oscurità dell’umano sapere. L’ombra diviene così la cerniera lungo la quale si disegna la metamorfosi eterna delle idee in vita corporea: principio di emergenza alla luce formale (Duchamp), ma anche forza attraverso cui il divino mostra la sua potenza (Bruno).

Apparenza nuda di Octavio Paz si compone, come è noto, di due saggi: Il castello della purezza e *water writes always in* plural, preziosi commenti alle due opere maggiori di Marcel Duchamp, il Grande Vetro (ovvero La sposa messa a nudo dai suoi Scapoli, anche..., definitivamente incompiuto nel 1923), e l’assemblaggio Dati: 1°. La Cascata, 2°. Il Gas da illuminazione, al quale Duchamp lavora segretamente per vent’anni (dal ’46 al ’66). Si tratta di opere di eccezionale complessità, rappresentazioni di idee rese in parte comprensibili dalle raccolte di documenti, la Scatola Verde e la Scatola Bianca, approntate da Duchamp come manuali-guide di lettura.

 

In *water writes always in* plural Paz si propone di: 

[...] mostrare la filiazione dell’opera di Duchamp e la sua relazione metaironica con la tradizione centrale dell’Occidente: la fisica e la metafisica, non del sesso, bensì dell’amore [...]. Dalla Donna nuda che scende una scala alla ragazza nuda dell’Assemblaggio di Filadelfia [cioè Dati...], passando per La sposa messa a nudo dai suoi Scapoli, anche..., la sua opera può essere vista come i diversi momenti – le diverse apparenze – della stessa realtà. Una anamorfosi, nel senso letterale di questa parola; vedere questa opera nelle sue forme successive è risalire verso la forma originale, quella vera, la fonte delle apparenze. Tentativo di rivelazione o, come egli diceva, "esposizione ultrarapida". Lo affascinò un oggetto a quattro dimensioni e le ombre che proietta – quelle ombre che chiamiamo realtà. L’oggetto è un’Idea ma l’Idea si risolve alla fine in una ragazza nuda: una presenza" (Paz 2000, 12).

Ora la ragazza nuda dell’Assemblaggio, così come la sposa messa a nudo dai suoi scapoli, è Diana, così come appare nel mito di Atteone rivisitato da Bruno in De gli eroici furori (parte I, dialogo IV).

Ovviamente è Octavio Paz a porre la relazione tra Duchamp e Bruno e a svolgerla. Gli Eroici furori si impone, a suo avviso, insieme come un culmine e come un effetto di scartamento rispetto alla tradizione dei ‘trattati d’amore’. Si tratta, come è noto, di “un discorso naturale e fisico” in linguaggio erotico che prende come modello dichiarato il Cantico dei Cantici ponendo però da questo una distanza: “Quantunque – scrive infatti Bruno – medesimo misterio e sustanza d’anima sia compreso sotto l’ombra dell’uno e dell’altra” (De gli eroici furori, p. 6), il linguaggio del Cantico dei Cantici è manifestamente simbolico, mentre le poesie degli Eroici furori dispongono un simbolismo travestito o di secondo grado, che esige, per essere in parte compreso, il commento filosofico; perciò è facile equivocare.

Ora tale strategia, che coinvolge lo stile della scrittura, uno stile tale da far emergere il nesso necessario tra poesia e prosa argomentativa, è, come ho mostrato altrove, strutturalmente connessa all’essenziale “umbratilità” della conoscenza umana (Diodato 2000, 625-634). È questo il nodo su cui insiste Octavio Paz per mettere in relazione La Sposa[...] e Dati[...] con gli Eroici furori:

Noi siamo in basso, ma non apparteniamo completamente alle tenebre; il nostro regno è la penombra: viviamo tra le ombre e i riflessi delle luci di sopra. Il mondo in alto, quello della luce, è anche e soprattutto – in questo consiste la sua superiorità ontologica – quello dell’unità, mentre il mondo in basso è quello della pluralità. La Sposa e i suoi Scapoli [...]. Emanazioni dell’unità verso il basso: generazione delle cose terrestri e visibili; furore eroico verso l’alto: contemplazione di forme, essenze, idee. Solo che anche queste idee sono ombre, proiezioni dell’Uno nascosto nelle pieghe della sua unità. Dialogo delle apparizioni e delle apparenze, dialogo di ombre, dialogo della Sposa con se stessa (Paz 2000, 132-133).

