"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

Le trame intrecciate di Mnemosyne

Aby Warburg e Carl Gustav Jung a confronto

English abstract

Daniela Sacco

Un'indagine sull'affinità tra il concetto di archetipi dell'inconscio collettivo coniato da Carl Gustav Jung e quello di Pathosformeln di Aby Warburg in relazione al contesto storico comune e a una stessa sensibilità nei confronti dell'immagine. Un esito è la restituzione di valore alla concezione rinascimentale della memoria che accomuna la teoria archetipale del principale erede di Jung, James Hillman, e l'uso che ne fa Aby Warburg nell'Atlante di Mnemosyne.

Mentre abbiamo notizia (Gombrich 1983) dello scarso apprezzamento che Aby Warburg ha sempre dimostrato per la teoria psicanalitica di Sigmund Freud, in particolare per l’importanza da lui attribuita alla sessualità, nulla si sa di una eventuale conoscenza del pensiero di Jung, il cui nome non appare mai nei suoi scritti. Può capitare invece di trovare sempre più spesso il nome di Jung citato accanto a quello di Warburg nei testi critici degli anni più recenti di studi warburghiani. L’accostamento tra i due autori avviene in virtù dell’immediata associazione tra il concetto di Pathosformeln, termine chiave del linguaggio warburghiano, e quello di archetipi dell'inconscio collettivo, che caratterizza la psicologia analitica di Jung.

Il contesto storico comune, lo Zeitgeist, è l’humus in cui Jung e Warburg radicano il loro pensiero. Warburg, nato ad Amburgo nel 1866, precede di nove anni Jung, che pur essendo di natali svizzeri è ereditariamente e soprattutto culturalmente tedesco. Alle spalle di entrambi muove un momento storico particolarmente ribollente di fermenti culturali, attraversato da correnti di pensiero spesso in antitesi tra loro e fautrici di trasformazioni epocali che il nuovo secolo vivrà pagandole il tragico prezzo delle due crisi mondiali. Sia Jung che Warburg sono riconducibili a filoni di ricerca che in questo periodo accomunano un gran numero di pensatori e scienziati: da una parte, il vivo interesse per il concetto di ereditarietà inaugurato dagli studi di Darwin, con le teorie meccanicistiche dell’evoluzione e della memoria razziale che ne seguirono; dall’altra, in contrasto con il determinismo positivista incalzante, le concezioni vitalistiche legate soprattutto alla Naturphilosophie. Quest’ultima corrente di pensiero, sostenuta tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento in ambito scientifico tedesco, si identifica soprattutto nella scienza idealistica della 'morfologia' elaborata da Goethe, e si rivolge principalmente alla ricerca della Urform o Urtyp, forma o tipo originario di ogni specie vivente, in una sintesi di studi empirico-naturalistici e umanistico-trascendentali. Altra tendenza vitalistica opposta all’evoluzionismo di stampo darwiniano, dominante alla fine dell’Ottocento soprattutto nella Germania dell’imperialismo, è il pensiero della Lebensphilosophie. Una sua probabile influenza può essere intravista sia in Jung che in Warburg, nella misura in cui i due furono affascinati dal pensiero di Nietzsche e al tempo stesso se ne difesero, protetti dalla loro sophrosyne.

Jung e Warburg, nell’originalità delle loro posizioni, contestualmente ai loro differenti ambiti di ricerca ma in comune accordo con l’oggetto ultimo dell’indagine, la memoria culturale, entrano ed escono da questi schieramenti, li attraversano tangenzialmente, sintetizzando creativamente, in virtù della loro personale esperienza e del loro genio, sia le concezioni vitalistiche della Naturphilosophie che quelle meccanicistiche della Naturwissenschaft. Per Warburg, filamenti della memoria culturale sono le Pathosformeln, per Jung gli archetipi dell'inconscio collettivo: per entrambi in una commistione di componenti deterministiche e finalistiche. Osservando la genesi delle idee che, sia per l’uno che per l’altro, si svolge in un medesimo percorso, dall’osservazione empirica di immagini alla memoria storica sovrapersonale, risulta fondamentale l’influenza di Jacob Burckhardt.

Il termine "immagine primordiale", che appare in Simboli della trasformazione (Jung 1912) come prima espressione del più tardo concetto di archetipo, è mutuata da Burckhardt che, in una lettera a un allievo, definisce il Faust un’autentica Urbild, servendosi a sua volta di un’espressione propria di Goethe. In Warburg, che riconosce in Burckhardt un maestro, il concetto di Pathosformeln consiste nell'ipotesi secondo cui dove appare qualche manifestazione di pathos, se ne può rintracciare una formula antica. Oltre Burckhardt, che in questo caso funge da filtro, è comunque possibile risalire direttamente a Goethe, tanto importante per Jung quanto per Warburg riguardo alle stesse tematiche; al punto che, per certi versi, si potrebbe pensare a Goethe come l’anello di congiunzione tra i due.

