"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

134 | marzo 2016

9788898260799

Cantimori e Machiavelli

Delio Cantimori, con una Nota introduttiva di Monica Centanni e Silvia De Laude

english abstract

§ Monica Centanni, Silvia De Laude, Cantimori e Machiavelli.Nota introduttiva alla riedizione dei saggi: Rhetoric and Politics in Italian Humanism (1937) e Retorica e politica nell'Umanesimo italiano (1937; 1992)

§ Delio Cantimori, Rhetoric and Politics in Italian Humanism, translated by Frances Yates, “Journal of the Warburg Institute”, Vol. 1, No. 2 (October 1937), 83-102

§ Delio Cantimori, Retorica e politica nell'Umanesimo italiano, in Eretici italiani del Cinquecento, a cura di Adriano Prosperi, Torino 1992, 483-511

Cantimori e Machiavelli

Nota introduttiva alla riedizione dei saggi: Rhetoric and Politics in Italian Humanism, pubblicato nel “Journal of the Warburg Institute” (1937) e Retorica e politica nell'’manesimo italiano (1937; 1992)

Monica Centanni, Silvia De Laude

Il saggio di Delio Cantimori Rhetoric and Politics in Italian Humanism esce nel secondo numero del “Journal of the Warburg Institute”, nella traduzione inglese di Frances Yates (1937). Il testo Retorica e politica nell'Umanesimo italiano è pubblicato postumo, molti decenni dopo, da Adriano Prosperi in appendice alla riedizione dell'opera maggiore dello storico (Cantimori 1992; le due edizioni precedenti, a cura dell'autore, erano state pubblicate nel 1939 e nel 1967): si tratta, con tutta evidenza, della redazione italiana originale del saggio che aveva fatto da base per la versione inglese ma, come si vedrà, la relazione fra le due versioni è molto più complicata di quanto non si sia ritenuto sinora e i due testi meriterebbero (e meriteranno) uno studio a fronte attento e ponderato (Centanni, De Laude c.d.s.) . La difformità della redazione italiana rispetto a quella inglese, e la mancanza di una disamina accurata con discussione delle varianti, è con tutta probabilità il motivo per cui il saggio italiano scompare, senza spiegazioni, nelle successive ristampe di Eretici italiani proposte dalla stessa casa editrice Einaudi, e di fatto è oggi accessibile soltanto nella edizione del 1992.

Il contesto della pubblicazione del saggio nel “Journal”del Warburg Institute (1937)

Al momento di scrivere il saggio apparso sul “Journal”, Cantimori aveva trentatré anni. Lavorava all'Istituto Germanico di Roma, dove Giovanni Gentile lo aveva chiamato come redattore della rivista dell'Istituto e direttore della biblioteca. L'anno prima aveva pubblicato per Sansoni una serie di scritti di Carl Schmitt, aperti da un'introduzione intitolata Principi politici del nazionalsocialismo. Alla Scuola Normale di Pisa, dove aveva studiato, ritornerà nel 1940. Era maturata nel contempo, nel corso degli anni '30, la svolta che lo avrebbe portato ad avvicinarsi al comunismo, dopo essere stato, per tradizione familiare, repubblicano mazziniano, e poi fascista e discepolo di Giovanni Gentile (sulle relazioni Cantimori e Gentile: Simoncelli 1994).

L'intento del saggio Retorica e politica nell'Umanesimo italiano era di rovesciare il tenace stereotipo interpretativo che considerava l'umanesimo italiano, fatta eccezione per le personalità eccezionali di Machiavelli e di Guicciardini, un “fenomeno puramente letterario, verboso, vuoto – retorico nel senso peggiore del termine” (Ginzburg 2000, 75). Cura di Cantimori era ritrovare nel mondo degli umanisti “motivi di profonda originalità, anche nei riguardi del pensiero politico”. Le implicazioni politiche della retorica dell'umanesimo erano dimostrate attraverso l'analisi di un caso concreto: le riunioni fiorentine degli Orti Oricellari; ne risultava una nozione di “retorica” che non si riduceva all'oratoria e al gusto per l'eleganza letteraria, ma comprendeva una “fede sincera”, per quanto “non elaborata profondamente e ancora rozza e ingenua”: una “ideologia insomma” contro chi aveva trascurato “il pensiero politico degli umanisti, relegandone le eloquenti immagini” in quel “mondo delle inutili seppure altisonanti parole” che si soleva “chiamare 'retorica'” (Cantimori 1992, 490; e per l'interpretazione cantimoriana di Machiavelli: Biosiori 2014).

Ha fatto notare Carlo Ginzburg che l'attenzione per la dimensione politica della retorica degli umanisti si intreccia, in Cantimori, con “un'attenzione altrettanto viva per il fenomeno della propaganda nelle società di massa contemporanee” (Ginzburg 2000, 75): non per niente gli stessi termini impiegati nel saggio apparso per la prima volta in inglese sul “Journal” del Warburg si incontrano nella recensione a Ernesto Codignola, Il rinnovamento spirituale dei giovani, dov'è sottolineata la necessità di un'indagine sulla propaganda nazista, anche nelle sue forme “rozze e ingenue” (Cantimori 1991, 192-196). Nella raccolta degli scritti di Cantimori pubblicata per Einaudi, meritano considerazione, a questo proposito, anche gli Appunti sulla propaganda, pubblicati nel 1941 su “Civiltà fascista”.

Dal lavoro di Cantimori prende le mosse un classico dell'interpretazione dell'Umanesimo: il saggio del filologo classico Paul Oskar Kristeller Humanism and Scholasticism in the Italian Renaissance, apparso fra il 1944 e il 1945 (Kristeller 1956, 553-583) e definito in seguito “a crucial and seminal paper” per la messa a fuoco del legame degli umanisti con la retorica della tradizione occidentale, intesa nelle sue connotazioni politiche, oltre che stilistiche e letterarie (Mahoney 1976, 8-9).

Quanto a Kristeller, che, transfuga dalla Germania nazionalsocialista aveva trovato un posto di lettore di tedesco alla Scuola Normale di Pisa grazie all'interessamento di Giovanni Gentile, dovrà in larga misura proprio a Cantimori i contatti con l'Università di Yale, dove emigrerà dopo che le leggi razziali, promulgate in Italia nel 1938, lo costringeranno a lasciare l'insegnamento pisano (Simoncelli 1994, 64-66, 75-79, 81-88 e passim; Ginzburg 2000, 75-76). Erano passati soltanto alcuni mesi dall'apparizione del saggio di Cantimori in lingua inglese sul “Journal” dell'Istituto Warburg, emigrato a Londra da Amburgo dopo l'ascesa al potere del partito nazionalsocialista. Ma il 1937 non è il 1938, anno in cui si consuma, come tragico prodromo del Patto d'acciaio tra Hitler e Mussolini, la decisione della promulgazione delle leggi razziali in Italia. Per dare la misura della differenza di clima culturale tra il cielo italiano e quello tedesco, prima della stretta che porterà all'alleanza militare tra i due paesi, varrà la pena di rileggere cosa scrive Mario Praz nel 1934 sulla migrazione coatta degli studiosi da Amburgo, in chiusura della sua recensione all'edizione Teubner delle Gesammelte Schriften di Aby Warburg:

Quando gl’israeliti tedeschi cominciarono a cercar rifugio in Inghilterra, gl’inglesi, popolo quant’altri mai attaccato alla propria razza, di fatto il solo popolo del mondo che ancor conservi una concezione aristocratica all’antica, decisero di ospitarli, poiché sapevano che quegl’israeliti portavano con sé come fardello d’esilio non i luridi stracci e gli avari forzieri e i leggendari sacrifici umani dei ghetti, ma le più feconde idee scientifiche e i più vasti tesori di cultura del mondo germanico. E si parlò allora dei greci che migrarono da Bisanzio nel Rinascimento, e aprirono nuovi orizzonti all’Occidente. Ora la Biblioteca Warburg risiede al pianterreno di un modernissimo palazzo di Westminster, Thames House, a pochi minuti dal Parlamento. Forse la riva del Tamigi non è così diversa dalla riva dell’Elba; anche qui il traffico fluviale si svolge sotto un grigio cielo, e gli studiosi israeliti tedeschi ospitati da Thames House potranno sentir meno la nostalgia della patria che li ha ripudiati (Praz 1934, 626).

Nel periodo pre 1938, l'Italia, nel panorama europeo, sembrava ancora poter essere una sponda solida di rifugio e protezione per gli intellettuali colpiti dalle leggi razziali promulgate in Germania sin dal 1934: e ciò accadeva in particolare alla Scuola Normale di Pisa, proprio grazie all'azione di una personalità autorevole come Giovanni Gentile e agli interventi promossi anche direttamente presso Mussolini a protezione di intellettuali ebrei. Per dare la misura degli ondeggiamenti e l'ambivalenza degli atteggiamenti sul tema dei vertici dello stesso governo italiano, tornando al caso di Kristeller, lo stesso studioso, in una intervista rilasciata molti anni più tardi, riferisce che ancora nel 1938, al momento della partenza per gli USA, venne convocato alla questura di Roma dove gli fu consegnata “una somma elevata di denaro (parecchi milioni di oggi) in contanti, in contanti come 'dono personale del Duce'”; Kristeller aggiunge “Non volevo vendere il mio sdegno, ma capivo che se avessi rifiutato ne avrei pagato le conseguenze. Firmai. E corsi subito da Gentile” (Simoncelli 1994, 85).

In questo clima – e soprattutto nel clima del periodo precedente la promulgazione delle leggi razziali in Italia – risulta perfettamente comprensibile la decisione maturata nella redazione londinese del “Journal”, in particolare per volontà di Edgard Wind, di affidare il saggio di apertura del secondo numero della rivista, proprio a Delio Cantimori, studioso legato a doppio filo a Giovanni Gentile, e di accettare un contributo il cui tema di base è la valenza squisitamente politica dell'opera degli intellettuali nell'umanesimo “italiano” (sui rapporti Wind-Cantimori e in particolare sulla corrispondenza in quel torno d'anni tra i due studiosi, abbiamo in corso uno studio, in via di pubblicazione: Centanni, De Laude, c.d.s.).

Le relazioni tra Delio Cantimori e il circolo warburgiano di Londra non si limitano all'episodio della collaborazione del 1937, ma continuano anche dopo la guerra, quando The Warburg Institute diventa una vera e propria istituzione, come è attestato dai documenti epistolari conservati presso l'Archivio della Normale di Pisa (Fondo Cantimori) e l'Archive of The Warburg Institute. Il frutto più importante di queste relazioni è l'iniziativa per la pubblicazione della prima raccolta italiana di scritti di Warburg, che vede in prima fila Gertrud Bing e lo stesso Cantimori (Warburg 1966): un progetto nel quale Delio ha un ruolo fondamentale e Emma Cantimori, moglie dello storico, è autrice della traduzione.

Un primo saggio sulle differenze tra la redazione inglese (1937) e la redazione italiana del testo (1992)

A proposito dell'edizione del testo italiano del saggio di Cantimori edito da Prosperi nel 1992, Carlo Ginzburg aveva notato che si trattava di una “traduzione abbreviata” e aveva stigmatizzato che la traduttrice in relazione al termine “ideologia” aveva precisato – attenuandone la portata – il significato netto e preciso della parola italiana che sul “Journal” diventa “aesthetico-moral ideology” (Ginzburg 2000, 75, n. 11). Ma non si tratta, semplicemente, di una “traduzione abbreviata”, e le interpolazioni della versione 'ufficiale' pubblicata a Londra nel 1937, rispetto all''originale' in italiano (redazione che l'autore lascia inedita), sono molto più vistose e rilevanti. Un primo confronto con il testo italiano, pare indicare che la versione pubblicata nel 1937 nel “Journal” sia il frutto di un lavoro di redazione compiuta a quattro mani dall'autore e dalla sua formidabile corrispondente inglese – Frances Yates (su questa ipotesi è in corso un approfondimento sui documenti d'archivio relativi allo scambio tra i due studiosi: Centanni, De Laude c.d.s.).

La differenza più importante riguarda la struttura del testo, così come la leggiamo nella redazione inglese. Rispetto alla redazione italiana (che ci pare certo sia da considerare l''originale' da cui parte il lavoro di traduzione), fatte salve le attese, marginali, modifiche necessarie per adattare linguisticamente e culturalmente il testo, il saggio è sottoposto a una prima fase di smontaggio e a una successiva fase di rimontaggio che ne modifica profondamente la sintassi complessiva e, in alcuni punti, altera parzialmente i contenuti. Le modifiche più rilevanti che si apprezzano nel rimontaggio sono:

A | L'articolazione in 7 capitoli (inesistenti nella redazione 'originale' italiana):

I. The Humanistic Background of Machiavelli and Guicciardini;
II. The conversations of the Orti Oricellari;
III. Antonio Brucioli's Dialogues;
IV. The Distribution of Property;
V. The Training of the Militia;
VI. The Teaching of Language;
VII. Language and Arms as Political Instruments.

Il dispositivo adottato in fase di redazione editoriale del testo è volto, evidentemente, a dare maggiore chiarezza alla lettura e a mettere in rilievo i temi più importanti del saggio.

B | Lo spostamento di porzioni rilevanti del testo. Lo schema dei capitoli sopra indicati non segue affatto l'andamento argomentativo della redazione italiana ma provoca slittamenti e accorpamenti di sezioni di testo:

Un esempio di slittamento è la sezione IV – The Distribution of Property – posticipata rispetto alla corrispondente comparsa dell'argomentazione nella redazione italiana.

Un esempio di accorpamento di porzioni di testo è nella sezione V – The Training of the Militia – in cui troviamo rifuse insieme proposizioni che nella redazione italiana risultano distanti e separate.

C | L'eliminazione di alcune porzioni di testo, non interpretabile semplicemente sulla base di ragioni editoriali. Facciamo soltanto due esempi, relativi al primo capitolo del testo inglese. Nel passaggio:

They dismissed as rhetorical the stoic pathos which revived in the last tyrannicides and in the many treatises on the theme De optimo principe; the patriotic eloquence, rich in memories of ancient Rome and of the free commune, which continued from Cola da Rienzo's movement up to the late apologians of the princely houses, in praise of whom it is said that they thought always and only of the well-being of Italy. <...> The rejection of this type of rhetoric is expressive of a political realism eager to face actual events and their specific problems and averse to ideologies.

Indichiamo con <...> la zona del testo in cui, nella redazione italiana, risulta presente una lunga e importante considerazione storiografica che riportiamo qui in forma compendiato (per la versione integrale, v. infra, il passaggio integrale).

Questa indifferenza rientra nel giudizio negativo generale che fino agli ultimi tempi la storiografia italiana e sulle sue tracce quella non italiana, ha usato dare della serietà sociale e morale dell'Umanesimo; contro la vecchia tesi, rappresentata in Italia dal De Sanctis e da tutta una schiera di scrittori che a lui si rifacevano, e dall'altra parte dagli scrittori del cattolicesimo liberale [...] c'è ora tutta una corrente di studiosi che [...] ritrovano in quel mondo degli umanisti motivi di profonda originalità, anche nei riguardi del pensiero politico. Ma non mancano neppur oggi i giudizi severi sull'Umanesimo; valga per tutti il giudizio dello Chabod. Fin dalle prime pagine del suo saggio sul Principe del Machiavelli egli osserva che “non per semplice diletto umanistico” il pensiero del Machiavelli si concretava nella rievocazione di Roma6; e dopo avere accennato di passaggio che la realtà del tempo si presentava al solitario pensatore fiorentino “senza veli di retorica”, osserva come nella stessa ansia del Machiavelli di rifugiarsi nel passato per ricever nuovo vigor di vita, era giuocoforza penetrasse la dolorosa esperienza attuale... e il mondo antico doveva a mano a mano ritirarsi di fronte al mondo moderno [...]. Lo Chabod s'avvia così a dare un giudizio nettamente negativo dell'Umanesimo, giudizio che assomma in sé una lunga tradizione e le opinioni dei più recenti studiosi italiani [...]. Questo severo giudizio investe tutta l'attività degli umanisti: non solo la pubblicistica politica in nome dell'ideale nazionale italiano, che rimase sempre puramente culturale, vago e generico nel Rinascimento; ma anche l'attività filosofica volta a elaborare la teoria della vita morale perfetta, con le sue alternative di vita contemplativa e vita attiva, e insieme la teoria della vita civile, anzi una moralità e una religiosità della vita civile, modellandola sugli esempi forniti dall'antichità greca e specialmente romana.

Si tratta certo, dell'espunzione di una digressione che tratta di argomenti di storiografia (e di storia del pensiero) che riguardano soprattutto l'ambito italiano, ma la polemica di Cantimori è importante per dare ragione del suo schieramento intellettualmente militante e della sua posizione contro la neutralizzazione della valenza politica del pensiero degli Umanisti perpetrata dagli studiosi alla De Sanctis o alla Chabod o, peggio “dagli scrittori del cattolicesimo liberale” (c.vo nostro: si noti il disprezzo patente nella derubricazione a 'scrittori' degli studiosi ideologicamente avversari).

Ancora più interessante, perché meno spiegabile con le ragioni di una redazione editoriale destinata a un pubblico non italiano, è un'altra espunzione, in una zona del testo prossima alla precedente. Al testo inglese:

Even if the oratory of the humanists corresponded to exigencies profoundly felt in the society of the time, or in particular groups of that society, it remained merely an expression of aspirations and desires, and never passed from the stage of nostalgia to that of deliberate planning. They confined themselves to moral generalizations. On the other hand (etc.)

corrisponde nella redazione italiana il seguente passaggio:

Anche se le formulazioni degli umanisti corrispondono a esigenze profondamente sentite nella società del tempo, o in gruppi particolari di quella società, esse rimangono pur sempre formulazioni di esigenze ed aspirazioni, di velleità, conchiuse in se stesse e non trapassanti dallo stadio di velleità in quello di volontà o di indicazione alla volontà. Dalla formulazione di una aspirazione e di un desiderio, e dalla posizione, sia pure eloquente e vivacissima, di un ideale politico, non si passa al riconoscimento dei problemi presenti e attuali della società e della vita politica del tempo, alla posizione di idee politiche, alla proposizione di risoluzioni possibili: ma si rimane nel generico moralismo, nella rettorica politico-morale. Dall'altra parte (etc.)

Abbiamo sottolineato la parte di testo espunta in cui si apprezza l'intensità e il colore della argomentazione di Cantimori: la sottolineatura – molto machiavellica – del fatto che se l'intellettuale non passa dall'aspirazione astratta e velleitaria (“from the stage of nostalgia” riassume in questo caso felicemente la versione inglese) alla “posizione di idee politiche, alla proposizione di risoluzioni possibili”, la sua azione sarà davvero da considerare mera “retorica”.

In questa nota abbiamo proposto solo un saggio del lavoro di studio e di riflessione che ci attende intorno alle due redazioni del saggio di Cantimori, delle quali qui di seguito presentiamo la riedizione.

Riferimenti bibliografici
  • Biasiori 2014
    L. Biasiori, Cantimori, Delio, in “Enciclopedia Machiavelliana”, Roma 2014, 259-260.
  • Cantimori 1991
    D. Cantimori, Politica e storia contemporanea. Scritti 1927-1942, Torino 1991.
  • Cantimori 1992
    D. Cantimori, Eretici italiani del Cinquecento e altri scritti, a cura e con una introduzione di A. Prosperi, Torino 1992.
  • Centanni, De Laude c.d.s.
    M. Centanni, Silvia De Laude, Delio Cantimori, e le relazioni con gli studiosi del Warburgkreis, “Humanistica”, c.d.s.
  • Ginzburg 2000
    C. Ginzburg, Rapporti di forza. Storia, retorica, prova, Milano 2000.
  • Mahoney 1976
    P. Mahoney, Paul Oskar Kristeller and His Contribution to Scholarship, in Philosophy and Humanism Studies in Honor of Paul Oskar Kristeller, ed. by P. Mahoney, Leiden 1976.
  • Praz 1934
    M. Praz, Recensione a Aby Warburg, Gesammelte Schriften, Teubner, Leipzig-Berlin 1932, “Pan” II, 1934, 624-626.
  • Simoncelli 1994
    P. Simoncelli, Cantimori, Gentile e la Normale di Pisa. Profili e documenti, MIlano 1994.
  • Warburg 1966
    A. Warburg, La rinascita del paganesimo antico, a cura di G. Bing, Firenze 1966.

Rhetoric and Politics in Italian Humanism

“Journal of the Warburg Institute”, Vol. 1, No. 2 (October 1937), 83-102

Delio Cantimori, translated by Frances Yates

I. The Humanistic Background of Machiavelli and Guicciardini

The development of Italian Humanism, from the close of the fourteenth, all through the fifteenth and up to the middle of the sixteenth century, ran parallel to a process of political transformation which affected the public life and civil organization of the Italian States. The last flashes of the life of the communes gave place to the signories, and these in turn were superseded by the political, social, and spiritual subjection to Spain which marked the consolidation and end of the principalities1. The humanists, in the character of political theorists searching for the ideal state and the perfect ruler, of jurists, historians, panegyrists, or orators pleading for one side or another, often turned their attention to contemporary events which they praised, condemned, observed, and interpreted.

This political preoccupation of humanists culminates in the work of Machiavelli and Guicciardini who, however, by their very greatness and the precision of their thought, rise superior to the humanism in which they are rooted. If the Machiavellian conception of the autonomy of politics goes beyond the motives which are generally called “humanist”, and if Machiavelli's moral seriousness might oblige us to place him almost in opposition to the world of the letterati and pedanti who cultivated the beautiful form2, it is impossible to separate from the humanist tradition the Florentine secretary's aspiration towards Italian unity and national renewal by means of a return to Roman civil virtue; again, his pragmatic conception of political life and of history no less than his distinction between “Virtue” and “Fortune” are of purely humanist type3. The same is true of Guicciardini whose impulses as a historian, and whose ideas on political life, are deeply rooted in the Florentine humanists' preoccupation with the grand and the sublime in human passions4.