Siamo dunque in presenza di un movimento metafisico, perpetuo e circolare, che consiste in una processione che al tempo stesso è un ritrarsi, e in una ascesa che prende la forma di un disvelamento sempre incompiuto. La forma simbolica che assume tale movimento è la relazione tra Apollo e Diana e quindi tra Diana e Atteone.

  

Paz opportunamente ricorda come Bruno, nel secondo dialogo della seconda parte degli Eroici furori, accenti la relazione di proiezione tra Apollo e Diana; così Bruno:

Diana è nell’ordine delle intelligenze seconde che ricevono lo splendore dalla prima per comunicarlo a coloro che sono privi di una visione più ampia [...]. Nessuno ha potuto vedere il sole, l’Apollo universale e la sua luce assoluta, ma è invece visibile la sua ombra, la sua Diana (De gli eroici furori, parte II, dialogo II, pp. 126-127).

Diana è dunque l’ombra di Apollo, è luce, ma “luce che brilla nell’opacità della materia”, è natura e dunque essere verità nella loro proiezione materiale: “Diana, che è l’essere stesso, quell’essere che è la verità stessa, quella verità che è la natura stessa” è dunque insieme identica e diversa dal Sole-Apollo, dal quale è generata: “L’unità si manifesta in ciò che genera e in ciò che è generato, il produttore e il prodotto”. Ci troviamo così di fronte a una questione di ontologia relativa al rapporto tra unità e molteplicità, tra infinito assoluto e derivato, tra eternità e vicissitudine, temi che intrecciano ovviamente la dimensione conoscitiva, dunque quella antropologica e finalmente quella etica. In Bruno, che forse proprio nella relazione Apollo-Diana-Atteone mette in gioco il senso complessivo della sua proposta filosofica, la prospettiva gnoseologica è davvero inestricabile da quella ontologica: Diana è l’oggetto del furore eroico, di quel limite dell’umano che, a differenza del “sapiente”, tende all’uno fino al “disquarto di sé”.

Sarebbe da ispezionare con cura la logica di questa tensione; al proposito Paz opportunamente segnala:

Nel commento di Klossowski al mito, il desiderio di Diana di vedere se stessa la induce a vedersi nello sguardo di Atteone; Bruno inverte il processo: Atteone si trasforma nell’oggetto del suo desiderio e vede se stesso in quel cervo che i suoi cani – che sono i pensieri della dea – devono divorare. Ma prima il cervo vede, sul bordo dell’acqua, Diana nuda. Nell’interpretazione di Pierre Klossowski [il riferimento è a Le bain de Diane del 1956], Diana si desidera e si guarda attraverso Atteone; in quella di Bruno, Atteone si trasforma nella cosa stessa che desidera.

Resta comune comunque, in entrambe le logiche, il tema della reversibilità:

In ambedue i casi l’operazione è circolare e in ambedue il soggetto, Atteone, è solo una dimensione dell’oggetto, Diana. La stessa logica regola il Grande Vetro e l’Assemblaggio. Atteone, gli Scapoli e lo spettatore che spia attraverso i buchi della porta sono soggetti trasformati in oggetti da un oggetto.

La geniale analogia costruita da Paz tra Duchamp e Bruno si sviluppa nell’analisi del quarto dialogo della seconda parte degli Eroici furori, nel quale “l’eroe, l’amante furioso, l’Atteone che guarda scomparire sulla linea dell’orizzonte la cerva che caccia e comparire la luna che deve cacciarlo, si moltiplica in nove ciechi” (Paz 2000, 137-138) complessa allegoria della teologia negativa (“vediamo di più quando chiudiamo gli occhi che quando li apriamo”) e insieme rappresentazioni delle nove sfere con cui “cabalisti, maghi, caldei, platonisti e teologi cristiani” hanno immaginato gli ordini degli spiriti. E quando, nel quinto dialogo, finalmente i nove ciechi ricevono il dono della vista, ecco cosa vedono: “Vedono la trasparenza dell’orizzonte, la nudità dello spazio: niente”.