Per ciò che concerne Warburg, al concetto di ‘polarità’, che riconosceva espressamente come una sua creazione oltre che centro del pensiero morfologico di Goethe, si aggiungeva anche quello della dottrina delle forme o tipi originari, ossia quella stessa Urbild desunta da Jung. Quanto a Jung, nel 1955 poteva dichiarare di voler "confermare su base sperimentale le intuizioni di Goethe" (Jung 1995). Gli archetipi sembrano infatti riprodurre nella dimensione dell’immagine l’Urphänomen osservato da Goethe nelle scienze naturali. Il concetto della Pathosformel, concepita già dalle primissime opere, appare compiutamente definita da Warburg nello scritto del 1905 su Dürer quale "formula patetica", o meglio, come una carica emotiva che, recuperando la passionalità dell'antica dimensione mitica, trova espressione in una formula iconografica precisa e costante nel tempo, pur nelle diverse contestualizzazioni storiche che accompagnano il suo rappresentarsi artistico.

In entrambi i casi, gli elementi costitutivi di archetipi e Pathosformeln sono l’istinto e l’emozione da una parte, la forma e la riflessione dall’altra, congiunte come le facce di una medesima medaglia. In particolare, per Jung l’immagine primordiale è concepita come "intuizione che l’istinto ha di sé stesso o come autoraffigurazione dell’istinto". E ancora, come "il necessario opposto complementare dell’istinto" (Jung 1921). Per Warburg, nell’indissolubile intreccio di una carica emotiva e di una formula iconografica c’è un continuum, un passaggio ininterrotto tra l'emozione, la sua espressione, e l’atto della riflessione. Si esplicita così un duplice senso del concetto di forma: "alla caratterizzazione della forma sensibile come aspetto esteriore si affianca, compenetrandola, quella di forma ideale come struttura eidetica, come formula tipica che esprime immediatamente un contenuto psichico o patemico altrettanto tipico: Pathos-Formel" (Pinotti 2001).

L’espressione "formule del pathos", avendo la caratteristica di essere sempre indicativa di immagini e rivelativa della loro essenza emotiva, non distingue tra forma e contenuto. In questo modo, il significato del termine si avvicina a quello originario di archetipo dato da Jung, sgombrando il campo da tutte le disquisizioni tra fenomeno e noumeno, tra immagine archetipica e archetipo in sé, che hanno spesso diviso i suoi esegeti. Per Jung l’immagine primordiale, essendo un’organizzazione ereditata dell’energia psichica, ha il "vantaggio della vitalità"; per Warburg, l’evidenza del riconoscimento della Pathosformel scaturisce dal contrasto dato dal movimento della figura in questione rispetto all’immobilità della scena, in accordo con una delle sue prime constatazioni, secondo cui la forma classica di rappresentazione veniva adottata dall’artista del Quattrocento ogni qual volta bisognava "calare in un’immagine la vitalità" (Warburg 1893). Ma quella che all’inizio delle sue ricerche era per Warburg la semplice ipotesi dell'adozione da parte dell’artista di una formula iconografica del passato, diviene più tardi, e via via nel corso del suo pensiero, la convinzione che si tratti più precisamente della riemersione nella memoria personale di una traccia appartenente alla memoria sovrapersonale. La questione dell’ereditarietà mnestica rende peculiare l’indagine di Warburg rispetto a quelle degli altri interpreti del Rinascimento, e portando i confini della ricerca a un passato astorico che va ben oltre la Grecia, per radicarsi nella "materia stratificata acronologicamente", ha l’effetto di sbalzarlo al di là di un’indagine circoscritta alla sola epoca rinascimentale.

Non è un caso che sia Jung che Warburg si rifacciano allo stesso termine scientifico per trovare giustificazione teorica all’idea dell’ereditarietà delle tracce mnestiche: l’engramma, coniato dal neurologo Richard Semon, o la mneme. Nell’uso di Semon, per engramma si intende la modificazione durevole della sostanza organica risultante da uno stimolo; mentre i fenomeni legati alla presenza dell’engramma o di più engrammi sono definiti fenomeni mnemici. L’engramma, come precipitato mnestico, si mantiene in uno stato di latenza, pronto a riemergere come reazione al ripresentarsi dello stimolo. È evidente come il concetto fisiologico di Semon possa aver rappresentato sia per Jung – per cui mneme è la struttura psichica in quanto psiche collettiva (Jung 1921) – che per Warburg un punto di riferimento importante nella concezione di una memoria collettiva o sociale, caratterizzata dal ripresentarsi di forme tipiche nel corso della storia. Per entrambi, comunque, è fondamentale la possibilità che la reazione psichica, riemergente come effetto del ripetersi dello stimolo, e l’immagine che l’esprime, siano passibili di trasformazione e adattamento al contesto in cui avvengono, e non una meccanica e sempre identica conseguenza. Viene smussato quindi il causalismo deterministico di Semon e in genere della psicologia monistica di cui era esponente: un filone interno alla biologia evoluzionistica che sappiamo aver influenzato, attraverso Hering, gli studi di Warburg, e, attraverso Haeckel, di cui Semon era stato allievo, quelli di Jung, soprattutto in merito alla concezione per cui l’ontogenesi ricapitolerebbe la filogenesi.