Until recently the attention of historians has been so fixed upon Machiavelli and Guicciardini that they have neglected the political thought of the lesser humanists, relegating all their eloquent imaginings, their learned constructions, their impassioned pleadings to that world of useless, if high-sounding, words, of abstract affirmation and unpractical idealism, which goes under the name of “rhetoric”. They dismissed as rhetorical the stoic pathos which revived in the last tyrannicides and in the many treatises on the theme De optimo principe; the patriotic eloquence, rich in memories of ancient Rome and of the free commune, which continued from Cola da Rienzo's movement up to the late apologians of the princely houses, in praise of whom it is said that they thought always and only of the well-being of Italy5.

The rejection of this type of rhetoric6 is expressive of a political realism eager to face actual events and their specific problems and averse to ideologies. It is true that from this point of view no amount of research, however rich in results and in new interpretations of detail, can shake the negative judgment upon the ethico-political worth of humanism7; for even if the oratory of the humanists corresponded to exigencies profoundly felt in the society of the time, or in particular groups of that society8, it remained merely an expression of aspirations and desires, and never passed from the stage of nostalgia to that of deliberate planning. They confined themselves to moral generalizations9. On the other hand it must be remembered that the political thinkers, Machiavelli and Guicciardini, in comparison with whom the humanists are judged, are themselves steeped in humanism, in its illusions, its eloquence, and its “romantic” preoccupations10. This makes it imperative to study humanistic “rhetoric” not only in contrast to realistic politics, but as one of the sources from which politics were nourished.

Both trends are easily discovered among the antecedents of Machiavelli's Prince: it will suffice to mention here Pier Candido Decembrio who understood the heroic force of a leader such as Filippo Maria Visconti, accustomed to “anteponere statum dominatus sui saluti corporis et animae”; or a man such as Carlo Malatesta, enemy of the humanists, whom he called actors, and author of a few pages of political advice drawn up for Giovanni Maria Visconti. These pages are not the work of a literary theorist, concerned with an idealized prince, but consist of clearly drawn up precepts immediately applicable to a particular state and addressed by the governor of Milan to the city and its duke with the idea of being of real use11. On the other hand, there is the widespread appeal of the politico-nationalist themes of the Petrarchan type, the propaganda for a noble but vague ideal of peace and union among the Italian states, the insistence on the value of Ciceronian eloquence and the rhetorical celebration of the spiritual renewal of Italy12.

We shall continue to understand by politics the realistic politics of Machiavelli as defined by his interpreters and commentators, from De Sanctis to Burn, Ercole, Chabod, Russo13 – that is, politics founded upon the experience of facts and upon theoretical reflexion on political events. By rhetoric we shall not understand merely the art of oratory, as defined, for example, by Pico della Mirandola in his famous epistle to Ermolao Barbaro; that is to say, the art of persuasion at all costs, by all kinds of meretricious literary devices and by appeal to the emotions, in order to obtain a practical result14; but we shall include in this word a faith sincere, though still somewhat ingenuous and crude, in virtue, in passion, in dignity – ideals which are open to many different interpretations – in short, aesthetico-moral ideology. The fact that public opinion and the able political leaders of the Humanist and Renaissance period attached so much importance to elegance in speech, to the use of pure Latin and the Latinized periods of Italian, to a general but exalted knowledge of maxims, of examples of perfect princes and perfect republics, to the patriotic and religious ideal of the return to Roman civilization – all elements of “rhetoric” – shows us the political importance of such “rhetoric”. An enquiry of a general character into this subject cannot be contained within the limits of an article; we must confine ourselves to the analysis of one particular case which, on account of the greatness of one of the personages in the background – Machiavelli – and the moral seriousness of the other persons concerned, may be regarded as typical for the process by which the “rhetoric” and literature of the humanist tradition becomes political action in pursuit of an idea.

II. The conversations of the Orti Oricellari

The facts of experience which furnished the material for the reflexions of Machiavelli were found above all in the history of northern Italy and of Cesare Borgia; but the setting in which he expounded his problems and conclusions was Florence, rich in philosophical and literary tradition. It was natural enough that in the study of Machiavelli's surroundings more attention should have been paid to his political friends – the great Guicciardini, Vettori, Soderini – than to the philosophers and men of letters whom he used to meet in the Orti Oricellari. Yet the discussions which were held there can give us a vivid and complete impression of all the interests with which these men were preoccupied, and supply a useful illustration of the connection between political consciousness as personified in Machiavelli, and the literary and rhetorical tradition of the humanists.

All Machiavelli's biographers and commentators have made mention of the conversations in the Orti Oricellari, but, as it happens, in a rather hasty fashion and solely in reference to external events; or if they dwell upon them at all, it is in order to examine the extent to which Machiavelli was implicated – whether deeply, slightly, or not at all – in the plot of 1522 against the Medici15. Russo alone, amongst the moderns, has taken account of the setting of the Orti Oricellari in his commentary upon the Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio. In analysing the tenth chapter of the first book in which Machiavelli discusses the fame of Caesar, Russo points to the controversy between Poggio Bracciolini, defender of the civil fame and virtù of Scipio, and Guarino Veronese, champion of Caesar's greatness. He observes that Machiavelli, in adopting Bracciolini's view, probably painted Caesar in still darker colours, influenced as he was by the temper of his young friends of the Orti Oricellari who were piagnoni and republicans, and by all the literature against tyrants which, from the fourteenth and fifteenth centuries onwards, had had a wide vogue. Certainly the vivid style savours here and there, and particularly in the final description, of literature16.

The meetings of the Orti Oricellari bring to a close a long tradition in Florence of literary and political conversations. This tradition begins with the talks upon moral, philosophical, and political themes recorded in the Paradiso degli Alberti and with the debates upon the relative merits of the active and the contemplative life collected in Landino's Disputationes Camaldulenses17. It remains as it were suspended and resolved in the philosophical discussions of Ficino's Platonic Academy, although even the arguments of Ficino and Giovmanni Pico on remote problems of pure philosophy might be said to contain political implications; and it finally reappears in a livelier and more insistent form towards the end of Florence's independent life as a literary and religious centre, in the decades which precede the Sack of Rome and the fall of the last Florentine republic18. The names of some of those who frequented the Orti Oricellari are known, and in some cases we know also their lives; it is recorded in a general way that the discussions dealt with politics and literature; that Machiavelli there read aloud the chapter on conspiracies in his Deche; that the meetings were attended by Trissino who introduced discussions upon the Italian language; by a pupil of Ficino's, Francesco Diacceto, who discoursed there on love; by the poet Luigi Alamanni, the writer Antonio Brucioli, and other young men who planned in 1522 a final and unsuccessful republican conspiracy against the Medici19. One also learns that Machiavelli dedicated his Arte della Guerra and the Discorsi to some of the principal members of the Orti, which he also made the scene of the dialogues on the Arte della Guerra. But nothing more precise is known of the content of the political, moral, and philosophical arguments; only the discussions on language introduced by Trissino20 are recorded, which seem to have inspired the founding of the Accademia della Crusca. Yet the presence there of Machiavelli is enough, as Russo's observations have shown, to make us think how interesting it would be to have some more exact knowledge of these conversations.

Now, a source exists from which precise information may be obtained: the dialogues written and published in exile by Antonio Brucioli, who took part in these conversations21. The attention of students has never, so far as we know, been turned to these dialogues, probably because the main interest presented by their writer does not concern his earlier Florentine activity, nor his life immediately after his exile, but rather centres upon his religious and heretical propensities which began with his Italian translation of, and his quasi-Protestant commentary on, Pagnini's Bible22. For students of the political life of Florence, Brucioli loses all interest after his flight from that city following the failure of the conspiracy in which he had taken part; and on his return to Florence during the final republican attempt he appears to be isolated among the piagnoni who regarded him with suspicion and aversion on account of his “Lutheran” ideas. On the other hand, for students of the Reformation movement in Italy, his non-religious activity presents no particular interest23. Yet even in the first edition of his Dialoghi the reader notices the accents of a particular situation, although the speakers have fictitious Greek and Roman names: and in the second edition there actually appear the names of the members of the Orti Oricellari – Rucellai, Trissino, Machiavelli himself, Alamanni, with whom Brucioli had kept in contact in exile, and others. Even though these dialogues, which are imagined to take place in Venice, Pesaro, Urbino and other meeting places of the Florentine exiles, may not inform us of the exact opinions of the various speakers – which would not, indeed, present more than an interest of curiosity, since we have the works of the most important of them – they do depict at closer quarters the atmosphere of the Orti Oricellari and its preoccupations. The knowledge, however scanty, that we have of Brucioli's personality, the fact that he was continually associated with Alamanni, and the type of argument which he offers in his Dialoghi, all combine to indicate the value and interest of this source24.

III. Antonio Brucioli's Dialogues

In order to show the connexion of Brucioli's dialogues with the Florentine tradition and at the same time determine the limits of their usefulness for establishing the contact of humanist 'rhetoric' with political interest – limits due to the particular shade of Brucioli's religious opinion – we shall start with the dialogue on Letters and Arms, which by its very theme strikes the key-note of our problem25. The dialogue revives the old contrast between the active life, especially political and military, and the contemplative life, including the function of literature in preserving the record of great undertakings which would otherwise be forgotten; this contrast had aroused a particularly keen interest in Florence from the first decades of the fifteenth century26 and was now more poignant than ever. To the argument of Letters, Arms at one point replies as follows:

When great deeds are in themselves wonderful and worthy of praise, even though they are unrecorded they are not for that reason less laudable, outstanding, and memorable; and if the noble deed remains without a witness, it is yet sufficient that it should be known to thine own conscience and to God27.

Here we see the humanistic passion for “great deeds”, but it is no longer directed towards the desire for glory and a reputation with posterity: the approval of conscience is enough. This is not a common motive in humanism, not even in the Savonarolesque atmosphere of the Florentine piagnoni, as is shown in the case of Boscoli, for whom “conscience” was not enough28. We can therefore make use of the political, moral, and philosophical conversations in Brucioli's Dialoghi but not of those on religious subjects.

The themes of the first book of Brucioli's Dialoghi are typical of the traditional Florentine discussions between Platonists and Stoics29. The mixture of realism and ideology which prevails in the treatment of these themes may best be demonstrated if we start by describing a number of strictly “literary” motifs contained chiefly in the dialogues on Friendship and Anger, and in some of the political dialogues. Against this background of literary τὸποι, we shall set the realistic decisions derived from them, as they affect the organization of communal life, especially the distribution of property and the training of the militia.

The dialogue on friendship contains already in the first edition the names Jacopo and Luigi, that is Jacopo da Diacceto, one of the plotters against the Medici who was arrested and condemned, and Luigi Alamanni, not the poet, but the soldier, who was also involved in the conspiracy and condemned to death30. The dialogue is a kind of memorial to the lost friends. The praises of friendship, hyperbolic in style, are put into the mouth of Cosimo Rucellai, who rises to this poetic vision:

And for my part I firmly believe that if a man should ascend up into Heaven and survey the nature of the Universe and the beauty of the stars, this glorious sight would not make him happy if he had no friend to whom he might communicate it; but that it would fill his heart with gladness if there were with him someone to whom he could speak of it in friendly fashion...31.

Then, following the Platonic model, he continues with a dissertation upon true friends, those who are joined by love of virtue, and false friends who are so from pleasure or utility.

Ficino's Platonic movement had softened down all the traditional political problems of Florentine humanism into philosophical problems of a general character. Thus, the revaluation of ‘anger’ which was so important to Bruni and Palmieri, and to Florentine humanism in general, and which was taken up again by Landino32 is here less strongly marked, being veiled by rational and moral preoccupations which probably also reveal the influence of tendencies associated with the piagnoni33. In the dialogue on anger, which depicts that emotion in all the gloomy colours of a moral treatise in the Stoic and Senecan manner, Brucioli causes this question to be put to one of the speakers:

Some people (as you probably know) have wished us to think that anger is a useful and natural thing.

To which it is replied:

It is not our business to search out what others have thought, but if we are speaking of that kind of anger which proceeds from right and reason, which is perhaps the kind which they mean, this is not anger, but a certain impulse towards justice34.

The representative of Florentine tradition insists that “Nevertheless Aristotle said that anger was a necessity, for nothing could be achieved unless it filled the soul and set the spirit afire; but that it was well to use it not as a Duke but as a Knight. The reply is:

It may seem a bold thing to contradict such a man, such a wonderful student of nature, nevertheless in this matter I am not in agreement with him....

For anger, which causes one to reason falsely, carries one beyond the prearranged limit, as happens when, in an assault, over-enthusiastic soldiers do not listen to the order to halt. Brucioli concludes with the alternative that the passion which achieves great things either follows reason, in which case it cannot be called anger, or does not follow it, in which case it is harmful and to be avoided and condemned. So for him “fortitude”is not concerned solely with fighting (constancy in resisting the enemy in warfare) but includes constancy in all the virtues against all the vices; and this generalization is justified by an express reference to the Stoics35.

The majority of the political dialogues keep even more within the traditional views: the laws of the republic should be laid down by a philosopher, that is, by a “lover of wisdom”, and all the citizens should also be of this nature. For this wisdom “teaches us for our own good to know ourselves, which is a most difficult thing...”36. Here and there are allusions to Florentine life37. But on the whole the text does not deviate from the general catalogue of duties “towards God, towards father, mother, oneself, one's country, one's friends and relations, pilgrims and beggars”38; nor from the purely humanistic search as to ”how by the best laws and institutions man may become good”39. The laws of Solon40 are recalled, and the Medici compared to Thrasibulus and Dionysius.

According to the dialogue On the prince there are two types of a true government by princes: “when the prince rules in accordance with the laws and remains subject to them, and when he has absolute but hereditary power”, and this kind of monarchy is secure ”because the prince rules the kingdom in accordance with the custom which has been handed on to him from his ancestors”41. The prince should fear God and be adorned with all the virtues; for “a king is nothing else but the guide and reformer of his people”. At one point one of the speakers, on hearing the catalogue of all the virtues which a prince ought to possess, makes the comment:

You are speaking of things very difficult to obtain

to which the principal speaker replies:

Yet not of impossible ones; for it would all follow easily if the Prince would actually be as he wishes to appear42 .

This moral optimism is the strongest of the humanist traits in Brucioli's thought and it probably corresponds to the ideas of the Orti Oricellari all the more since Platonism was there directly represented and Brucioli's conception of the best prince is founded on this reasoning:

The prince in truth is nothing but the physician of the Republic. And as not all parts of the soul are of the same value, but some command whilst others obey, and those which command are the best, so the Prince is the summit of the people...43.

Purely literary, also, is his conception of the military chief, for whose training

it is of no small assistance to read history and the tales of deeds done by other captains in ancient and modern times, endeavouring,

says Duke Francesco Maria da Feltre to his son Guidobaldo44,

to imitate them in all their most perfect operations: for it is virtue and prudence which finally gain dominion over all things, although fortune may have much power.

The picture of the tyrant is also the traditional one; he is wicked and unhappy, and therefore, at bottom, a wretched man who deludes himself in thinking that he possesses power, fame, and wealth, all of which he is destined to lose, and which, moreover, do not constitute the true good. Yet within this setting of conventional ideals of a somewhat vague and Utopian type, we shall find that particular problems are worked out which have a direct political bearing.

IV. The Distribution of Property

In the dialogue On the republic, Brucioli sets out to investigate “what are the best republics and how they are constituted”, but he at once specifies this question in a realistic sense:

I mean those which have really existed or could exist, not those impossible ones which someone has imagined after the pattern of the fables of poets, by stressing the uniformity of nature rather than the variety of the souls of men45.

Brucioli insists that his projects can materialize

and some (perhaps wishing to show off in words the severity of their Philosophy) have planned communities of stolid friars and of thoughtless nuns rather than a well-composed Republic, after the manner of those Poets who praise the Golden Age, yet not one of them, if it really existed, would care to live on those acorns which they describe so poetically. And if I am to say what I think of it, I am of an entirely opposite opinion46.

The arguments against communism of the Platonic type are long and meticulous and seem to bear witness to a strong levelling tendency amongst these young men: the principal speaker (who in the second edition is Trissino) admits, in substance, the principle of the equal distribution of wealth, yet shows himself opposed to communism, for “what is common to all inspires little zeal”. To which one of the secondary interlocutors, who in the second edition is Machiavelli himself, adds:

This does not appear to be in keeping with reason in the natural sense of the word inasmuch as one should always be more ready to accept the universal than the particular.

This draws the reply:

I do not propose to discuss now whether or not it is reasonable: that must be reserved for another occasion. But I desire that we should speak from experience, which is often the mother of knowledge. We see every day that when there are many people attending to one thing in which many participate, one thinks that another is doing what is necessary, and so they all leave off work. This occurs in the service of great persons. Where there are many to minister to one, he is often worse served than if he had fewer about him, for one waits until the other does it, and is afraid of doing more than the other.

The principal interlocutor then takes as an example the communal property of women, which is naturally rejected as a source of confusion, disorder, and other evils; the common property of goods, on the other hand, is still insisted upon, until the principal speaker fastens upon a sort of functional conception of private property which should conciliate both common and private ownership:

for land ought to be private property in the sense of belonging to its lord, but common property in so far as the exchange or sale of its produce is concerned.

From this there would follow two advantages, one that everyone would take care to work his field well and look after his own possessions, knowing them to be his own; the other that the goods would be

common for the use of all, in accordance with the proverb which says that things which are owned amongst friends belong to them all; and thus it is clear that it is better that things should be privately owned, yet used for the common good, than communally owned altogether.

In this way, by arguments meant to appeal to common sense and to a sober view of human nature, prefaced by polemical assertions upon the worth of experience as opposed to the deceits of theory, the other questions are solved: whether wealth ought to be equally distributed (which is rejected on general lines, but with the restriction that private wealth ought not to exceed a certain level), what class ought to be entrusted with the government of the country, the rich, the moderately well-off, or the poor (the second of these being defined as a class of landed property owners, well established and able to dedicate themselves to the business of government, but excluding merchants), and so on; the whole being modelled upon Plato with an admixture of Aristotelian elements47. And to this is added the description of an ideal city which the principal speaker had seen (in the second edition Trissino reports the account of a friend) “in Matthien, one of the five islands of the Moluccas, whither I sailed with Migellano (sic) four years ago”48.

V. The Training of the Militia

In the introduction to the first edition of the dialogue Della Republica49, a certain Phalerio speaks in praise of trade as the one activity which is really useful to the republic, that is, to the citizen state, to the community of free men (landed proprietors, merchants, etc., of medium wealth); and against him argues Carmene who maintains that an army is a necessity in a well-organized state. Carmene's arguments are borrowed from Plato's Politeia, and have their origin in the traditional reasoning.

A republic will be in a much better position for making war on its neighbours when necessary, or for defending its liberty, when its army consists of its own citizens rather than of foreigners hired for money50.

The opponent of military life observes:

You will never make me believe (whatever you may say) that war is not a great and most pernicious evil, caused by the savagery of human appetite, whilst peace is a sovereign good, a divine blessing bestowed upon us by heaven.

To which Carmene replies:

Yes, when war is waged from the lust for blood and the slaughter of men, or from the greed of power and wealth, or in a word, from malice and not in order to save the liberty51 of the republic and preserve its best laws...

What appears here, at the beginning of the dialogue, to be a theory of the just and defensive war, the fruit of the Florentine traditional admiration for the army and the soldier's life – a tradition which from the beginning of the century was toned down and rendered more idealistic in character by the study of Plato – shows itself later on as a nostalgia for the constitution of the commune: at one point the existence of an army is justified by the observation that ”the boundaries of the contado must be greatly extended” in order that provision may be made for the material sustenance of the citizens. That the army ought not to be mercenary is shown by the example of the Late Empire, and the fate of the Carthaginians after the first Punic War52. Again this argument, though apparently founded on empirical fact, is at the same time justified by abstract Platonic speculations:

Do you not hold with the other philosophers that the soul is nobler than the body, and more necessary to life than it is? – I do hold that. – Then a well-regulated militia, such as a civil society can raise and maintain and increase, is much more necessary to a republic than trade or any other section of its life, for it can exist without these, just as a man can live and can be called good without one of his smaller members but not without his soul53 .

Naturally one cannot use the soul of another, and consequently one must use one's own army as one uses one's own soul – quite apart from all practical considerations, such as the greater confidence which can be felt in soldiers who are defending their city and their country.

Thus, be it even in a primitive and crude form, the men of the Orti Oricellari used to discuss questions concerning the relations between politics and ethics, with the endeavour always to subordinate the former to the latter. That is to say they aimed at finding a principle which would ensure the supremacy of morale, reason, the highest human qualities, over politics, such as the reality of events had taught them to see them and such as Machiavelli was later on to theorize on them. The most popular solution of these investigations into the philosophy of politics, as it appears in Brucioli, was strictly conservative, directed towards the restoration of communal administration, with its insistent search for justice. But at present we are less interested in the solution presented by one of the participants in the discussions of the Orti than in the method by which he sought to find an approach to it – a method which was typically humanist and which stood in close relationship to the other problem treated with so much insistence in the Orti Oricellari: that of language.