Abbiamo così i dati che secondo Paz tracciano un’appartenenza, il filo teorico di una tradizione che giunge, consapevolmente o meno non importa, a Duchamp:

Teologia negativa: per vedere bisogna chiudere gli occhi. Nell’oscurità: Diana sorpresa al bagno: esposizione ultrarapida. Nuova concordanza: tutti i testi neoplatonici, a cominciare da Plotino, dicono che la visione non arriva mai lentamente: è una illuminazione repentina. Un flash. Percorso istantaneo. La somiglianza con la copula carnale è stata segnalata mille volte e ho già ricordato l’energica espressione di Leone Ebreo: copula visiva dell’intelletto con il suo oggetto. Tutti i testi affermano anche che l’unione è imperfetta. L’imperfezione risiede negli organi di conoscenza e visione degli uomini. Indigeni della terza dimensione, abitiamo la penombra e viviamo tra le apparenze (Paz 2000, 138-139).

Ora, è vero che per Bruno la divinità (ma cosa è la divinità per Bruno?) non può darsi che nell’ombra: cogliere il divino è essere visti da Diana, è essere catturati dall’ombra e in essa immergersi, poiché tale è Diana, natura generata e non generante. E questo essere catturati implica il disquarto di sé, l’essere sbranato dal proprio pensiero e dalla propria volontà: abbandono, forse, delle pretese di dominio del pensiero e della volontà. Sono però dubbioso sulla trafila disegnata da Paz; davvero Bruno ‘sembra’interno alla tradizione platonica: la presenza di Ficino – e, relativamente, di Plotino – è senza dubbio notevole, soprattutto nel periodo dei Dialoghi italiani, a cui appartengono gli Eroici furori – e recentemente è stata approfondita l’influenza che pare strategica di Cusano su Bruno (Mancini 2000).

D’altro canto non pare che in Bruno il tema dell’ombra si configuri soltanto e primariamente come un limite e come una possibilità della conoscenza. Inteso in questo senso, cioè per quanto interessa una dottrina delle potenzialità conoscitive, il testo di riferimento sarebbe il De umbris idearum, non senza ragione definito “libro archetipo della filosofia nolana”. Ma ciò che più conta è il senso ontologico – che nel De umbris si annuncia soltanto – e quindi estetico, dell’ombra, secondo una linea che lega almeno De la causa, principio et uno, Lampas triginta statuarum per giungere ai poemi francofortesi. Interessante è mettere in rilievo come in Bruno l’ombra, considerata dal punto di vista ontologico, configuri il confine tra luce e tenebra come un territorio praticabile, al punto da rendere possibile una forma filosofica stravagante e difficilmente collocabile in una tradizione.

Non si tratterà qui dell’impatto che la praticabilità di questa forma ha sulla lingua della filosofia, cioè sulla già richiamata ‘necessità’ del simbolico che essa impone; basti notare che essa in realtà pone una distanza dall’esorcismo dell’ombra che a partire dal mito della caverna si distende sulla storia della cultura in molteplici modi, su alcuni dei quali sarebbe interessante gettare una sonda. Andrebbe anche esaminata la concorrenza, con quella dell’ombra, della metafora dello specchio, che pure Bruno usa, immagine sempre di derivazione platonica, di grande rilevanza per il senso mimetico della verità che percorre in innumerevoli guise la nostra cultura. Ipotizzo che ombra e specchio (la ‘riflessione’) siano per lo più dimensioni, appunto, concorrenti e non consonanti dell’immaginario filosofico, seppure talvolta, come in Bruno, il loro senso possa, per la particolare piega che assume, convergere in un disegno unitario.

Forse pensare l’ombra come quel limite o confine tra luce e tenebra che è insieme e inestricabilmente luce e tenebra in continua reversibilità, come territorio praticabile per il pensiero e per l’azione e come cardine, punto intorno al quale inevitabilmente gira su se stesso il pensiero che tenta di stringere il proprio oggetto, può fare di Bruno un filosofo contemporaneo, e anche più che contemporaneo, almeno in quanto non costretto dalla superficiale ossessione, che ancora domina parte della riflessione attuale, di superamento o oltrepassamento della cosiddetta ‘tradizione metafisica’. Ulteriormente la riflessione sul tema bruniano dell’ombra può consentire aperture verso dimensioni non occidentali del pensiero (per uno sguardo sulle teorie orientali Coomaraswamy 1975, 145-151; e per un approfondimento della prospettiva metafisica ed estetica, Marchianò Zolla 1984, 367-382).