È per questo che Jung, nel dare la definizione di immagine, a cui rinvia anche quella di archetipo, cita Semon e allo stesso tempo ne prende le distanze, non ammettendo che la psiche sia un "mero prodotto o un calco delle condizioni ambientali" (Jung 1921); al contrario, permette la trasformazione dell’istinto in forma spirituale. Lo scarto è fondamentale perché, se da un lato viene ribadita la grande originalità di Jung rispetto ai suoi predecessori – ovvero l’affermazione della psiche autonoma – dall’altro viene specificato ulteriormente in che senso si debba parlare di ereditarietà delle rappresentazioni. A essere ereditato è l’archetipo come elemento strutturale, come fattore ordinatore nell’inconscio; l’immagine, invece, che è da esso ‘ordinata’ torna a risorgere come variante soggettiva in ogni vita. È importante tener presente questa precisazione, quando, nell’accostare la teoria degli archetipi di Jung a quella delle Pathosformeln di Warburg, la questione viene risolta con l’affermazione che le immagini sono per Warburg realtà storiche, inserite in un processo di trasmissione della cultura, e non entità astoriche come sarebbero per Jung (Agamben 1975) – che viene così frainteso. Per Jung, infatti, è la variante soggettiva di ogni vita il contesto che foggia di volta in volta la peculiarità delle immagini.

La singolarità delle immagini relativa al loro specifico contesto si sintetizza con un "tratto universale umano": per Jung "non si tratta neppure di idee ereditate, ma di una disposizione funzionale a produrre idee uguali o affini", è questa disposizione che egli nomina archetipo. Il tratto universale umano, di contro a una eredità specifica di razza, è osservato a esempio – senza scendere nei dettagli del significato che lo psicologo intendeva trovare – nel riconoscimento del parallelismo tra la visione in sogno di un negro malato di mente e l'immagine di Issione sulla ruota. Come, allo stesso modo, Jung riconosce nell'allucinazione di un paziente che vedeva scendere dal sole un membro in erezione che oscillava e produceva vento, la visione descritta in un testo della liturgia mithriaca: un tubo che pendendo dal disco solare genera vento. E in più associa a queste immagini le rappresentazioni di pitture del Medioevo in cui si vede calare dal cielo un tubo, veicolo dello Spirito Santo, che si insinua sotto la veste di Maria per fecondarla.

Questo per comprendere come, nella genesi e sviluppo della teoria degli archetipi, per Jung è stato fondamentale l'uso comparativo delle immagini: la visione del paziente viene riconosciuta e analizzata alla luce delle immagini che la storia della cultura gli offriva. Ciò permette di riscontrare analogie e proporre interpretazioni.

L’acquisizione del termine ‘engramma’ da parte di Warburg avviene nelle ricerche dell’ultimo periodo della sua vita e gli permette non solo di trovare conferma e giustificazione scientifica, ma anche di approfondire e puntualizzare la concezione delle Pathosformeln. Le formule iconografiche utilizzate dagli artisti per rendere il pathos dell’antichità risultano essere per Warburg più precisamente "dinamogrammi": cristallizzazioni di antiche energie psichiche sopravvissute come eredità depositate nella memoria, e quindi, in questa nuova accezione, oltre che forze energetiche, anche ‘dinamo’, cioè convertitori di energia. La loro riemersione è un’esposizione alle “forze del profondo" in cui la mente dell'artista può soccombere o uscirne rivitalizzata. È interessante notare l’analogia con Jung e la concezione inflazionistica della psicopatologia: l’incapacità cioè di contenere la potenza straripante dell’inconscio e l’annientamento in essa. Non è un caso che Warburg abbia percepito il pericolo dei monstra della memoria in tutta la loro portata, a seguito della sua personale vicenda psicopatologica, e abbia reso perfettamente il senso di ciò nel saggio del 1927 su Burckhardt e Nietzsche (Warburg 1927) – quest’ultimo considerato peraltro da Jung un caso esemplare di inflazione dell’Io. Anche per Warburg il meccanismo della riemersione degli engrammi non è riduttivamente causalistico e meccanico, perché essi possono essere reinterpretati, riadattati e trasformati in relazione a contesti differenti. In più, è nella possibilità della loro reinterpretazione che sta la capacità di controllo sul potere irrazionale che scatenano. Può quindi realizzarsi una ‘inversione dinamica’ tale per cui la stessa energia conservata nella struttura dell’engramma trova espressione in raffigurazioni differenti, anche antitetiche. Come per Jung, si tratta di una spiritualizzazione successiva al riemergere di un impulso vitale.

Determinante per la gestione e la trasformazione dell’energia è, per entrambi, la funzione del simbolo, che nella storia della cultura, come osserva Gombrich, risulta essere il corrispondente dell’engramma di Semon. Per Jung e per Warburg, infatti, il germe della cultura va rintracciato in quell’intervallo sempre fuggevole tra l’impulso e l’azione, ossia in quel momento in cui la riflessione – la reflexio – come ripiegamento rispetto all’impulso istintivo e sua psichizzazione, si genera nella forma originaria dell’immagine. Per Jung, il simbolo è una "macchina psicologica che trasforma l’energia" (Jung 1928) e la converte dando vita a rappresentazioni; Warburg parlava a sua volta del passaggio dal "complesso del mostro al simbolo ordinatore". Ed è suggestivo che qualifichi i mostri dell’emozione col termine "complesso", al quale Jung era ricorso per descrivere la riscoperta della psiche autonoma; i complessi come dèmoni che si impossessano dell’individuo scalzandone la volontà e l’autocontrollo. Se per Warburg i simboli, come trasformatori oltre che conservatori d’energia, convertono le emozioni più profonde dell’anima nelle forme durature dell’arte, si comprende ancora di più il valore delle immagini e del loro localizzarsi a metà strada tra emozione e forma logico-razionale. L’immagine è quindi, per la sua aderenza a un impulso vitale, anzitutto simbolo, e soltanto dopo, nella sua cristallizzazione, diventa segno.

