"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

134 | marzo 2016

9788898260799

Machiavelli, l’umanesimo e l’amore politico

Guido Cappelli

English abstract

Non lo aveva eliminato Dante, non lo eliminerà Bembo. Il latino, nella sua rifondazione umanistica, continuerà per secoli a essere la lingua dell’alta cultura e della trattatistica, come ben sapevano Bodin, Hobbes o Vico. Era da sempre la lingua della dottrina filosofica, ma il Medioevo l’aveva asservito agli interessi di una metafisica tirannica, capace di sottomettere il verbum strappandolo alla Storia (Garin [1975] 20073, 19-34). Tutt’altro che lingua morta, dunque, come già intravedeva il Dionisotti, che tra latino e volgare vedeva un confronto tra “due lingue, entrambe non vive nel moderno senso della parola” (Dionisotti [1967] 19844, 98). O forse entrambe vive, ma non nel senso moderno della parola.

Comunque sia, possedere il latino vuol dire possedere le chiavi filosofiche delle norme di condotta private e pubbliche, indirizzare, forgiare i comportamenti e le visioni condivisi: è per questo che intorno alla lingua e per la lingua si scatena una grande battaglia culturale e politica. Essendo portatore, praticamente in esclusiva, della lingua delle scienze ma anche di quella dell’etica e della politica, il latino è terreno di disputa: anzitutto contro la Scolastica dei “barbari Britanni”, identificati non solo con una proposta intellettuale, ma con un progetto di annessione culturale (Lanza 19892, 13-17). Un progetto cui bisognava rispondere con la contundente aggressività militante con cui, iniziato il Quattrocento, Leonardo Bruni, presentando la sua propria versione della Politica aristotelica, attacca le traduzioni medievali: non critiche puntuali, ma messa in discussione radicale, scontro totale, rivendicazione esplicita del valore ideologico e civico della lingua latina, da recuperare nella sua proprietà e storicità, per rendere prima alla comunità politica e poi al mondo intero il servigio più nobile e grande:

Quid enim opera mea utilius, quid laude dignius efficere possim, quam civibus meis primum, deinde ceteris, qui Latina utuntur lingua, ignaris Graecarum litterarum, facultatem praebere ut non per enigmata ac deliramenta interpretationum ineptarum ac falsarum, sed de facie ad faciem possint Aristotelem intueri et, ut ille in Graeco scripsit, sic in Latino perlegere (Bruni [1438] 1928, 74).

Tornare a guardare in faccia Aristotele. Riappropriarsi del linguaggio filosofico greco attraverso una rigorosa mediazione latina classica, sottraendolo ai “deliramenta” dei monaci, cioè al controllo di un potere ufficiale come quello ecclesiastico latino. Questa la carica eversiva del primo umanesimo, che in una diversa declinazione può apprezzarsi anche nella posizione dell’altro grande polo umanistico, quello rappresentato dal ‘curiale’ Biondo Flavio, che proprio nella celebre disputa sulla lingua parlata nell’antica Roma (1435), sosteneva la sostanziale identità (nei limiti della naturale diversità di registri) del latino scritto con quello parlato, proprio per poter rivendicare il latino come lingua dello Stato (Dionisotti 1965, 333-78; cfr. Delle Donne 2008, XV-LX; Tavoni 1984).

Il panorama, certamente, è molto meno monolitico di quel che si potrebbe credere. Il “secolo senza poesia” di crociana memoria si è rivelato un laboratorio straordinario di sperimentazione – etica, politica e linguistica. E soprattutto nella seconda metà del Quattrocento, il volgare – non solo a Firenze, dove in realtà non era mai calato – riprende quota. Ma la letteratura politica resta fuori da questo ritorno, anzi, questo è il momento di massima fioritura della trattatistica latina, non a caso molto meno fiorentina, ora, che italiana – vale a dire d’ispirazione sovramunicipale e a vocazione teorica e nazionale. Del resto, a Firenze vigeva una lunga tradizione di diffidenza verso il latino e di simpatia per il volgare di uso pratico (Black 2004, 26-27); lo testimonia, ancora negli anni Trenta, la Vita civile di Matteo Palmieri, e lo conferma il volgare cancelleresco che tanto influirà anche sulla lingua di Machiavelli (Chiappelli 1969). Invece, fuori Firenze, per tutta la seconda metà del Quattrocento, mentre il volgare pur prende terreno, si alzano diverse voci che rivendicano una purezza umanistica solo latina.

Nella vittoriosa riforma umanistica, il latino è senza dubbio la lingua di un’institutio non astrattamente filosofica o, peggio, teologica, ma ‘umana’ in senso ampio: studia humanitatis. Lingua che coniuga la ricchezza e la varietà della cultura classica con il rigore terminologico della filosofia e delle scienze, su tutte la scientia civilis. Di qui che i trattati politici quattrocenteschi abbiano quasi sempre una sezione de educatione, intesa non già come istruzione tecnica, ma come formazione integrale, in primis della classe dirigente ai suoi massimi livelli. Ciò rivela il tentativo – cruciale nell’intera architettura teorica umanistica – di conformare e modellare una cultura d’élite, l’aspirazione a plasmare il comportamento e la mentalità dell’uomo di governo, oggetto primo e principale dell’analisi dottrinale umanistica (Cappelli 2008, 73-91, con ulteriore bibliografia).

Basterà riandare brevemente al ragionamento che il veneziano Lauro Quirini svolge nella lunga sezione de educatione del secondo libro del suo De republica, scritto giusto a metà secolo. Honor e Virtus vanno di pari passo: sono la mèta dell’adolescens illustris. Per raggiungerla, bisogna seguire i migliori viri:

Quare historias persaepe legant, quo viros inclitos, gesta nobilissima atque magnanima dignoscere valeant: nihil enim utilius historia politico homini, si verum est quod praeteriti ratio scire futura facit. Est enim historia custos temporum, lux veritatis, vita memoriae, nuntia vetustatis, laudatrix virtutis, vitii malitiaeque damnatrix (Quirini [1449-50] 1977, 159).

