"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

“Tramandare-tradire”: storiografia e senso dell’antico nel Fellini Satyricon

(regia di Federico Fellini, Italia-Francia 1969)

Ester Brunet

English abstract


 

Il Fellini Satyricon è forse il film per il quale Fellini ha speso più parole di commento. In questa sua “logomania” (Betti 1970, p. 23) il regista parla diffusamente delle sue fonti; o meglio, della sua mancanza di fonti nel senso classico del termine:

Quando il cinema ricorre a un testo letterario, il risultato, nel migliore dei casi, sarà sempre e soltanto una trasposizione di tipo illustrativo […]. La fedeltà storica, quindi la documentazione libresca, l’aneddoto compiutamente erudito, l’organicità narrativa, non servono in un racconto che ha l’ambizione di far rivivere personaggi a noi così lontani (Fellini [1980] 2000, pp. 100, 104).

Si avvia così un’operazione solo apparentemente paradossale per cui, per meglio raccontare, occorre ignorare, in modo che i personaggi e le situazioni non si imparino, ma vengano catturati, come colti di sorpresa. Fellini e i suoi collaboratori considerano l’antichità come dimensione sconosciuta; ne viene che l’unico modo leale per parlarne non è un approccio “storico”, di sua natura falsato e falsificante, ma “onirico”, così da “precipitare smemoratamente nel tempo” (Betti 1970, p. 38).

Si è pertanto paragonata l’operazione felliniana a quella di Antonin Artaud per l’Eliogabalo o l’anarchico incoronato, “per aiutare i lettori a disimparare un po’ la storia”; si è parlato di un film di fantascienza: gli antichi romani come marziani (Kezich 1987, pp. 279-280; Zanelli 1969, p. 13). Gli approcci analitici al film partono tutti da queste stesse considerazioni di fondo; considerazioni peraltro suggellate dall’oggettiva distanza che l’adattamento mantiene dal romanzo petroniano. Oreste Del Buono, in un suo intervento nel volume curato da Liliana Betti sui disegni di Fellini per il Satyricon, ha individuato il senso ultimo dell’operazione ermeneutica felliniana nello scollamento tra il film e la Storia, e ancor più tra il film e la sua fonte primaria:

La prima seduzione cui resistere è, comunque, quella di credere che l’ultimo film di Fellini sia un pur libero adattamento del Satyricon di Petronio. Infatti, il suo pur libero adattamento dal Satyricon Fellini lo ha già girato 10 anni fa sotto il titolo La dolce vita […]. Sotto il titolo Fellini Satyricon si nasconde […] un pur libero adattamento da Il viaggio di G. Mastorna [il film previsto e mai realizzato subito prima del Fellini Satyricon], un viaggio con la morte non come temuto punto di arrivo, ma come scontato punto di partenza, un viaggio agli inferi.

l’invenzione artistica felliniana pare primariamente derivare da una tensione dialettica cosciente tra testo e adattamento. La considerazione generale del filologo tedesco Alex Sutterlin sull’impossibilità da parte della critica cinematografica e letteraria di giungere a un principio metodologico riguardo a quello che egli definisce der Literaraturverfilmung (il “film letterario”) – per il fatto che “una struttura scientificamente canonizzata non può avere validità generale nei confronti del film concreto” – vale doppiamente per il Fellini Satyricon, dove il testo ispiratore è tradito non solo incidentalmente, ma coscientemente. Non a caso è sicuramente l’addizione il principio diegetico preponderante dell’adattamento felliniano. L’addizione non è solo conseguenza inevitabile della natura audiovisiva del mezzo filmico, ma vera e propria invenzione di elementi assenti nel testo originale; questo avviene tanto per l’aggiunta di nuovi personaggi (che sono il comico Vernacchio, la coppia di Suicidi, l’Imperatore assassinato, l’Ermafrodito, la Ninfomane) e per gli episodi che li coinvolgono, quanto per quella di nuove locations, che finiscono per trascendere il semplice ruolo di ambientazione e diventano protagoniste esse stesse: l’Insula Felicles innanzitutto, ma anche il quartiere della Suburra e il Giardino delle Delizie. Avviene nel Fellini Satyricon il contrario di quello che solitamente è l’adattamento, che di norma si sovrappone terminologicamente al concetto di riduzione cinematografica.

Di qui, nasce quasi naturale l’idea che gli episodi inseriti da Fellini siano pure “aggiunte […] di fantasia dello stesso Fellini e di Bernardino Zapponi” (Zanelli 1969, p. 22), e che le tematiche e le ambientazioni si interpretino correttamente solo nell’ottica del percorso artistico felliniano – il regista si trova in una fase creativa di sperimentazione “surrealista”.