La concezione simbolica di Warburg, profondamente influenzata da quella di Vischer, e quella di Jung, risultano corrispondere proprio sotto questo aspetto: la peculiarità del simbolo è la sua vitalità e ciò che gli impedisce di essere allegoria, o meglio perfetta e indissociabile identità logica di oggetto e significato. Il simbolo, essendo "plurivoco", è inesauribile nella densità di senso e non può essere interpretato esaustivamente come segno o allegoria. Nel suo manifestarsi è un’esperienza nell’immagine e dell’immagine, uno sviluppo ‘enantiodromico’ di un nucleo sotterraneo di per sé indescrivibile che è l’archè.

Il simbolo in quanto metafora conduce all’ignoto, all’enigma, e presuppone un legame col significato che è oscuro o, come lo definisce Warburg, "magico-concatenante". È il caso per Jung del simbolismo utilizzato nell’azione magica di alcuni rituali, quello a esempio dei Wacandi, o per Warburg quello della danza dei serpenti: in entrambi i casi si tratta di una formazione simbolica, che richiede come principale riferimento esemplare un atto religioso, e non è un simbolo considerato esclusivamente nel suo portato semiotico, come mero segno. Della vitalità del simbolo Warburg trova conferma in occasione del viaggio negli Stati Uniti, compiuto tra il 1895 e il 1896, quello che Saxl definisce "viaggio agli archetipi", che lo porterà alla conoscenza delle danze rituali dei Pueblos del Nuovo Messico. Accanto a questa conferma e alla comprensione del significato difensivo del rituale nei confronti di una realtà esterna avvertita come soverchiante, si prefigura la concezione della permanenza del simbolo, e dell’istinto a esso sotteso, come radice biologica delle manifestazioni culturali. È infatti nella rappresentazione del fulmine come serpente da parte di un bambino indiano americanizzato che Warburg rintraccia le prove dell’esistenza di una memoria collettiva.

È curioso notare come lo stesso Jung, trent’anni dopo, nel 1925, evidentemente in consonanza a una moda del tempo diffusa con la fiducia nel metodo d’indagine comparativo, abbia compiuto a sua volta un viaggio negli Stati Uniti per visitare i Pueblos del Nuovo Messico. Il viaggio, come un altro compiuto in Kenya, è ricordato da Jung come l’occasione per lo studio approfondito dell’inconscio dei popoli primitivi e la conferma dell’innatismo, ovvero la scoperta che nell’uomo primitivo le idee religiose sono innate (Jung 1995). Come si è visto, il concetto di permanenza del simbolo sarà fondamentale per lo sviluppo successivo delle teorie di Warburg e darà alimento al senso della teoria della rinascita, o meglio di quella che definisce Nachleben, l’eredità pagana nelle forme artistiche della civiltà europea. Accanto all’idea di permanenza si accompagna quella, già introdotta sopra, di trasformazione. Ne sono un esempio i travestimenti dei soggetti rappresentati nella fascia mediana degli affreschi del Salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia a Ferrara: dietro le barbare vesti degli antichi demoni-decani indiani della tradizione astrologica orientale, Warburg riconosce i volti delle divinità olimpiche.

Strettamente legato al concetto di polarità del simbolo, sensibile di volta in volta al contesto culturale in cui si inserisce, il rapporto tra permanenza e trasformazione è profondamente dialettico. Il simbolo, concepito nella sua polarità, è un catalizzatore di una infinità di sensi che di volta in volta si determinano fra i poli opposti di un dualismo ambivalente, come l’oscillare enantiodromico tra due poli opposti del processo simbolico descritto da Jung. La polarizzazione infatti è fondamentale anche per la psicologia analitica: l’archetipo come modello esplicativo per la storia delle immagini simboliche, nella sintesi di differenza e ripetizione, riproduce il nesso di permanenza e trasformazione (Pezzella 1989).

È la stessa nozione di polarità e ambivalenza dell’immagine che permette a Warburg di far coesistere problematicamente nella stessa teoria le componenti contraddittorie di permanenza e trasformazione. L’engramma si fa veicolo di una forza dinamica la cui carica è costante, mentre il suo senso può ‘invertirsi’; ed è in virtù di questo valore della polarità che Warburg, come ha giustamente notato Gombrich, considerò sempre le immagini come detentrici di un significato intrinseco e di una carica emozionale determinata capace di mantenerle comunque autonome rispetto al contesto. È ammessa cioè da Warburg una struttura eidetica ed emozionale a priori rispetto alle determinate concretizzazioni storiche, come esiste per Jung una disposizione innata a produrre immagini parallele, coerentemente all’esistenza di strutture psichiche universali e identiche – le archai – che corrispondono al concetto biologico di pattern of behaviour.