È per questo che la disciplina principale è la storia: da essa, guida pratica e morale, discendono gli altri studia humanitatis, che in definitiva assicurano la prudentia necessaria a governare:

Quam ob rem et in humanitatis studiis maxima operam dabunt ut et elegantia orationis et sermonis dulcedine bona quaeque facile persuadeant [...] et ut iam experientia rerum praeteritarum facti, bene ac recte civitati consulere possint (ibidem).

Si tratta di una posizione emblematica della concezione umanistica degli studia humanitatis applicati alla politica, riscontrabile in vario modo in opere come il De ingenuis moribus di Pier Paolo Vergerio (che vi insiste particolarmente), il De educatione di Enea Silvio Piccolomini o lo stesso De principe del Pontano; anche Valla aveva situato la storia al di sopra delle altre discipline, compresa la filosofia. L’experientia del passato, insomma, coincide (ben diversamente da Machiavelli) con la lezione di esso, e insieme formano all’arte di governo.

Il latino, dunque, “programma per le classi dirigenti”, come recita un celebre titolo di capitolo (Martines 1978, cap. XI), è un linguaggio dove si sono sedimentati i concetti della politica, che vengono determinati proprio da quel linguaggio e solo da quello – “clé de civilisation”, secondo la felice definizione di Clemence Revest (2013, 113-32). La parola ha davvero una funzione strutturante nella Weltanschauung umanistica. Le litterae sono il perno su cui si gioca la proposta politica. L’eloquentia è parte integrante e fondante dell’institutio. Non staremo a ricordare gli elogi dell’eloquentia che costellano la letteratura umanistica, compreso quel vero e proprio manifesto programmatico che si legge nel succitato De principe di Giovanni Pontano ([1490] 2003, parr. 20-23).

Di conseguenza, il progetto prevede, alla base, lo svolgimento di una sorta di programma classico totale, che troverà la sua materializzazione nelle due opere, complementari e per certi versi enciclopediche, di Francesco Patrizi: il De regno et regis institutione e il De institutione rei publicae, che si addentrano già nell’ultimo quarto del secolo. Institutio in grado massimo, farcita di exempla e facilmente mnemonica, diversa in questo, anche se tendente a un fine analogo, dalla densità dottrinaria di un Pontano e anche di un Platina, quello di Patrizi è davvero un programma che illustra le aspirazioni più ambiziose della pedagogia umanistica. Un programma esplicitamente pensato per i principi e le classi dirigenti:

Solum de his dicendum quae sublimiora sunt et supra civiles mores esse videntur et ad solos principes pertinent (Patrizi 1531, II VI f. LXVI).

Patrizi propone un curriculum che parte dall’allattamento (come anche Quirini), passa per le arti liberali, si concentra in specie (e in modo assai particolareggiato) sulla poesia e la storia, e termina con le arti del quadrivio. Lo scopo sembra in definitiva quello di formare un politico cosciente della storia, raffinato sul piano intellettuale ed emotivo, e capace di parlare convincentemente in pubblico.

Una delle conseguenze, sul versante della dottrina politica, di questo atteggiamento classicista è il notevole rigore terminologico e concettuale del linguaggio politico umanistico. Il latino è la lingua della teoria politica codificata da secoli di tradizione sia filosofico-letteraria che giuridico-politica. Questo rigore affiora esplicitamente nelle preoccupazioni terminologiche che compaiono nella trattatistica: non è raro vedere, per esempio, Pontano interessarsi alla proprietas di un termine chiave come maiestas, o Patrizi disquisire sulla valenza teorica dei termini miseratio/elemosyne/clementia.

Il fallimento – palese a fine secolo – del progetto statuale umanistico è dunque anche il fallimento del latino inteso come mezzo per forgiare l’uomo nuovo. Da allora, sarà lingua dei saperi specialistici, filologici e scientifici: quando smette di essere progetto totalizzante, comincia a essere lingua delle scienze settoriali. La proposta umanistica era perfetta, nel senso etimologico del termine: in sé conclusa. Dopo i trattati dell’umanesimo politico, così limpidi, così dettagliati, così maestosi, restava solo farle, quelle bellissime cose, metterle in pratica… o tacere.

Cosicché, per non rimanere intrappolato dalle pastoie di un discorso in declino, Machiavelli doveva affidarsi a tutt’altre premesse. Anche lui, come l’umanesimo, parte dalla Storia, ma, globalmente, la sua idea di cultura volgare sarà intesa a educare, formare alla politica strati più ampi della società, potremmo dire una classe popolare, una sorta di borghesia avvertita, politicamente più scaltra, allerta anche contro il potere (cfr. Pedullà 2011, 84-107; sulle modalità, esterno-interno, di questa formazione, cfr. Frosini 2013, 93-94) – ciò che in prima istanza rompe, necessariamente, lo schema di concordia organicista dell’umanesimo politico. Semplificando, si tratterebbe di passare dal ‘normativo’ (latino, umanesimo) al ‘descrittivo’ (volgare, sapere pratico) (cfr. per es., Disc., I 4 7; II 2 26; III 2 13; III 30 14; III 31 21: tutti passi in varia misura relativi alle capacità migliorative di un’educazione pratica non contaminata, in particolare, dalle debolezze del cristianesimo).

La situazione storica, sul piano politico e istituzionale, era mutata profondamente, a partire dalla traumatica invasione del 1494: nel volgere di pochi anni, apparve chiaro che il progetto di una società armoniosa, regolata da una scientia civilis in grado di offrire modelli stabili, certi, era crollato, dissolvendosi e complicandosi nel gioco di potenze a tutt’altra scala diplomatica e militare. In quella sanguinosa fin de siècle, l’Italia quattrocentesca si trovava quasi d’improvviso a fare i conti con la realtà, a lei sfavorevole, dei rapporti di forza a livello europeo. Nulla sarà più come prima: come ha scritto Fournel (2001, 72), “si instaura un’età del sospetto sulle forme tradizionali del fare politica e, quindi, sulla lingua di tale politica”. (L’opposizione latino-volgare è stata cursoriamente rilevata anche da De Benedictis 2015, 61, a proposito del confronto tra il Principe e il trattato De principatu del romano Mario Salamonio degli Alberteschi).