Eppure, una considerazione dello stesso Fellini apre una breccia per una ricerca in altro senso; negli Appunti di regia riportati in Fare un film il regista dice a proposito della sceneggiatura: “Come tentare di ricostruire un’anfora antichissima con i cocci ritrovati secoli dopo”.La ricostruzione è possibile soltanto se c’è il coccio, il frammento. Il coccio non si inventa, è reale; il “ricostruttore” è attivo nel dare senso al frammento, adattando organicamente i pezzi in un insieme. Che poi l’anfora ricostruita sia per sua natura diversa dall’originale, questo è ciò che avviene in un’operazione di tipo “onirico” come il Fellini Satyricon – ma prima della valutazione dell’insieme, è pur sempre possibile quella dei cocci.

Fellini e Carcopino

Dario Zanelli, durante una visita a Fellini nel suo studio poco prima dell’inizio delle riprese, dà un elenco piuttosto preciso dei trattati storici e artistici dei quali la scrivania del regista è cosparsa:

Vedo opere celebri o no, studi ponderosi e volumetti di allegra, diciamo così, divulgazione: La vita quotidiana a Roma di Jerome Carcopino e I detectives dell’archeologia di C.W. Ceram; The decline of Rome di Joseph Vogt e i venti volumi de Les peuples de l’antiquité di René Ménard e Claude Sauvageot; La questione petroniana di Enzo V. Marmorale e volumetti come Storia dell’amore liberoErotismo sui sette colli e simili; Roma Amor, un volume riccamente illustrato sulla pittura erotica romana, e altri libri d’arte […].

Di tutti questi trattati e trattatelli, alcuni Fellini e il co-sceneggiatore Zapponi sembrano averli sfogliati soltanto; sfoglio che tuttavia si fa lettura attenta almeno per uno dei volumi citati: La vita quotidiana a Roma di Jerome Carcopino, che un confronto con la sceneggiatura originale rivela fonte di ispirazione importantissima, quasi alla pari del romanzo petroniano; fonte contenutistica e anche, come si vedrà, fonte di senso. Il saggio si presenta come uno studio delle forme elementari della vita quotidiana della Roma neroniana – tipologia che avrà molto successo in ambito storiografico, e che affonda le sue radici in una tradizione divulgativa già di fine Ottocento. La natura stessa degli argomenti trattati permette un’esposizione distesa, descrittiva, che si fa evocativa per l’uso frequente di rimandi alla realtà contemporanea. È d’altra parte un volume dalle forti tinte moralizzanti, che ricostruisce il periodo storico trattato spesso sulla sola base delle testimonianze dei poeti antichi – non a caso con fortissima prevalenza di citazioni giovenaliane.

Da un rapporto dialettico con l’opera carcopiniana prendono forma alcuni episodi che non hanno agganci, o ne hanno molto pochi, con il Satyricon di Petronio. L’arrivo all’Insula Felicles di Encolpio e Gitone è paradigmatico in tal senso. Pare plausibile che Fellini tragga l’idea dell’immenso casone popolare dell’Insula Felicles proprio dallo stesso Carcopino, perché lo storico ne parla a lungo nel capitolo Le case e le vie (pp. 39-85). L’insula, al contrario della domus, è “costruzione isolata”, “edificio autonomo, unità architettonica, non unità locativa” (p. 36):

In verità, per paradossale che sembri a prima vista tale affermazione, vi è certamente maggiore analogia tra l’insula della Roma imperiale e le case popolari della Roma contemporanea, che tra quella e le domus di tipo pompeiano. [...] l’Insula Felicles si levò al di sopra della Roma degli Antonini come un grattacielo (pp. 42 e 45).

Allo stesso modo Fellini e i suoi collaboratori definiscono l’Insula Felicles “una sorta di grattacielo proletario” (Betti 1970, p. 42).