È interessante notare questa corrispondenza parallela ai modelli di comportamento, se si considera che l’indagine di Warburg è rivolta con maggiore attenzione, anche rispetto a Jung, alla componente corporea e gestuale della manifestazione delle Pathosformeln, avendone un massimo riscontro nelle espressioni dell’arte. La contraddizione data dalla compresenza di componenti antitetiche all’interno di uno stesso fenomeno è presa in considerazione da Jung nello specifico dell’analisi di eventi psichici. Qui l’elemento antinomico e contraddittorio è compreso come peculiarità del fenomeno psicologico. Per Jung gli eventi psichici possono essere considerati sia dal punto di vista meccanicistico, che è puramente causale, che dal punto di vista energetico, che è essenzialmente finalistico. Essendo entrambi i punti di vista indispensabili per comprendere l’evento psichico, è ammessa "una terza concezione che è tanto meccanicistica quanto energetica" (Jung 1928). Logicamente parlando, questa terza concezione non sarebbe ammissibile, ma, come Jung insegna, la realtà della psiche non sottostà alla regola del tertium non datur.

Questo punto è fondamentale per comprendere in che termini i due psicologi della cultura si siano inseriti all’interno delle concezioni evoluzionistiche che hanno caratterizzato la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento. Jung, nello spiegare il senso del riemergere di un’immagine mnestica, giunge alla conclusione che:

"la teoria evoluzionista non può reggere senza il punto di vista finalistico [...]. Il fatto evidente della differenziazione e dell’evoluzione non può mai essere chiarito in maniera esauriente con la causalità, perché esige l’adozione del punto di vista finalistico, che l’uomo ha prodotto nel corso della sua evoluzione psichica così come ha prodotto quello causale" (Jung 1928).

D’accordo con l’evoluzionismo dell’epoca, pregno di nessi causalistici, Warburg ammette nella successione progressiva dell’evoluzione la presenza di componenti permanenti che si ripetono nel tempo con una certa continuità; tali componenti rappresentano l’elemento "energetico" orientato finalisticamente che, nella regione dello psichico, è riconosciuto da Jung accanto a quello meccanicistico. Il concetto di permanenza introduce nell’evoluzionismo, concepito fino allora come un progresso continuo e lineare, il concetto di storia intesa come movimento ciclico, per cui elementi vitalistici si sintetizzano con quelli evolutivo-deterministici.

In Jung si dissolve, nella terza dimensione dello psichico, quello che in Warburg è interpretato come un dualismo irresolvibile: "l’oscillazione tra un paradigma evolutivo-progressivo e un paradigma acronologico-tipologico" (Pinotti 2001) per la comprensione dei fenomeni artistici; una oscillazione che si acquieta solo con la sospensione della domanda sul ‘perché’, a favore di un metodo descrittivo e attento piuttosto al ‘come’. In tutto l’arco del pensiero junghiano è rinvenibile comunque una permanenza di posizioni dualiste, in cui la teoria della polarità psichica tende a irretirsi nella problematica degli opposti. L’assunzione dello psichico nella sua realtà ontologica di terza dimensione è stata invece assunta radicalmente soltanto dopo di lui da James Hillman. È infatti negli scritti del principale erede di Jung che appaiono riferimenti significativi alle idee di Warburg e si esplicita e approfondisce così la segreta simmetria che abbiamo cercato di evidenziare.

Hillman, a una distanza epocale da Jung, si pone in una diversa angolatura teorica. Con la piena acquisizione della realtà psichica come terza dimensione, l’"anima", intesa in un modo affine al neoplatonismo rinascimentale, sfonda gli ultimi residui di dualismo e si apre al molteplice, al politeismo dell’anima pagana. È anche in virtù di questo scarto che è lecito accostare il pensiero di Hillman a quello di Warburg, oltre che per la sua conoscenza del pensiero warburghiano. Accanto al valore metastorico del paganesimo, che forse solo due eretici ebrei come loro potevano comprendere, c’è una corrispondenza tra il senso e il valore che Hillman tributa al concetto rinascimentale di memoria, e l’opera ultima e "non finibile" (Mazzucco 2001) di Warburg, l’Atlante di Mnemosyne. È in quest’opera che si percepisce infatti tutta l’attualità di Warburg, probabilmente distante da quel "dualismo irresolvibile" che gli viene talora diagnosticato, e si coglie l’affinità che lo avvicina, pur nella distanza storica, al più contemporaneo dei teorici della psiche.

L’originalità dell’Atlante sta nel fatto che, contrariamente alla produzione precedente, non si tratta di uno scritto di saggistica, ma di una vasta raccolta, un atlante appunto, di pannelli di tela nera in cui vengono appuntate in ordine sparso delle immagini. L’apporto puramente teoretico consta di un’introduzione all’opera, scritta da Warburg, di appunti dei diari che hanno accompagnato la preparazione del progetto, e di note e smilzi commenti documentari relativi a ciascuna tavola. L’elaborazione del tutto comincia dal ‘24, al ritorno di Warburg dalla clinica di Kreuzlingen diretta da Ludwig Binswanger e termina, senza vedere pubblicazione ma solo una presentazione parziale a Roma presso la Biblioteca Hertziana, nel ’29, con la sua morte.