Il tema estetico-ontologico dell’ombra può forse rappresentare un fecondo terreno per un intreccio tra gli orienti e gli occidenti (anch’essi plurali) del pensiero rivolto, certo a partire dalle tradizioni, verso il futuro della filosofia. Un tentativo rilevante a questo proposito è quello di Chakrabarti (1998, [19-41]), che pone le basi per una ontologia ‘positiva’ dell’ombra: si tratta, con tutte le ovvie differenze, di una linea di ricerca che ha un senso non dissimile da quella intrapresa da Bruno.

Anche la riflessione sul rapporto apparenza-realtà, che il tentativo di pensare il virtuale oggi nuovamente ci impone, potrebbe trarre importanti spunti di ricerca dall’ispezione dell’ombra: Grazia Marchianò sottolinea, prendendo spunto dalle voci “sogno” e “realtà” della Enciclopedia filosofica, come spesso i problemi filosofici connessi all’irruzione di categorie non facilmente dominabili dal pensiero argomentativo siano sottostimati dalle filosofie occidentali (Marchianò Zolla 1984, 374-375).

Dal punto di vista della dottrina della conoscenza il simbolo dell’ombra si svolge per volute di sempre maggiore complessità dal De umbris idearum – che nel capitolo Trenta modi di intendere le ombre dispiega lo spessore di sensi dell’ombra – al De la causa principio et uno, fino a giungere alla intensità massima negli Eroici furori, in cui si dà l’inestricabilità di conoscenza e desiderio; in tutti questi luoghi possiamo far emergere la connessione strutturale tra conoscenza ed essere, in modo che il nostro tema assuma valore ontologico (sul tema ha richiamato a più riprese l’attenzione soprattutto Ciliberto 1999, soprattutto nel capitolo Ombre e sigilli, 99-123).

Nell’attualità dell’infinità della natura, di ciò che fondamentalmente, in qualità di fondamento-fondazione, permette il senso di qualsiasi determinazione, è implicita la deriva costante, l’incisione in una resistenza che lo espone ai nostri occhi come traccia, come ciò che da sempre si dà nel passato o nell’avvenire, cioè, nei termini di Bruno, nella vicissitudine. Ora il simbolo che configura questo doppio movimento è appunto l’ombra. Si tratterebbe ora di approfondirne il senso e di vedere in quale misura incida sull’interpretazione della luce, del Sole-Apollo, del primo principio.

Un testo per molti aspetti straordinario che articola la questione dell’ombra dal punto di vista che ci interessa è Lampas triginta statuarum, composto nel periodo di Wittenberg, tra il 1586 e il 1588, un’opera opportunamente definita tra le “più affascinanti e complesse di tutta la produzione del Nolano” (Ciliberto 2000, 206).

Lampas esibisce la vita dell’universo come mutazione incessante della materia, mutazione al tempo stesso costruttrice e disgregatrice di ordine, che rende reversibile la varietà nell’unità e l’unità nella varietà, reversibilità che stabilisce insieme la dignità e il valore di qualsiasi ‘minuzzeria’ e la continua dissoluzione delle gerarchie tra le cose del mondo. A mio avviso, due filosofi così diversi come Bruno e Spinoza, su questo punto – dignità di quanto può sembrare accidentale e trascurabile, e distruzione dell’oggettività dell’ordine gerarchico – si incontrano (relativamente a Spinoza, rimando a Diodato 1997).

La messa in scena di tale movimento prende forma soprattutto attraverso la scultura di trenta statue concettuali che mediano due triadi di figure infigurabili, la triade di Caos, Orco e Notte e la triade di anima del mondo, primo intelletto e mente, configurazioni dell’assoluto nel suo transito continuo e reversibile tenebre-luce. La potenza dell’assoluto si dispiega così nel doppio movimento che conduce dalla concentrazione alla dispersione del senso, e viceversa. La densità della proposta bruniana è notevole e non posso qui ispezionarla; mi limito ad accentare il ruolo strategico dell’ombra in questo complesso sistema. Ora la prima triade degli infigurabili espone a diversi livelli la doppia reversibilità di attivo e passivo, che sempre co-incidono e insieme si differenziano:

Di questi il Caos rappresenta il vuoto, l’Orco la potenza passiva e recettiva, la Notte la materia (Lampas triginta statuarum, p. 943).