Sono cose note. Meno scontato, invece, malgrado le apparenze, proprio il modo esatto in cui Machiavelli si pone di fronte a questo quadro in turbinosa evoluzione e, soprattutto, il nesso tra l’atteggiamento politico machiavelliano e la sua scelta linguistica. La risposta di Machiavelli è, si diceva, analitica, ma non puramente teorica, perché allo sforzo estremo di razionalità, persino di asetticità, egli, innanzitutto, affianca una partecipazione emotiva, un’aspirazione a incidere, a influire su quel reale che si cerca (disperatamente) di comprendere e addomesticare razionalmente – due aspetti così ben rappresentati nel capitolo finale del Principe; e perché la sua non è né vuol essere una proposta organica e fondata su coerenti presupposti filosofici di ordinamento politico, ma è bensì la risposta alla sfide che via via va presentando la realtà politica concreta. Di “scarnificazione razionale” parla Inglese (2006, 62); di “norme di universale validità e vigore”, Quaglioni (2011, 68); tuttavia “non sempre il suo animo regge all’estrema tensione dell’analisi teorica e alla gravità delle sue conseguenze”, favorendo spinte emotive generatrici, al limite, di contraddizioni (Sasso 1980, 423). Sul piano strettamente dottrinale, la reazione di Machiavelli al fallimento oggettivo del sistema quattrocentesco – e dunque del suo edificio teorico-politico – non consiste, come nel Pontano del De prudentia, nel rilanciare sul versante della teoria classica, affinando l’analisi, moltiplicando la tassonomia, in definitiva operando una sottile, implicita palinodia (anche se vi sono comunque nessi tra il De prudentia e l’opera di Machiavelli: cfr. Richardson 1971, 353-57; Ginzburg 2009, 117-25). Al contrario, egli procede all’attacco diretto e senza quartiere al cuore dell’umanesimo politico, nel tentativo di distruggerne e smontarne l’architrave dottrinale, il sistema delle virtutes, che in ultima istanza riposava sul dettato del De officiis ciceroniano, secondo cui esiste una corrispondenza non solo etica ma in qualche modo concettuale tra utile e honestum.

Probabilmente Machiavelli ritiene tutto ciò non solo inutile, ma dannoso. Perché il sapere politico, invece, dev’essere agile, capace di adattarsi alla sfida della contingenza, agli andirivieni tortuosi delle vicende, insomma alle “sollecitazioni politiche del momento”, perfino a livello di rimaneggiamento o revisione delle proprie opere (Bausi 2005, 213 e passim). Ma questa è un’operazione praticabile solo limitando, se non proprio obliterando, la dottrina. Non è un caso né un capriccio classicista che nel Principe il praeceptor sia diventato il centauro Chirone, “mezzo bestia mezzo uomo”: la sua doppia natura fa da pendant a quella del princeps machiavelliano; egli non è, come nella tradizione umanistica, sapiens, per lui non è prevista una formazione culturale come elemento sostantivo per la capacità di governare:

Scrivono come Achille e molti altri di quelli principi antichi furno dati a nutrire a Chirone centauro, che sotto la sua disciplina li custodissi. Il che non vuole dire altro, avere per precettore uno mezzo bestia e mezzo uomo, se non che bisogna a uno principe sapere usare l’una e l’altra natura: e l’una sanza l’altra non è durabile (XVIII, 5-6).

Il nesso fondativo del pensiero umanistico, sapientia-virtus, risulta sostituito dall’idea – simboleggiata da Chirone – di un sapere pratico adatto a una forma particolare di virtus che non ha più nulla di umanistico. Come a suo tempo sottolineò Ezio Raimondi (1972, 125-43), Machiavelli è il “nuovo Chirone”.

Tra l’umanesimo politico e Machiavelli il conflitto è principalmente concettuale, di lingue e di linguaggi. Sul piano della teoria politica, i tempi richiedono, in effetti, nuovi strumenti concettuali, una maggiore flessibilità dottrinale: questi requisiti li ha il volgare, in cui di fatto si esprime la trattatistica fiorentina tra fine ‘400 e ‘500, da Rinuccini a Giannotti. Solo il volgare può affrontare il politico con una maggiore flessibilità e con minore timor reverenziale, aggirare quell’angoscioso “sospetto sulle forme tradizionali del fare politica” (Fournel 2001, 72). 

Così, Machiavelli forgia una lingua adatta alla “realtà effettuale”: “spontanea nell’elezione lessicale”, ma che si nutra in pari grado di un “linguaggio elevato a mire classicheggianti dalla tradizione del Salutati e di un linguaggio familiare borghese di una tradizione anteriore e ininterrotta”, la tradizione comunale trecentesca, senza sforzarsi di distinguersi dalla lingua corrente, pur mantenendo una forte tensione espressiva (Chiappelli 1969, 8-11). Ora, se queste osservazioni indicano come il rigore terminologico-concettuale non sia tra le preoccupazioni di Machiavelli, si comprende (ma andrà sfumata) la conclusione dell’autore, secondo cui “la simbiosi di latinismo e fiorentinismo sia ormai vicinissima a esser divenuta spontaneo registro espressivo” (Chiappelli 1969, 11; vedi anche Dionisotti 1980, 120: una lingua “più libera e lieve”). Come si accennava, si tratta di un processo di detecnificazione in atto già dai volgarizzamenti fiorentini del Quattrocento e la cui origine teorica può farsi risalire addirittura al De recta interpretatione di Leonardo Bruni (1420). Ne risulta, in definitiva, una lingua che supera il mito straussiano, così novecentesco, di un Machiavelli scienziato della politica, fondatore della scienza politica moderna, e si attaglia invece alla natura e i modi del procedere argomentativo machiavelliano: “pensiero del limite”, dell’eccezione, per sua natura alieno alla generalizzazione e al modello (Frosini 2013, 88). Ma se quella di Machiavelli è in molti sensi una lingua nuova, che in qualche modo supera o sintetizza sia la tradizione del volgare municipale fiorentino che la lingua tecnica e incardinata nella tradizione degli umanisti, i contorni di quest’operazione non sono così nitidi come si potrebbe credere (come opportunamente ricorda Fournel 2001, 74: “questa nuova lingua della politica è molto meno definita di quanto non si pensi spesso”).