Nelle esplicite intenzioni di Warburg c’è inizialmente la volontà di raccogliere la summa delle proprie ricerche, focalizzate su due principali nuclei tematici, l’astrologia e le Pathosformeln, ponendo una specifica attenzione sui temi, i soggetti, le idee da presentare. È chiaro, comunque, come, al di là delle intenzioni esplicitate, ci sia una fortissima sproporzione tra il detto e il non detto, e come Warburg riesca qui a far parlare l’eloquente mutismo delle immagini più che in ogni altra sua opera. Dall’osservazione della struttura dell’Atlante si comprende come il "paradigma acronologico-tipologico" dell’indagine di Warburg trovi uno spazio decisivo in cui manifestarsi, e la polarità del simbolo, più che biforcarsi in due nuclei antitetici, si frammenti in un molteplice polisemico. L’organizzazione delle tavole e delle immagini che ciascuna tavola raccoglie è tale da presupporre nessi sincronici e non gerarchici di associazione tra i singoli pezzi e il tutto; i legami di associazione tra figure e tavole seguono rapporti non di successione ma di contiguità, seguendo una logica tipologica rispetto al modello. I rapporti che si creano nelle associazioni di immagini sono tali da creare quadri di riferimento differenti, equilibri di volta in volta mutevoli. Questo meccanismo è ulteriormente alimentato dalla possibilità di spostare le immagini, appuntate alle tavole con puntine da disegno, e dalla possibilità di creare intercambiabili nessi associativi anche tra le tavole.

La lettura dell’opera si risolve in questo modo in una ragnatela di percorsi, che individuano fili conduttori variamente allacciati e sempre reversibili allo sguardo dell’osservatore. L’effetto degli schemi visivi che ne derivano non è quindi la riproduzione grafica e sistematica delle ricerche teoriche di Warburg: esse risultano, sotto questo rispetto, presenti nell’Atlante come fecondi presupposti, da cui riverberano con potenza evocativa echi inesauribili di senso. Non è un caso che la scelta del nome da attribuire all’atlante illustrato si sia fermata su Mnemosyne, madre delle nove Muse, di contro ad altri possibili termini riferiti ad una più soggettivistica rappresentazione e determinazione dell’uomo. E non è un caso che Mnemosyne sia al contempo il termine fatto iscrivere all’entrata della Biblioteca Warburg ad Amburgo, a indicare il nume tutelare che protegge e feconda gli studi. È infatti la Biblioteca che, come organizzazione del sapere, anticipa la creazione dell’Atlante, e sembra prefigurarlo a sua immagine e somiglianza (Mazzucco 2001). Una disposizione spaziale tipologica, e non cronologica o alfabetica, regola infatti la distribuzione dei libri al suo interno; la regola è, più precisamente, quella del ‘buon vicinato’, o meglio, l’accostamento dei testi come tessere di un mosaico, secondo connessioni significative tra i diversi ambiti tematici. La biblioteca riproduce così l’immagine dell’enciclopedia, i libri sono disposti senza ricorso al caso negli scaffali con la volontà di riempire veri e propri ‘luoghi’ del sapere, "secondo la più aristotelica delle definizioni" (Calabrese 1984). Per entrambi i casi, l’Atlante e la Biblioteca, il senso di Mnemosyne è da ricondurre a un preciso referente storico: il significato che la memoria ha avuto, in special modo nella cultura rinascimentale.

Il valore dato nel Rinascimento alla memoria è stato colto da Hillman, e con la volontà di recuperarlo sottraendo la memoria alle mentite spoglie dell’inconscio, in cui era stata rinchiusa dal suo rinascere nell’ultimo decennio dell’Ottocento, agli albori della psicoanalisi. La prima seria riemersione della memoria nel senso rinascimentale del termine si è resa possibile infatti, secondo Hillman, con la teoria degli archetipi dell'inconscio collettivo di Jung, che ha distinto gli stati inconsci in senso stretto dall’inconscio nel senso più antico di memoria. Una memoria a cui può essere restituito l’antico carattere immaginale, a patto di sbarazzarsi del concetto limite negativo di inconscio. Cosa che Hillman fa, lasciandosi alle spalle Jung e il dilemma dualistico dei due opposti, delle due forme del pensare, il linguaggio logico razionale e il linguaggio fantastico. Il dilemma è sciolto nel senso che le due forme del pensare debbono scambiarsi i ruoli: per Hillman è tempo che la seconda forma del pensare osservi la prima e non viceversa, è tempo di tradurre il linguaggio della ragione nelle metafore dell’immaginale. Mentre i fenomeni di riemersione dell’immaginale dall’inconscio negativo della psicopatologia devono essere percepiti "come sentieri contorti che portano alla memoria, come vie che riconducono in zone perdute dell’anima, dell’immaginazione e della sua storia" (Hillman 1979). È all’antica tradizione dell’ "arte della memoria" che Hillman si ricollega, per recuperare il senso rinascimentale della parola mnemosyne e per riconoscere in essa una modalità per l’organizzazione dell’immaginario collettivo secondo le dominanti archetipiche. E non è un caso che Hillman trovi le letture più indicative a questo riguardo nelle pubblicazioni realizzate grazie alla documentazione del Warburg Institute (Yates 1972).