Il Caos è il puro spalancarsi, apertura, fenditura, vuoto essenziale origine del senso; esso è dunque nulla, ma insieme può essere detto tutto e pieno, poiché è principio abissale di qualsiasi determinazione:

Il medesimo principio – secondo ragioni diverse – è detto Caos e vuoto, privo di tutto e pieno, luogo e ricettacolo. Lo si dice vuoto perché è capace di recepire in sé le cose, Caos perché è infigurabile; lo si dice privo di tutto perché è innominabile e infigurabile, pieno perché effettivamente contiene tutte le cose (Lampas triginta statuarum, pp. 957-959).

Dunque anche il Caos infigurabile e incomunicabile non funge solo da limite, ma anche da cardine, da cerniera tra vuoto e pieno, tra le opposizioni concettuali che stratificano e reggono, tra l’altro, la razionalità (questa l’immagine di Noferi 1979, 77); matrice delle differenze, e dunque indifferenziato, il Caos è un orizzonte vuoto-pieno non circoscrivibile, dotato di statuto ontologico non decidibile a livello logico, anche se non ancora ‘strutturalmente’ ambiguo:

Il Caos è una rivelazione dell’originario che precede e ingloba l’evidenza dell’essere; affermando ciò, implicitamente Bruno pone il primato del momento fenomenologico del pensare intuitivo su quello metafisico del categorizzare (Mancini 2000, 210: ma si veda tutto l’importante cap. IV “Figure dell’assoluto nella Lampas triginta statuarum”, pp. 203-244).

A questo punto compare sulla scena l’Orco, aggiunta bruniana alla trafila esiodea; l’Orco è desideratio infinita, carenza e privazione derivata dal vuoto che assume la forma indefinibile di una tensione, di una appetizione: “Da un vuoto infinito e privo di tutto consegue infatti un’aspirazione (appetentia) infinita” (Lampas triginta statuarum, p. 959). L’Orco è voragine e abisso, ma un abisso dotato di forza, non un puro spalancamento, bensì un’energia vorticosa che in quanto desidera, attrae. Il desiderio dell’Orco è senza fine, cioè non ha un fine e non ha fine, è privo di senso teleologico, e in ciò è cifra del divenire universale e del divenire della nostra vita. Brama senza scopo, inconscio: 

[...] ricettacolo nel quale si compie la perdita di ogni senso e memoria [...]. Lo intendono padre di ogni vicissitudine, poiché ogni realtà connessa all’ombra e al Caos – in quanto partecipe della sua stessa privazione – viene giudicata affetta, per così dire, dall’influenza della madre; in virtù di questo principio, dunque, tutte le cose desiderano essere tutto; di tutte le singole cose – voglio dire – non ne esiste una che non brami tutto quanto l’essere: l’impulso dell’Orco e della Notte sua figlia le spinge infatti a rifiutare ogni luce finita e determinata, per non sembrare discendenti degeneri del loro progenitore, il Caos (Lampas triginta statuarum, p. 965).

Eccoci finalmente alla Notte, e quindi all’ombra. Si tratta del luogo della strutturale ambiguità, tale da far persino oscillare il linguaggio di Bruno. La Notte è infatti infigurabile, in quanto figlia dell’Orco, dell’indeterminato e inconscio desiderio, eppure può anche essere considerata “la più antica tra gli dèi e, per tale ragione, si configura come uno dei principi figurabili” (Lampas triginta statuarum, p. 973), al punto che Bruno ce ne offrirà un’attenta descrizione in trenta statue.

Inoltre la Notte, poiché, ancora, è figlia dell’Orco, è “affetta dalla privazione”, ma insieme “in quanto è sostrato, manifesta invece un’indole propria”, e ciò precisa il suo statuto ontologico di “materia prima”. Infine la Notte è detta anche “tenebra”, ma poiché ha un rapporto essenziale con la luce, al punto che “si ritiene che coincida con la vicissitudine e con l’ordine della luce verso la luce”, il suo indicativo proprio, ciò che ne disegna il senso ontologico, è “ombra”.