l’Insula Felicles, che si ergeva a fianco del Pantheon e della Colonna Aurelia, è tra tutte quella dalle dimensioni più “straordinarie”; che Fellini ambienti la scena nel bloc di Felicula e non in uno qualsiasi dei moltissimi che coprivano il territorio dell’Urbs informa da un lato della scelta consapevole da parte del regista, sulla base del recepimento di dati storiografici, di un ambiente dalle determinate caratteristiche di imponenza e vertiginosità; dall’altro, di come questa scelta discenda con tutta probabilità dal saggio di Carcopino, e per l’importanza che la descrizione dell’Insula Felicles ha nel suo lavoro, dove è assunta a modello tipologico di insula (pp. 44-45), e per le rispondenze palesi tra questa e la sceneggiatura felliniana, a cui si ispira pure per i particolari più minuti. Così, si ritrova pressoché inalterata in sceneggiatura (inq. 180, 182)* la descrizione delle tabernae al pianterreno e delle pergulae – le logge esterne – (pp. 46-51), decurtate infine nella realizzazione filmica; o del mondo brulicante al suo interno, delle rampe senza ringhiera (p. 46), dei bracieri al centro delle stanze (pp. 61-63), del sudiciume (pp. 66) derivante dalla mancanza di fognature adeguate (inq. 185-200).

Fellini muove certo il primo passo dal Satyricon di Petronio: non solo l’insula è ambiente previsto dallo stesso romanzo (§ 91), ma lo è anche nel medesimo frangente narrativo; il suo raggiungimento avviene dopo il ritrovamento di Gitone. Da Petronio, quindi, la desunzione dell’esistenza e del locus diegetico dell’insula. Ma il romanzo, in questa come in molte altre occasioni, non è affatto descrittivo, se non per alcuni elementi indispensabili in quanto necessariamente soggiacenti alla narrazione. Luca Canali (in Zanelli 1969, pp. 49-50), a proposito delle scene erotiche del Satyricon, scrive:

Tutto è narrazione, e nulla è descrizione. Non è un caso che spesso Petronio non si degni neppure di descrivere i particolari fisici degli amanti, eccettuati quei tratti che servono a descriverne il carattere.

Ma se il Satyricon narra, il Fellini Satyricon descrive, o meglio, lascia che le cose si descrivano. È volutamente un film di quadri fissi; di contemplazione di una costruzione stilistica “a palcoscenico”, ottenuta con gli espedienti tecnici della mancanza di basamento mobile per la cinepresa e dell’uso dello zoom in sostituzione alla carrellata, che delimita la rappresentazione nello spazio quasi bidimensionale del teatro (Fellini [1980] 2000, p. 107; Sutterlin 1996, p. 210). Se già il medium filmico di sua natura mostra, Fellini indugia. Perciò: la desunzione dell’ambientazione a livello poco più che nominale viene dal Satyricon, fonte principale: di qui il fatto che Encolpio e Gitone si recano in un determinato luogo, dove nel romanzo avvengono dei fatti da cui solo incidentalmente emergono frammenti descrittivi. Rimane l’assoluta e primaria necessità da parte del regista di dare forma a questo ambiente. La storiografia tendenzialmente pittoricista di Jerome Carcopino si presta allo scopo. Fellini, pur seguendo la traccia espositiva carcopiniana, elabora la materia, filtrandola attraverso una sorta di passaggio riduttivo dall’universale – le condizioni di vita, che comportano l’evento quotidiano, ripetibile e diffuso – al particolare: la frequenza degli incendi diventa microincendio, la generalizzata mancanza di fognature, un unico uomo che “si svuota il ventre” (inq. 197) come un animale. Così, l’evento generale si concentra nel particolare e al tempo stesso si distribuisce per unità singole, in una sorta di “inventario per microeventi”: in una celletta si sviluppa un incendio, in un’altra un uomo defeca, e così via, secondo quella struttura “ad alveoli” tipica dello stile felliniano (Deleuze 1989, pp. 85 ss.). Le informazioni de La vita quotidiana, scheletro nozionistico, vengono elaborate e “riempite” di materia, diventano episodio.

Il momento del matrimonio tra Lica ed Encolpio sulla nave del mercante (scena 33), traslazione di quello tra Panicchide e Gitone in § 25-26 del Satyricon, bene introduce al secondo e più profondo livello di influenza del saggio sul film. I brevissimi accenni al rito matrimoniale nella narrazione petroniana (rilevabili nel solo riferimento al flammeum, il tradizionale velo della sposa, e alla presenza di un corteo) non sono da considerarsi fonte sufficiente per l’accurata evocazione del rito da parte di Fellini e Zapponi. La scenografia non solo trae ispirazione, ma cita qui letteralmente il lavoro di Carcopino: “Nel giorno stabilito per la celebrazione, la fidanzata […] veste il costume richiesto dall’uso: intorno al corpo una tunica senza orli […] e sopra un mantello o palla, colore dello zafferano; ai piedi dei sandali della stessa tinta (p. 130); così in sceneggiatura (inq. 633): “Trifena, sempre compunta, continua a vestire Lica. È la volta del mantello color zafferano, dei sandali della stessa tinta...”.Ancora: “Sulla testa […] un velo color arancio fiammeggiante. Onde il suo nome flammeum, che nasconde pudicamente la parte alta del viso; su di esso è poggiata una corona"; stessa descrizione nell’adattamento (inq. 634): “…poi del flammeum, un velo violentemente arancione, quasi fiamma, che nasconde la parte superiore del viso”, mentre, fuori sceneggiatura, la maga Trifena pone sul capo di Lica, sposa novella, una corona. I riferimenti continuano nel lancio delle noci agli sposi, “presagio di gaia e feconda felicità” (pp. 131-132; inq. 639), nel sacrificio propiziatorio, nelle parole rituali dell’officiante e della coppia, e nelle acclamazioni beneaugurali dei presenti.