VI. The Teaching of Language

The importance which humanism attached to education and to the training of the child is well known: and Brucioli shares this extraordinary faith in the possibilities of education and educational methods54. It is less in the dialogue expressly devoted to the Education of Children – where he repeats the traditional Platonic ideas on education of a Spartan character, conducive to sobriety, obedience, and bravery in war, as well as the characteristics of liberal Renaissance education as a whole – than in the dialogue on the laws of the republic, that Brucioli displays his belief in the political value of education. He proposes in fact that children

instead of those foolish games on which they are nowadays intent and which are of no practical importance, should be made by law to exercise themselves in those which are useful training for soldiers, teaching them through feigned battles to excel in real ones, and should also be made to have childish laws and judges amongst themselves who should impose childish penalties upon law-breakers... and then, learning either privately in houses with their tutors or in public colleges (which seems to be much the better way), they should be made zealous for the highest disciplines of most holy Philosophy... And only those disciplines are worthy of being called the best for the training of youth which are needed for the government of the Republic55.

This belief in the political importance of education results in a characteristically humanist postulate. All education for both civil and political life culminates for Brucioli in the teaching and learning of the classical tongues – of Greek and Latin.

But in order that the republic should flourish and maintain itself in safety and strength, it is necessary that its citizens should be learned and wise, virtuous, reasonable, well-educated, and by their good actions acceptable unto God. And as a proof that this is the true utility of the Republic, observe what the Romans used to do and in what manner their sons were brought up, who between the fifteenth and twentieth years became skilled in the Latin and Greek languages and later in all liberal disciplines, after they had acquired which they were sent into the army, and thus were formed those great and wise men, memorable for all time, such as the Camilli, the Fabii, the Scipios, the Pauli, the Catos, and many others adorned with all kinds of knowledge. And this is the great and chief reason why they were able to extend their rule to the four corners of the earth. This have I said so that we may realize that sacred letters and the best kind of instruction cannot be comprehended, nor can perfect citizens be formed, without the aid of similar schools, for languages are like a sheath within which lies hidden the sword of the Spirit, that is to say the word of God, or like an ark or a shrine within which is kept and preserved that noblest vase of gold ; they are like chalices in which we carry about with us the life-giving drink which we receive from the divine spirit...56.

With this importance assigned to language, which is conceived of not merely as a means of expression and as a “sign of our operations”57, but as the vehicle of the spirit and the essence of wisdom, the interest in the Italian and Florentine language and its power of expression appears in a new light.

Humanism has always attached great importance to the problem of elegant expression and correct language. As we have seen in the attitude of Pico58 and as can easily be demonstrated from Brucioli's own text59, the defect of oratory and rhetoric as an art of persuasion was readily admitted. The taste for eloquence and for pompous expression was a manifestation of the strong emotional repercussions which these imaginative men associated with the spectacle of political events and military enterprises, the rise and disappearance of hopes in which they all shared to some extent, such as that in the pacification and unification of Italy through the ideal of Ancient Rome. But already – as a contemporary of theirs and one of the most famous representatives of humanism bears witness – eloquence was no longer allowed full play. In political assemblies, in the presence of princes or of the people, it was necessary to speak in the vulgar tongue; in the tribunal more attention was paid to the cogency of the argument than to the speaker’s art: eloquence remained only as an act of demonstration, as a kind of display. So Pier Paolo Vergerio the elder tells us60.

This eloquence “of parade” might sometimes have a substratum of feeling, an emotional impulse, as is shown in the many tirades and polemics over the granting of Roman citizenship to Longolio61 which have remained famous not only because they attracted Erasmus’ attention, but because of the passion which informs them, the excitement and strong feeling with which the disputants contend in the name of the coveted revival of ancient Rome. There might, then, at certain times and in certain places, be assigned to rhetorical eloquence of this kind the task of arousing those fierce and generous sentiments which would stir the civic spirit and might give new life to the political and civil ideas of Rome62. But on the whole, humanist oratory remained an oratory “of parade”, of ceremony, and it had little political importance apart from its use for publicity and propaganda.

More interesting, therefore, is the use made of rhetoric in the sense of an art of precise expression, of “stylistics”. Not the rhetoric of Lazzaro Bonamico or of Gasparino Barzizza or of invectives modelled on the Verrine orations: but that which is to be found in the Elegantie of Valla which derived from a different impulse, neither sentimental nor aesthetic: from the desire of understanding and of making oneself understood without ambiguity, without being involved in traditional prejudices, without allowing oneself to be deflected by oratorical magnificence, nor by the tortuosities of philosophical terminology. Valla's attempt at renovating and purifying the Latin language derived from the belief that there was upon it the mark of the divine will. He had tried to meet the need for clear speaking, precise definition, careful weighing of the full meaning of words – the need, in short, of renewing thought through language. In order to do this he had drawn from theology and jurisprudence a formula which was primarily philological and grammatical.

This appealed to the young men of the Orti Oricellari who had been trained in Florentine philosophy. Still keeping to the humanist illusions on the political importance of educational ideas, of an abstract ‘virtue’ and its various abstract personifications, still hoping to make true by means of these concepts their political ideal of return to the old Florentine communal organization which was based on the middle-classes and the land-owners, they devoted to their own Florentine and Italian tongues the same care and attention which Valla had dedicated to Latin, and with the same end in view63.

VII. Language and Arms as Political Instruments

The question of language, of ‘rhetoric’, no longer Latin but Italian, is now seen to be analogous to the question of military service and the profession of arms. After the pronouncement which we quoted on the importance of the study of Greek and Latin for the moulding of the citizen, Brucioli makes one of his speakers raise the objection that all citizens of the ideal republic would not possess the means to have their sons taught languages for such a long time:

Not everyone can thus lightly forgo the help of his sons' labour, and raise them in literary leisure.

To which the principal speaker replies:

Do not imagine that I would wish schools like those which had hitherto existed to be established in the Republic, schools in which children waste more than twenty years in learning Donato or committing to memory Alessandro’s most tedious verses, without growing wiser in any respect: happily, our age is beginning to see in what way languages and other subjects ought to be learnt: and in my opinion it would be sufficient for the youths to spend not more than one or two hours a day in school64.

Brucioli, and probably the other young men of the Orti Oricellari circle, thus intended to diffuse as widely as possible the study of languages and those subjects of learning which would teach and develop the civic virtues; they also aimed at improving educational methods and making them more accessible, so that no citizen need allege poverty as the reason for debarring his sons from instruction, which they wished to be made public. From this it was an easy step to the discussion of the value for this purpose of the Italian and the Florentine tongues: the nature of such discussions is not apparent from Brucioli's dialogues, which are set in an atmosphere of abstract philosophy, but we can gather something of it from a remark made by Gelli, a member of the people's party and in his youth an eager visitor of the Orti Oricellari:

I have heard it said that M. Constantino Lascari, that Greek whom the moderns hold in such high esteem, used to say at table in the Rucellai gardens in the presence of many gentlemen of whom some, perhaps, are yet living, that he. thought Boccaccio inferior to none of the Greek writers in eloquence and style, and held his hundred tales to be as good as any hundred productions of his own poets65 .

The object was, then, to see whether the Italian or the Florentine language was capable of the same fluency and eloquence, the same precision of speech, the same potentialities of rhetorical expression as the Greek, to establish Florentine speech as “most apt for the expression of all philosophical conceits ... and as good as the Latin, or even the Greek tongue, about which they make so much ado”66. This aim of language-teaching was similar to that which underlay the training of young citizens in the use of arms, namely, to find a means of educating more and more sections of the people in virtue and thus to give the greatest possible force to the 'Republic,' that is, to the State.

Machiavelli was to give another interpretation of his faith in the militia and in the Italian arms67; but the young men who disputed at the Orti Oricellari about politics and literature, language and the state, were seeking rather to infuse a sense of the moral life and of social necessities into literature and into humanism because they conceived of both as educative forces, vital not only for a select group of citizens through the medium of the classical tongues – but for the people whom, through the use of their own language, they wished to interest in their ideal of a public life guided by virtue. And just as their exaltation of military service, which the Florentine bourgeoisie had long abandoned, was based upon their nostalgia for the robust age of the free and autonomous commune, governed by citizens capable of taking the field to defend it, so the interest in languages concealed a nostalgia for the great period of Tuscan literature. The reason for the decay of the Florentine language was the same as that for the decay of arms and of communal liberty:

Our people having devoted themselves to trade and not to literature and the other arts which have always flourished here, they became backward and almost entirely lost the skill and art in the use of our language which the three whom we have mentioned above possessed:68 and the first of those who began in Florence to revive that skill, both in speech and in writing, were those same men of letters who used to go to the Rucellai gardens. Some of these intelligent men, Cosimo Rucellai, Luigi Alamanni, Zanobi Buondelmonte, Francesco Guidetti, and others, who often in their dealings with Cosimo found themselves in the garden in the presence of those older men, began to make the above-mentioned observations, after which the language regained the esteem which you now see it to possess69.

It was thus the same aspiration, the same political exigency, which both through arms and through language tended towards a return to the beginnings, to a reconstitution of communal life within a vague adumbration of Italian unity. In the minds of these young men, who were seriously and passionately interested in philosophical and political problems, full of that moral enthusiasm for “virtue” so characteristic of humanism70, the “rhetorical” style, which “makes the best things more beautiful and suppresses the others”71, became one with that most political of instruments, arms. Rhetoric and politics were for the humanists – and we have here studied the Florentine humanist atmosphere which was the most realistic and the most susceptible of lively political passions – one and the same thing since both were founded upon ethics. And from these political passions, this ethical and educational enthusiasm, the Florentine humanists and literati returned, towards the sunset of Humanism, to ‘rhetorical’ problems – literary, philological, linguistic – but always with a political preoccupation.

The project of achieving the civil and political education of the people by means of the translation of philosophical and literary works was no less illusory than that of realizing their own political ideas through the institution of a popular militia. The vagueness of their thought escaped these young men, in so far as a language cannot be renewed unless its spiritual content is renewed: and the individualism and intellectualism of Humanism showed itself afterwards in the theoretical elaboration of questions of language – from which there sprang, amongst other things, a revival of Florentine particularism72 – and in the cold technicalities of linguistic and philological dispute. Nevertheless the illusion which these young men entertained as to the importance of bringing over “rhetoric” from Latin and Greek into Italian, and as to the political function, the possibility and the practical usefulness of such a task, has proved itself less great than the analogous and parallel illusion as to the possible return to the principle of a militia and its consequences. For whilst the latter was soon dissipated by the facts, the language question which was posed in the Orti Oricellari had a wide response at the time and has for long since accompanied the history of Italian political and social aspirations, which it is not our business here to expound in detail. Our aim has been simply to demonstrate, by means of a particular case and with material part of which has not hitherto been utilized, how there is no schism in Italian humanism between ‘rhetoric’ and ‘literature’ on the one hand and ‘politics’ on the other, but that politics draw their sap from literature which in turn they fertilize.

Note

1. On this period see F. Ercole, Dal Comune al Principato, Saggi sulla Storia del Diritto Pubblico del Rinascimento italiano, Florence, 1929; the chapter L'Italia della Rinascenza in G. Volpe, II Medioevo, Rome, 1926, 495-533; G. Volpe, La Rinascenza in Italia e le sue origini, in Momenti di Storia Italiana, Florence, 1925, 95-128.

2. Cf. F. De Sanctis, Storia della Letteratura Italiana, Bari, 1925, vol. I, 415. See also F. Alderisio, Machiavelli (Turin, 1930), and Toffanin in his two books, Che cosa fu l' Umanesimo, Florence, 1929; Storia dell'Umanesimo, Naples, 1933.

3. Croce, Teoria e Storia della Storiografia, second ed., Bari, 1920, 212 ff.; except for the acute and profound psychological analysis of the character of the Prince, the same interpretation of the pragmatico humanist character of Machiavelli's history is to be found in the fine essay by F. Chabod, Del “Principe”di N. Machiavelli, Milan-Rome-Naples, 1926.

4. H. Baron, La Rinascita dell'Etica Statale Romana nell'Umanesimo Fiorentino del Quattrocento, in “Civiltà Moderna”, VII, 1935, 48-49.

5 See for example Gerolamo Falletti's oration on the death of Ippolito d'Este, where it is said of the Este family: “nullum genus, quod italo nomini maiora beneficia dederit; nulli homines, qui acrioribus studiis libertatem defenderint, ac legibus institutisque custodierint. Estenses, inquam, exstiterunt, qui rem militarem obsoletam in Italia ... cum virtute, tum etiam disciplina revocarunt. Estenses Italiam, ut externum iugum excuterent, seque in libertatem vindicaret, partim rationibus et consiliis, partim etiam potestate coegerunt” (Orationes XII, Venice, 1558, 21, r. v.). Here are all the themes of Italian political propaganda of the time: regret at the diminished strength of the army, the conception of “Italian liberty”, that is, the independence of the Italian potentates from foreign hegemonies; the glory of the “Italian name”, and so on.

6. For the most recent studies running counter to this view, see F. Battaglia, Lineamenti di Storia delle Dottrine Politiche, con appendici bibliografiche, Rome, 1936, 118 ff.

7. G. Gentile, Giordano Bruno e il Pensiero del Rinascimento, Florence, 1925, 18; Croce, Teoria e Storia della Storiografia, op. cit., 209.

8. As Baron has well shown in the above-mentioned study with regard to Ciceronian civil ethics and the Florentine bourgeoisie of the first half of the fifteenth century; and as P. Gothein has shown with regard to Venice in his Francesco Barbaro, Berlin, 1932.

9. The theme is always that of the theoretical and ideal treatment of certain well-defined political and social exigencies (communal life and aristocratic republicanism at Florence and Venice respectively) which are transposed to a philosophico-moral plane. In order to establish the value of such a position it would be necessary to investigate the complexities of psychology and personal history, which is extremely risky. Naturally no one doubts the moral seriousness of people like Palmieri and Barbaro; but history has shown the ineffectiveness of their political ideas. For the subject of political propaganda based on an appeal to public opinion sympathetic to the idea of Italian unity, mention must be made of the articles by N. Valeri, who has shown (L'Insegnamento di Gian Galeazzo Visconti e i “Consigli al Principe” di C. Malatesta, in “Bollettino Storico Bibliografico Subalpino”, XXXVI, I934, 468 ff.) how the protection accorded by Gian Galeazzo to poets and literary men was connected with his policy, for he found it expedient to attach his own actions “to a great though necessarily vague programme for the re-vindication of Italian and Roman glories, republican and imperial, consoling the misery of the oppressed and tormented Italians with the Messianic expectation of some kind of liberating ‘Veltro’” (allusion to Dante, Inf., I, 105), Valeri also notes how, notwithstanding the fact that such Petrarchan themes were now unfruitful and weak like all obsolete things, yet “the diffusion of such praises, assisted by the relations of the court humanists – such as Antonio Loschi and Pasquino Capelli, the duke's secretary – with the humanists of the principal cities, helped him to capture the favour and respect of the cultured Italian classes”. See also Valeri's Lo Stato Visconteo alla morte di Gian Galeazzo, in “Nuova Rivista Storica”, XIX, 1935.

10. As expressed and interpreted by A. von Martin, Soziologie der Renaissance, Stuttgart, 1932, 72 ff.

11. See Valeri's articles, already quoted, and, for a general notice, the article on Signorie e Principati, by G. Falco in the Enciclopedia Italiana, Vol. XXXI, 759, where reference is made to the Vita Philippi Mariae Vicecomitis”by Decembrio. For Decembrio see F. Gabotto, L'attività politica di P. C. Decembrio e la sua attivià letteraria, in “Giornale Ligustico”, XX, 1893; here can be observed the political basis of much humanist polemic, such as the quarrel between Decembrio and Guarino over Carmagnola; but it remains on the level of the most obvious propaganda.

12. For this it will be sufficient to refer to the studies by Toffanin mentioned above (p. 83, note 2). Toffanin's two works illustrate the utility of researches such as the present, for though the importance and seriousness of rhetoric, of the oratorical tradition, is there admitted, he does not discriminate between those themes of Ciceronian eloquence which had some real, acknowledged connection with the needs and problems of the time, and those which were conventional and “rhetorical” in the bad sense of the word. The merit of Toffanin lies in having brought out the vitality of the nationalist and Petrarchan side of humanist tradition, the beginnings of' which were traced by Burdach in his wellknown studies. There is a vivacious critique of the humanist ideal of the Petrarchan type by G. Ferrari, Corso sugli Scrittori Politici Italiani, 2nd ed., Milan, 1929 (the first Italian edition was in 1862), especially 121 ff.

13. As well as the works already quoted, see F. Ercole, La Politica di N. Machiavelli, Rome,1926; Da Carlo VIII a Carlo V, Florence, 1932; L. Russo in his Prolegomena to his edition of the Principe (Florence, 1931). To Russo, and especially to his commentary on Chapter XV of the Principe, I am indebted for the conception of Machiavelli's opposition to humanist tractates, and his conception of virtue (see especially notes 7-8 on p. 117 and 38 on p. 120, where, however, I cannot agree with Russo's identification of the humanist ideal of virtue with that of the Middle Ages).

14. Opera, Basilea, 1601, 352; for the analysis and interpretation of this letter see Toffanin, Storia dell'Umanesimo, 230 ff. Pico's attitude in contrasting philosophical truth with the artificiality and bombast of the orators is analogous to that of Machiavelli who contrasts effectual truth with the “something which seems like virtue” of the humanists (Principe, Chapter XV, towards the end); Toffanin's analysis, although not differentiated, is useful here to our enquiry. For Pico's moral, political, and religious views see A. Corsano, II Pensiero Religioso Italiano dall'Umanesimo al Giurisdizionalismo, Bari, 1937, 51, 53.

15. See G. Capponi, Storia della Repubblica di Firenze, Florence, I875, Vol. III, Book V, chapter VI, I56 f.; O. Tommasini, La Vita e gli Scritti di N. Machiavelli nella loro Relazione col Machiavellismo, Turin-Rome, 1883-1911, Vol. II, 90, 259, 351; P. Villari, N. Machiavelli e i suoi tempi, Milan, Hoepli, 1927, Vol. II, 278 f., 358, where a further bibliography will be found.

16. L. Russo, Antologia Machiavellica, Florence, 1931, 202-203, notes 33-34; 205, note 71.

17. See II Paradiso degli Alberti. Ritrovi e Ragionamenti del 1389, romanzo di Giovannid a Prato... edited by A. Wesselofski, Bologna, 1867, Vol. I, 48, 52, 69, 83. Wesselofski's observations are often interesting, as when he notices the connection between humanism and the Italian bourgeoisie, which was later examined by writers like Volpe (see p. 83, note 1); but they are often rather questionable, as, for instance, the following: “Italian politics were born at the same time as Italian erudition”. On the Disputationes Camaldulenses of Landino see G. Mancini, Vita di Leon Battista Alberti, 2nd ed. 1911, 443 ; and V. Benetti-Brunelli, Il Rinnovamento della Politica nel Pensiero del Secolo X V in Italia, Turin-Milan-Florence-Rome, 1927, where a full exposition of it is given in relation to the political thought of G. B. Alberti; and, finally, see the quotation from Landino in B. Kieszkowski, Studi sul Platonismo del Rinascimento in Italia, Florence, 1936, 40, which proves the political interests of the early Florentine reunions and discussions which led the way to the formation of the Academia Platonica. (De vera nobilitate liber, Ms. Cors. 433 (36, E-5), f. 3b-4b.

18. On the political implications of problems of “pure” philosophy, see A. Corsano, op. cit. For the political interests in the Orti Oricellari see the works already cited, and M. Heitzman, Studja nad Akademja Platonska we Florencji, Krakow, 1933, 5 ff.; see also Della Torre's Storia dell'Accademia Platonica, Florence, 1902, 742. There is a valuable testimony to the political interests of the Orti Oricellari (which is noteworthy in other ways also) in a short chapter in Pietro Crinito's De Honesta Disciplina which is a kind of little encyclopaedia of humanist commonplaces (Lyons, 1559). Crinito was amongst those who attended the lessons of Jacopo da Diacceto, called the “ Pagonazzo,”the pupil and successor of Marsilio Ficino, and he was a pupil of Poliziano's (L. Ferri, L'Accademia Platonica di Firenze le sue Vicende, in “Nuova Antologia”, I891, series III, Vol. XXXIV, 235); what he says is worth quoting here in full, for it also serves to fix a date for the introducing of politics in the conversations of the Orti Oricellari which is generally placed towards the second half of the second decade of the sixteenth century, whereas the presence of Crinito, who died probably about 1505, shows that they must have begun much earlier. “In hortis Oricellariis, cum nuper aliquot egregie docti homines convenissent, ubi de honestis literis optimisque disciplinis saepe et copiose agitur, forte incidit mentio de veterum institutis, de regenda civitate ac de Venetum clarissimo atque summo imperio”. A lively discussion then arose. “Ibidem senex quidam in officiis rei publicee homo accuratus et prudens, Volo, inquit, vobis de Venetum imperio perelegantem referre apologum quem a Francisco olim Barbaro audivi; qui nostra aetate magna vir eloquentia et consilio fuit”. The fable must be that of the gourd and the pine tree, and Barbaro must have recounted it to Filippo Maria Visconti at their meeting in January, 1444 (P. Gothein, Francesco Barbaro, Berlin, 1932, 259-260; Gothein does not know of Crinito's anecdote about his hero): the gourd had grown enormously, ripened by the summer sun, and had climbed right up to the top of the pine tree, stifling it with its leaves and tendrils. It thought that it had got the better of the tree. But the pine said: “Ego hic multos hiemes, calores, aestus, variasque calamitates pervici, et adhuc integra consisto; tu ad primos rigores minus audaciae habebis, cum et folia concident et viror omnis aberit. Sic et in Italia”, Barbaro concluded “permulte quidem sunt cucurbitae quae pinum aggredi magnopere conantur; sed habent tamen plus animi quam roboris. Quo circa brevi exarescunt aut decidunt”. (Book II, chap. XIIII, 40). Already, therefore, there existed in the Orti Oricellari a cult of admiration for the political constitution of Venice, which later became more and more evident amongst Florentine political writers, and which isnaturally to be found in Brucioli, who took refuge in Venice.