L’ombra è infatti una sorta di sostrato insensibile: non coincide con nessuna specie naturale, ma viene concepita dalla ragione come sostrato indivisibile e immobile delle specie naturali [...]. Dicono che proprio questa sia il sostrato primo: suo padre – la privazione, ovvero l’Orco – non può certo essere un sostrato, né lo è il vuoto, che costituisce piuttosto, il ricettacolo dei sostrati. L’ombra – che colma di sé la totalità del Caos ed è pari per estensione all’Orco – è invece il primo principio che accoglie su di sé quanto esiste e che, per così dire, acconsente all’unione con l’atto, in quanto può congiungersi alla luce(Lampas triginta statuarum, p. 975).

Ombra è dunque parola dell’oscillazione irrevocabile: dal puro spalancamento del nulla emerge un desiderio infinito che trova il proprio luogo, la propria generazione, in una metamorfosi incessante; anch’essa desiderio infinito (“pari per estensione all’Orco”), ma desiderio persecutorio, che si frammenta nella tensione alle innumerevoli possibilità delle forme; l’ombra non è ancora la forma che si staglia nella luce, eppure non è più la tenebra dell’indistinto, la cui quiete è definitivamente smarrita: essa potrà, da ora in poi, essere solo e perennemente inseguita nella dispersione: “L’Orco indica quella quiete che la Notte insegue” (Lampas triginta statuarum, p. 965).

Da qui una fenomenologia dell’ombra come origine informe delle forme; si tratta però di una “origine passiva” e in quanto tale, come si diceva, strutturalmente ambigua; da un lato infatti: 

L’ombra non va intesa come una sorta di ipotesi [...] è invece un qualcosa di costantissimo, anzi è una natura costantissima: e difatti ciò che vediamo permanere in eterno tra le realtà naturali è proprio quel sostrato insensibile intorno al quale si compie la vicissitudine delle forme (Lampas triginta statuarum, p. 977).

D’altro canto:

Si tratta comunque, a nostro giudizio, di un principio tale che di per sé non può essere principio di alcuna azione: e difatti la sua natura non è quella di agire, ma di accogliere su di sé e sostenere il principio agente.

Questa accoglienza non è però un patire, anzi l’ombra è impassibile e solo come tale può “stare a fondamento”; siamo quindi di fronte a un’entità paradossale, un’entità che non è ente, ed è fondamento dell’ente nel senso che è al di sotto, e non al sopra, dell’ente, e non può quindi essere detta per se stessa, ma solo alla ‘luce’della forma.

Dicono che dell’ombra non esista alcuna idea, poiché le idee sono senza dubbio degli enti ovvero delle specie. Ma l’ombra, in quanto appartiene alla stirpe del Caos, è informe, così non rimanda ad alcuna idea e, di conseguenza, non ha alcuna statua che la rappresenti: eppure – come abbiamo detto – badiamo bene a non considerarla, semplicemente ‘non ente’ [...]. Da questa dipende il primo generarsi delle cose [...]. In questa si compie l’ultima dissoluzione degli enti corruttibili (Lampas triginta statuarum, p. 979).

Si potrebbe partire da qui per cercare di mostrare, in che senso, per Bruno, l’uomo non debba temere la morte (rimando a Diodato 20002, 233-241); ma quello che ora interessa è accentare quello che è stato felicemente definito “il dispiegarsi di una fodera attiva di questa passività” (Mancini 2000, 217).

Forse in questa incidenza dell’attivo nel passivo, in questa reversibilità metamorfica di passivo-attivo, si può cogliere una divergenza dalla tradizione neoplatonica, nonostante questa sia fortemente presente e portata ad appoggio attraverso continui prestiti dal commento ficiniano alle Enneadi. La forza passiva dell’ombra prende un nome:

Si dice che non rientri nella categoria della quiddità, della qualità o della quantità, ma che sia tutto in potenza, poiché – abbiamo detto – non è un ente, ma è sottesa all’ente, ed è a base e fondamento dell’ente. Non rientra nella categoria della quiddità, poiché questa esprime la forma, ovvero la luce; non coincide con la quantità o con la qualità, poiché è anzi il sostrato che recepisce quantità e qualità mediante la forma sostanziale, che per prima accoglie su di sé. Se dunque non è lecito definirla qualità, quantità o quiddità – e, d’altra parte, non possiamo certo definirla non entità – dovremo allora definirla idità [iditatem dicamus](Lampas triginta statuarum, p. 965; il termine “idità” è preso da Cusano).

