"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

La veglia della ragione genera mostri

Recensione a: Jurgis Baltrušaitis, Arte sumera, arte romanica, Adelphi, Milano 2006

Daniele Pisani

Nel contesto della pubblicazione dell'opera di Jurgis Baltrušaitis, intrapresa da oltre un trentennio, Adelphi pubblica ora Arte sumera, arte romanica; come già nella ristampa francese, edita da Flammarion, il libro è seguito dal notevole Ritratto di Jurgis Baltrušaitis di Jean-François Chevrier che, sull'opera dello studioso lituano, costituisce a tutt'oggi la fonte critica principale.

Arte sumera, arte romanica è opera giovanile di Baltrušaitis. Pubblicato per la prima volta in francese nel 1934, appartiene alla fase di studi sull'arte medievale e in particolare romanica che Baltrušaitis era intento a compiere sulla scia e nel quadro delle ricerche compiute dal maestro Henry Focillon.

Figlio di un importante poeta, sin dalla giovane età Jurgis cresce a contatto con intellettuali come Gordon Craig, Boris Pasternak, Aleksandr Scriabin. L'incontro con Focillon, destinato a segnare l'intera vita intellettuale del giovane studioso, avviene nel 1924 a Parigi, dove Baltrušaitis si è recato – secondo le sue stesse parole – "per studiare la storia del teatro", ma già impregnato degli studi di storia dell'arte di lingua tedesca (Fiedler, Hildebrandt, Riegl, Wölfllin). "Focillon – dirà più tardi Baltrušaitis – mi ha preso per mano e mi ha detto: 'Lei farà questo e quest'altro'".

Il 1934, anno di pubblicazione di Arte sumera, arte romanica, vede anche la prima edizione di Vita delle forme. In un quadro metodologico e tematico che è quello definito da Focillon, Baltrušaitis svolge però una ricerca imperniata intorno a nodi, o meglio sviluppata secondo fili, già tutti suoi. Arte sumera, arte romanica nasce della constatazione, puntuale e quasi ossessiva, delle forti analogie sussistenti tra due universi formali distanti nello spazio e nel tempo, quello sumero – appunto – e quello romanico. Che non possa trattarsi di affinità superficiali risulta evidente, agli occhi di Baltrušaitis, dalla ricorrenza e dalla puntualità delle affinità: dal riproporsi in contesti diversi non solo dei medesimi motivi, identici sin nel dettaglio, ma dei medesimi motivi coniugati secondo i medesimi principi.

Secondo Baltrušaitis, quello romanico "è un tutto, e forse un sistema", e in quanto tale "obbedisce a una propria legge". Per il giovane studioso si tratta, in primo luogo, di definire la legge di quel tutto che è la scultura romanica. Per Baltrušaitis, essa consiste in una "dialettica ornamentale" che procede attraverso la combinazione, sempre più complessa, di pochi, semplici motivi tramite poche, semplici operazioni. La complessità e l'apparente arbitrarietà dell'arte romanica sono, in altri termini, riconducibili alla rigorosa combinazione di alcuni motivi che informano non soltanto i partiti decorativi ma anche le figure della scultura romanica. "Nati dai labirinti dell'ornamentazione, la fauna e l'umanità fantastiche continuano a moltiplicarsi liberamente. I sistemi si riproducono e si ripetono quasi automaticamente, come in virtù della velocità acquisita su un terreno sempre propizio". Quel che ne emerge "è un autentico universo per metà reale e per metà immaginario", un universo in cui il rispetto di pochi principi ordinatori costituisce l'apparentemente paradossale premessa per il dispiegarsi del fantastico: "Palmette, viticci, volute, meandri divengono esseri per metà immaginari e per metà reali, appartenenti a un mondo doppio ed espressione di un concetto e di una visione della vita. Coniugando il rigore al capriccio nasce e si diffonde un universo fantastico".

Una volta appurato che l'arte romanica è un sistema – e, all'epoca in cui scrive Baltrušaitis, la cosa è tutt'altro che scontata – diventa lecito confrontare il 'sistema romanico' con un altro sistema, quello dell'arte sumera. Tra di essi – tale la constatazione a partire da cui si muove la ricerca condotta da Baltrušaitis – occorre individuare le analogie, puntuali quanto strutturali; si tratta però ancor più di sviscerare la natura di queste stesse analogie. Esiste, tra l'arte sumera e quella romanica, una semplice affinità, oppure una filiazione diretta? O, ancora, nell'arte sumera si possono "riconoscere gli inizi di una stilistica che, resuscitata varie volte in epoche e ambienti diversi, fiorisce infine nella scultura romanica"? L'ipotesi per cui propende Baltrušaitis è, come noto, quest'ultima. "Gli elementi di un'arte non si trasmettono in modo meccanico da un gruppo di monumenti all'altro, bensì mediante scelta, interpretazione, adattamento. Introdotti in un altro mondo, i motivi non rimangono immutati: si arricchiscono, spesso si trasformano, si aggregano a un altro ciclo. I contatti esterni fra due universi sono preceduti da legami più stretti, più segreti e profondi, che preparano e condizionano la penetrazione delle forme. Non basta quindi constatare la semplice trasmissione di immagini isolate [...] ma anche l'analogia e la filiazione dei procedimenti che le hanno generate".