19. See, in addition to the historians cited on p. 87, note I, who all speak of the Orti Oricellari in connection with the conspiracy, F. Perrens, Histoire de Florence depuis la domination des Médicis jusqu’à la chute de la République (1434-1531), III, Paris, 1890, 84 ff.; and C. Guasti, Documenti sulla congiura contro Giulio de' Medici, etc., in “Giornale Storico degli Archivi Toscani”, III, 1859. In one of these documents (letter from Zanobi Buondelmonte and L. Alamanni to G. B. della Palla) there is a list of books which gives an idea of the reading of these humanists (p. 201).

20. B. Morsolin, Giangiorgio Trissino, Vicenza, 1878, 72-73; G. B. Gelli, Opere, Florence, 1855, 293, 305, 310. See p. 100, note 2.

21. Dialogi della morale filosofia, issued at Venice in 1526 in Folio, in 1537-1538 in Quarto; in five books. The most important from our point of view is the first book; the others treat of natural philosophy: the sky, the stars, comets, echo, the five senses, etc. The first edition contains only the first book; the other four were added in the second edition. I have quoted from the editions of 1526 and 1537-1538. Another book by Brucioli entitled Della Republica is mentioned by scholars, but I have not been able to trace it. I am inclined to think that it is the same as the dialogue which we mention later on. H. Hauvette, Luigi Alamanni, Sa vie et son oeuvre, Paris, 1903, 19, observes that these dialogues have not much philosophical and literary value; but that they present a certain interest because in the second edition the frequenters of the Orti Oricellari appear: this is of no small importance, in view of the value of those conversations, in which Machiavelli took part, and the little that is known about them. The examination of the works of Brucioli, together with the indications offered by Crinito, show us that politics held an important place in these conversations from the beginning, together with philosophy and literature (or, more exactly, the problem of language), which contradicts Hauvette's statement that politics only penetrated gradually into the conversations “a la faveur de l'histoire romaine, grace a Machiavel, et seulement aux approches de l'annee 1520”.

22. See Benrath, in “Rivista Cristiana”, 1879; E. Comba, I nostri Protestanti, II, Florence, 1897, Chap. IV, I17 ff., where a further bibliography is given.

23. And for both of them his early Florentine period is important only for his political activity, not for his work as a writer which has never been taken into account as a document for the history of the culture of this period – a period which, marking as it does the transition from the full flower of humanism to the weariness which overtook it after the sack of Rome and of Florence, presents a particular interest.

24. For the contacts with Alamanni, see Hauvette, op. cit., 85, 156, etc.

25. Book V, Dial. IV. This is the only case in which we use a dialogue not contained in the first edition.

26. H. Baron, La Rinascita dell'Etica Statale Romana, 34.

27. Compare Alamanni's Orazione al popolo fiorentino sopra la militar disciplina (Alamanni, Versi e Prose, Florence, 1859, II, 447; for the occasion of this Orazione see C. Roth, L'Ultima Repubblica Fiorentina Italian translation, Florence, I929, 116). From the first, Alamanni used classical records: “Let Athens, Rome, and Sparta speak through me."

28. Recitazione del Caso di Pietro Paolo Boscoli e di Agostino Capponi scritta da Luca della Robbia, in “Archivio Storico Italiano”, 1842; see D. Cantimori, Il Caso del Boscoli e la Vita del Rinascimento, “Giornale Critico della Filosofia Italiana”, VIII, I927, 253.

29. The subjects discussed are: On the state of man (“the fact that man is endowed with reason requires that he should be born naked and fragile and subject to infirmity, for if these things were withdrawn from him, it would follow that either he would become God and not man, or that he would be deprived of reason and become irrational; therefore – unless man were to be made something which was not man – wise and provident nature has acted in the best possible way”, Ed. 1526, folio IIII r.), On matrimony, On the government of the family. (In the 1537 edition this is preceded by a short dialogue on The duties of the wife. The dialogue On the administration of the family has as speakers Jacopo Nardi, the historian, Zanobi Buondelmonte, Battista della Palla, Jacopo Alamanni.). On the education and rearing of children, On the republic, On the law of the republic, On the training of the prince. (In the 1537 edition the title of this dialogue becomes On the just prince. In this one may perhaps see an underlying polemical purpose, or at least an intention of detaching himself from Machiavelli, suggested probably rather by the fame of his Principe than by personal aversion, for, in this same second edition, Brucioli makes Machiavelli one of the secondary speakers in the two dialogues on the Republic and on Laws). On the commander of an army, On tyranny, On virtue, On truth, On justice, On clemency, On fortitude, On temperance, On modesty, On anger, On liberality, On benevolence, On friendship, On poverty, On quiet, On desire, On human happiness, On the brevity of life, On exile, On human misery, On how one ought not to fear death, On wisdom and foolishness, Example of human life. (In the second edition there are some changes in the second part, due to the addition of dialogues such as that On beauty and grace [speakers Antonfrancesco degli Albizi, Giulia Gonzaga, Mario Viscanto] which alter the politico-moral character of the first edition).

30. Folio CIX v, in the 1526 edition. Of these two personages, the soldier is naturally little known. Concerning the second there is a curious piece of information in the life of Francesco da Diacceto, the philosopher, written by a certain Euphrosynus Lapinius, of whom little is known. In contradiction to the historians who accuse Jacopo da Diacceto of having ingenuously and frivolously revealed the plot against Cardinal Giulio de' Medici, afterwards Leo X, Lapinius says: “Iacobus Iaccetius... cuius admirabile ingenium non solum in bonis literis gravioribusque disciplinis eluxit, verum etiam animus nunquam perterritus, in ipsoque capitis periculo altissimus adeo constans confirmatusque fuit, ut antequam ipse ob aliena scelera... securi a lictore percuteretur, elegiacis versis iisque elegantissimis mortem suam prosecutus, ingenii sui monumenta reliquit” (F. Diaccetii Opera, Basileae, 1563, Vita, pages unnumbered). These verses by “Diaccettino”, as he was called, were published by P. Piccolomini (who notes that Diaccettino owed to Giulio de' Medici a lectureship in Florence) in the “Giornale Storico della Letteratura Italiana”, XXXIX, 327-334; and by Tommasini, op. cit., II, 1087, who finds therein nothing save Christian piety. The following distich, however, shows evident traces of Florentine Platonism: “Est tamen in nobis mens incorrupta; manetque/ Spiritus: abruptos nesciet illa dies...” The incorruptible mind will not even be aware of death, and God will receive, not the mind but the “Spiritus,”which may be translated as “soul”: “Hunc, Pater omnipotens, summis heu respice ab astris/Terrenisque precor substrahe blanditiis...” The invocation to Jesus,Christ is made in the following words, which perhaps recall Savonarola's devotion to the blood of Christ: “Tu quoque demissus cuius per vulnera sanguis/ Remedium nostris attulit vulneribus....”

31. Folio CXI, r.

32. H. Baron, La Rinascita dell'Etica Statale Romana, etc., 38. On this subject see also P. Crinitus, De Honesta Disciplina, cited above, who comments on a passage in Plato containin the maxim, “Est admodum arduum reperire hominem ingeniosum, qui simul etiam mansuetus, atque modestus sit” (p.10). The dialogue cited is the De Scientia, that is the Theaethetus, 144 a; cf. Politeia, 503 c-d.

33. Cf. Eutiphron, 7b, on anger and ignorance. There are but few traces of Savonarola's influence in Brucioli; but the Frate's preaching had its effect in the Orti Oricellari. Brucioli's arguments make no appeal to Christian humility, but are all of a rationalist character.

34. Ed. 1537, folio XCVIII v.; ed. I526, Cv. The definition of anger is explicitly borrowed from Aristotle ("And whence does this dreadful pest draw occasion for its evil working which does such harm to the human race? –From an intense desire that those who have offended you shall be punished: although Aristotle defines it as a desire of avoiding pain, nevertheless that definition (when well considered) is not much different from our own.”Ed. 1526, XCIX v).

35. Ed. 1526, Dialogue XIV, folio XCII, r.
“The Stoics said, speaking of fortitude, that it was the science of knowing what is to be feared and what is not to be feared, both in war and in other actions.
– Wonderful indeed was that definition.
– Yes indeed; but fortitude extends farther than that....” (XCII, v.)

36. Folio XLI, v.

37. Folio XLVI, v., may be a reference to Savonarola.

38. Folio XLVII, r.

39. Folio XLIX, r.

40. Folio XLIX, r. What are here called the laws of Solon are actually an imitation of the style of the Twelve Tables, and of little interest. At the beginning of the dialogue (Folio XXXVIII, v.) Brucioli cites Plato explicitly.

41. Folio LVIII, r.

42. Folio LXVII, r.

43. Folio LXV, r.

44. Folio LXXIII, v.

45. Folio XXI, r.

46. Folio XXII, r.

47. Francesco da Diacceto had already begun a syncretistic work of this kind. See Th. Zwinger's preface to the above-cited edition of Diacceto's works. Whereas the Italian biographer, Benedetto Varchi, in the edition of the Tre libri d'Amore, Venice, 1561, 196, praises Diacceto for having known how to combine the contemplative and the active life: “Although a philosopher and one of the Platonic sect, he entered into civil affairs and did not afterwards withdraw himself from them”.

48. Folio XXXVII, r.

49. The dialogue Della Republica is the fifth in the edition of 1526 and the sixth in the edition of 1537. In this second edition the prologue is altered; for the discussion on merchants and soldiers is substituted a conversation between Messer Bernardo Salviati, Prior of Rome (see Roth, op. cit., 212, 213), Niccolò Machiavelli, Messer Gianjacopo Leonardi, the military engineer and friend of Guidobaldo della Rovere, and finally, as the principal speaker, Giangiorgio Trissino, famous for his ideas on the Italian and Florentine languages. The discussion takes place at the court and in the garden of the Villa Imperiale, built at Pesaro by Eleonora Gonzaga.

50. Folio XX, r.

51. Folio XIX, r. By liberty is understood “independence”, “autonomy” in the face of other states; internal liberty is indicated by the “best laws”, in conformity with communal tradition and with the ideas of the Piagnoni.

52. Folio LXVI, r. in the edition of 1538.

53. Ed. 1526, folio XX, v. Brucioli is particularly insistent against merchants and wealth, in which he sees the origin of the ruin of that Florentine state of which he and his friends thought with nostalgic longing. “But, without going through other examples, did you not lose your liberty because the wealth of individuals had increased too much, and the number of the poor had grown too great ?...” (Ed. 1537, XXXI, r.; lacking in the 1526 edition, where there is found instead the following invective against merchants: “Our city is full of men like you, and many of them have the government in their hands, although the tyrant, to some extent, takes all upon himself”. Folio XIX, r.) A good commentary on these trends of thought, which might appear to be merely moralizing rhetoric but which on the contrary correspond to the reality of the situation in Florence, is provided by the cynical remarks of one of the conspirators – N. Martelli – who posed as belonging to the Medici party in order to save his life. (C. Guasti, Documenti, cited on p. 88, note I, 219, 221.)

54. Folio XLII, r., folio XLIII, v.

55. Folio XLIII, v.

56. Folio LIIII, v., r.

57. Folio XIIII, v. Brucioli attaches much importance to the definition of law “to the end that, since all things are to be referred to it, we may not sometimes err through ignorance in speaking, and be unaware of the force of the words with which we are to define law”. (Folio XXXIX, r.)

58. Cfr. 86.

59. In the dialogue Del Giusto Principe. Folio LXVI, r. in the edition of 1537.

60. De ingenuis moribus (Folio XVIII, v.)

61. See D. Gnoli, Un Giudizio di Lesa Romanità sotto Leone X, Rome, 1891; V. Cian, Due Brevi di Leone X in favore di C. Longolio, “Giornale Storico della lett. Italiana”, XIX, 373; Th. Simar, C. de Longueil, Musée Belge, XV, n. 1.

62. This mode of uniting philosophical, political, and literary themes in one and the same “rhetoric”, that “so highly esteemed rhetoric” as Brucioli calls it (XCI, v.), is evident in a work of late Florentine Platonism, Pompeo della Barba da Pescia's Discorsi filosofici sopra il platonico e divin sogno di Scipione, Venezia, 1553.

63. Cfr. the Preface, addressed to Massimiliano Sforza, of the first volume of the Dialoghi.

64. Folio LIV, v.

65. G. B. Gelli, Scritti Scelti, Milan, 1906, 202; see Opere, ed. A. Gelli, 293, where it is said, ”the garden of the Rucellai where... you used to stay listening to them talking amongst themselves, with as much reverence and attention as is generally granted to oracles”. (Gelli names Bernardo Rucellai, Francesco da Diacceto, Giovanni Carracci, Giovanni Corsi, Piero Martelli, Francesco Vettori and “other men of letters”.)

66. Gelli, Scritti Scelti, loc. cit.

67. Cfr. F. Chabod. Op. cit., 49 ff.

68. The three “crowns”, Dante, Petrarch, Boccaccio.

69. Gelli, Opere, ed. Gelli, Florence, 1855, 310.

70. G. Saitta, L'Educazione dell'Umanesimo in Italia, Venice, 1927, 67, 208 ff.

71. L. Alamanni, Versi e prose, ed. cit., I, 245 (Satira III).

72. Cf. Machiavelli on the Florentine language (Opere, ed. Mazzoni e Casella, Florence, 1929, 770: Discorso o dialogo intorno alla lingua) where he writes against Dante's conception of an Italian rather than Florentine tongue. “Some who are less dishonest would have it to be Tuscan; others who are most dishonest call it Italian”.

Retorica e politica nell'Umanesimo italiano

pubblicato in Eretici italiani del Cinquecento, a cura di Adriano Prosperi, Torino 1992, 483-511

Delio Cantimori

L'Umanesimo italiano, dalla fine del Trecento, attraverso il Quattrocento, e fino alla metà del Cinquecento, si forma e si svolge contemporaneamente a un processo di trasformazione politica della vita e della organizzazione statale italiana, che va dagli ultimi bagliori della vita comunale, attraverso le Signorie, fino alla soggezione politica sociale e spirituale alla Spagna, con la quale si consolidano e terminano i Principati1. Gli umanisti, in veste di teorici dello Stato e dell'ottimo principe, di giuristi, di oratori per l'una o l'altra parte in causa, di storici, di vagheggiatori dell'uno o dell'altro ideale politico, volgono spesso la loro attenzione agli avvenimenti e alle tendenze contemporanee, esaltandoli, condannandoli, osservandoli, interpretandoli.

La varia attenzione che gli umanisti hanno porto agli eventi e agli svolgimenti politici di quel periodo estremamente complesso culmina nell'opera del Machiavelli e del Guicciardini, i quali però per la loro stessa grandezza e precisione di pensiero superano l'umanesimo nel quale sono radicati. Infatti, se la concezione machiavellica dell'autonomia della politica va al di là dei motivi che per solito si chiamano “umanistici”, e se la serietà morale del Machiavelli può farcelo porre quasi di contro al mondo dei “letterati” e dei “pedanti” cultori della bella forma2, non si può concepire fuori della tradizione umanistica l'aspirazione del segretario fiorentino alla unità italiana e al rinnovamento nazionale per mezzo del ritorno alle virtù civili romane, mentre pure umanistica è la sua concezione pragmatica della vita politica e della storia, e di schietto tipo umanistico è l'alternativa Virtù/Fortuna, ecc3. Altrettanto vale per il Guicciardini, i cui motivi storiografici rimangono anch'essi di tipo prettamente umanistico, e le cui idee sullo spirito politico sono profondamente radicate nell'Umanesimo fiorentino e nelle idee da questo agitate sulle passioni grandi e superbe4.

Fissi gli occhi al Machiavelli e al Guicciardini, gli storici hanno per solito trascurato, fino agli ultimi tempi, il pensiero politico degli umanisti, relegandone le eloquenti immagini, le dotte costruzioni, e le appassionate rappresentazioni in quel mondo delle inutili se pur altosonanti parole e dei vani se pur eleganti discorsi, delle affermazioni astratte e degli ideali irrealizzabili, che si suol chiamare “retorica”. Retorica filosofica o retorica letteraria, politica, religiosa: il pathos stoico che ritorna negli ultimi tirannicidi e negli autori dei trattati che svolgono il motivo De optimo principe; la eloquenza patriottica, ricca di memorie di Roma antica e del libero comune, che continua dal movimento di Cola da Rienzo fino ai tardi apologeti delle case principesche a cui lode si afferma che hanno sempre e soltanto pensato alla salute dell'Italia5.Questa indifferenza rientra nel giudizio negativo generale che fino agli ultimi tempi la storiografia italiana e sulle sue tracce quella non italiana, ha usato dare della serietà sociale e morale dell'Umanesimo; contro la vecchia tesi, rappresentata in Italia dal De Sanctis e da tutta una schiera di scrittori che a lui si rifacevano, e dall'altra parte dagli scrittori del cattolicesimo liberale, come il Balbo, che vedevano tutti nell'Umanesimo (limitato soprattutto al Quattrocento e ai primi tre decenni del Cinquecento) soltanto un periodo di transizione e di decadenza, implicandolo nella loro generale condanna del Rinascimento, c'è ora tutta una corrente di studiosi che dall'Ercole e dal von Martin coi loro studi su Coluccio Salutati, a F. Battaglia, al Baron con le sue accurate indagini sulla rinascita dell'etica statale romana nell'Umanesimo fiorentino del Quattrocento, ritrovano in quel mondo degli umanisti motivi di profonda originalità, anche nei riguardi del pensiero politico.

Ma non mancano neppur oggi i giudizi severi sull'Umanesimo; valga per tutti il giudizio dello Chabod. Fin dalle prime pagine del suo saggio sul Principe del Machiavelli egli osserva che “non per semplice diletto umanistico” il pensiero del Machiavelli si concretava nella rievocazione di Roma6 e dopo avere accennato di passaggio che la realtà del tempo si presentava al solitario pensatore fiorentino “senza veli di retorica”, osserva come nella stessa ansia del Machiavelli di rifugiarsi nel passato per ricever nuovo vigor di vita, era giuocoforza penetrasse la dolorosa esperienza attuale... e il mondo antico doveva a mano a mano ritirarsi di fronte al mondo moderno, e conclude:

Alla Repubblica succedeva il Principato; al popolo, capace di dettare i suoi voleri e d'imprimere allo Stato la propria orma, l'uomo solo con la sua individuale energia e con le risorse della sua abilità; alla considerazione, velata di nostalgico rimpianto, della gloria passata, il prospetto teorico della fortuna politica d'Italia7.

Lo Chabod s'avvia così a dare un giudizio nettamente negativo dell'Umanesimo, giudizio che assomma in sé una lunga tradizione e le opinioni dei più recenti studiosi italiani, e che vale quindi la pena di riportare per disteso:

Quando la fede comunale venne meno, e l'impero e il papato non furono più in grado di sorreggere questa vita spirituale del popolo, essa precipitò, e si infranse. Si proveranno a risuscitarla gli umanisti, che vanno in traccia di una tradizione per il signore a cui devono gli ozi letterari; e come in tutte le età, in cui la forza e la spontaneità del sentimento s'illanguidiscono, ond'è impossibile ritrovare, nella propria vita e nella propria coscienza, il lievito spirituale di cui s'informi l'azione; come in tutte le epoche in cui vengono meno la passione e la commozione politica della folla stanca di se stessa, così nel Quattrocento si vanno a rintracciare fra le rovine di un altro mondo i fondamenti della gloria del tempo, costituendo una fittizia religiosità, che non sarà mai capace di scuotere le intime fibre della nazione, quando si renda necessaria la lotta8.

Questo severo giudizio investe tutta l'attività degli umanisti: non solo la pubblicistica politica in nome dell'ideale nazionale italiano, che rimase sempre puramente culturale, vago e generico nel Rinascimento; ma anche l'attività filosofica volta a elaborare la teoria della vita morale perfetta, con le sue alternative di vita contemplativa e vita attiva, e insieme la teoria della vita civile, anzi una moralità e una religiosità della vita civile, modellandola sugli esempi forniti dall'antichità greca e specialmente romana. Il criterio sul quale tale giudizio è fondato è quello della concretezza politica, del realismo desideroso d'affrontare la realtà effettiva e i suoi problemi specifici, avverso alle ideologie e alla loro eloquenza, alla “retorica”. Da un tale punto di vista neppure indagini feconde di risultati e di nuove interpretazioni particolari, come quelle del Baron, possono scuotere il giudizio negativo sul valore dell'Umanesimo: anche se le formulazioni degli umanisti corrispondono a esigenze profondamente sentite nella società del tempo, o in gruppi particolari di quella società9, esse rimangono pur sempre formulazioni di esigenze ed aspirazioni, di velleità, conchiuse in se stesse e non trapassanti dallo stadio di velleità in quello di volontà o di indicazione alla volontà. Dalla formulazione di una aspirazione e di un desiderio, e dalla posizione, sia pure eloquente e vivacissima, di un ideale politico, non si passa al riconoscimento dei problemi presenti e attuali della società e della vita politica del tempo, alla posizione di idee politiche, alla proposizione di risoluzioni possibili: ma si rimane nel generico moralismo, nella rettorica politico-morale. Dall'altra parte i pensatori politici alla cui stregua vengono giudicati gli umanisti, il Machiavelli e il Guicciardini, sono radicati profondamente, come s'è detto, nell'Umanesimo stesso, con le sue illusioni, le sue aspirazioni, la sua eloquenza, le sue preoccupazioni estetiche, con il suo “romanticismo”10 e insomma con la sua multiforme “retorica”.