La nostra ipotesi è che il passaggio dal latino al volgare sia parte del – o sia funzionale al – più generale ripensamento della politica operato da Machiavelli, in particolare sul piano della coerenza terminologico-concettuale e proprio in virtù di una sorta di libertà dottrinale che gli permette di svincolarsi dai limiti della tradizione. Lo scarto, fondato proprio sulla sostituzione del latino col volgare, ne risulta condizionato sul piano dell’assetto terminologico del discorso politico. In sostanza, quello che nella teoria politica umanistica è un sistema strutturato e preciso di termini-concetti, in Machiavelli si apre, si relativizza, cessa di formare sistema e diviene risposta e analisi a sollecitazioni puntuali (forse si può parlare, con Frosini 2013, 88, di “carattere non speculativo della teoria”). Per condensarlo in una formula, Machiavelli è un ‘analista’; gli umanisti sono dei ‘teorici’.

Si tratta, riecheggiando Althusser, di un pensiero della contingenza che, conscio dell’incertezza e della limitatezza della teoria e della precettistica, non arretra, al limite, neanche di fronte alla contraddizione interna (cfr. Pires Aurelio 2015, 139-40). Scrive Althusser:

Prima del compimento del fatto, prima del mondo, non c’è che il non compimento del fatto, il non mondo che non è che l’esistenza irreale degli atomi […] Detto in altri termini, nulla garantirà mai che la realtà del fatto compiuto sia la garanzia della sua perennità: tutt’al contrario, ogni fatto compiuto […] con tutto quanto se ne può ricavare di necessità e ragione, non è che incontro provvisorio, infatti non c’è eternità nelle ‘leggi’ di nessun mondo e di nessuno Stato, poiché ogni incontro, anche quando dura, è provvisorio. La storia non vi entra che come la revoca permanente del fatto compiuto da parte di un altro fatto indecifrabile che deve compiersi, senza che si sappia in anticipo né mai, né dove, né come si produrrà l’evento della sua revoca. Semplicemente, verrà un giorno in cui i giochi saranno da redistribuire ed i dadi saranno nuovamente da gettare sulla tavola vuota (Althusser 2000, 59, 67).

La tendenza antiaccademica di Machiavelli si rivela dunque principalmente, e preliminarmente, nella scelta linguistica: “si manifesta liberamente con l’urgenza e la perentorietà di chi deve trasmettere una verità in fermento [...] ha la sprezzatura delle parlate realistiche e popolari” (Borsellino 1970, 45). Ma se le cose stanno così, allora in Machiavelli non c’è una lingua della teoria politica, ma piuttosto un linguaggio in cui predominano “ambivalenza e pluralità [...] lingua pratica quanto teorica e lingua dell’emergenza” (Fournel 2001, 77-78). Se la teoria politica umanistica (accademica) è ormai inservibile, inservibili saranno anche il suo linguaggio, il suo apparato concettuale e soprattutto il suo sistema terminologico, che può essere dunque semplificato e manipolato, sollecitato ad accogliere ipotesi e proposte nuove e diverse, in ordine, come si diceva all’inizio, all’inclusione nell’orizzonte comunicativo di settori popolari più vasti (cfr. Inglese 2006, 89-90).

* * *

Com’è risaputo, Il PrincipeDe principatibus – conserva il titolo generale, nonché i titoli dei singoli capitoli, in latino: un relitto della vecchia usanza umanistica, una citazione cólta, forse un omaggio. Ma il volgare poi effettivamente impiegato nel corpo del trattato permette un margine di incomparabilmente maggiore flessibilità, un margine così ampio da sfiorare – valendosi proprio della sua forte tensione espressiva – il riduzionismo concettuale. Si può leggere in questa luce (forzando solo un po’) persino il celebre passo della Dedica del Principe (par. 4):

La quale opera io non ho ornata né ripiena di clausule ample o di parole ampullose e magnifiche o di qualunque altro lenocinio e ornamento estrinseco, con e’ quali molti sogliono le loro cose descrivere e ordinare, perché io ho voluto o che veruna cosa la onori o che solamente la varietà della materia e la gravità del subietto la facci grata.

Ridotto l’apparato terminologico umanistico a “ornamento estrinseco”, la lingua si fa strumento principalissimo della tendenza antiaccademica di Machiavelli, veicolo di un pensiero dello stato d’eccezione (permanente). In effetti, data “l’impossibilità di stabilire regole capaci di includere l’infinità degli aspetti nell’ambito dei quali la realtà politica si trasforma”; “limitato e ridotto a semplici misure precauzionali” il “raggio di azione della prudenza e dei precetti derivati dalla conoscenza o dall’esperienza”, bisognerà approntare strumenti nuovi per una politica che, lungi dall’essere pura scienza, “eccede le categorie della ragione” (Pires Aurelio 2015, 140). La ratio umanistica è polverizzata.