L’ombra è significata dunque dal suo essere se stessa e non altro, dalla sua stessa medesimezza, una identità di sé con sé, un appartenersi che è potenza, ma non solo potenza passiva che attende la fecondazione, bensì una tensione all’incontro con la luce. Anche nell’incontro però l’ombra rimane se stessa, poiché è, si potrebbe dire, ciò che per essenza ‘rimane se stesso’; è rotta quindi qualsiasi dipendenza dalla luce. L’ombra è dunque principio di realtà e, come Bruno mostrerà in seguito, principio che accoglie e consente il ciclo incessante delle metamorfosi.

Dunque: l’ombra non è per Bruno l’effetto di una causa, cioè la proiezione di una opacità che interrompe il libero fluire della luce, il dispiegarsi del senso; è piuttosto una condizione “prima”, originaria e generatrice. Ombra è spazio, non logico ma ontologico, in cui il confine tra luce e tenebra prende consistenza; una linea bidimensionale diventa territorio. È materia prima, madre delle forme, resistenza senza cui la luce non sarebbe mondo, e dunque reversibilità della passività in attività o “forza passiva”.

Ma l’ombra di Bruno – e qui si consuma la differenza dalla tradizione neoplatonica – è madre che non ha per padre la luce: essa non è, propriamente, generata dalla luce, bensì dall’Orco; e dal padre assume il suo essere desiderio infinito, cioè desiderio che configura una infinita dispersione. Forse ora Bruno volge in senso non neoplatonico quanto aveva affermato nel De umbris:

L’ombra non è infatti tenebra: ma o traccia di tenebra nella luce, o traccia di luce nella tenebra, o composto di luce e tenebra. Ovvero né luce né tenebra, e da entrambe distinta (De umbris idearum, pp. 60-61).

La radice delle forme, ciò in cui le forme si incidono e si stagliano, è appunto questo desiderio: il desiderio provato da Atteone di essere tutto l’occhio a tutto l’orizzonte, di essere tutte le forme. Può essere interessante notare come la tensione eroica del furioso, sforzo insieme erotico, conoscitivo ed etico, si concluda con una immersione nell’ombra; cioè nel nostro orizzonte proprio, nel desiderio non dominabile che ci costituisce in radice.

 

*Una versione di questo saggio è stata oggetto di un intervento al convegno AISE 2001, i cui atti sono in corso di stampa presso l’editore Trauben di Torino.

Riferimenti bibliografici
  • Le edizioni da cui si citano i testi di Giordano Bruno sono: Giordano Bruno, De gli eroici furori, a cura di S. Bassi, Laterza, Roma-Bari, 1995; Giordano Bruno, Opere Magiche, edizione diretta da M. Ciliberto, a cura di S. Bassi, E. Scapparone, N. Tirinnanzi, Adelphi, Milano, 2000 (la cura di Lampas triginta statuarum è di N. Tirinnanzi).
  • Chakrabarti 1998
    Arindam Chakrabarti, Shadows: The Ontology of Contoured Darkness, “Journal of Indian Council of Philosophical Research” v. XVI n. 1, 1998, 19-41.
  • Ciliberto 1999
    Michele Ciliberto, Umbra profunda. Studi su Giordano Bruno, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1999.
  • Ciliberto 2000
    Michele Ciliberto, Giordano Bruno, Laterza, Roma-Bari 2000.
  • Coomaraswamy 1975
    A. K. Coomaraswamy, Châyâ, “Études Traditionelles”, n. 450, 1975, 145-151.
  • Diodato 1997
    R. Diodato, Vermeer, Góngora, Spinoza. L’estetica come scienza intuitiva, Bruno Mondadori, Milano 1997.
  • Diodato 2000
    R. Diodato, Petrarchismo e antipetrarchismo negli Eroici furori, in AAVV, Lettere e arti nel Rinascimento, a cura di L. Secchi Tarugi, Franco Cesati Editore, Firenze 2000.
  • Diodato 2002
    R. Diodato, Lo specchio e la voce. Nota su Bruno, in AAVV, Memoria e scrittura della filosofia. Studi offerti a Fulvio Papi in occasione del suo settantesimo compleanno, a cura di Silvana Borutti, Mimesis, Milano 2000, 233-241.
  • Mancini 2000
    S. Mancini, La sfera infinita. Identità e differenza nel pensiero di Giordano Bruno, Mimesis, Milano 2000.
  • Marchianò Zolla 1984
    G. Marchianò Zolla, L’immagine, l’ombra, il sogno: lo sviluppo della “seconda attenzione”, in AAVV, I linguaggi del sogno, Sansoni, Firenze 1984.
  • Noferi 1979
    A. Noferi, Il gioco delle tracce. Studi su Dante, Petrarca, Bruno, il neo-classicismo, Leopardi e l’informale, La Nuova Italia, Firenze, 1979
  • Paz 2000
    O. Paz, Apparenza nuda. l’opera di Marcel Duchamp, trad. di E. Carpi Schirone, Abscondita, Milano 2000.
Compendium