Non è certo il caso di andar cercando precedenti al Principe del Machiavelli: basterà a questo proposito ricordare Pier Candido Decembrio, il quale giunge alla consapevolezza dello sforzo eroico di un capo come Filippo Maria Visconti, uso ad anteporre “statum dominatus sui saluti corporis et animae”11, oppure uomini come Carlo Malatesta, nemico degli umanisti, che chiamava istrioni, e autore di poche paginette di consigli politici, che vengono additati alla attenzione degli studiosi perché non sono opera d'un letterato o teorico diretta a un principe ideale o idealizzato com'era il costume umanistico, ma sono precetti chiari, lineari, applicabili immediatamente alla condizione di fatto di uno stato particolare, diretti dal governatore di Milano alla sua città e al suo duca, per giovare effettivamente allo Stato12. Ed è anche inutile esemplificare di nuovo i motivi politici nazionali di tipo petrarchesco degli umanisti, la propaganda per un ideale nobile ma vago di pace e di unione degli Stati italiani, il valore del ciceronianesimo e dell'eloquenza celebratrice del rinnovamento spirituale italiano13.

Cerchiamo di vedere in quale rapporto stessero per gli umanisti stessi la retorica e la politica. Il che si riduce alla ricerca del valore della retorica umanistica, perché l'indagine sulla politica umanistica ci ricondurrebbe alla valutazione generale della politica dell'umanesimo, valutazione condizionata da presupposti filosofici che sarebbe fuor di luogo riesporre e ridiscutere, mentre d'altra parte occorrerebbero indagini analitiche alle quali qui si vuol portare soltanto un contributo.

Come mostrano i brevi accenni di carattere storiografico che abbiamo fatto, per politica s'intende comunemente, e noi continueremo a intendere in questa ricerca, la politica realistica com'è stata intesa dal Machiavelli e dai suoi interpreti e commentatori, dal De Sanctis al Burd all'Ercole, allo Chabod, al Russo14: la politica fondata sull'esperienza delle cose, e sulla riflessione teorica sul fatto politico. Per retorica non intendiamo solamente l'arte del dire, l'eloquenza, l'oratoria, come viene per esempio definita da Pico della Mirandola nella sua famosa epistola a Ermolao Barbaro contro l'arte rettorica, cioè l'arte di persuadere a tutti i costi e con i lenocinii letterarii e gli appelli ai piu vari affetti, onde ottenere un effetto pratico15; né solo il gusto della eleganza verbale e letteraria, delle affermazioni altosonanti e senza sostanza; neppur solo l'impegnarsi e il professar fede per idee senza contorno se pur grandiose all'apparenza, l'innocente magniloquenza che può servire agli scopi più lontani; ma anche la fede sincera, se non elaborata profondamente e ancor rozza e ingenua, per virtù amori, grandezza, ideali che possono essere interpretati in molti modi diversi: ideologia insomma. Il fatto che la opinione pubblica e la abilità politica dei principali capi del periodo dell'Umanesimo e del Rinascimento desse tanta importanza alla eleganza del parlare, all'uso del latino puro e al periodare latineggiante di chi usava l'italiano, alla sapienza generica ma esaltante delle sentenze, degli esempi, delle costruzioni di principi e di repubbliche ideali, all'ideale patriottico e religioso del ritorno alla civiltà romana e alle sue fondamenta, – tutti elementi di “retorica” – ci mostra la importanza politica di tale “retorica”. Una indagine di carattere generale non può certo esser compiuta nel limite di un articolo; bisognerà quindi limitarsi ad analizzare un caso caratteristico e tipico, per la grandezza di uno dei personaggi che sta sullo sfondo, il Machiavelli – e per la serietà morale degli altri personaggi alle cui idee ci avvicineremo per vedervi la “retorica” e la letteratura della tradizione umanistica diventare “politica”, azione politica in vista di una idea16.

L'esperienza delle cose che fornì la materia alle riflessioni del Machiavelli si trovava nella storia soprattutto dell'Italia settentrionale e in quella di Cesare Borgia; ma l'ambiente dove il Machiavelli esponeva e proponeva i suoi problemi e le sue conclusioni era l'ambiente fiorentino, ricco di tradizioni filosofiche e letterarie. Era naturale che a proposito dell'ambiente del Machiavelli ci si occupasse più dei suoi amici politici, il grande Guicciardini, il Vettori, il Soderini, che dei filosofi e letterati ch'egli pur frequentò negli “Orti Oricellari”. Eppure le discussioni che ivi si tenevano possono darci una viva immagine dell'insieme di preoccupazioni che animavano quegli uomini, e un utile contributo alla analisi del rapporto fra la coscienza politica come viene impersonata dal Machiavelli e la tradizione letteraria, umanistica, rettorica.

Delle conversazioni degli Orti Oricellari hanno accennato tutti i biografi e i commentatori del Machiavelli, ma, come accade, solo in riferimento alla biografia esteriore, e di sfuggita, indugiandovi per esaminare la parte maggiore o minore o nulla avuta dal Machiavelli nella congiura antimedicea del 152217. Solo il Russo ha tenuto presente l'ambiente degli Orti Oricellari nel suo commento ai Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio: a proposito del cap. X del libro primo e delle considerazioni del Machiavelli sulla gloria di Cesare, e dopo avere accennato alla polemica fra Guarino Veronese e Poggio Bracciolini, esaltatore questo della gloria civile e “virtuosa” di Scipione, ed esaltatore quello della grandezza di Cesare, il Russo osserva che non è improbabile che il Machiavelli riprendendo il giudizio del Bracciolini carichi le tinte nella polemica contro Cesare, “suggestionato dagli umori dei suoi giovani amici degli Orti Oricellari, che erano piagnoni e repubblicani, e suggestionato da tutta la letteratura antitirannica che dal Trecento al Quattrocento aveva avuto larga voga. Certo, l'acceso stile, qua e là, specie nella descrizione finale, sa piuttosto di letteratura”18.

Le radunanze degli Orti Oricellari concludono una lunga tradizione fiorentina di conversazioni letterarie e politiche, che si inizia con le conversazioni su argomenti morali, filosofici e politici ricordate nel Paradiso degli Alberti e con le discussioni sul pregio della vita attiva e della vita contemplativa raccolte dal Landino nelle sue Disputationes Camaldulenses19, che rimane come sospesa poi e assorbita dalle discussioni filosofiche della Accademia Platonica ficiniana, benché anche i problemi di filosofia pura e lontana dal mondo discussi dal Ficino e da Giovanni Pico comportassero implicazioni politiche; e che riappare in forma più vivace ed esasperata negli ultimi tempi della vita letteraria e religiosa fiorentina indipendente, nei decenni che precedono il Sacco di Roma e la caduta dell'ultima repubblica fiorentina20. Si sanno alcuni nomi dei frequentatori degli Orti Oricellari, si conoscono le vite di alcuni di questi, si ricorda genericamente che vi si discuteva di politica e di letteratura, che il Machiavelli vi lesse il capitolo sulle congiure delle sue Deche, che erano frequentati dal Trissino il quale vi introdusse le discussioni sulla lingua italiana, da uno scolaro del Ficino, Francesco Diacceto, che vi parlava dell'amore, dal poeta Luigi Alamanni, dallo scrittore Antonio Brucioli, e da altri giovani che ordirono nel 1522 una ultima fallita congiura repubblicana contro i Medici21; si rileva anche che il Machiavelli dedicò la sua Arte della Guerra e i Discorsi ad alcuni principali frequentatori degli Orti, e che anzi fece di questi il teatro dei dialoghi dell'Arte della Guerra. Ma non si conoscono più da vicino gli argomenti politici, morali, filosofici ivi trattati; solo si ricordano le discussioni sulla lingua introdottavi dal Trissino22 alle quali sembra riallacciarsi poi la istituzione dell'Accademia della Crusca; il fatto invece della presenza del Machiavelli basta, come mostrano le osservazioni del Russo, a farci pensare di quanto interesse sarebbe la conoscenza più precisa di quelle conversazioni.

Ora, noi abbiamo una fonte per la conoscenza precisa di quelle conversazioni: e si tratta dei dialoghi scritti e pubblicati in esilio da uno dei frequentatori delle conversazioni stesse, Antonio Brucioli23. La ragione per la quale l'attenzione degli studiosi non si è mai volta, che a noi risulti, a questi dialoghi, sta probabilmente nel fatto che l'interesse principale che la figura di questo scrittore presenta non riguarda la sua prima attività fiorentina né quella da lui svolta immediatamente dopo l'esilio, ma piuttosto quella di carattere religioso ed ereticale da lui iniziata con la traduzione e il commento protestanteggianti della Bibbia del Pagnini24. Per gli studiosi della vita politica fiorentina il Brucioli perde ogni interesse dopo la sua fuga da Firenze in seguito al fallimento della congiura alla quale egli aveva partecipato, tanto più che al suo ritorno a Firenze durante l'ultimo tentativo repubblicano egli appare un isolato fra quei “piagnoni”, che lo guardano con sospetto ed avversione per le sue idee “luterane”; per gli studiosi del movimento riformatore in Italia la sua attività non religiosa non presenta un particolare interesse25.

Eppure già nella prima edizione dei suoi Dialoghi il lettore sente un accento particolare, nonostante il fatto che i nomi degli interlocutori siano fittizi, greci e romani: ma già dalla seconda edizione appaiono i nomi dei frequentatori degli Orti Oricellari: il Rucellai, il Trissino, il Machiavelli stesso, l'Alamanni con il quale il Brucioli era rimasto in contatto in esilio, ed altri. Di questi dialoghi, che si fingono tenuti a Venezia, a Pesaro, a Urbino e in altri luoghi d'incontro degli esuli fiorentini, noi stimiamo poterci servire, se non per conoscere le precise opinioni dei vari interlocutori, il che del resto non presenterebbe che un interesse di curiosità perché dei maggiori abbiamo le opere, per conoscere da vicino l'atmosfera degli Orti Oricellari e i suoi interessi26. Da una parte, la conoscenza, anche se scarsa, che abbiamo della personalità del Brucioli, il fatto che egli fu continuamente associato con l'Alamanni dall'altra, assieme al carattere delle riflessioni che egli ci offre nei Dialoghi ci assicurano della utilità e dell'interesse di questa fonte27.

Per riconnettere i Dialoghi del Brucioli alla tradizione fiorentina e per mostrare d'altra parte il limite dell'utilità di essi al nostro scopo di considerare l'incontro della tradizione umanistica e dei suoi problemi e della retorica con gli interessi politici, limite che consiste nella particolare sfumatura assunta dal Brucioli per le sue opinioni religiose, basterà rifarci al dialogo fra le lettere e le armi, che altercano per la loro supremazia28. Il dialogo riprende il vecchio contrasto fra la vita contemplativa e la funzione delle lettere che conservano la notizia delle grandi imprese che altrimenti rimarrebbero destituite di gloria, contrasto d'interesse particolarmente attuale in Firenze fin dai primi decenni del Quattrocento29 e allora più scottante che mai: si ricordi l'orazione dell'Alamanni ai fiorentini, se non ci si vuol riferire anche qui all'Arte della Guerra. Ma agli argomenti delle Lettere, le Armi a un certo punto rispondono:

Quando i gran fatti sono per se medesimi egregii et laudabili, anchora che non habbino che gli scriva, non si può torre che laudabili, egregii, et memorabili non sieno, et se altri non è conoscitore delle laudabili opre egli pure a sufficientia che consapevole ne sia la tua conscientia et Iddio...30

Qui troviamo la passione umanistica per i “gran fatti”: ma essa non si svolge più nel desiderio di gloria e in quello di vedere i gran fatti egregii et laudabili tramandati ai posteri: basta la coscienza, che è un motivo non usuale nell'Umanesimo, e neppure nell'ambiente piagnone savonaroliano fiorentino, come mostra il caso del Boscoli, al quale la “coscienza” non è sufficiente31.

Ci potremo dunque servire dei Dialoghi del Brucioli per quanto riguarda le conversazioni politiche e morali in generale e per quanto riguarda quelle filosofiche; ma non per quanto riguarda le conversazioni su argomenti religiosi. Per rimanere nell'argomento della milizia e del valore delle armi, si veda anche quanto il Brucioli fa dire agli interlocutori del dialogo Della Republica32, nell'introduzione alla prima redazione: introduce un Ptalesio che fa l'elogio della mercatura, come unica attività giovevole alla repubblica, cioè allo stato cittadino, al comune retto dai “liberi” (propietari fondiari, mercanti, ecc. di “media” ricchezza) e contro di lui un Carmene, che sostiene la necessità della milizia per uno stato bene ordinato. Gli argomenti di Carmene sono in parte mutuati dalla Politeia platonica, in parte sono quelli della tradizione:

Una republica molto meglio farà la guerra a' vicini popoli quando di bisogno ne sia, o guardarà la sua libertà con l'armi de' suoi propri cittadini, che con quelle dei forastieri, per prezzo condotti33.

L'avversario della milizia osserva:

A me non farebbe a creder mai (per quanto voi vi dicesse) che la guerra non fosse uno estremo et pernicioso male, dalla fierezza dell'humano appetito causata, et la pace un sommo bene, come cosa divina dataci dal cielo.

Al che Carmene:

, quando la guerra si facesse per la sete del sangue, et della occisione degli huomini, et della cupidità de l'imperio, et delle ricchezze, et a dirlo insomma per arte, et non per salvare la libertà34 della Republica et le ottime leggi di quella...

Quel che qui all'inizio del dialogo sembra una teoria della guerra giusta e difensiva, frutto della tradizione fiorentina di esaltazione della milizia e delle armi del principio del secolo attenuata e resa di carattere più idealistico dallo studio di Platone, si svela però più avanti come nostalgia per la politica comunale: a un certo punto la necessità della milizia è giustificata dalla osservazione che “bisognerà che molto si distendano i confini del contado” affinché si possa provvedere al sostentamento materiale dei cittadini. Che la milizia non debba essere mercenaria viene dimostrato a mezzo dell'esempio del Tardo Impero e della sorte dei Cartaginesi dopo la prima guerra punica.

Il Brucioli affronta anche direttamente la questione dell'arte oratoria e della sua importanza, nel dialogo Del Giusto Principe. Gli interlocutori sono Francesco Maria Feltrio, Duca d'Urbino, Giangiorgio Trissino che incontriamo spesso in questi dialoghi, spesso in veste di interlocutore principale, e Bernardo Salviati, il Cardinale dell'antica famiglia fiorentina. A questi a un certo punto il Brucioli fa chiedere:

“Di molta utilità si dice essere al Re gli oratori et l'arte oratoria, et massimamente s'egli stesso in tale facultà studiasse, et in verità ch'io non poco mi maraviglio che vostra eccellentia niente ne dica”.

Al che il Duca:

Io di quelle cose ho fatto prima mentione senza le quali è impossibile che uno Re regga bene il suo regno, perché avanti a ogni altra cosa si richiede a colui che sopra gli altri domina d'essere perfetto et sapiente, et saper fare, et poi ornatamente dire; né però niego che questo non gli sia per essere utile, sì nella città, nel persuadere alcuna cosa a' popoli, et sì nella militia nello essortare i soldati. Ma se l'ornato dire senza la Prudentia e bontà vi fosse, non altrimenti sarebbe, che uno ricco drappo sopra uno monte di sterco, che più potrebbe essere atto a nuocere che a giovare, a chi non lo sapendo sopra vi si posasse.

Come si vede, è la posizione razionalistica, in sostanza identica a quella del Pico: si respinge l'oratoria in quanto arte del dire e del porgere “ornatamente”, del convincere e del persuadere non con la solidità degli argomenti, ma con la efficacia e la vividezza delle immagini, con la eleganza del discorso. Ma si esce con questo dall'Umanesimo? Non pare, perché il Brucioli rimane nell'ambito dei tipi ideali, del “giusto principe” fornito di tutte le virtù, della “prudentia”, della “bontà”, e delle altre innumerevoli astrazioni: “virtù”, “verità”, “giustitia”, “fortitudine”, “temperantia”, “modestia”, “clementia”, “bellezza”, “gratia”, “amore”, “fortuna”, ecc.

Fra questo tipico rappresentante delle conversazioni degli Orti Oricellari, e quel primo e forte Umanesimo fiorentino che aveva trasformato l'antico razionalismo dell'etica stoica che chiedeva conto all'uomo degli atti morali unicamente sotto l'impero della “ratio”, c'era stato il movimento platonico ficiniano, il quale aveva attutito tutti i problemi politici tradizionali dell'Umanesimo fiorentino in problemi di carattere generale, “filosofici”. Così quella rivalutazione dell'”ira” che aveva avuto tanto valore nel Bruni e nel Palmieri, e in genere nell'Umanesimo fiorentino, e che era stata ripresa anche dal Landino35, rimane qui slavata e diminuita, come velata da preoccupazioni razionalistiche e moralistiche, che probabilmente rivelano anche l'influsso di tendenze piagnone36. Nel dialogo dell'ira, dipinta con tutti i colori loschi della trattatistica morale stoicizzante e senechizzante, il Brucioli fa chiedere a un certo momento da uno degli interlocutori:

Alcuni hanno pure (come voi potete sapere) voluto, che l'ira sia cosa utile, et secondo la natura37.

Al che viene risposto:

Quello che altri s'habbia voluto, non voglio dire che sia nostra cura di ricercare, ma se noi di quella ira, che dalla ragione è retta parleremo, et della quale forse intendevano questi, non ira fia, ma un certo impulso alla giustitia...38

Il rappresentante della comune tradizione fiorentina risponde:

Nondimeno Aristotile pure disse, l'ira essere necessaria, senza la quale non si puote espugnare alcuna cosa, se quella non empie l'animo, et accende lo spirito, ma che gli è bene da usarla non come Duce, ma come Cavaliera.

La replica è:

Avegna, che temeraria cosa paia dire contra tale huomo, et si mirabile scrutatore della natura, nondimeno in questo non poco sono discordante da quello...

Infatti l'ira facendo sragionare fa andare al di là del segno prefisso, come avviene quando i soldati troppo entusiasti all'assalto non ascoltano l'ordine di arrestarsi, e via dicendo. Il Brucioli conclude con l'alternativa che la passione che fa compiere grandi cose, o segue ragione, e non si può né deve chiamare ira; o non la segue, ed è dannosa e da evitarsi e condannarsi. Così per lui la “fortitudine” non riguarda solo le armi (costanza nel resistere al nemico in combattimento), ma si riduce alla costanza in tutte le virtù e contro tutti i vizi: e questa generalizzazione viene giustificata con un espresso riferimento agli stoici39.

Il platonismo del Brucioli è ancor più manifesto negli argomenti che pone in bocca al sostenitore della necessità delle milizie proprie e non mercenarie nella bene ordinata repubblica, e che sono di stampo prettamente platonico:

Non si dice egli havere la medesima proportione quello che regge, et quello ch'è retto, che ha l'anima al corpo, con ciò sia che l'anima per se stessa regga il corpo?
– La medesima certo.
– Hor non tenete voi con gli altri philosophi che l'anima sia piu nobile chel corpo, et più necessaria alla vita di quello?
– Tengo.
– Adunque molto più necessaria fia alla Republica la militia, dalle leggi bene ordinata, essendo quella che tale società civile possa reggere et mantenere, et accrescere, che la mercatura, o altra cosa che aggiugnere se le possa, come una minima parte di quella, senza la quale potrebbe essere et reggersi, non altrimenti, che uno huomo senza uno de' piccioli suoi membri, che nondimeno si potrà dire buono, et vivere, il che senza l'anima non farà40.

Naturalmente non ci si può servire dell'anima di un altro, e di conseguenza ci si dovrà servire della milizia propria, come dell'anima propria, a parte tutte le altre considerazioni di carattere pratico, la maggiore fiducia che si può avere in una milizia che difende la propria città, la propria patria, ecc.

Gli argomenti del primo libro dei Dialogi del Brucioli sono:

Dello stato dell'huomo (“La ragione dell'huomo rechiede che nasca nudo, fragile, et sia suggetto alle infermità, le quali cose se esse si trahessero dall'huomo, sarebbe necessario anchora, o che Dio e non huomo fosse, o che fosse privo della ragione, e divenisse irrationale, onde di certo altrimenti alla fabrica dell'huomo a volere che fossi huomo, non poteva meglio operare la savia, et provida natura di quello che ella operasse”)41; Del Matrimonio; Del Governo della famiglia42; Del modo dello instruire e allevare i fanciulli; Della Republica; Della legge della Republica; Del governo del Principe43.Del capitano d'uno essercito; Della tirannide; Della Virtù; Della verità; Della giustitia; Della c1ementia; Della fortitudine; Della Temperantia; Della Modestia; Dell'Ira; Della Liberalità; Della Beneficentia; Dell'Amicitia; Della Povertà; Della Quiete; Della voluttà; Della felicità humana; Della brevità della vita; Dello Essilio; Della humana miseria; Come non si dee temere la morte; Della sapientia et della stultitia; Essempio della vita humana44.

Erano dunque questioni di morale e di politica quelle che avevano fatto la maggiore impressione sul Brucioli negli Orti Oricellari, e che avevano attirato più di ogni altra il suo interesse; ma anche la questione della lingua italiana doveva averlo attirato, se nella prefazione di questo primo volume egli espone il proposito di aver voluto contribuire a dotare di linguaggio filosofico “la materna nostra lingua, essendone infino a’ nostri tempi stata poverissima”45. Sono le tradizionali discussioni fiorentine, mantenute fra il platonismo e lo stoicismo. Le più interessanti per noi sono quella sull'amicizia, e le cinque di carattere politico.