l’uso del saggio come mezzo di evocazione si evolve in questo caso in mezzo di rappresentazione storica. Il rito matrimoniale è seguito alla lettera secondo le indicazioni di Carcopino, nella rigorosa successione delle tradizioni rituali e nell’accurata – e storicamente corretta – vestizione della “sposa”.C'è da chiedersi perché in quest'occasione Fellini decida di mantenersi aderente alla ricostruzione di un rito tanto rigidamente scandito, e perché lo faccia ancora una volta sulla base di una scelta non filologicamente corretta in assoluto, ma corretta in relazione al saggio di Carcopino.

Nella struttura del saggio dello storico francese la descrizione del rito matrimoniale introduce il capitolo dedicato alla donna e alla famiglia, che si dipana secondo un andamento moralisticamente polarizzante in esempi di donne “virtuose” e di altre “dissolute”.Il matrimonio assume nella trattazione il senso di un rito profondamente sacro e civile assieme:

Aulo Gellio ha certamente voluto sottolineare la serietà di cui [l’anello di fidanzamento] era improntato, la solennità dell’impegno, che da esso veniva consacrato, e soprattutto la profondità del reciproco affetto, che i suoi contemporanei vi annettevano, e la cui manifestazione volontaria e pubblica formava allora l’essenziale, non solo della cerimonia, ma della realtà giuridica del matrimonio romano (p. 130).

l’uso della fonte si fa in questo caso complesso e concettualmente dialettico: se Fellini vuole che il matrimonio tra Encolpio e Lica abbia il rigore della ricostruzione storica nella convinzione che l’ufficiosità puramente formale lo renda paradossalmente aberrante, più aberrante ancora diviene ai suoi occhi se desunto con riprese letterali da un saggio dalla forte strutturazione ideologica – improntato sulla tradizionale concezione della decadenza dell’impero come conseguenza logica della decadenza morale dei suoi abitanti – per la quale il matrimonio è ancora simbolo eloquente del polo morale positivo.

I casi esemplari dell’Insula Felicles e del matrimonio di Lica ed Encolpio

Petronio
Satyricon
CarcopinoLa vita quotidiana a Roma 
Fellini, Satyricon (SCENEGGIATURA)
Fellini, Satyricon (FILM)

§ 11: “Dopo aver perlustrato ogni angolo della città, feci ritorno alla cameretta (cellulam redii)”.
§ 91: “Immediatamente corro con le ali ai piedi verso il mio alberghetto (in hospitium meum pervolo)”.

p. 42: “L’insula […] si sviluppa in senso verticale […] ed ha finito per raggiungere sotto l’Impero dimensioni vertiginose”.
p. 49:  p. 49: “Dovunque i brevi piani sovrapponevano simmetricamente i loro cenacula”.

Inq. 179: “[L’Insula Felicles] è un palazzo altissimo, quadrato, tozzo, un po’ sbilenco; con molte finestrine quadrate tutte uguali”.

pp. 61-63: “Le condizioni di riscaldamento erano nell’insula molto difettose. […] Il sistema non era un riscaldamento centrale. […] L’insula romana se non aveva caloriferi, non aveva nemmeno camini. […] Negli immobili dell’urbs […] gli alimenti cuocevano a lento fuoco su fornelli portatili, e gli uomini per lottare contro il freddo non avevano che i bracieri […]”.
p. 55: “I rischi di incendio erano frequenti  a causa degli scaldini portatili per il riscaldamento”.

p. 66: “Molti appartamenti delle insulae romane erano destinati all’accumularsi del sudiciume, ed era fatale che finissero per andare incontro a questo inconveniente, dato che mancava uno scarico di fogna […]”.