Se Jung, come punto di riferimento per le osservazioni sul Rinascimento, aveva Burckhardt, e ha concepito quest’epoca come un tipico esempio di enantiodromia, di rovesciamento nell’opposto, nella "passione materialista" (Jung 1951), delle altezze della spiritualità medievale-cristiana, di contro, Hillman ha come principale referente Warburg e gli studi frutto dalle sue ricerche, e pensa il Rinascimento, per il valore tributato all’anima e all’immaginale, come un ideale psicologico cui ricondursi. L’arte della memoria, dipanandosi, più o meno sotterraneamente, nel corso di secoli – nel caso dell’indagine della Yates, dal presocratico Simonide al moderno Leibniz – come insieme di tecniche atte a sviluppare la memoria, rivela l’intrinseco legame tra anima, memoria, immaginazione e retorica. Al di là delle finalità retoriche meramente tecniche a cui poteva aspirare chi si affidava a questo ‘esercizio’, il senso più profondo va ricercato nel valore pedagogico che ha avuto per la cura e l’attenzione rivolta alle immagini. I contenuti della memoria erano collocati in una struttura immaginale concepita spazialmente come insieme di ‘luoghi’, in modo tale che la catalogazione potesse avvenire in virtù dell’appartenenza di più idee, eventi, oggetti a un unico significato, più spesso identificato con divinità, personaggi mitici e in alcuni casi con costellazioni zodiacali. Questi luoghi, queste stanze della memoria, sono riconosciuti da Hillman nella funzione di universali, come "configurazioni archetipiche" entro le quali ogni contenuto trovava la sua "intrinseca intelligibilità" (Hillman 1979).

Una catalogazione significante che, come la Biblioteca e l’Atlante di Warburg, non ha nulla a che vedere con le attuali catalogazioni nominali, aderenti a principi cronologici o alfabetici e quindi semplici sistemi d’etichettatura scissi dal contenuto che intendono raccogliere. Una delle manifestazioni più suggestive dell’uso di quest’arte nel Rinascimento, anche per la concretezza spaziale della sua struttura, è stato il teatro della memoria di Giulio Camillo: una vera e propria costruzione architettonica in legno, raffigurante un teatro neoclassico, sufficientemente grande per permettere l’entrata di due persone alla volta, e intagliato di immagini e cassette in funzione di luoghi su cui apporre le relative figure e ornamenti. La collocazione dell’immaginale nei teatri avveniva con estrema precisione visiva e secondo quelle che la Yates definisce "ragioni psicologiche per la scelta delle immagini mnemoniche". A essere scelte, per la forte impressione che potevano incutere, e quindi per la garanzia dell’esercizio mnemonico, erano soprattutto immagini emotivamente efficaci, eccezionali non solo per la bellezza insolita ma anche per la bruttezza, l’oscenità, l’assurdità delle loro combinazioni.

Si trattava di vere e proprie imagines agentes, fantasie attive e drammatiche, che riconducono alla tecnica dell’immaginazione attiva elaborata da Jung; con la differenza che nelle tecniche dell’arte della memoria manca quell’attenzione vigile che per Jung l’Io deve mantenere nel condurre il flusso di fantasie, per evitare di esserne travolto. Nelle pratiche mnemotecniche c’era comunque un’attenzione per la precisa collocazione e l’ordine spaziale che le immagini dovevano avere nel teatro mentale, ma quest’ordine era inerente le immagini stesse e quindi non riguardava l’attenzione di un principio ordinatore presupposto al di fuori. La necessità per l’uomo moderno di porre un controllo vigile all’attività fantastica rivela tutta la disabitudine a prendersi cura delle immagini, che diventano di conseguenza pericolose per una civiltà riformata in modo iconoclastico, che le ha espunte dalla memoria e ha, con questo, abraso la memoria stessa. Il giudizio di pericolosità riferito alle immagini le confina nella patologia, ma Hillman riconosce nelle "fantasie patologizzate" i "sommovitori dell’anima". Le imagines agentes, pregne di potere metaforico contro ogni costrizione concettuale, avevano la funzione di stimolare l’apprendimento e il ricordo agendo al servizio della psiche, abbracciandone e ampliandone il respiro. In questo modo, per Hillman, l’arte della memoria è stata un’attività morale dell’anima.

Il nesso tra anima e memoria sembra emergere nel pensiero di Warburg fin dalla fucina dove prenderà il via la teoria delle Pathosformeln, da quel carteggio febbricitante con l’amico André Jolles, che era nato nel tentativo di spiegare la presenza di una ninfa classica nell’austera composizione de La nascita di San Giovanni Battista del Ghirlandaio. Nelle vesti della ninfa classica che cattura lo sguardo dei due amici è riconoscibile l’anima pagana e politeistica.

La ninfa rapisce l’attenzione proprio per il principio dinamico che la muove e così innesca la necessità di rappresentare in forma narrativa quello stesso processo interiore che dall’emozione conduce alla valutazione critica. Ne esce un disquisire tra innamorati sulla medesima immagine evocativa, e quindi la rivelazione del potere metaforico che l’emozione contenuta nell’immagine scatena. Ai due che si interrogano sulla sua manifestazione, la ninfa appare come "colei che portava vita e movimento in una scena per il resto immobile", "pareva il movimento fatto persona". La personificazione dell’anima nella ninfa passa attraverso l’immagine della "farfalla" che "vola", "volteggia", rendendosi sfuggente e inafferrabile, trasportando "nel cielo blu", tra le "Idee". È un’immagine che contiene in nuce "il percorso dalla percezione individuale (estetica) alla memoria storica sovrapersonale" (Settis 1981), il movimento dell’anima alla scoperta dello sfondo archetipico a cui appartiene, quel ritorno alle Idee significato dall’epistrophe neoplatonica.