Di conseguenza, giunti a questo punto, è cruciale (e a ciò dedicheremo il resto di questo saggio) verificare le strategie machiavelliane di comprensione e azione politica attraverso una prospezione, l’analisi di un caso concreto di particolare rilevanza concettuale: la questione, tipica della teoria politica tradizionale, di amor o timor nella conduzione dello Stato, una nozione già consolidata nella dottrina classica (scontato il riferimento al De officiis ciceroniano e a Seneca; poco pertinente, invece, il rimando al De amicitia di Fournel 2015, 261; vedi infra). Com’è noto, l’amore, la mutua caritas tra il princeps e il popolo o – se si vuole – tra la direzione della civitas e il resto del suo corpus, diviene uno degli assi portanti della teoria politica dell’umanesimo, risalente a Petrarca e ampiamente elaborato nel corso del Quattrocento (Cappelli 2005, 53-75; Ceron 2011, 189-212). Le qualità morali, le virtutes, sono il fattore che permette, più di ogni altra cosa, la legittimazione politico-morale della sovranità, perché rendono possibile e politicamente praticabile l’amor, la mutua caritas tra principe e popolo, che in tal modo formano il corpus sociale e politico e fomentano la sovranità: così, la dottrina della mutua caritas configura l’autentico architrave concettuale dell’umanesimo politico. La massima coesione è infatti la linfa che tiene in vita il sistema, non solo e non tanto in un senso pragmatico, utilitaristico, ma come elemento strutturale che consente e giustifica l’esistenza stessa della comunità politica, la quale dev’essere fondata, assiomaticamente, sull’armonia e la concordia generali. Per questo, non si tratta neanche di ottenere, guadagnarsi o procacciarsi il favore, l’amor popolare, ma di esibire quelle qualità politiche, o virtutes, atte a garantire, in modo naturale, spontaneo, questo amor collettivo del corpo politico verso se stesso. Il princeps non deve sembrare amante del popolo, deve esserlo, proprio come le sue virtutes non devono (solo) apparire ma essere. Solo così ha senso che esista lo Stato.

Si diceva che il concetto rivive e assume nuove valenze – ancor più radicali – con Petrarca, che lo riconsegna all’umanesimo politico. E infatti, lo si ritrova, per esempio, in Pontano, dove l’amor è esattamente “fidelitatis fundamentum”, come si legge nel de obedientia:

Maximum autem et firmissimum fidelitatis fundamentum est amor: nam si verum est illud ut certe est: “quem quisque odit perisse expetit” [Cic. De off. II 23], et profecto et hoc verissimum: quem quisque amat salvum esse optat.

Ma il massimo e più saldo fondamento della fidelitas è l’amor: infatti, se è vero che “chi odia qualcuno ne desidera la morte”, è certamente vero anche che chi ama qualcuno lo vuole salvo (Pontano 1490, 66r, libro IV).

Base, dunque, del patto implicito di governo, garanzia di convivenza pacifica e serena. L’amor è empatia bidirezionale, vincolo che coinvolge allo stesso titolo e nella stessa misura il capo e le membra del corpo politico:

Amor iste, cum inter familiares altius egerit radices, latius postea evagatus, non modo inter populares subiectosque, sed externos quoque diffundetur. Quem enim quisque amat, eum, si fieri possit, vivere perpetuo expetit nullique minus exercitu opus est, quanquam haud scio an ulli maiores sint copiae quam ei qui plurimum ametur. [...] Ad conservandum autem et magis indies augendum familiarium et eorum quos intimos habeas amorem illud maxime valet, ut amari se abs te intelligant. Vetus enim est et prudens: “Si vis amari, ama”, quod ex eo potissimum iudicabunt, si secundis rebus suis senserint te laetari, dolere plurimum adversis. Devinciet autem illorum animos ac imprimis fidos faciet liberalitas gratitudini coniuncta [...] Multum etiam conferet humanitas, qua virtute cum excelleas, necesse est non modo ut ab intimis tuis amere multum, sed a coeteris omnibus

Quando tale amore avrà messo profondamente le radici tra coloro che fanno parte della tua casa, allora poi, estendendosi largamente, si diffonderà non solo tra i concittadini e i sudditi, ma anche tra gli stranieri. Chi ama qualcuno, infatti, desidera che questi, se è possibile, viva in perpetuo: a nessuno è meno necessario esercito alcuno, sebbene non so se vi sia qualcuno che possiede truppe piú numerose di colui che è profondamente amato. [...] Per conservare, poi, e accrescere di giorno in giorno l’amore di coloro che fanno parte della tua casa e di coloro che hai come amici intimi, vale moltissimo il fatto che essi sentano di essere amati da te. È infatti detto antico e saggio: “Se vuoi essere amato, ama”. Questo lo crederanno soprattutto se sentiranno che tu gioisci delle loro fortune e ti duoli assai delle loro avversità. D’altra parte avvincerà i loro animi e li renderà straordinariamente fedeli una liberalità unita a gratitudine [...] Gioverà molto anche l’umanità: e benché tu eccella in questa virtú, è necessario che tu sia molto amato non solo dai tuoi intimi, ma anche da tutti gli altri. (Pontano [1490] 2003, parr. 35-36).

Tutt’altra la logica machiavelliana, che se per un verso riprende il lessico umanistico per l’altro si presenta come radicalmente diversa sul piano concettuale (una prima suggestiva indagine comparativa al riguardo si deve a Barbuto 2007, 81-82); v. anche Fournel, Zancarini 2014 ad vocem “Odio/Amore” nell’Enciclopedia machiavelliana). Intanto, come elemento concettuale, l’amor non sembra comparire nel pensiero del Segretario prima del 1512 (Fournel 2015, 266). Ma quel che conta è che il riconoscimento, che Machiavelli è il primo a operare, del carattere strutturale, inevitabile e perfino benefico del conflitto sociale che pervade tutta la politica, prevede un inquadramento molto diverso del quesito tradizionale, diretto ora all’utilità tattica delle alleanze, ora fondate, per loro stessa natura, non più sul legame, bensì sulla distanza tra governante e governati. È ancora Althusser a spiegarlo nel modo più sintetico e chiaro:

Fondare, costituire e conservare tra lui ed il suo popolo, mediante un sottile gioco di alleanze che si appoggia sul popolo dei ‘magri’, vale a dire i poveri, per tenere a freno i ‘grassi’, vale a dire i potenti, una distanza vuota: quella del timore-amicizia e non la prossimità contagiosa dell’odio o dell’amore. […] Infatti odio e amore trascinano il popolo nelle sue passioni e ciò provoca nel Principe il contagio delle passioni del popolo le quali, sì, sono mortali (vedi Savonarola da un lato e gli Sforza dall’altro) (Althusser [1994] 2000, 163).