Inq. 181: “Da alcune finestre escono alcune volute di fumo nero, segno che all’interno hanno acceso il fuoco”.
Inq. 194: “La gente cucina sul braciere acceso in mezzo alla stanza”.
Inq. 195: “In una casa c’è un principio di incendio, subito domato…”.

Inq. 197: “In un angolo del pianerottolo un uomo si sta svuotando il ventre”.




§ 25-26 [1]: “[...] Mi alzai in piedi per assistere al rito nuziale. Già Psiche aveva avvolto col flammeo il capo della ragazzina (Iam Psyche puellae caput involverat flammeo), già l’embasiceta, alla testa del corteo, portava innanzi la fiaccola, già le donne ubriache, battendo le mani, avevano formato una lunga processione e disposto sul talamo l’oscena coperta”.

p. 130: “Nel giorno stabilito per la celebrazione, la fidanzata […] veste il costume richiesto dall’uso: intorno al corpo una tunica senza orli […] e sopra un mantello o palla, colore dello zafferano; ai piedi dei sandali della stessa tinta; sulla testa […] un velo color arancio fiammeggiante. Onde il suo nome flammeum, che nasconde pudicamente la parte alta del viso; su di esso è poggiata una corona intrecciata [...]”.

Inq. 633: “Trifena, sempre compunta, continua a vestire Lica. È la volta del mantello color zafferano, dei sandali della stessa tinta…”
Inq. 634: “…poi del flammeum, un velo violentemente arancione, quasi fiamma, che nasconde la parte superiore del viso”.

pp. 131-132: “Il corteggio […] lancia ai ragazzi […] delle noci a casaccio […] la cui risonanza sul selciato della strada presagisce oggi gaiamente feconda felicità”.

Inq. 639: “Ascilto prende una manciata di noci da un piatto, e una dietro l’altra ne scaglia tre o quattro nella schiena di Encolpio […].”

 
Il moralismo di Carcopino e l’amoralità immorale di Fellini

Quando Alex Sutterlin definisce il film di Fellini come un “tutto univoco” si riferisce al fatto che il film è posto sotto un ordine sia tecnico che interiore. La messa in scena delle varie parti è legata a una drammaturgia; i collegamenti tra scene, il duro taglio come la dissolvenza, l’entrata di un personaggio, sono elementi decisi e preparati:

La prospettiva, in cui il racconto si chiarisce, è già stabilita e non si lascia trasformare. […] Il film ha il significato di un’interpretazione individuale, lo spettatore non si può estraniare da questa interpretazione.

Il concetto di “tutto univoco” non inficia il procedimento a scarti, in virtù del quale il Fellini Satyricon è un film frammentario e disuguale. Bernardino Zapponi (in Zanelli 1969, p. 84) dichiara:

Il libro di Petronio è screpolato, rotto come un muro, fatto di pezzi che sono reperti archeologici. […] Una precisa indicazione di stile: dovevamo ampliare le fratture; non colmarle.

La drammaturgia felliniana si caratterizza per una tecnica narrativa ad interruzioni, quando quella petroniana era sicuramente di tipo progressivo. In definitiva, l’ordine univoco paradossalmente non deriva dall’inserimento di un collante narrativo tra i frammenti, ma da un inasprimento dell’assetto frammentario secondo una volontà preordinata. Se il romanzo di Petronio, presumibilmente progressivo al suo concepimento, subisce l’attacco scarnificante della storia (e quindi il suo assetto a stralci narrativi avviene a posteriori e indipendentemente dalla volontà dell’autore), l’operazione ermeneutica di Fellini stravolge l’ottica: considerando il frammento come elemento peculiare del romanzo e allo stesso tempo eloquente di antichità, Fellini decide un assetto frammentario a priori che diventa per questo “stile interstiziale”, elemento ordinatore e motivo del “suo” Satyricon (Deleuze 1989, p. 200).