Il dialogo sull'amicizia porta fin dalla prima edizione i nomi di Jacopo e di Luigi Jacopo da Diacceto, uno dei congiurati contro i Medici che era stato preso e condannato, e Luigi Alamanni, non il poeta, ma il militare, anch'esso impigliato nella congiura, e condannato a morte46. Una specie di omaggio ai due amici sacrifìcati. Le lodi iperboliche dell'amicizia sono messe in bocca a Cosimo Rucellai, il quale giunge a questa poetica immagine:

Et per me credo fermamente, che se alcuno al Cielo ascendesse, et la natura dell'Universo, et la bellezza delle stelle risguardasse che soave non gli verrebbe quella ammiratione, non havendo con cui poterla comunicare; che amico gli fosse: la quale giocondissima gli sarebbe allhora, ch'egli havesse a chi poterla amichevolmente ridire...47

E poi continua con una dissertazione sui veri amici, che tali sono per amor di virtù, e falsi amici, che tali sono per diletto o utile, secondo il modello platonico. Il dialogo della Republica svolge questo tema: si indaga

come siano fatte et quali siano le più ottime republiche, secondo quelle dico, che sono state o che possono essere, et non secondo quelle impossibili, che d'alcuno sono state imaginate, più presto secondo le favole dei poeti, ad uno certo rigore della natura riguardando, che alla varietà de gli animi degli huomini48.

Il realismo politico fiorentino doveva aver fatto impressione sul Brucioli, il quale insiste sul motivo della realizzabilità dei suoi progetti:

et alcuni (forse volendo solamente monstrare nelle parole la loro severa Philosophia) hanno più tosto religioni di frati, et di inconsiderate monache, che ben composte Republiche formate, facendo come i Poeti, che lodano l'età dell'oro, et nessuno di quegli è però, che volesse vivere di quelle ghiande, che poetando descrivono, che si vivea in que' tempi: et se io ho a dire quello che io ne sento, io sono al tutto di contraria opinione49.

La discussione contro il comunismo di tipo platonico è accurata e lunga: e sembra testimoniare di una forte tendenza livellatrice fra quei giovani, se l'interlocutore principale (che nella seconda edizione è il Trissino), pur manifestandosi contrario al comunismo, perché “in quella cosa ch'è comune a molti, s'ha sempre poca diligentia” – al che uno degli interlocutori secondari, che nella seconda edizione è il Machiavelli stesso, aggiunge: “Cotesto non pare che sia ragionevole, naturalmente parlando, con ciò sia che si dee sempre esser più pronto alle cose universali, ch'alle particulari”, attirandosi la replica:

Io non voglio che noi hora ricerchiamo quello, che sia ragionevole, o non ragionevole, ad altro luogo questo riserbando: ma che secondo l'esperientia si parli, che bene spesso è madre della scientia. Noi tutto il giorno veggiamo, che quando sono molti a ministrare una cosa, della quale habbiano più a participare, che mentre l'uno crede, che l'altro la faccia, tutti l'abandonano, come accade nel servitio de ministri, ch'essendo più a servire uno, peggio lo servono alcuna volta, che fossino meno, mentre che l'uno aspetta quello che l'altro faccia, et ha temenza di non fare più che gli altri: ma accioché questo più manifesto appaia, comincianci da una di quelle cose, che si mettono essere comuni, et ch'iodico non potere essere senza grave danno della Republica, et cosi vederemo se quello ch'io dico è vero, o no.

E prende ad esempio la comunità delle donne, che naturalmente viene scartata come fonte di confusioni e di disordini e altri mali. Scartata la comunità delle donne, si insiste su quella dei beni, finché l'interlocutore principale si ferma su una specie di idea funzionale della proprietà privata, che dovrebbe conciliare la “comunanza delle possessioni” e la “distinzione di quelle”:

perché bisogna che semplicemente i campi sieno propri, quanto alla proprietà del signore: ma secondo un altro modo comuni, quanto alla permutazione, o vendita de' frutti: et da questo seguitano due beni: l'uno che ognuno lavorerà bene i propri campi e curerà bene le proprie possessioni, sapendo che sono sue; l'altro che “per vigore delle buone leggi, et de' cittadini, che saranno fra loro benivoli et liberali” [i campi saranno] comuni secondo l'uso, come per proverbio si suol dire, che quelle cose che sono degli amici, sono comuni secondo l'uso; et cosi è manifesto esser meglio, che le cose sieno proprie, facendole per l'uso comuni, che del tutto comuni.

Così, con argomenti di buon senso e di considerazione spicciola della natura umana, annunciantisi con affermazioni polemiche e sentenze sul valore dell'esperienza di contro alla teoria che prometterebbero, all'apparenza, molto di più, vengono risolte le altre questioni, sulla eguaglianza dei beni e delle ricchezze (che viene scartata in linea generale, mentre si ammette che le ricchezze non debbano mai superare un certo livello), sulla classe che deve avere il governo, fra le tre dei ricchi, dei “mediocri” e dei poveri (la classe dei mediocri, concepita come classe di proprietari fondiari, saldamente stabilita, che abbia possibilità di dedicarsi al governo, e con esclusione dei mercanti), e cosi via, seguendo il modello di Platone temperato con motivi aristotelici50. Non manca neppure la descrizione di una città ideale vista dall'interlocutore principale (nella seconda edizione il Trissino riferisce il racconto d'un amico) “in Matthien, una delle cinque insule delle Molucche, dove quattro anni sono con Migellano (!) navigai”51.

Gli altri dialoghi politici sono ancor più convenzionali: le leggi della repubblica debbono essere date da un filosofo, cioè “amante della Sapientia” e tutti i suoi cittadini debbono essere di questa natura, poiché questa “sapientia”

c'insegnò per nostro unico bene conoscer noi stessi, cosa difficilissima; del quale precetto si grande è la forza et la sententia, che quella non ad alcuno huomo mortale, ma al Delphico Apollo, come cosa divina, fu attribuita: perché quello che conosce se stesso, subito sente d'havere dentro qualche cosa di divino: et l'ingegno suo pensa che sia in sé collocato come uno simulacro; et per tanto mirabil dono degli dèi, sempre farà o dimostrerà nelle sue operationi alcuna cosa degna di quegli...52

C'è qualche accenno a momenti di vita fiorentina, come il seguente, che pare alludere al Savonarola:

Et se per sorte surge nella Republica uno falso Propheta, che predica alcuno segno futuro, o gran portento, et ch'egli avenga secondo che disse, et poi voglia ritrarre i popoli dal vero divino culto, tirandoli a nuove o ad altre vecchie leggi, o culti divini, persuadendo il servire a quelle, si dee per leggi ordinare, che non si odino le parole di quel propheta, o sognatore...

Le bestemmie e la vana invocazione del nome di Dio va punita con la lapidazione:

et così in questo sopra ogni altra chosa essere severo, et più contro a quegli che sotto il nome Christiano iniquissime operationi, et nuove leggi instituiscono53.

Ma qui si va già al di là dell'allusione al Savonarola, e si sconfina in un generico anticlericalismo. Ma in genere non si esce da un generico moralismo, dall'elenco dei doveri “verso di Dio, del padre, della madre, di se stesso, della patria, degli amici, de' parenti, de' pellegrini et de' supplichevoli”54, e dalla ricerca, prettamente umanistica, del

come per ottime leggi et instituti l'huomo possa divenire buono, havendo la virtù propria nell'animo, per qualche studio, o arte acquistata, o pure per uso, o per uno certo fervente disio di quella, o per opinione, o per alcuna maniera di dottrina...55

Si richiamano le leggi di Solone56, si paragonano i Medici a Trasibulo e a Dionisio... Nel dialogo del principe si afferma che

è da commettere il regno a colui, che gli altri avanza di doti reali, come di sapientia, di giustitia, di modestia, di temperamento d'animo, di prudentia, et di studio del comodo publico.

Ci sono due specie di retti principati: quello del principe che comanda secondo le leggi e ad esse rimane soggetto, e il principe che ha poteri assoluti ma ereditari:

et è sicura questa specie di monarchia, perché il principante domina in tale regno, et secondo il genere, et secondo la consuetudine, che discese da loro antiqui padri [...e...] tutte l'altre specie di dominationi perpetue, sono ingiuste tirannidi57.

Il principe deve temere Dio ed essere ornato di tutte le virtù; perché “niente altro è uno Re, che uno Moderatore, et correttore de' popoli”. A un certo punto uno degli interlocutori, a sentire l'elenco di tutte le virtù che deve avere il principe, commenta “Difficilissime cose narrate”; al che l'interlocutore principale:

Et non però impossibili; perché tutto facilmente potrà conseguire, se il Principe, quale desidera essere tenuto, tale sia: perché quella non è vera lauda (come s'è detto) che si ha per paura, o che si attribuisce dagli adulatori58.

Queste e molte altre obiezioni di questo tipo, realistico e politico, vengon proposte dagli interlocutori dei dialoghi del Brucioli, e vengono risolte nello stesso modo, con un richiamo ad una verità morale, ad una massima sulla virtù e sulla natura del bene e del male. Questo ottimismo morale di principio costituisce il precipuo carattere umanistico delle idee del Brucioli, e corrisponde probabilmente alle idee degli Orti Oricellari; tanto più che il platonismo vi era rappresentato direttamente, e che il concetto dell'ottimo principe del Brucioli è fondato su questo ragionamento:

perché il Principe nel vero niente altro è che uno medico della Republica. Et come non tutte le parti dell'anima sono del medesimo valore, ma alcune comandano, et alcune ubediscono: et quelle che comandano, le più ottime; così è il Principe la somma parte del popolo...59

Così puramente letterario è il concetto del capitano, alla cui preparazione “non di poco aiuto è leggere le storie, et le cose fatte dagli altri Capitani antichi et moderni, sforzandoti”, dice il Duca Francesco Maria da Feltre al figlio Guidobaldo60:

di immitargli in tutte le loro piú perfette operationi: perché la virtú et la prudentia sono finalmente quelle che dominano a tutte le cose: avegna, che la fortuna v'abbia gran potere.

Anche il ritratto del tiranno è puramente convenzionale: egli è cattivo ed infelice, quindi, in fondo, un disgraziato che si illude di avere potenza, gloria, ricchezze, comando, dominio, e che è destinato a perdere tutto ciò, il che del resto non è un vero bene.

Sia pure dunque in forma ingenua e rozza, negli Orti Oricellari si soleva discutere sul problema dei rapporti fra morale e politica, cercando in tutti i modi di subordinare la seconda alla prima; cioè, di trovare il principio che permettesse di subordinare la politica, come la realtà delle cose e l'esperienza la facevano vedere, e come Machiavelli doveva teorizzare, alla morale, alla ragione, alle tendenze piu nobili dell'uomo. La soluzione di questa tendenza, come ci appare dal Brucioli, era fortemente conservatrice, volta alla restaurazione della organizzazione comunale, con la sua preoccupazione costante e insistente della giustizia. Ma qui ci interessa meno la soluzione cui tendeva uno dei partecipanti alle conversazioni degli Orti, che il modo con il quale egli pensava di potersi avvicinare a quella soluzione; modo che è tipicamente umanistico, e che è in relazione all'altro problema – quello della lingua, trattato con tanta insistenza negli Orti Oricellari.

È nota l'importanza che l'umanesimo ha attribuito alla educazione e alla formazione del fanciullo61: e anche il Brucioli partecipa di questa fiducia straordinaria nelle possibilità dell’educazione e delle arti onde essa si serve. Non tanto nel dialogo apposito sulla educazione de’ figlioli, dove riprende i motivi tradizionali platonici della educazione spartaneggiante alla sobrietà, alla obbedienza, alle armi, e quelli caratteristici del Rinascimento intiero dell'educazione liberale, quanto nel dialogo delle leggi della Repubblica, il Brucioli mostra la sua fede nel valore politico della educazione. Egli propone infatti che i ragazzi

in cambio di quegli giochi vili, a' quali si veggono hoggi stare intenti, non essendo di alcuno momento, si facessino per legge insieme essercitare in quegli, che sono utili all'armi, et in certe finte battaglie ammestrargli, et così essercitati introdurgli alle vere, fare ch'essi habbiano fra loro puerili magistrati et leggi, alle quali ponessino puerili pene, a chi non osservassi... et di poi, o soli per le case co' loro precettori, o per li studi publici (il che molto meglio fatto mi parrebbe) farli essere intenti alle ottime discipline della santissima Philosophia... Così non senza ragione desideriamo quelle discipline ne' giovani che da puerizia a quegli fanno desiderare et amare le virtù; et massimamente quella per la quale alcuno cittadino divenuto perfetto, sappia ragionevolmente comandare, et obedire quando fa di bisogno: et queste solamente sono da essere chiamate ottime discipline ne' giovani, che hanno quando che sia a governare la Republica.62

Ma quale forma assume questa valutazione della importanza politica della educazione, come si specifica? In modo caratteristicamente umanistico, anch'essa: tutta la educazione alla vita civile e politica viene sintetizzata dal Brucioli nell'insegnamento e nell'apprendimento delle lingue classiche, la greca e la latina:

Ma a volere, che la republica in tutte le cose fiorisca et si mantenga salva et potente, bisogna ch'ella habbia i suoi cittadini dotti, sapienti, buoni, pieni di ragione, et drittamente educati, et per le buone attioni accetti a Dio. Et in testimonianza, che questo sia l'utile della republica, guardate quello che già fecero i Romani, e in che modo essi allevarono i loro figliuoli, i quali fra 'l quinto decimo, et il vigesimo anno diveniano periti della latina et greca lingua, et appresso di tutte le liberali discipline, le quali imparate, gli mandavano alla militia, et di qui nascevano quegli huomini sapienti, egregii, memorabili in tutti i secoli, come furono i Camilli, i Fabi, gli Scipioni, i Paoli, i Catoni, et altri molti d'ogni maniera di scientia adorni. Et questa fu la grandissima causa, che fece co' termini del mondo distendere loro l'imperio. Questo ho io detto, accioché noi intendiamo non si potere dirittamente le sacre lettere, né le ottime discipline comprendere, né divenir perfetti cittadini, senza l'aiuto di simili scuole, perché le lingue sono come vagine, nelle quali il coltello dello Spirito, cioè il verbo di Dio, si tiene ascoso, et come arche, o armarii, li quali serrano, et conservano questo nobilissimo vaso aureo; queste calici sono per li quali noi portiamo attorno quella salutifera potione, ricevuta dal divino spirito...63

Con questa importanza data alla lingua, che viene concepita non solo come mezzo d'espressione e come “un segno delle nostre operationi”64, ma come veicolo dello spirito e essenza della sapienza, l'interesse al problema della lingua italiana e fiorentina e delle sue possibilità d'espressione ci sembra assuma nuova luce.

L'umanesimo ha sempre dato una grande importanza al problema della espressione elegante e della lingua corretta; più che l'interesse alla oratoria e alla eloquenza per se presa, umanistico è l'interesse alla purezza linguistica, alla espressione precisa e affinata. Come abbiam visto dai passi del Pico e del Brucioli, il difetto dell'oratoria e della retorica come arte del persuadere, per se presa, veniva facilmente identificato. Il gusto per l'eloquenza e per l'espressione pomposa era una manifestazione del forte sommovimento di sentimenti che rappresentava per quegli uomini ricchi di immaginazione lo svolgersi di eventi e di imprese politiche e militari, l'affermarsi e lo scomparire di speranze, come quella della pacificazione e unione d'Italia nell'antico ideale romano, delle quali tutti essi più o meno partecipavano. Ma, già per testimonianza di un loro contemporaneo, e di uno dei più famosi rappresentanti dell'Umanesimo, la eloquenza non poteva avere largo campo: nelle assemblee politiche, dinanzi ai principi, o dinanzi al popolo, era necessario parlare in volgare; nei tribunali più che all'arte occorreva fare attenzione alla precisione degli argomenti: rimaneva la eloquenza dimostrativa, di parata. Così Pier Paolo Vergerio il vecchio65. Questa eloquenza di parata poteva avere a volte un sostrato e un motivo sentimentale, come mostrano tutti i discorsi e in genere tutte le polemiche e i contrasti per la concessione della cittadinanza romana al Longolio66,che son rimasti famosi non solo per avere attirato l'attenzione di Erasmo, ma per la passionalità con la quale si svolsero, per la eccitazione che non si può chiamare altro che sentimentale alla quale giunsero gli animi dei contendenti, nel nome dell'ideale della antica e rivivente Roma. Oppure poteva assegnarsi, in determinati momenti e in determinati luoghi, il compito di suscitare quei feroci e grandiosi sentimenti ai quali ci si appellava per suscitare lo spirito civico e per dare vita al rinnovamento delle idee politiche e civili romane67. Ma l'oratoria umanistica rimase di parata, di cerimonia, e ebbe scarso valore politico, al di fuori degli usi della propaganda e della pubblicistica.

Piu interessante invece il rapporto con la politica della retorica intesa non tanto come arte del persuadere o dell'eccitare generosi sentimenti quanto come arte del dire, come arte della espressione precisa, come “stilistica”. Non la rettorica di Lazzaro Bonamico o di Gasparino Barzizza o delle invettive modellate sulle Verrine: ma quella delle Elegantiae del Valla, che proveniva da una esigenza diversa, non sentimentale né estetica: dal desiderio di intendere e di farsi intendere senza equivoci, senza lasciarsi imbrigliare da pregiudizi e tradizioni, senza lasciarsi deviare dalla magnificenza oratoria, né dagli avvolgimenti della terminologia filosofica.

Il tentativo del Valla di rinnovare e purificare la lingua latina partiva dal pensiero che in essa ci fosse il segno della volontà divina. Il Valla aveva cercato di corrispondere alla esigenza del parlare chiaro, delle definizioni precise, del tener conto del pieno significato delle parole da usare, del dare insomma adeguata espressione al senso delle cose reali ed effettive, senza infingimenti e senza fuoco, alla esigenza insomma di rinnovare il pensiero attraverso la lingua. Per far questo s'era riferito alla teologia e alla giurisprudenza, con una formulazione prevalentemente filologica e grammaticale. Dopo l'esperienza filosofica fiorentina, nella quale si era cercato di risolvere gli originari problemi politici attraverso la soluzione del problema dell'uomo e della sua posizione nell'universo, i giovani degli Orti Oricellari, pur conservando le illusioni umanistiche sul valore politico degli ideali dell'educazione, della “virtù” astrattamente intesa, e delle sue varie e sempre astratte personificazioni, pur credendo tanto in quegli ideali da poter sperare di ravvivare con essi le loro aspirazioni politiche di ritorno all'antico Comune fiorentino della grossa borghesia e dei proprietari terrieri, volgevano alla propria lingua, alla lingua fiorentina e a quella italiana, l'attenzione e le preoccupazioni che il Valla aveva dedicata alla latina, e con lo stesso concetto.

Il problema della lingua ci appare sotto questo aspetto analogo a quello della milizia, delle armi. Dopo le dichiarazioni che abbiamo riportato sulla importanza dello studio delle lingue greca e latina, e sul loro valore per la formazione del cittadino, il Brucioli fa sollevare da uno degli interlocutori l'obbiezione che non tutti i cittadini della ideale repubblica avrebbero avuto il modo di far studiare le lingue per tanto tempo ai propri figliuoli:

E non può così commodamente ciascuno manchare dell'opera de' suoi figlioli, et allevargli nell'ocio litterario.

Al che l'interlocutore principale:

Non credete (crediate) anche voi ch'i' voglia che s'ordinino nelle Republiche tali scuole, quali sono infino a qui, dove i fanciugli nello imparare il Donato, o nel mandare a memoria i freddissimi versi d'Alessandro, senza divenire di cosa alcuna più dotti, perdono più di venti anni: più felicemente comincia questo secolo a dimostrare, come si apprendano le lingue et le discipline: onde secondo la mia sentenza basterebbe che una o due hore al giorno mettessino i giovani nel visitare le scuole...68

La preoccupazione del Brucioli e probabilmente degli altri giovani del circolo degli Orti Oricellari era dunque quella di diffondere il più possibile le lingue e le discipline educatrici e formatrici di virtù civiche, e di facilitarne e ravvivarne l'apprendimento, in modo che nessuno dei cittadini potesse allegare ragioni di necessità per sottrarre i figli all'insegnamento, che si voleva pubblico. Di qui il passo era facile alla discussione sul valore e sulla utilità della lingua italiana e fiorentina a tale scopo: il carattere di tale discussione non ci appare dai dialoghi del Brucioli, che sono posti in una atmosfera filosofica e astratta, ma lo possiamo osservare in una considerazione del Gelli, popolano e attento frequentatore in giovinezza degli Orti Oricellari:

Perché io mi ricordo già sentir dire che M. Costantino Lascari, quel greco di chi questi moderni fanno si grande stima, usò dir ne l'orto de' Rucellai a tavola, dove erano presenti molti gentilhuomini, che n'è forse ancora vivo qualcuno, che non conosceva il Boccaccio inferiore ad alcuno loro scrittore greco, quanto alla facundia e al modo di dire, e che stimava il suo cento novelle quanto cento de i loro Poeti69.

Dunque la preoccupazione era di vedere se la lingua italiana o fiorentina avesse tanta facondia, tante possibilità di eloquenza, e lo stesso modo di dire, la stessa precisione di espressione, le stesse possibilità di espressione, che la greca, di poter stabilire che la lingua fiorentina

è attissima a esprimere qualsivoglia concetto di filosofia... e così bene come si sia la latina, e forse anche la greca, della quale costoro menano si gran vanto70.