Nel caso specifico, i motivi orientali, "frammenti di un mondo lontano", giungono fino al Medioevo romanico per ondate successive. L'"esperienza preliminare" dell'arte romanica è, secondo Baltrušaitis, quella costituita dall'arte transcaucasica, la cui principale testa di ponte per l'Occidente è Bisanzio. Se l'arte 'incubata' in Armenia e in Georgia può esercitare un così capillare influsso su quella europea è, però, perché il "terreno" era già stato reso fertile da precedenti contatti, da quelli, antichi, ad opera degli Etruschi agli innesti, assai più recenti, dell'arte araba e copta, ai "trapiant" consentiti dai viaggi di Europei in Oriente o dal commercio di oggetti di provenienza orientale ("stoffe, vasi e gioielli barbarici e sassanidi e avori musulmani") o, infine, alle periodiche "rinascite" dei motivi dell'arte orientale nelle cosiddette "arti intermediarie" (e soprattutto nella miniatura dell'Alto Medioevo). Per dirla con Baltrušaitis, "a partire dall'epoca protostorica, se non prima, si forma in Europa un intero repertorio di immagini e di motivi provenienti dall'antico Oriente, che si rinnova e si arricchisce progressivamente [...]. L'arte romanica, elaborata su un terreno in cui i costanti apporti orientali hanno depositato strati già sedimentati, e a contatto con arti in cui lo stile asiatico rinasce in tutto il suo fulgore, dispone quindi di una vasta materia dove rivivono con maggiore o minore intensità gli elementi delle secolari arti d'Oriente", a cui poi l'arte romanica si ispira, senza copiarla, attraverso un processo di "scelta, adattamento, interpretazione".

Tra l'arte sumera e l'arte romanica esistono, pertanto, numerose "vie di trasmissione"; queste, come però osserva Baltrušaitis, "non spiegano ancora completamente tutti gli aspetti del problema". Alcuni dei motivi che ricompaiono nell'arte romanica, ad esempio, erano scomparsi nei passaggi intermedi. La loro riemersione non può, pertanto, essere ricondotta ad alcuna diretta filiazione o trasmissione. Il fatto è che quello che dell'antico Oriente rinasce nel romanico non è soltanto una sommatoria di frammenti isolati, ma "un insieme organico"; in altri termini, l'artista romanico è stato in grado, a partire dai frammenti noti, di reinventare un intero sistema: "Ha compreso il meccanismo delle loro metamorfosi figurate e lo ha applicato al proprio mondo formale", in cui esso assume "un nuovo significato e un nuovo accento".

Questo punto merita di essere approfondito. In primo luogo, come si è visto, Baltrušaitis segnala le convergenze tra due diversi universi formali; quindi stabilisce tra di essi una serie di possibili contatti; infine si premura di sottolineare come l'individuazione di tali contatti risulti di aiuto soltanto sino a un certo punto per comprendere a fondo le modalità dell'avvenuto trapianto di un universo formale in un altro; e, questo, non tanto perché una serie di contatti sporadici e fortuiti non consenta di spiegare il trapianto di un sistema coerente, quanto perché l'analogia tra i due sistemi è, si potrebbe dire, 'strutturale' – ossia a tal punto profonda da consentire all'arte romanica, così prossima a quella sumera, di svilupparsi in tutta autonomia riproducendo però del 'sistema' antico stilemi e motivi.

Lo spunto a partire da cui tutta l'opera di Baltrušaitis procede proviene da Focillon; della vita delle forme, tuttavia, l'intellettuale lituano offre una versione personale. Nel 1935, in un saggio intitolato Gilgamesh (Notes sur l'histoire d'une forme) che riprende – ampliandoli – alcuni motivi già sviluppati l'anno precedente in Arte sumera, arte romanica, Baltrušaitis sottopone ad analisi la migrazione di un singolo motivo iconografico, quello dell'eroe tra due leoni. Ciò che si diffonde lungo un arco temporale vastissimo e in un ambito geografico altrettanto vasto è una forma: uno schema formale ossessivamente ripreso in svariati contesti, e spesso anche assai minuziosamente, per raffigurare però personaggi che con Gilgamesh nulla hanno a che fare. Quello che qui a Baltrušaitis interessa osservare è la migrazione di uno schema formale disponibile a venire risignificato a seconda del contesto: a venire, cioè, prima recepito e, quindi, fatto proprio da una determinata cultura, in cui viene reimpiegato per la veicolazione di un nuovo significato. Lo schema formale, chiaramente riconoscibile addirittura in alcuni dettagli che di volta in volta ritornano, viene al tempo stesso modificato per entrare in un altro universo. Esso è, così, disponibile ad assumere svariati significati; della leggenda di Gilgamesh, per dirla con le parole di Chevrier, lo schema "conserva lo spirito (la carica emotiva) ma non la lettera".

Già in Arte sumera, arte romanica, d'altro canto, a interessare Baltrušaitis è la vita – il permanere, il migrare, il rinascere: "permanenze" e "risvegli" – dello schema formale, il quale deve, a suo giudizio, la propria efficacia alla capacità di veicolare significati diversi, orbitanti però intorno a una medesima "carica emotiva". Se non si tratta di vere e proprie Pathos-Formeln, certo è lecito stabilire con il concetto warburghiano un confronto tutt'altro che superficiale; infatti anche Baltrušaitis, a modo suo, si confronta con la "vitalità delle antiche forze". Sarà anche di questi temi, probabilmente, che nel corso degli anni quaranta lo studioso lituano avrà discusso, il mercoledì sera nella propria abitazione, nelle riunioni a cui di volta in volta partecipavano Krautheimer, Saxl o Wind. Per Baltrušaitis la "vitalità delle antiche forze" si annida tutta nelle forme, o ancor meglio in alcuni motivi formali o in alcune strutture: seguire la vita, lo sviluppo di una logica capace di condurre alle più aberranti e apparentemente arbitrarie soluzioni è il sentiero di una ricerca (il percorso di una ossessione) da cui Baltrušaitis – si pensi a Risvegli e prodigi, Aberrazioni, Anamorfosi, Specchio, La ricerca di Iside – non devierà mai.