Questa volontà di frammentarizzazione è causa e conseguenza della ricerca di effetto straniante. Lo straniamento prende avvio, secondo Fellini, dalla consapevolezza della visione del mondo antico dall’unica posizione consentita, quella fuori dai suoi confini chiusi; appunto perché la ricostruzione storica è impossibile, il regista vuole mantenere “un tono distaccato, oggettivo”, “da documentario” nei confronti di un mondo ingiudicabile secondo il nostro catalogo di decifrazione morale e psicologica (Zanelli 1969, p. 16). Fellini dichiara a Cangogni (1968): “Ad ogni faccia devono corrispondere una mimica nuova, gesti, parole diverse”.Realizzare un film basato sull’effetto di straniamento corrisponde in definitiva per Fellini a evocare frammenti eloquenti della e nella loro incongruenza, da una posizione esterna che permetta il totale distacco dalla materia, in modo da dare voce a quella “psicologia precristiana” libera da giudizi morali, vista come caratteristica identitaria del mondo antico. Di qui, il necessario distacco dai paradigmi della moralità cristiana, che indurrebbe il regista, usando una sua stessa definizione, a una posizione di “disponibilità virginale” nei confronti della narrazione petroniana (l’Erotismo dell’Italia 1969, p. 38).

l’andamento diegetico a scarti del Fellini Satyricon non deriva soltanto dal taglio puramente tecnico, ma anche da contrapposizioni a livello contenutistico. Il film procede sì a episodi “interstiziati”, ma anche per contrappunti tematici e stilistici, che fanno del Fellini Satyricon un prodotto della tensione tra due polarità. Tra ambienti, innanzitutto: il buio, il “clima manicomiale” (inq. 74) del teatro di Vernacchio; l’oscurità, la confusione, la mostruosità del quartiere di Suburra e dell’Insula Felicles, che diventa “visione da inferno” durante il suo crollo (inq. 222); “l’aria opprimente, caliginosa, come paludosa” (inq. 248) del viale che porta alla casa di Trimalcione, e lo stesso senso di oppressione e cupezza al triclinio del liberto (inq. 295); la nave di Lica, “enorme, immobile, nera come un insetto mostruoso” (p. 213 della sceneggiatura). Dall’altra parte, la pinacoteca, “ampia e chiara, luminosa, di linea classica come un tempio greco” (inq. 234); e la villa dei Suicidi, “bella, dalle linee pure, classiche” (inq. 653). Il contrappunto è tanto più evidente quanto più è vicino e stridente: il crollo dell’insula scarta nella serenità della pinacoteca in un netto passaggio di scena; allo stesso modo, dalla pinacoteca si passa ai fumi della via che porta alla casa di Trimalcione. Il passaggio progressivo da un polo all’altro avviene nella stessa scena nel frangente della morte dell’Ermafrodito, il cui lento decorso comincia nell’istante stesso in cui viene rapito: dalla foresta in cui è immerso il tempio di Cerere (inq. 816-818), alla montagna verde, poi sassosa e brulla sui cui sentieri avanza il carro di Encolpio, Ascilto e il brigante (inq. 847), fino all’ambiente desertico dal terreno crepato, si avverte una climax di “desertificazione” che è causa della morte dell’Ermafrodito ma anche riflesso simbolico del sacrilegio, e sfondo alla lotta “feroce, orrenda”, mortale, tra i due giovani e il brigante (inq. 869-884).

Ma le contrapposizioni sono ancora tante e stratificate. Alla mimica “orrendamente buffonesca” (inq. 79) di Vernacchio, comico crudele, rispondono idealmente gli omeristi che intervengono alla Cena Trimalchionis, “due uomini e due donne […] dal volto gentile e nobile. […] Vengono dalla Grecia, sono attori; portano con sé la malinconia di un popolo civilissimo, ora in declino, vinto” (inq. 348), che parlano “in una lingua incomprensibile e armoniosa” (inq. 350) e che riescono a creare “per un momento, un clima incantato, poetico” (inq. 351).

Ancora, la figura femminile si declina da un lato nelle prostitute della Suburra, dentro delle nicchie, l’ultima delle quali è abitata da una meretrice che è mostro di carne; nella sensualità di Trifena; nell’ultrasensualità della Ninfomane e di Arianna. Di contro, la sposa “dolce e sottomessa” del Suicida (inq. 664). Il dualismo diventa doppio corpo di donna in Enotea, contemporaneamente sinuosa nera silente, ed enorme, mostruosa Madre Generatrice. E poi la lingua: corrotta nell’accento romano di Trimalcione e Abinna, in quello pugliese di Ermerote, in quello napoletano di Vernacchio; ma anche scarnificata e sintatticamente frammentaria: non è di certo un caso se nell’adattamento dei dialoghi della Cena, unica sezione del Satyricon giuntaci pressoché completa, si registrano dei tagli (ulteriormente esasperati poi nel prodotto filmico) e una tendenza alla paratassi, all’accostamento puramente additivo delle informazioni, privo a volte anche del rapporto implicito, totalmente psicologico che ne determina l’efficacia comunicativa. La lingua è dura e straniera sulla nave di Lica, tra i ribelli; untuosa quella parlata dal servo della Ninfomane; latino corrotto per le strade della Suburra, e nel circo della Città Magica. Neutra quella di Encolpio e Gitone. Pura e soave quella dei coniugi suicidi.