Octavius Paz in quodam scripto suo de nuda specie tractans in lucem profert coniuncturas inter duo opera a Marcel Duchamp confecta – alterum: Le grand Vitre, ou La Mariée mise à nu par ses Célibataires, même; alterum: Étant Donnés: 1°. La Chute d’eau, 2°. Le Gaz d’éclairag – cum duobus scriptis (alterum, Eroici furori; alterum De umbris idearum) a Giordano Bruno compositis. Ita aesthetica theoria et ipsa ontologia de Umbra patefiunt per vincula necessaria quae physicam-metaphysicam cognitionem de amore deque rebus obiectis cum humanae sapientiae umbratili opacitate, in philosophicum symbolismum conversa, coniungunt. Hic Giordano Bruno adfirmavit Solem/Apollinem manifestum esse per Lunam /Dianam – Luna enim fulgit in opacitate materiae; illic Marcel Duchamp animadvertit ad verum videndum necesse esse conivere (cum oculi sint in tenebris: sicut Diana, repente deprehensa in lavacro, extemplo ostenditur). Ipsam complexitatem varietatemque rei extensae proiectiones rerum in ideas idearumque in res componunt. Dum umbra facta est principium quod contineat metamorphosin in humana vita perpetuam, sed ipsa etiam, ut principium agentis, ad lucem formalem exprimitur (Duchamp) utque vis patiens a deo eligitur (Bruno) ad numen offerendum. In spatio liminari nos ingenui paene in umbra et inter rerum simulacra vivimus.

English abstract

Octavio Paz' analysis of the relationship between Marcel Duchamp's most important Le grand Vitre, ou La Mariée mise à nu par ses Célibataires, même; and the ready mades, Étant Donnés: 1°.La Chute d’eau, 2°. Le Gaz d’éclairage and the writings of Giordano Bruno (De umbris idearum and Heroic Frenzies), in what amounts to a study of the relationship between the physics and metaphysics of love and the object, and the philosophical symbolism of the umbratility of human knowledge, leads to the unfoldoing of an aesthetics and an ontology of shade.Whereas, according to Bruno, the Sun/Apollo is visible via the Moon/Diana, so that the moon shines through the opacity of matter, for Duchamp to see means closing one’s eyes (in darkness — Diana taken by surprise during her bath: ultrafast exposure).Projections of the object belong to everyday reality, and shade becomes on the one hand a principle that receives and enables the continual cycle of the metamorphoses to which man is subject, and on the other, in as much as it is given support by the active principle, is expressed in the light of form (Duchamp) and its passive energy is chosen by the godhead as the vehicle with which to to reveal itself (Bruno).

keywords | Giordano Bruno; Marcel Duchamp; Octavio Paz.

Per citare questo articolo / To cite this article: R. Diodato, L’ombra di Bruno (Giordano Bruno, Marcel Duchamp, Octavio Paz), “La Rivista di Engramma” n. 13, dicembre 2001/gennaio 2002, pp. 7-21 | PDF