Il corpo politico è percorso da divisioni insanabili. Il princeps, e in special modo quel particolare princeps civilis su cui Machiavelli rifletterà a varie riprese nel corso della sua parabola intellettuale, dovrà scegliere su chi contare, su quale settore sociale appoggiare il proprio potere, stante la strutturale contrapposizione di classe che connota ogni comunità sviluppata:

Colui che viene al principato con lo aiuto de’ grandi, si mantiene con più difficultà che quello che diventa con lo aiuto del populo, perché si truova principe con di molti intorno che gli paiono essere sua equali, e per questo non gli può né comandare né maneggiare a suo modo. Ma colui che arriva al principato con il favore populare, vi si truova solo e ha d’intorno o nessuno o pochissimi che non sieno parati a ubbidire. Oltre a questo non si può con onestà satisfare a’ grandi, e sanza iniuria di altri, ma sì bene al populo: perché quello del populo è più onesto fine che quello de’ grandi, volendo questi opprimere e quello non essere oppresso. Praeterea, del populo inimico uno principe non si può mai assicurare, per essere troppi: de’ grandi si può assicurare, per essere pochi (Principe, IX, 7).

In primo luogo, qui si certifica il collasso della nozione organicista, in particolare nella sua ultima formulazione umanistica: l’analisi è subito impostata sulla divisione “grandi/popolo”: “in ogni città si truovano questi dua umori diversi” (IX, 2). Ne risulta sconvolta una struttura essenziale della concezione umanistica, che gira intorno all’idea di avvincere, legare affettivamente (nella terminologia tecnica, devincire) il populus, di contro a quella di guadagnarsene il favore: il consenso, cioè, cessa di essere fusione organicistica con il populus nella sua interezza, e diviene strategia politica del “favore”, l’appoggio più o meno fluttuante di una parte – aprendo al populismo o, nel peggiore dei casi, alla demagogia. Perché il consenso-favore è necessariamente precario, temporaneo, mutevole, data la conflittualità, strutturale ed entro certi limiti sana, di una società che ha perso ogni fiducia nella possibilità di una coesione integrale e, per dir così, autentica. La logica conseguenza sul piano dell’azione concreta, del comportamento del princeps costituisce un altro capovolgimento rispetto alla nozione umanistica: se questa prevede l’interiorizzazione della virtus come motore e garanzia dell’amor reciproco, per Machiavelli la virtus assume ben altro segno, facendosi capacità di mutare gli atteggiamenti e le strategie a seconda delle sollecitazioni contingenti: “le condizioni umane” (Principe, XV, 11) che, in ultima istanza, impongono che in base alle circostanze si possa essere “buono e non buono” (XV, 5) (qualche approfondimento su questo punto specifico in Hankins 2014, 98-109, che riassume altri contributi dell’autore).

Un facile esempio di questo atteggiamento di analisi e di continua reattività è proprio l’idea di “fortuna”, di fronte a cui reagire istante per istante e situazione per situazione (per es. Principe, XVIII, 15: “secondo ch’e’ venti e le variazioni della fortuna li comandano”; cfr. Raimondi 1972, 282; ma è atteggiamento che pervade e condiziona gli interi Discorsi, che riflettono strutturalmente questa stratificazione di idee e di posizioni: Bausi 2005, 175): non a caso, ottenere il principato in queste condizioni è frutto di una mistura (sostanzialmente incontrollabile) di virtù e fortuna: “astuzia fortunata” (IX, 1). In tanta precarietà, le alleanze non possono che essere tattiche, e l’individuazione dell’amico e del nemico – segnatamente le minacciose classi alte – non può che restare affidata ancora una volta alle parole della tradizione:

E per chiarire meglio questa parte, dico come e’ grandi si debbono considerare in dua modi principalmente: o si governono in modo col procedere loro che si obligano in tutto alla tua fortuna, o no. Quegli che si obligano, e non sieno rapaci, si debbono onorare e amare. Quelli che non si obligano, si hanno a esaminare in dua modi: o e’ fanno questo per pusillanimità e difetto naturale d’animo, – allora tu te ne debbi servire, massime di quelli che sono di buono consiglio, perché nelle prosperità te ne onori e non hai nelle avversità a temere di loro; – ma quando e’ non si obligano per arte e per cagione ambiziosa, è segno come e’ pensano più a sé che a te: e da quelli si debbe el principe guardare, e temergli come se fussino scoperti nimici, perché sempre nelle avversità aiuteranno ruinarlo (IX, 10-13).

A un primo livello, in effetti, il lessico è ancora quello della tradizione classica e umanistica, con l’accento posto sull’amor e soprattutto con la classificazione dei potenziali avversari politici, fino all’individuazione del ribelle, lo “scoperto nimico”. Qui – non mi risulta sia stato rilevato altrove – Machiavelli risente con tutta evidenza della teorizzazione giuridico-politica dei tipi di ribellione, e in particolare della formulazione umanistica del De obedientia di Giovanni Pontano, che a sua volta echeggiava la glossa bartoliana:

Cum autem praeceptum omnem partim imperet partim vetet atque deterreat atque altero opera exigatur, cavere alterum et continere iubeat in illoque peccetur imperatum quod sit minime faciendo, in hoc contra imperium nitendo, prioris vitii non semper aperta voluntas sed tum negligentia tum ignavia causa esse solet; in posteriori late regnat nunc contumacia nunc improbitas et, quae vim obedientiae labefactat ut quasi demoliatur et evertat illam, temeritas

Poiché poi ogni precetto in parte comanda in parte vieta e impedisce, e all’uno richiede opere, all’altro ordina di stare in guardia e al proprio posto; e poiché vi è chi sbaglia non facendo ciò che gli è ordinato, e chi andando contro il comando, la causa del primo errore non sempre suol essere una volontà dichiarata, ma ora la negligenza ora l’ignavia; nel secondo errore domina invece ora lo spirito di ribellione ora la slealtà e la temeritas, che distrugge la forza del’obbedienza e quasi la demolisce e la sovverte. (Pontano 1490, 70r: il titolo del capitoletto è Quibus modis peccetur; cfr. Cappelli 2014; qualche cenno sul rapporto tra Machiavelli e il diritto, ma senza notare il luogo qui analizzato, in Quaglioni 2011, 57-75).