I richiami e le specularità sono innumerevoli e del tutto permeanti il tessuto narrativo del film, che si dipana secondo una dialettica che contrappone episodi a episodi, scene a scene, elementi della stessa scena, elementi di scene diverse, in virtù di una costruzione che, partendo dal dato tematico, si fa strutturale.

Di che natura sia questa dialettica, emerge dal paradosso di fondo che scaturisce dall’impostazione ideologica di quello che Fellini chiama straniamento. La dichiarazione di estraneità nei confronti della materia trattata deriva dalla consapevolezza di avere a che fare con un’epoca storica che secondo i paradigmi della moralità cristiana verrebbe tacciata come assassina e corrotta; il regista, sentendosi estraneo alla sfera dell’antico, compie lo sforzo di levare dalla sua mente il giudizio morale, che riconosce consciamente dentro il suo “esserci” di uomo moderno. È questo uno sforzo concettuale preordinato che deve concretizzarsi secondo modalità diverse dalla neutralità petroniana, “limbica assenza di giudizio” (Canali 1981, p. 7).

Tra i modi dell’immagine-cristallo, circuito minimo dell’immagine-tempo, Gilles Deleuze individua quello, tipico del cinema felliniano, della dialettica luminoso/opaco, dove persiste l’indeterminatezza di identità della faccia oscura e della faccia luminosa. Come dire: esistono due facce, dalle nature opposte, ma non si sa a quale faccia attribuire quale natura. L’immagine-cristallo di Fellini ha ordinamento bipolare:

Su una faccia vi sarà scritto “salvi!”, sull’altra “perduti!”, in un paesaggio da Apocalisse come il deserto di Fellini Satyricon.

Fellini fa i conti con la mancanza in Petronio di “contrapposizione di ideali positivi a un mondo che al moralista sembra reo senza possibilità di appello” (Canali 1981, p. 6); al tempo stesso, con operazioni ideologiche “giovenaliane” come quella di Carcopino, di lettura del mondo antico secondo l’ottica del bene e del male (esemplari in tal senso sono i paragrafi III e IV del capitolo Il matrimonio, la donna, la famiglia, dedicati rispettivamente all’eroismo e alla dissolutezza della donna romana). La modalità diversa dalla neutralità petroniana è quindi la traduzione della medesima neutralità, non nell’appiattimento, ma nella conservazione della struttura bipolare dei paradigmi morali e al tempo stesso nella sostituzione dei termini dialettici: la struttura dialettica rimane, ma a quella del bene e del male, del buono e del cattivo, si sostituisce nelle intenzioni di Fellini quella della luce e delle tenebre. È sintomatico il fatto che le tensioni più importanti tra polarità opposte avvengano tra episodi o elementi desunti dal Satyricon e altri inseriti ex novo dal regista. L’inserimento della luminosa scena dei Suicidi, eloquentemente collocata a metà film, fa da controcanto macrostrutturale all’intero Fellini Satyricon, ed è esemplare di tutte le altre contrapposizioni bipolari: se in Petronio esiste lo stesso omogeneo piano grigio, il cosciente inserimento dell’episodio, lato chiaro, crea il lato oscuro, che è sua premessa dialettica di esistenza. Ossia: l’inserimento della luce, per essere riconosciuto come tale, tinge il grigio di nero, lo inasprisce di tenebra. Il polo positivo si carica solo se carica quello originariamente neutro di negatività.