L’intimo legame che congiunge l’anima alla memoria passa dunque per la dimensione dell’immaginale e il linguaggio delle immagini, quello stesso che parlano le figlie di Mnemosyne, le Muse: il linguaggio delle arti. Se "le arti e la psiche ai loro livelli primari parlano innanzitutto il linguaggio della memoria" (Hillman 1979), non stupisce che Warburg abbia preferito comunicare il senso di Mnemosyne anzitutto con l’uso delle sole immagini. Un utilizzo dell’immaginale che sarebbe più opportuno ridefinire, con Hillman, doulia, ossia un atteggiamento di servizio che presuppone la percezione dell’immagine come autonoma, avente valore di per sé, bastante a se stessa, di conto alla latria, che alimentando l’idolatria, presuppone un significato trascendente e superiore all’immagine. Warburg ha recuperato per queste vie una forma di comunicazione che si era persa con la dimenticanza dell’anima, e ha potuto farlo perché si è rivolto a un modello sapienziale rinascimentale in cui, per l’influenza della filosofia neoplatonica, l’anima e non l’uomo ha un ruolo centrale. Il Rinascimento ha riconosciuto il diritto dell’immaginazione a un proprio spazio, e per questo Hillman lo considera un ideale psicologico a cui ricondursi:

"Se vogliamo restituire l’immaginazione al suo pieno significato, abbiamo bisogno di una specie di enorme stanza che funzioni da suo ‘realistico’ contenitore" (Hillman 1992).

Recuperare tale comunicazione significa ritrovare non solo una forma di linguaggio perduto, ma un intero mondo, un orizzonte cosmologico: quella zona intermedia tra corpo e spirito in cui dimora l’anima, che per il tramite dell’immaginale congiunge l’umano al divino; un cosmo che torna a essere pensato nelle sue micro-macrocosmiche interconnessioni. Preclusa loro la terza dimensione dello psichico, le immagini si riducono a mera fisicità confondendosi nella fattualità delle cose, come oggetti tra gli oggetti, o si risolvono in pura trascendenza negandosi quindi nell’invisibilità. La negazione del loro proprio statuto cosmologico risulta prerogativa non solo dell’iconoclastia, che da sempre ne ha misconosciuto il valore autonomo, ma anche dell’imperante attuale iconofilia che, nell’inganno della venerazione per l’immagine, come doppio dell’iconoclastia replica la sua stessa violenza.

Se il sistema imperante è monoteistico e la psiche policentrica non ha contenitori per ciascuno dei suoi frammenti, Hillman indica il percorso della cura dell'anima, che muove verso la restituzione dell’immaginale alla sua effettiva dimensione ontologica. In essa l’immagine ritrova il proprio statuto di daimon: le immagini tornano cioè a essere "daimoniche", mediatrici, e non più "demoniache" (Hillman 1999). Allo stesso modo, si dovrà intravedere una cosmologia dell’anima nell’Atlante di Warburg.

Lungo questa esposizione, i sentieri di Mnemosyne si sono incrociati seguendo le due forme del pensare: il primo, percorso da Warburg in sintonia con Jung sulle tracce della radice fisiologica della mneme; il secondo, percorso con Hillman nel dar voce al linguaggio delle Muse. In entrambi i casi, Warburg è il testimone di un’intelligenza che restituisce in suprema sintesi il significato espressivo del nostro codice culturale.

L'articolo è apparso in forma parzialmente modificata nel volume Un remoto presente, della rivista "Anima", a cura di Francesco Donfrancesco, Moretti &Vitali, Firenze, aprile 2002.

Riferimenti bibliografici:
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    A. Warburg, Dürer e l'antichità italiana (1905), in La rinascita del paganesimo antico [1932], Firenze 1966.
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    F. A. Yates, L'arte della memoria [1961], Torino 1972.
English abstract

This essay aims to compare the philosophies of Carl Gustav Jung and Aby Warburg with regard to their theories on archetypes of the collective unconscious and the idea of formulas of pathos. One result is the revival given to the importance of the notion, prevalent during the Renaissance, that memory is part of connective tissue of the Western Tradition. In the context of their common historic background, Warburg and Jung carry out their re-evaluation of images, and they synthesise philosophical positions that are at the same time mechanistic and vitalistic. The image finds statement in symbol and the concept of engram, and represents for both scholars the simultaneous presence of polar extremes: instinct, emotion and form, reflection. In other words, they conclude that an image is the simultaneous presence in time of extremes of permanence and transformation. James Hillman, heir to the philosophy of Jung, also agrees that the archetypes of Jungian theory, like memory in the artistic traditions of antiquity, are the leading and guiding principles for the organisation of the collective imagination. This organisation is what is reflected in the intention and structure of Aby Warburg’s Mnemosyne.

keywords| Aby Warburg; Carl Gustav Jung; Pathosformeln; Archetype; Mnemosyne

 

Per citare questo articolo/ To cite this article: D. Sacco, Le trame intrecciate di Mnemosyne. Aby Warburg e Carl Gustav Jung a confronto, ”La Rivista di Engramma” n. 16, maggio/giugno 2002, pp. 7-26 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2002.16.0002