In un capitolo cruciale del Principe, laddove, tra l’altro, Machiavelli tenta di superare la polarità politicamente paralizzante repubblica/monarchia, tra l’“onorare e amare” e gli “scoperti nimici” si delinea lo spazio della riflessione. Ma qui risulta come scarnificata e ridotta a puro rapporto di forza una distinzione che nell’umanesimo politico trovava la sua soluzione nel vincolo dell’amor, e nella prescrizione giuridica l’antidoto alla dissoluzione sociale e al collasso istituzionale. Il problema sono i “grandi”, cioè le aristocrazie che condizionano indebitamente la gestione politica, fino a mettere in pericolo la civitas: con esse, con i “grandi” in quanto classe, è inutile, e addirittura dannoso, secondo Machiavelli, cercare il vincolo organicistico, in quanto, per natura, sono votate all’oppressione dei settori sociali più deboli. La logica diviene dunque quella di un consenso tendenzialmente volatile da acquisire con l’artificio – una disposizione che evidentemente considera inconcepibile l’idea di una corrispondenza autentica tra governante e governati, che semmai può intendersi come protezione, in un’atmosfera di sospetto e di paura reciproci anche nei confronti dei possibili alleati:

Debbe pertanto uno, che diventi principe mediante el favore del populo, mantenerselo amico: il che gli fia facile, non domandando lui se non di non essere oppresso. Ma uno che, contro al populo, diventi principe con il favore de’ grandi, debbe innanzi a ogni altra cosa cercare di guadagnarsi el populo: il che gli fia facile, quando pigli la protezione sua. E perché li uomini, quando hanno bene da chi credevano aver male, si obligano più al beneficatore loro, diventa el populo subito più suo benivolo che s’e’ si fussi condotto al principato con e’ favori sua. E puosselo guadagnare el principe in molti modi: e’ quali perché variano secondo el subietto, non se ne può dare certa regula, e però si lasceranno indreto (IX, 14-17).

Il sistema umanistico della virtutes garantiva la certezza della “regula”: dissoltosi questo, si dissolve ogni prescrittibilità politica. Le modalità di acquisizione del consenso non sono più passibili di regolamentazione certa, scientifica: “non se ne può dare certa regula”, e non possono essere dunque trattate scientificamente: “si lasceranno indreto”. La distanza con il sistema umanistico, che prevede invece tutta una serie di virtutes che comportano, quasi scientificamente, l’amor, non potrebbe essere maggiore.

Una volta escluso l’amor come collante strutturale dell’organismo politico, dato il carattere di permanente minaccia insita nella vita politica, al momento di proporre una linea di azione generale, la bilancia penderà quasi naturalmente – e sia pure con sfumature anche di rilievo – a favore del timor:

Nasce da questo una disputa, s’e’ gli è meglio essere amato che temuto o e converso. Rispondesi che si vorrebbe essere l’uno e l’altro; ma perché e’ gli è difficile accozzarli insieme, è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbi a mancare dell’uno de’ dua. Perché degli uomini si può dire questo, generalmente, che sieno ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi del guadagno; e mentre fai loro bene e’ sono tutti tua, offeronti el sangue, la roba, la vita, e’ figliuoli, come di sopra dissi, quando el bisogno è discosto: ma quando ti si appressa, si rivoltono, e quello principe che si è tutto fondato in su le parole loro, trovandosi nudo di altre preparazioni, ruina. Perché le amicizie che si acquistono col prezzo, e non con grandezza e nobilità di animo, si meritano, ma elle non si hanno, e alli tempi non si possono spendere; e li uomini hanno meno rispetto a offendere uno che si facci amare, che uno che si facci temere: perché lo amore è tenuto da uno vinculo di obligo, il quale, per essere gl’uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità è rotto, ma il timore è tenuto da una paura di pena che non ti abbandona mai (Principe, XVII, 8-11).

“Lo amore è tenuto da uno vinculo di obligo”: il vincolo organico, umanistico e giuridico-politico, cifrato nella corrispondenza tra amor e coesione, si dissolve: una volta disintegrato, il sistema della virtutes non trova più elementi che possano assicurare pacificamente tale coesione. L’ideologia dell’amor ne risulta svuotata, per così dire, dal di dentro, il termine cambia radicalmente di significato e di segno, in una logica utilitaristica che coinvolge l’intera communitas. Nell’assenza concettuale, occorre rivolgersi a una ‘antropologia del pessimismo’: gli uomini sono “tristi”, gli interessi (la “propia utilità”) impediscono il vincolo organico (cfr. i paralleli forniti da Inglese 1995 nel commento al passo che stiamo analizzando). È interessante notare, decostruttivamente, questa caratterizzazione dell’essere umano come un tiranno: proprium commodum. Sono le conseguenze del collasso concettuale operato da Machiavelli, reso possibile, secondo la mia ipotesi, dallo scarto linguistico rappresentato dal passaggio al volgare, unico a garantire una flessibilità e, direi, una spregiudicatezza dottrinale impossibile da ottenere nel latino dei trattati, pervaso, impregnato di una densa concettualità sedimentatavisi da secoli di tradizione dottrinale. Credo sia evidente che le ragioni ultime di tutto ciò siano da ricercare in un approccio alla realtà profondamente divergente: per Machiavelli, la concordia umanistica è insufficiente ad assicurare il bene, la sopravvivenza, della res publica; bisogna fare i conti con il male, l’odio, il conflitto. Naturale che in un tale scenario, più che sulla concordia e sulla persuasione razionale, bisognerà fare assegnamento sulla paura, timor, che Machiavelli, discostandosi anche in questo dall’umanesimo, distingue dall’odio: “Debbe nondimanco el principe farsi temere in modo, che, se non acquista lo amore, che fugga l’odio, perché può molto bene stare insieme esser temuto, e non odiato” (XVII, 12; cfr. Fournel, Zancarini 2014, 345 e Fournel 2015, 269-70, che parla di “tassonomia o tipologia dell’odio e della paura”, sostanzialmente per cercare di incutere la seconda senza esacerbare – perché pericoloso – il primo).