In realtà, il dato fondante (e il vero paradosso) dell’operazione felliniana sta nel voler costruire una polarità altra rispetto a quella del bene e del male, tramite l’apparato simbolico tipico di questa, e tramite l’assunzione, più o meno conscia, dei toni descrittivi (nel vero senso del termine!) di Carcopino. Lo stesso episodio sopra citato è la traslazione de la plus belle mort de l’antiquitè (Saint Euremond, in Gagliardi 1993, p. 7), il suicidio di Petronio, in dimensione teneramente familiare: non si uccide l’esteta, ma un padre e una madre; la famiglia è morale, moralmente atemporale, atemporalmente positiva e benefica. La melma, il buio, la corruzione della lingua, l’aspetto mostruoso e deforme di ambienti e personaggi, la malattia, la totale mancanza di poesia, sono elementi di evocazione di un mondo sconosciuto, ma anche elementi simbolici che da sempre identificano la corruzione morale in quella fisica; le murene e le carni della Cena Trimalchionis sono sì “animali sconosciuti di razze estinte” (Fellini [1980] 2000, p. 108), ma anche i segni di un modo di vedere una dimensione altra da bestiario già medievale: ciò che non si conosce è grottesco, e la sua fisicità finisce per corrispondere a un’interpretazione morale. Gli elementi programmaticamente inseriti per la creazione dello straniamento si caricano di contenuti altri. D’altra parte, la dialettica “luce-tenebra” sta alla base delle teologie patristiche. La luce e la tenebra di Fellini ambiscono all’“indeterminatezza di identità” deleuziana, ma esse stesse trovano corrispondenza in una griglia interpretativa non alternativa rispetto a quella cristiano-cattolica, cioè a quella con cui il regista e il suo pubblico traducono gli stimoli visivi di natura simbolica. Questo il commento di Moravia in un suo articolo uscito su “Vogue” (Moravia 1969):

Durante il Medioevo, l’antichità era del tutto estranea agli uomini perché era stata pagana e invece il Medioevo era cristiano, e il cristianesimo ha voluto essere ed è stato il paradosso, il contrario del paganesimo. […] Ha dato al peccato e alla dannazione il volto dell’antichità: o meglio, ha dato all’antichità il volto del peccato e della dannazione. […] La tua [di Fellini] visione dell’antichità è certo molto vicina a quella dei primi cristiani per i quali il mondo antico, appunto perché ancora vivo e vicino, era una tentazione, un pericolo, una sfida. Come ai primi cristiani, a te il mondo antico appare come pura natura, perciò discesa fino alla corruzione.

Con l’interpretazione di Moravia trova giustificazione la definizione deleuziana della bipolarità simbolica felliniana come “salvi!” e “perduti!”.Che la riflessione sia morale di matrice cristiana o filosofica di matrice idealista, come pare commentare Moravia, rimane un principio di rappresentazione dell’antichità secondo un sistema di polarità, i cui simboli eloquenti si mantengono in bilico tra lo status di segni da un altro mondo e la loro tendenza all’assunzione di accezione. In questo senso Fellini fa propria la struttura de La vita quotidiana a Roma di Jerome Carcopino, costruito per opposizioni (la donna virtuosa e la donna viziosa, la domus e l’insula, l’inefficacia della religione tradizionale e la positività delle nuove mistiche orientali, etc.), e adatta gli stessi elementi che Carcopino usa a sostegno della sua visione della Roma imperiale al proprio sistema di “sommersi e salvati” (perché egli stesso in Fare un film parla dei suoi personaggi come di “annegati che tentano di parlare”): in definitiva, gli “annegati” sono tali perché sommersi dal tempo o dalla “più irrimediabile corruzione"?

D’altra parte, è questa la chiave di interpretazione che giustifica lo scarto più macroscopico e pregnante tra il Satyricon e il Fellini Satyricon: il senso ultimo del romanzo di Petronio, quel mimicum risum che ha come retro della medaglia solo una mimica mors, è totalmente perso nell’adattamento felliniano, che decurta o reinterpreta importanti pantomime farsesche, e che non tiene nulla della sua leggerezza originaria. Non esiste mimicum risum, sostituito dalla mostruosa risata muta di Vernacchio; non esiste mimica mors, perché le morti del Fellini Satyricon sono reali, crudeli e veramente sacrileghe; e lo scherzo che subisce Encolpio arrivato alla Città Magica non ha come conseguenza che l’unica risata, innaturale, da automa, del proconsole. Lo straniamento avviene perché Fellini mette in scena non tanto un popolo irrimediabilmente diverso, ma un popolo pazzo e degenerato, un’antichità che prefigura la nostra propria deriva.

*Il termine “inq.” (abbreviazione di “inquadratura”), seguito dalla relativa indicazione numerica, fa riferimento alla scena riportata nella sceneggiatura originale del Satyricon Fellini, edita da Cappelli nel 1969 a cura di Dario Zanelli.

Bibliografia

English abstract

In this contribution Ester Brunet investigates Fellin’s Satyricon, its sources and its declared rejection of historical fidelity.

 

keywords | Fellini; Satyricon.

Per citare questo articolo / To cite this article: E. Brunet, “Tramandare-tradire": storiografia e senso dell’antico nel Fellini Satyricon (regia di Federico Fellini, Italia-Francia 1969), “La Rivista di Engramma” n. 49, giugno 2006, pp. 35-49 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2006.49.0000