Questa preoccupazione era analoga a quella della milizia propria, e dell'insegnamento dell'uso delle armi ai giovani cittadini: trovare il mezzo di educare strati sempre più ampi del popolo alla virtù, dare con ciò la maggior forza possibile alla “repubblica”, allo Stato. Il Machiavelli darà un altro senso alla sua fede nella milizia e nelle armi italiane71; ma i giovani che discutevano negli Orti Oricellari di politica e di letteratura, di stato e di lingua, cercavano proprio di infondere nella letteratura e nell'umanesimo il senso della vita morale e delle necessità sociali, concependo l'una e l'altro come energie educative, in funzione non solo di un ristretto gruppo di cittadini, attraverso le lingue classiche, ma del popolo che essi volevano così interessare, usando la sua lingua, al loro ideale di vita pubblica informata alla virtù. E come l'esaltazione di quel servizio delle armi che la borghesia fiorentina aveva da tempo abbandonato aveva come sostrato la nostalgia per la forte età del libero e autonomo comune, governato dai cittadini che sapevano scendere in campo a difenderlo, anche l'interesse per la lingua celava la nostalgia per il grande periodo degli scrittori toscani. La ragione stessa della decadenza della lingua fiorentina era quella della decadenza delle armi e della libertà comunale:

Lo avere dunque i nostri atteso a la mercatura e non alle lettere, e la moltitudine de' travagli che sempre ci sono stati, fecero per lungo tempo restare indietro e quasi che perdersi interamente gli avvertimenti e l'arte usata da' tre sopra detti ne la nostra lingua72 ; e i primi che cominciassero in Firenze a riosservargli, e ne la favella e ne la scrittura, furono quegli stessi letterati che usavano a l'Orto de' Rucellai... Di costoro avvertiti Cosimo Rucellai, Luigi Alamanni, Zanobi Buondelmonti, Francesco Guidetti e alcuni altri, i quali, praticando con esso Cosimo, si trovavano spesso a l'Orto con que' più vecchi, cominciarono a cavar fuori le dette considerazioni, che la lingua n'è poi tornata in quel pregio che voi vedete73.

Era dunque la stessa aspirazione e la stessa esigenza politica, che attraverso le armi e attraverso la lingua tendevano al ritorno ai principi, alla ricostituzione della vita comunale, entro un vago piano di unità italiana. Nelle menti di quei giovani appassionati e seriamente appassionati di problemi filosofici e politici, pieni dello entusiasmo morale per la “virtù” così caratteristico dell'umanesimo,74 lo “stile” rettorico “che i miglior fa più belli, e gli altri preme”75 veniva a fare tutt'uno con lo strumento più politico che possa darsi: le armi.

La retorica e la politica facevano per gli umanisti – e noi abbiamo qui studiato l'ambiente umanistico fiorentino, il più realistico e il più acceso di vive passioni politiche – tutt'uno, fondendosi nella morale. E da quelle passioni politiche, e da quell'entusiasmo etico e educativo gli umanisti e i letterati fiorentini ritornavano, sul tramontare dell'umanesimo, a problemi “retorici”, letterari, filologici, linguistici, ma sempre con una preoccupazione politica. Quella di riuscire ad ottenere attraverso una attività di traduzioni di opere filosofiche e letterarie una educazione civile e politica del popolo era una illusione non meno grande di quella di riuscire ad ottenere la realizzazione delle proprie idee politiche attraverso la istituzione di milizie popolari. Sfuggiva a quei giovani l'astrattezza della loro idea, in quanto una lingua non si rinnova se non se ne rinnova il contenuto spirituale; e l'individualismo e l'intellettualismo dell'Umanesimo si manifestarono poi nella elaborazione teorica del problema della lingua, nel quale risorgeva fra l'altro il particolarismo fiorentino,76 e nel freddo tecnicismo linguistico e filologico.

Tuttavia, la illusione di quegli uomini e di quei giovani sull'importanza di trasportare la “retorica” dal latino e dal greco all'italiano, e della sua funzione politica, e sulla possibilità e sulla fecondità politica di tale impresa, si è mostrata meno grande di quella, analoga e concomitante, della possibilità del ritorno alle milizie e sulle conseguenze di essa. Perché mentre questa fu presto sfatata dai fatti, la questione della lingua posta negli Orti Oricellari ebbe subito grande eco, ed ha accompagnato per molto tempo la storia delle aspirazioni politiche e sociali italiane, il che non è nostro compito qui di esporre particolareggiatamente; qui si è voluto solo mostrare, in un caso particolare e con materiale in parte finora non utilizzato, come nell'umanesimo italiano non vi fosse quella scissione fra “rettorica” e “letteratura” da una parte e “politica” dall' altra, e come anzi questa si nutrisse di quelle, vivificandole a sua volta.

Roma, 1° luglio 1937 XV

Note

1 Su questo periodo cfr. F. Ercole, Dal comune al principato, saggi sulla storia del diritto pubblico del Rinascimento italiano, Firenze 1929; il capitolo L'Italia della Rinascenza in G. Volpe, Il Medioevo, Roma 1926, 495-533; G. Volpe, La Rinascenza in Italia e le sue origini, in Momenti di Storia Italiana, Firenze 1925, 95-128. È un periodo estremamente complesso per l'intrecciarsi di elementi e di forze vecchie e nuove, italiane e spagnole, francesi, tedesche; qui abbiamo l'occhio più alla formazione della coscienza politica dei gruppi dirigenti italiani che alle formazioni statali e internazionali.

2Cfr. la famosa frase del De Sanctis, Storia della Letteratura Italiana, Bari 1925, I, 416: “Il suo Lutero (dell'Italia) fu Machiavelli”. Il concetto del De Sanctis è stato ripreso e sviluppato all'estremo da F. Alderisio che procedendo con un metodo idealistico formale è giunto nel suo Machiavelli (Torino 1930), a sostenere una religiosità specificamente cattolica del Machiavelli, conforme alle interpretazioni unilaterali dell'Umanesimo offerte dal Toffanin, nei suoi due libri, Che cosa fu l'Umanesimo, Firenze 1929; Storia dell'Umanesimo, Napoli 1933.

3B. Croce, Teoria e Storia della Storiografia, 2a ed., Bari 1920, 212 sgg.; a parte la acuta e profonda analisi psicologica della formazione del Principe, anche nel bel saggio di F. Chabod, Del “Principe”di N. Machiavelli, Milano-Roma-Napoli 1926, si ritrova la stessa interpretazione del carattere umanistico-pragmatico della storiografia del Machiavelli.

4H. Baron, La rinascita dell'etica statale romana nell'umanesimo fiorentino del quattrocento, in “Civiltà Moderna”, VII (1935), 248-49. “Civiltà Moderna”, VII (1935), 248-49.

5Si veda per esempio l'orazione di Gerolamo Falletti in morte di Ippolito d'Este, dove si dice della famiglia estense: “nullum genus, quod italo nomini maiora beneficia dederit; nulli homines, qui acrioribus studiis libertatem defenderint, ac legibus institutisque custodierint. Estenses, inquam, exstiterunt, qui rem militarem obsoletam in Italia... cum virtute, tum etiam disciplina revocarunt. Estenses Italiam, ut externum iugum excuterent, seque in libertatem vindicarent, partim rationibus et consiliis, partim etiam potestate coegerunt” (Orationes XII, Venezia 1558, 21r e v). Ci sono tutti i motivi della pubblicistica politica italiana del tempo: la deplorazione della mancata forza delle armi, il concetto della “libertà italiana”, cioè della indipendenza dei potentati italiani da egemonie straniere; la gloria del “nome italiano”, e via dicendo.

6Per gli studi più recenti, cfr. F. Battaglia, Lineamenti di Storia delle dottrine politiche, con appendici bibliografiche, Roma 1936, 118 sgg. La maggiore storiografia italiana moderna si rifà a questo proposito al De Sanctis, che afferma: “Questo grande movimento che più tardi si manifestò in Europa come lotta religiosa, fu in Italia generalmente indifferenza religiosa, morale e politica, con l'apoteosi della coltura e dell'arte”(Storia della Letteratura Italiana, cit., I, 379). Il Gentile riprende a proposito della politica degli umanisti questo motivo, chiamandola – conforme a tutta la sua interpretazione dell'Umanesimo come movimento di spiriti tutto vivificato e permeato dell’“atteggiamento estetico dello spirito”, “una politica che si può definire estetica nel senso stretto della parola” e osserva che la azione politica dell'umanista, ad es. la sua congiura, “non è propriamente un'azione politica, perché non si inserisce nella realtà storica contemporanea, ma è una costruzione letteraria dell'uomo che s'è fatto nell'animo suo contemporaneo degli antichi romani". (G. Gentile, Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento, Firenze 1925, 18); al De Sanctis si rifà in sostanza anche il Croce, pur guardando agli umanisti non da un generale punto di vista filosofico, ma secondo la prospettiva della storia della storiografia, e pur non riprendendo direttamente la concezione desanctisiana, ma anzi polemizzando internamente con essa. Dopo aver descritto il carattere letterario e oratorio della storiografia del Rinascimento, e dopo aver accennato alla sua diffusione in Europa, egli osserva: “In seguito fu necessario liberarsi da quel paludamento troppo largo o troppo stretto, e insomma, non tagliato sul corpo del pensiero moderno; e si censurò quanto era in esso di artificioso, di gonfio, di falso... Ma chi senta la pietà del passato, gusterà quella prosa storica umanistica come espressione dell'amore per la antichità e del desiderio d'innalzarsi a lei... “ (Teoria e Storia della Storiografia cit., 209). Qui il giudizio del De Sanctis permane, privato però del pathos politico e morale fortissimo nel De Sanctis; il Croce considera con simpatia quei letterati umanisti scrittori di storie, ma non nega il loro scarso interesse politico, non nega l'artificioso, il gonfio, il falso, cioè il retorico di quegli storici.

7Chabod, Del Principe, cit., 2.

8Ibid., 9.

9Ibid., 17.

10Come ha dimostrato il Baron nello studio sopracitato per quanto riguarda l'etica civile ciceroniana e la borghesia fiorentina della prima metà del secolo XV; e come ha fatto il Gothein per Venezia nel suo Francesco Barbaro, Berlin 1932. Si tratta sempre di un teorizzamento e di un idealizzamento di esigenze particolari politicamente e socialmente ben determinate (vita comunale, repubblica aristocratica rispettivamente a Firenze e a Venezia), che vengono trasportate su un piano filosofico-morale il cui eclettismo disvela di per se stesso la genericità. Per stabilire il valore maggiore o minore di tali posizioni bisogna discendere nei meandri della psicologia e della biografia interiore, il che è estremamente rischioso. Naturalmente nessuno pensa a porre in dubbio la serietà morale di persone come il Palmieri e il Barbaro; ma la ineffettività politica delle loro idee è dimostrata dalla storia stessa. Per quanto riguarda la pubblicistica politica sulla base del richiamo all'opinione pubblica favorevole alla idea dell'Italia unita, si debbono segnalare gli articoli di N. Valeri, il quale ha mostrato (L'insegnamento di Gian Galeazzo Visconti e i “Consigli al Principe” di C. Malatesta, in “Bollettino Storico Bibliografico Subalpino”, XXXVI, 1934, 468 sgg.) come la protezione accordata da Gian Galeazzo a poeti e letterati rientrasse nella sua politica, cui tornava conveniente ricollegare le proprie gesta “a un grande seppur necessariamente vago programma di rivendicazione delle glorie italiane e romane, repubblicane e imperiali, riempiendo la miseria degli italiani sbattuti e tormentati con l'aspettazione messianica di una specie di veltro liberatore”. Il Valeri nota anche come, nonostante che tali motivi petrarcheschi fossero ormai sfruttati e deboli come tutte le cose invecchiate, “comunque la diffusione di quelle lodi, aiutata dalle relazioni degli umanisti di corte, quali Antonio Loschi e Pasquino Capelli segretario ducale, cogli umanisti dei principali centri cittadini, gli giovò a accattivarsi il favore e il rispetto delle classi colte italiane”. Cfr. anche dello stesso, Lo Stato Visconteo alla morte di Gian Galeazzo, in “Nuova Rivista Storica”, XIX (1935).

11Secondo l'espressione e l'interpretazione di A. von Martin, Soziologie der Renaissance, Stuttgart 1932, 72 sgg.

12Cfr. gli articoli già citati del Valeri, e, per una notizia generale, l'articolo Signore e Principati di G. Falco nell'Enciclopedia Italiana, voI. XXXI, 759, dove anche il riferimento alla Vita Philippi Mariae Vicecomitis del Decembrio. Per il Decembrio cfr. F. Gabotto, L'attività politica di P. C. Decembrio e la sua attività politica, in “Giornale Ligustico”, xx (1893); ne risultano gli sfondi politici di molte polemiche umanistiche, come quella fra il Decembrio e il Guarino a proposito del Carmagnola; ma si rimane nel campo della più evidente pubblicistica.

13 Per questo, basta riferirsi agli studi del Toffanin già ricordati (cfr. 485, nota 2). Questi due studi del Toffanin mostrano l'utilità di una indagine come la presente, poiché vi si ammette senz'altro la serietà della retorica, della tradizione oratoria come si presentava e come si voleva presentare, senza fare discriminazioni fra quanto vi potesse essere, nel ciceronianesimo, di veramente sentito e corrispondente a esigenze e problemi del tempo, e quanto invece di convenzionale e “retorico”nel senso deteriore della parola. Il merito del Toffanin sta nell'avere rilevato la vita della tradizione umanistica nazionale petrarchesca, i cui inizi sono stati posti in valore dal Burdach nei suoi noti studi. Vivace la critica dell'ideale umanistico di tipo petrarchesco che fa G. Ferrari, Corso sugli scrittori politici italiani, 2a ed., Milano 1929 (la prima ediz. italiana è del 1862), specialmente 121 sgg.

14Oltre le opere già citate, F. Ercole, La politica di N. Machiavelli, Roma 1926; Da Carlo VIII e Carlo V, Firenze 1932; L. Russo, nei suoi Prolegomeni alla sua edizione del Principe (Firenze 1931); al quale, e specialmente al suo commento al cap. XV del Principe, mi riferisco per il concetto della politica e per l'opposizione del Machiavelli alla trattatistica umanistica, e al suo concetto di virtù (cfr. specialmente le note 7-8 a p. II7 e 38 a p. 120; dove però non si può seguire il Russo nell'identificare il concetto umanistico della virtù con quello medievale).

15Opera, Basilea 1601, 352; cfr. per l'analisi e la interpretazione di questa lettera, Toffanin, Storia dell'Umanesimo, cit., 230 sgg. L'atteggiamento del Pico che contrappone la verità dei filosofi al fuco e alla gonfiezza degli oratori è analogo a quello del Machiavelli che contrappone alla verità effettuale il “qualcosa che parrà virtù”degli umanisti (Principe, cap. xv, in fine); quindi ci potrà servire per la nostra indagine l'analisi che ne fa il Toffanin, benché essa non sia molto particolareggiata. Per la concezione morale e religiosa del Pico e i suoi accenni politici, cfr. A. Corsano, Il pensiero religioso italiano dall'Umanesimo al giurisdizionalismo, Bari 1937, 51 e 53.

16Il problema storiografico (valore e giustezza della condanna dell'Umanesimo e degli Umanisti nella storia italiana) dal quale siamo partiti in questa ricerca si incontra e si implica nel problema del valore della retorica umanistica, già posto a quei tempi. Siccome la disputa non è limitata al Pico e al Barbaro, e non si potrebbe trattare particolareggiatamente la questione, ci limiteremo a trattarla nei riguardi di un momento particolare della storia dell'Umanesimo, che è stato poco preso in considerazione nella storia della cultura.

17Cfr. per tutti G. Capponi, Storia della Repubblica di Firenze, Firenze 1875, t. III, lib. V, cap. VI, 156-57; O. Tommasini, La vita e gli scritti di N. Machiavelli nella loro relazione col machiavellismo, Torino-Roma 1883-1911, voI. II, 90, 259; per le dispute sulla lingua, 357; P. Villari, N. Machiavelli e i suoi tempi, Milano 1927, voI. II, 278-79; 357-58, dove si trova indicata la restante bibliografia.

18L. Russo, Antologia Machiavellica, Firenze 1931, 202-3, note 33- 34; cfr. ibid., 205, nota 71, dove il Russo insiste: “Pure la descrizione troppo idillica dei regimi liberi, e troppo fosca dei regimi autoritari, ci conferma nel nostro giudizio che qui il Machiavelli forzi un po' il tono, per indulgere ai sentimenti dei suoi amici degli Orti Oricellari, e si lasci trarre oltre da un gusto umanistico dell'oratoria. Qui, a noi par di scorgere uno dei loci communes della letteratura antitirannica del '400, sublimati in bello stile da un uomo di forte passione politica;... qui la descrizione troppo idillica e troppo fosca ci appare soltanto un omaggio a un genere letterario, da una parte, e un omaggio alle passioni contingenti dello scrittore e dei suoi amici, dall'altra”. Tanto l'una che l'altra nota del Russo si riferiscono al cap. X del primo libro dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio.

19 Cfr. Il Paradiso degli Alberti. Ritrovi e Ragionamenti del I389, romanzo di Giovanni di Prato... a cura di A. Wesselofski, Bologna 1867, voI. I, 48, 52, 69, 83. Le osservazioni del Wesselofski sono spesso interessanti, come quando osserva il rapporto fra l'Umanesimo e la borghesia italiana, rapporto che sarà poi approfondito da scrittori come il Volpe (cfr. qui sopra, 485, nota I); ma spesso sono arrischiate, come la seguente: “La politica in Italia nacque con l'erudizione; Coluccio fu il primo erudito che abbia assunto il cancellierato di una grande repubblica italiana... Se a Gian Galeazzo (Visconti) fosse veramente sfuggito, parlando delle lettere del Salutati, ch'esse più gli nuocevano che mille cavalieri fiorentini, egli certo non pensava all'individuo, ma all'intero sistema”. Il che vuol probabilmente intendere che Gian Galeazzo riconosceva un valore politico, o meglio, di limitazione alla politica pura, nelle idee diffuse e sostenute dagli umanisti. Questo secondo giudizio del Wesselofski corrisponde a quello del Valeri, che nel saggio sopra citato (cfr. 489, nota 10) osserva “Né la fiducia di G. Galeazzo nei valori della cultura e della civiltà era soltanto la vernice esteriore della sua politica, ma un momento essenziale, una forza viva intrinseca ad essa”, che si rivelava nel rispetto dei G. Galeazzo alla “legalità, cioè, in sostanza, alla coscienza civile”; mentre la affermazione che la “politica nacque in Italia con la erudizione”, cioè con l'Umanesimo, non sembra corrispondere a nessun fatto o idea precisa. Sulle Disputationes Camaldulenses del Landino cfr. G. Mancini, Vita di Leon Battista Alberti, 2a ed., 1911, 443; e V. Benetti-Brunelli, Il rinnovamento della politica nel pensiero del secolo XV in Italia, Torino-Milano-Firenze-Roma 1927, che ne dà un'ampia esposizione nello analizzare il pensiero politico di L. B. Alberti; cfr. infine la citazione del Landino in B. Kieszkowski, Studi sul Platonismo del Rinascimento in Italia, Firenze 1936, 40, che comprova gli interessi politici delle prime riunioni e discussioni fiorentine preludenti alla formazione della Accademia Platonica: “Conveniebant itaque et qui de rebus variis atque magnis quaererent, et qui ad eas acute copioseque responderent. Erat enim creber apud eos de vita et moribus sermo, ut modo de bonorum malorumque generibus, modo de officiis investigarent. Quaerebanturque multa tum de administratione Reipublicae, tum de re militari, ac denique de tota re civili, deque in omni vivendi genere rectis honestisque aetionibus disputabatur” (De vera nobilitate liber, Ms. Corso 433 (36, E.5), ff. 3b-4b).

20Sulle implicazioni politiche dei problemi filosofici “puri”, cfr. Corsano, Il pensiero religioso italiano dall'Umanesimo al giurisdizionalismo, cit.: “Il Pico mira a restaurare la gerarchia spirituale cosi minacciata nell'uomo e fuori dell'uomo: ed è anche interessante vedere come ciò lo conduca a impegnarsi in una questione cui l'alta speculazione platonico-umanistica esitava ad accostarsi...: era dunque la questione dell'azione e della storia, nel suo aspetto piu strettamente politico, economico e sociale”; per la ripresa d'interessi politici negli Orti Oricellari, cfr. le opere citate, e K. Heitzman, Studja nad Akademja Platoiska w Florencji, Kraków 1933, 5 sgg.; si veda inoltre la Storia dell'Accademia Platonica del Della Torre (Firenze 1902), 742. Degli interessi politici degli Orti Oricellari abbiamo una testimonianza notevole (e interessante anche per altri aspetti) in un capitoletto del De honesta disciplina di Pietro Crinito, che è una specie di piccola enciclopedia di loci communes umanistici (Lugduni 1550). Il Crinito viene annoverato fra i frequentatori delle lezioni di Jacopo da Diacceto detto il “Pagonazzo”, scolaro e successore di Marsilio Ficino (L. Ferri, L'Accademia Platonica di Firenze e le sue vicende, in “Nuova Antologia”, 1891, III serie, voI. XXXIV, 235) e fu scolaro del Poliziano; quindi merita citare ampiamente la sua caratteristica testimonianza, che serve anche a fissare un terminus a quo per le conversazioni degli Orti Oricellari, le quali vengono per solito spostate verso la seconda metà del secondo decennio del secolo XVI; mentre la presenza del Crinito, morto probabilmente verso il 1505, ce le mostra iniziate molto più presto. “In hortis Oricellariis, cum nuper aliquot egregie docti homines convenissent, ubi de honestis literis optimisque disciplinis saepe et copiose agitur, forte incidit mentio de veterum institutis de regenda civitate ac de Venetum clarissimo atque summo imperio”. E si sollevò una vivace discussione. “Ibidem senex quidam in officiis rei publicae homo accuratus et prudens, Volo, inquit, vobis de Venetum imperio perelegantem referre apologum quem a Francisco olim Barbaro audivi; qui nostra aetate magna vir eloquentia et consilio fuit”. L'apologo sarebbe quello della zucca e del pino, e il Barbaro l'avrebbe raccontato a Filippo Maria Visconti nel suo incontro del gennaio 1444 (P. Gothein, Francesco Barbaro, Berlin 1932, 259-60; il Gothein ignora questo aneddoto del Crinito sul suo eroe): la zucca cresciuta prosperosa con il favor dell'estate e arrampicatasi sul pino fino alla cima con le sue foglie e i suoi viticci. E credeva di averlo superato. E il pino: “Ego hic multos hiemes, calores, aestus, variasque calamitates pervici, et adhuc integra consisto; tu ad primos rigores minus audaciae habebis, cum et folia concident et viror omnis aberit. Sic et in Italia”, avrebbe concluso il Barbaro, “permultae quidem sunt cucurbitae, quae pinum aggredi magnopere conantur; sed habent tamen plus animi quam roboris. Quocirca brevi exarescunt aut decidunt” (Lib. II, cap. XIIII, 40). Anche negli Orti Oricellari dunque si coltivava quella ammirazione per la organizzazione politica veneta, che con gli anni si farà sempre più manifesta negli scrittori politici fiorentini, e che si incontra naturalmente nel Brucioli, in Venezia rifugiato.