La prova che il vincolo organicista è irrimediabilmente (e concettualmente) rotto, sta nell’avvertenza di evitare appunto l’odio, che in effetti non nasce da assenza di amor ma da mancanza di prudentia, talché la paura passerebbe dalla parte del princeps:

E cominciando a rendere ragione perché, nel secondo caso, le siano dannose, dico che quel principe o quella republica che ha paura de’ sudditi suoi e della rebellione loro, prima conviene che tale paura nasca da odio che abbiano i suoi sudditi seco; l’odio, da’ mali suoi portamenti; i mali portamenti nascono o da credere potere tenergli con forza, o da poca prudenza di chi gli governa (Disc., II, 24, 8).

Ma neanche si tratta di affermare un’originalità di Machiavelli nel sostenere, sic et simpliciter, la poziorità del timeri (a rigore, non sostiene nemmeno quello), ché gli umanisti avevano una certa gamma di sfumature su questo tema, arrivando a comprendere anche la necessità del timor (senza scomodare Petrarca, il napoletano Giovanni Brancato ([1472] 2002, par. 7), per es., in un’oratio ufficiale a re Ferrante d’Aragona, parla di “imperium quod [...] commendando timore continetur”). Del resto, in quel primo nucleo dei Discorsi (I i-xviii), l’unico dotato di una certa compattezza ideologica e strutturale (Gilbert [1965] 1977, 223-52), tracciando la differenza tra “fondatori di repubbliche o regni” e tiranni, Machiavelli si mostra ben cosciente di quali sono i “mali portamenti” e la “poca prudenza”, riscattando un concetto tipicamente umanistico come la sicurezza derivante dall’amor popolare, in un contesto monarchico che si specchia nella Roma imperiale:

Consideri ancora, quello che è diventato principe in una republica, quanta laude, poi che Roma fu diventata Imperio, meritarono più quelli imperadori che vissero sotto le leggi e come principi buoni, che quelli che vissero al contrario: e vedrà come a Tito, Nerva, Traiano, Adriano, Antonio e Marco, non erano necessarii i soldati pretoriani né la moltitudine delle legioni a difendergli, perché i costumi loro, la benivolenza del popolo, l’amore del Senato gli difendeva. […] Perché in quelli governati da’ buoni vedrà un principe sicuro in mezzo de’ suoi sicuri cittadini, ripieno di pace e di giustizia il mondo, vedrà il senato con la sua autorità, i magistrati co’ suoi onori, godersi i cittadini ricchi le loro ricchezze, la nobilità e la virtù esaltata, vedrà ogni quiete e ogni bene; e dall’altra parte, ogni rancore, ogni licenza, corruzione e ambizione spenta, vedrà i tempi aurei dove ciascuno può tenere e difendere quella oppinione che vuole. Vedrà infine trionfare il mondo, pieno di riverenza e di gloria il principe, d’amore e sicurtà i popoli (Disc., I, 10, 16 e 22-23).

E si può addurre, ancora, un altro luogo dei Discorsi, in cui la soluzione machiavelliana è vieppiù sfumata e sottile, rilevando che a volte comportamenti diversi, anzi opposti, ottengono effetti simili:

Gli uomini sono spinti da due cose principali o dallo amore o dal timore; talché così gli comanda chi si fa amare come colui che si fa temere; anzi il più delle volte è più seguito e più ubbidito chi si fa temere che chi si fa amare. Importa pertanto poco ad uno capitano per qualunque di queste vie e’ si cammini (III, 21, 8-9).

Ma al di là delle diverse, anche se spesso complementari prese di posizione, dettate dai contesti discorsivi e dal filo del ragionamento, resta la questione centrale: la dissoluzione dello schema concettuale umanistico, secondo cui esiste una regola certa, una formula della coesione, basata sull’esercizo della virtus, che non ammette deroghe, persino (con paradosso solo apparente) quando sia preferibile o necessario impiegare il timor. Machiavelli, invece, cerca l’analisi, la casistica immediata, più che il modello e la teoria, che “importa poco”: il reale non può più essere schematizzato in praecepta basati sulla forza razionalizzatrice di una lingua ‘grammaticale’ come il latino, ma va affrontato nella sua varietà, che di per sé esclude il rigore concettuale e si affida di conseguenza al volgare (cfr. Fournel 2015, 266-71).

Credo sia lecito concludere, dopo questa sia pur parziale disamina, che, nella vicenda intellettuale machiavelliana, la scelta linguistica è essa stessa parte della ribellione concettuale che il Machiavelli sferra contro la tradizione. La lingua della politica non è neutra, ma non è neutra neanche la politica della lingua. Così, parallelamente all’emergere del volgare come lingua scientifica e comunque atta a veicolare argomenti non solo letterari, il latino perde l’egemonia ideologica che lo aveva caratterizzato nel Quattrocento, quella auctoritas che, nutrendolo di svariate tradizioni di pensiero, gli aveva permesso di essere il linguaggio della nuova politica – proprio come il progetto umanistico perde la battaglia sul terreno della Realpolitik a scala continentale. Anche in questo, il Segretario aveva visto lontano: viene il tempo delle nuove lingue nazionali. Bodin e Hobbes scriveranno (anche) in volgare.

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English abstract

The choice of vernacular language (“volgare”) is part of the conceptual rebellion that Machiavelli launches against Tradition. The language of politics is not neutral, nor it is the policy of language. Thus, in parallel to the emergence of vernacular as a scientific language, suitable to convey topics that are not only literary, Latin loses the ideological hegemony that characterized it in the 15th Century, i.e. the authoritativeness that allowed it to be the language of new politics – just like the humanistic project loses the battle on the ground of Realpolitik on a continental scale. This paper investigates Machiavelli’s new understanding of political action, expressed in vernacular in his works, through the analysis of a particularly relevant case: the issue, typical of traditional political theory, of “amor” and “timor” as opposed relationships between the Leader (“il Principe”) and the People.

keywords | Macchiavelli; Politics; Leader; Principe.

Per citare questo articolo / To cite this article: G. Cappelli, Machiavelli, l’umanesimo e l’amore politico, “La Rivista di Engramma” n. 134, marzo 2016, pp. 143-166. | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2016.134.0006