21Cfr. oltre agli storici citati a nota 17, che parlano tutti degli Orti Oricellari a proposito appunto della congiura, F. Perrens, Histoire de Florence depuis la domination des Médicis jusqu'à la chute de la République (1434-153I), III, Paris 1890, 84 sgg.; e C. Guasti, Documenti sulla congiura contro Giulio de' Medici etc., in “Giornale Storico degli Archivi Toscani”, III (1859). In uno di questi documenti (Lettera di Zanobi Buondelmonti e L. Alamanni a G. B. della Palla) c'è una lista di libri, che riportiamo perché può dare un'idea delle letture di quegli umanisti: “Un Petrarcha, nero (cioè, legato in pelle nera); uno Dante, nero; Ovidio, De Fastis, Trist., et Ponto; un Cento Novelle; Archadia del Senanzaro; opere greche di Luciano; Epistole di Ovidio; Virgilio; Teocrito; La Fiammetta; Catullo et Tibullo; Apiano Alexandrino; De Officiis; opere latine di Luciano; Bibbia; una Eticha, con in magni morali; un'altra Eticha, con lo Hecatonfilon; un'altra pichola, con la Politicha; un Platone grande”. (p. 201). Uno dei congiurati, il Martelli, fa poi il nome del Machiavelli, fra i cittadini di Firenze vecchi, che osteggiavano i Medici per desiderio d'aver posti e cariche ( 219 e 243).

22B. Morsolin, Giangiorgio Trissino, Vicenza 1878, 72-73; G. B. Gelli, Opere, Firenze 1855, 293, 30 5, 310. Cfr. 100, nota 2.

23Dialoghi della morale filosofia, usciti a Venezia, nel 1526 in-Folio, nel 1537 in-Quarto, nel 1538 in-16° piccolo; in quattro libri. Il più importante per il nostro scopo è il libro primo; gli altri trattano di argomenti di filosofia naturale, che ci basterà aver segnalato: il Cielo, le Stelle, le Comete, l'eco, i cinque sensi, etc. Ho veduto tutti i quattro libri nella edizione del 1537; il primo nella ed. del 1526 (che non si presenta come libro primo, ma come volume unico; probabilmente gli altri libri sono stati aggiunti in seguito, nell'occasione della seconda edizione), il secondo nella edizione del 1538 (?; non datata). Ho usato le edizioni del 1526 e del 1537. Gli studiosi ricordano del Brucioli anche un libro Della Repubblica che non ho potuto rintracciare; propendo a credere che si tratti del dialogo che più avanti ricordiamo. H. Hauvette, Luigi Alamanni, Sa vie et son œuvre, Paris 1903, 19, osserva che questi dialoghi hanno scarso valore filosofico e letterario; ma che presentano un certo interesse perché dalla seconda edizione in poi mettono in scena i frequentatori degli Orti Oricellari: il che non è poco, dato il valore di essi, e dato il pochissimo che si sa di quelle conversazioni, alle quali tanto partecipò il Machiavelli. L'esame delle opere del Brucioli, assieme alla indicazione offertaci dal Crinito, ci mostrano infatti che in quelle conversazioni la politica esercitava una parte importante fin dal principio, accanto alla filosofia e alla letteratura (più esattamente l'interesse per il problema della lingua), al contrario di quanto afferma lo Hauvette, che suppone che la politica penetrasse solo a poco a poco nelle conversazioni degli Orti Oricellari “à la faveur de l'historie romaine, grâce à Machiavel, et seulement aux approches de l'année 1520”.

24Cfr. Benrath, in “Rivista Cristiana”, 1879; E. Comba, I nostri protestanti, II, Firenze 1897, cap. IV, 117 sgg., dov'è indicata l'altra bibliografia.

25E per gli uni come per gli altri del suo primo periodo fiorentino ha importanza l'azione politica, non l'opera di scrittore; questa non è stata considerata mai come documento per la storia della cultura di quel periodo; mentre proprio quel periodo, segnando la transizione fra il maggior fiore dell'Umanesimo e la stanchezza di questo dopo il Sacco di Roma e quello di Firenze, presenta un particolare interesse.

26Il Capponi, Storia della Repubblica di Firenze, cit., t. III, lib. V, cap. VI, 156-57, sintetizza così il carattere degli Orti Oricellari: “gli uomini più insigni per nome e per grado che capitassero in Firenze, vi erano convitati. Si venne a formare qui una sorta d'Accademia, dove la scuola del Ficino ebbe qualche parte; ma i giovani attendevano più volentieri a esercitarsi nelle antiche storie e negli studi che più riguardano cose di Stato; il Machiavelli scriveva per quella radunanza i libri sull'arte della guerra e i discorsi sopra le Deche di Tito Livio. Zanobi Buondelmonte e Luigi Alamanni conducevano quella scuola a dei pensieri di libertà... “ (p. 156): ma a noi interessa sapere il tipo preciso di questi studi, fra la letteratura e lo Stato, fra l'Umanesimo e la politica.

27Pei contatti con l'Alamanni, cfr. Hauvette, Luigi Alamanni, cit. 85,156 ecc.

28VoI. IV, dial. V.; è questo l'unico dialogo della seconda edizione del quale ci siamo serviti.

29Baron, La Rinascita dell'etica statale romana, cit., 34.

30Si confronti al proposito l'Orazione al popol fiorentino sopra la militar disciplina dell'Alamanni (Id., Versi e Prose, Firenze 1859, II, 447; cfr. sull'occasione di questa Orazione, C. Roth, L'ultima repubblica fiorentina, trad. it., Firenze 1929, 116). Fin dal primo periodo l'Alamanni usa ricordi classici: “Dicanlo per me Sparta, Atene e Roma”.

31Recitazione del caso del Pietro Paolo Boscoli e di Agostino Capponi scritta da Luca della Robbia, in “Archivio Storico Italiano”, 1842; cfr. D. Cantimori, Il caso del Boscoli e la vita del Rinascimento, in “Giornale Critico della Filosofia Italiana”, VIII (1927), 253.

32Il dialogo Della Republica è il V della edizione del 1526, e il VI della edizione del 1538. In questa seconda edizione è mutato il prologo; infatti alla discussione sui mercanti e sui soldati viene sostituita una conversazione di maniera fra Messer Bernardo Salviati, Priore di Roma (cfr. Roth, L'ultima repubblica fiorentina, cit., 212, 213), Niccolò Machiavelli, Messer Gianjacopo Leonardi, l'ingegnere militare amico di Guidobaldo della Rovere, e infine, come principale interlocutore, Giangiorgio Trissino, il letterato famoso per le sue idee sulla lingua italiana e fiorentina. La discussione avviene nella corte e nel giardino della villa dell'Imperiale costruita da Eleonora Gonzaga, a Pesaro.

33Carte XXv.

34Carte XIVr; per la libertà si intenda “indipendenza”, “autonomia” di fronte ad altri Stati; la libertà interna viene indicata con le “ottime leggi”, conforme alla tradizione comunale e alle idee dei “Piagnoni”.

35Carte LXVIr della edizione del 1538.

36Baron, La Rinascita dell'etica statale romana, cit., 38. Su questo motivo vedasi anche P. Crinitus, De Honesta disciplina, che commenta un passo di Platone contenente la massima: “Est admodum arduum reperire hominem ingeniosum, qui simul etiam mansuetus, modestus sit” (p. 10). Il Dialogo citato è il De Scientia, cioè il Teeteto, I44a; cf. Politeia, 503c-d.

37Cfr. Eutifrone, 7b. sull'ira e la ignoranza. Il Brucioli non presenta che scarse influenze savonaroliane; ma negli Orti Oricellari la predicazione del Frate era presente. Le argomentazioni del Brucioli però non presentano nessun richiamo alla mansuetudine cristiana; ma sono tutti di carattere razionalistico.

38Ed. 1536, carte XCVIIIv; ed. I527, Cv. La definizione dell'ira viene esplicitamente mutuata da Aristotele “Et donde piglia l'occasione questa mortifera peste del suo male operare, che tanto offende l'humana generatione? – Da una intensa voglia, che quegli che t'hanno offeso siano puniti: avegna che Aristotile quella diffinisca essere una cupidità di deporre il dolore, nondimeno questa diffinitione non è molto (se bene si considera) discorde dalla nostra; ed. I527, XCIXv).

39Ed. 1527, Dialogo XIV, c. XCIIr (“Perché la fortitudine non solamente circa la milizia si adopera: ma circa alle cose marittime, et ne' governi delle republiche, et non meno anchora in quegli che sono di constante et immutabile animo verso le tediose infermità... Adunque non solamente, sarà forte quello che contro all'armato nemico valorosamente combatte: né la fortitudine essa constantia nel vincere il nemico fia. – O che altro puote essere questa? o com'è stata da' Philosophi diffinita? – Dissono gli Stoici di questa parlando ch'ell'era una scientia di quelle cose che sono da temere et di quelle che non sono da temere, tanto nelle guerre quanto nell'altre attioni – Mirabile veramente fu questa diffinitione. – Si certo; ma troppo piu là che e’ termini d'essa fortitudine si distende... “ XCIIv).

40Ed. 1527, carte XXv. Il Brucioli è particolarmente insistente contro i mercanti e le ricchezze, nei quali vede l'origine della rovina dello Stato fiorentino come egli e i suoi amici nostalgicamente lo vagheggiavano. “Ma senz'andare per gli altrui esempli, non perdesti voi, se bene si va ricercando il vero, la vostra libertà, per essere troppo cresciute le particulari ricchezze, et fatta troppo grande la moltitudine de' poveri? la quale, preso il reggimento, aiutata dallo antico avolo di questi che reggano, senza che la se ne accorgesse, gli vendé poi il dominio, potendo quello per le sue male conosciute ricchezze comperare il favore di questi infimi et corrotti cittadini...” (ed. 1537, XXXIr.; manca nell'ed. 1526, nella quale invece si trova contro i mercanti la invettiva: “... La nostra città si è piena di vostri simili, et appresso della maggior parte di questi è il governo del reggimento, avegna che tutto, in un certo modo, se lo porti il tiranno”. Carte XIXr). Anche l'Alamanni insiste spesso nelle sue poesie contro la ricchezza: “Volgi l'antiche e le moderne carte /E intenderai che senza il ferro l'oro / Serve è ricchezza che in un giorno parte /Stimansi ricchi, ma non son, coloro /Che temon del vicin l'armata mano /Ricca sempre che vuoi d'altrui tesoro”. Un buon commento a questi motivi che potrebbero sembrare puramente retorico-morali e corrispondevano invece alla situazione fiorentina reale è offerto dal cinico scritto di uno dei congiurati, che per aver salva la vita si pose dalla parte dei Medici, N. Martelli. Questi in uno scritto a Leone X parla della situazione a Firenze: dei “vechi, e' quali non desiderono altro che esser grandi nello Stato” e ai quali basterebbe dare cariche per calmarli (fra essi il Machiavelli); e dei giovani. “In questa nostra città, – egli dice, – e' nostri giovani si dilectano chi della nobiltà, chi della mercatura, et chi delli studii”. A chi si diletta di studii, dar cattedre e trasportare allo scopo lo Studio da Pisa a Firenze; ai mercanti, dar moglie e opportunità di guadagno; e “tutti quelli giovani che desiderano la militia, io, o inimici o amici, piglieria al mio soldo“; “questi altri che si restono, che sono volti alla mercatura e allo star a bottegha, non bisogna temerne...“ (C. Guasti, Documenti citati sopra a nota 2I, 219, 221).

41 Ed. 1527, c. IIIIr.

42A questo nella edizione del I538 fa seguito il dialoghetto Dell'officio della moglie. Il dialogo Del Governo della Famiglia ha per personaggi Jacopo Nardi lo storico, Zanobi Buondelmonti, Battista della Palla, Jacopo Alamanni.

43Il titolo di questo dialogo è divenuto nella edizione del 1537 Del giusto principe: nel che si può forse vedere una implicita polemica o per lo meno una intenzione di distaccarsi dal Machiavelli, derivata probabilmente più dalla fama del suo Principe, che da avversione per lui, tanto più che ne fa, sempre in questa seconda edizione, uno degli interlocutori secondari dei due dialoghi della Repubblica e delle Leggi.

44Nella seconda edizione vi sono alcuni cambiamenti nella seconda parte derivati dall'aggiunta di dialoghi come Della Bellezza et gratia (interlocutori Anton Francesco degli Albizi, Giulia Gonzaga, Mario Viscanto), che alterano la fisionomia politico-morale della prima edizione.

45Prefazione a Massimiliano Sforza, non numerata, penultima pagina.

46Carte CIv nella ed. 1526. Dei due personaggi, il soldato è naturalmente poco conosciuto. Sul secondo, abbiamo una curiosa testimonianza nella vita di Francesco da Diacceto, il filosofo, scritta da un Euphrosinus Lapinius non meglio identificato, il quale, contro le narrazioni degli storici che accusano il Diaccettino di aver svelato per ingenuità e leggerezza la congiura contro il cardinale Giovanni de' Medici, poi Leone X: “Iacobus Iaccetius,... cuius admirabile ingenium non solum in bonis literis gravioribusque disciplinis eluxit, verum etiam animus nunquam perterritus, in ipsoque capitis periculo altissimus adeo constans confirmatusque fuit, ut antequam ipse ob aliena scelera... securi a lictore percuteretur, elegiacis versis iisque elegantissimis mortem suam prosecutus, ingenii sui monumenta reliquit” (F. Diaccetii, Opera, Basileae 1563, Vita). Questi versi del Diaccettino, come veniva chiamato, sono stati pubblicati da P. Piccolomini (il quale nota come il Diaccettino dovesse a Giovanni de' Medici una “lettura” nello Studio Fiorentino) nel “Giornale Storico della Letteratura Italiana”, XXXIX, 327-34; e dal Tommasini, op. cit., II, 1087, il quale non vi trova che pietà cristiana. Il seguente distico mostra invece evidente il platonismo fiorentino: “Est tamen in nobis mens incorrupta; manetque | Spiritus: abruptos nesciet illa dies...” La mente incorruttibile non si accorgerà neppure della morte. E Iddio accoglierà non la mente, ma lo “Spiritus”, che tradurremmo con “animo”: “Hunc, Pater omnipotens, summis heu respice ab astris |Terrenisque precor substrahe blanditiis...” L'invocazione a Gesù Cristo è fatta con le seguenti parole, che possono ricordare la devozione savonaroliana del sangue di Cristo: “Tu quoque demissus, cuius pervulnera sanguis | Remedium nostris attulit vulneribus...”.

47Carte CXIr.

48Carte XXIr.

49Carte XXIIr.

50Francesco da Diacceto aveva già cominciato un'opera sincretistica in questo senso. Cfr. la prefazione di Th. Zwinger alla citata edizione delle opere del Diacceto stesso. Invece il biografo italiano, Benedetto Varchi, nell'edizione dei Tre libri d'Amore, Venezia 156I, 196, celebra il Diacceto per avere saputo riunire vita contemplativa e vita attiva: “Egli, ancora che filosofo e della setta Platonica, prima entrò e poi non si ritirò dalle faccende civili.

51Ca. XXXVIIr.

52Ca. XLIv.

53Ca XLIv.

54Ca XLVIIr.

55XLIXr.

56"Ca. XLIXr. Ma non si tratta delle leggi di Salone sibbene di una imitazione dalle Dodici Tavole in quanto allo stile, e di scarso interesse. A ca. XXXVIIIv, all'inizio del Dialogo, il B. si richiama esplicitamente a Platone.

57Ca. LVIIIr.

58Ca. LXVIIr.

59Ca. LXVr.

60Ca. LXXIIIr.

61E il Brucioli dà particolare rilievo a questo motivo, dichiarando esplicitamente che “il primo grado a pervenire alla felicità della bene ordinata Republica” è “la buona educatione de' giovani”, “la cura di bene instruire la gioventu con ottime leggi” (Carte XLIIr); “La buona dispositione et consuetudine de' giovani cittadini è causa di rendere piu perfetta la Città, et di stabilirla, et stabilita di conservarla” (Ca. XLIIIv)

62Ca. XLIIIv.

63Ca. LIIIIv e r.

64Ca. XIIIIv. Il Brucioli attribuisce grande importanza alla definizione della legge “acciò che essendo da referire tutte le cose a quella, alcuna volta erriamo per l'imperitia del parlare, et non conosciamo la forza delle parole, per le quali noi dobbiamo diffinire le leggi» (Ca. XXXIXr).

65De ingenuis moribus. Copia non datata Bibl. Naz. Roma 70.3.A.50.3, C. 18v (dopo la metà).

66Cf. D. Gnoli, Un giudizio di lesa romanità sotto Leone X, Roma 1891. V. Cian, Due brevi di Leone X in favore di C. Longolio, in “Giornale Storico della lett. Italiana", XIX, 373; Th. Simar, C.de Longueil, Musée Belge, XV, n. l.

67Questo modo di unire motivi filosofici, politici, e letterari in uno nella “retorica”, la “tanto honorata Rhetorica” come dice il Brucioli (XCIv) appare evidente in uno scritto del tardo platonismo fiorentino, che qui ci interessa appunto per la curiosa commistione di elementi. Pompeo della Barba da Pescia, nei suoi Discorsi filosofici sopra il platonico e divin sogno di Scipione, Venezia I553, chiama infatti “platonico” Marco Tullio; e cosi introduce il suo commentario di carattere metafisico-astronomico: “Avendo animo Marco Tullio di eccitare et accendere gli animi generosi de li cittadini romani a beneficar la patria, et a conservare et accrescere la republica... “ (Ca. 9v): dove alla narrazione filosofica viene attribuita la funzione della retorica.

68Carte LIVr.

69G. B. Gelli, Scritti Scelti, Milano 1906, 202; cfr. Opere, ed. A. Gelli, Firenze 1855, 293, dove si fa dire: “L'orto de' Rucellai, dove tu, quando potevi tal volta penetrare in maniera alcuna, stavi con quella reverenza e attenzione a udirli parlare tra loro, che si ricerca proprio a gli oracoli”. (Il Gelli nomina: Bernardo Rucellai, Francesco da Diacceto, Giovanni Carracci, Giovanni Corsi, Piero Martelli, Francesco Vettori e “altri letterati”).

70Gelli, Scritti scelti, cit., 202.

71Cfr. Chabod, Del principe, cit., 49 sgg.

72Le tre “corone”: Dante, Petrarca, Boccaccio.

73Gelli, Opere, cit., 310.

74G. Saitta, L'Educazione dell'Umanesimo in Italia, Venezia 1927, 67, 208.

75L. Alamanni, Versi e prose, ed. cit., I, 245 (Satira III).

76Cfr. lo scritto del Machiavelli sulla lingua fiorentina (Opere, ed. Mazzoni e Casella, Firenze 1929, 770: Discorso o dialogo intorno alla lingua) contro il concetto di Dante di una lingua italiana e non fiorentina. “Alcuni, meno inhonesti, vogliono che la sia toscana; alcuni altri inhonestissimi, la chiamano italiana”.

English abstract

Delio Cantimori’s essay Rhetoric and Politics in Italian Humanism appeared in the second issue of the Journal of the Warburg Institute, in an English translation by Frances Yates ("Journal of the Warburg Institute", Vol. 1, No. 2, October 1937, 83-1021937). The italian text Retorica e politica nell'Umanesimo italiano was published posthumously, many decades later, by Adriano Prosperi as an appendix to the re-edition of the historian's major work (Eretici italiani del Cinquecento, Torino 1992, 483-511; the two previous editions, edited by the author, had been published in 1939 and 1967): this is, with all evidence, the original Italian redaction of the essay that had served as the basis for the English version but, as will be seen, the relationship between the two versions is much more complicated than has been thought so far and the two texts would deserve (and will deserve) a careful and thoughtful study against each other, in a note of Monica Centanni and Silvia de Laude.

keywords | Macchiavelli; Cantimori; humanesim

Per citare questo articolo / To cite this article: M. Centanni, S. De Laude, Cantimori e Machiavelli. Nota introduttiva alla riedizione dei saggi: Rhetoric and Politics in Italian Humanism, pubblicato nel “Journal of the Warburg Institute” (1937) e Retorica e politica nell’Umanesimo italiano (1937; 1992), “La Rivista di Engramma” n. 134, marzo 2016, pp. 25-34. | PDF

Per citare questo articolo / To cite this article: D. Cantimori, Rhetoric and Politics in Italian Humanism. “Journal of the Warburg Institute”, Vol. 1, No. 2 (October 1937), 83-102, Eng. Transl by F. Yate, “La Rivista di Engramma” n. 134, marzo 2016, pp. 35-62. | PDF

Per citare questo articolo / To cite this article: D. Cantimori, Retorica e politica nell’Umanesimo italiano. Pubblicato in Eretici italiani del Cinquecento, a cura di Adriano Prosperi, Torino 1992, 483-511, “La Rivista di Engramma” n. 134, marzo 2016, pp. 63-96. | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2016.134.0005