"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

136 | giugno-luglio 2016

9788898260812

Il Manifesto di Sara Copio Sullam (Venezia, 1621)

Presentazione e prima edizione on-line

a cura di Anna Ghiraldini

English abstract
 
Riproduzione digitale del Manifesto nell'edizione Pinelli. Venezia 1621

Presentazione

Presentiamo qui, in prima edizione on-line, la trascrizione integrale del Manifesto di Sara Copio Sullam, pubblicato a Venezia presso Antonio Pinelli nel 1621 (la riproduzione digitale del volume è integralmente disponibile on line).

"Che bisogno vi è hora e massime in Vinegia di tal trattato?": questa una delle considerazioni che, afferma "la bella Hebrea", l'ha spinta a mandare alle stampe il suo Manifesto in risposta a un pamphlet di Baldassarre Bonifacio, arcivescovo di Capodistria, che l'aveva accusata di non credere nell'immortalità dell'anima.

Nello stesso 1621, infatti, era stato pubblicato Dell'immortalità dell'anima, Discorso di Baldassarre Bonifacio: oggetto del libello era un attacco mirato a Sara Copio Sullam, la brillante intellettuale protagonista della vita culturale veneziana del tempo, accusata dal vescovo di non credere nella dottrina dell'anima immortale. Essendo la fede nell'immortalità – argomenta l'alto prelato – un fondamento teologico sia per l’ebraismo sia per il cristianesimo, la sua negazione espone la pensatrice ebrea al pericolo di persecuzioni per eresia sia da parte delle autorità ebraiche che da parte di quelle cristiane. Il trattato è concepito come una risposta a una lettera che la Copio aveva indirizzato a Bonifacio in cui esponeva al vescovo – frequentatore come Sara degli stessi salotti intellettuali veneziani – alcune sue perplessità sull’immortalità dell’anima. Si trattava – relicherà Sara nel Manifesto – di un puro esercizio di speculazione filosofica che era stato dal vescovo affatto frainteso: Sara si interrogava circa l’eternità della materia, e non sulla corruttibilità dell'anima, e circa la transitorietà dell'uomo, che è una funzione del numero e quindi del movimento.

Alcuni giorni dopo l'uscita del Discorso, esce per lo stesso editore di Bonifacio il Manifesto e sarà l'unica opera che la poetessa darà alle stampe; Sara, infatti, dando prova esemplare della sua cifra di elegante discrezione che si oppone alla moda corrente di "correre alle stampe" con qualunque pensierino uno butti su carta, pubblicherà solo questa operetta – esemplare per arguzia, sottigliezza, cultura, spirito e intelligenza (un riassunto commentato del contenuto del testo di Bonifacio e della risposta di Sara è nel contributo Centanni e Ghiraldini, in questo stesso numero di Engramma). 

Manifesto di Sarra Copia Sulam Hebrea

Nel quale è da lei riprovata, e detestata l'opinione negante l'immortalità dell'Anima, falsamente attribuitale dal Sig. Baldassare Bonifaccio, con Licenza de’ Superiori, IN VENETIA, MDCXXI. Appresso Antonio Pinelli

A chi legge

[3] Posso creder, benigni Lettori, che sia per parervi cosa strana che il mio Nome, non affatto ignoto in questa Città né fuori, comparisca la prima volta alle stampe in materia assai diversa da quella che poteva forse esser aspettata dalla mia penna; ma l’altrui, o sia stata malignità, o simplicità, o trascuratezza, mi ha necessitata a quello, a ché non ero per movermi facilmente per qual si voglia occasione ancorché io mi ritrovi qualche fatica da poter mandar alla luce, la quale, se io non fallo, potrebbe dal mondo esser più volentieri veduta e forse più gradita di questa. Dico che sono stata astretta a comporre e dar fuori frettolosamente questa breve scrittura, non con fine o pensiero alcuno di procacciarmi gloria, ma solo per defendermi da una falsa calunnia datami dal Sig. Baldassarre Bonifaccio il quale, in un suo discorso stampato ultimamente dell’Immortalità dell’Anima, dice affirmativamente che io nego quest’infallibile verità, che l’Anima humana sia immortale: cosa tanto lontana dalla mia opinione quanto è lontano da ogni sua scienza il poter sapere l’interno de’ cuori; onde non dovete promettervi novità di pensieri né copia de dottrina; [4] prima perché il mio fonte ne è scarso, massime hora che mi è molestissima la fatica de gli studii, per esser a pena risorta da una grave infirmità, che lungamente mi ha tenuta oppressa con pericolo di morte, dalla quale non per altro credo che la Divinta bontà sia sia ‹sic!› compiaciuta preservarmi, che perché io potessi liberar la mia fama da una sì grave macchia che mi si era preparata; poiché la mia morte non haverebbe punto ritenuto l’aversario dall’ambitiosa risolutione, per la quale quasi due anni si è affaticato; poi perché non conveniva che io interponessi dilatione di tempo né longhe dicerie a ributtar l’offesa, per lo pericolo del danno che poteva risultarmene. E finalmente, perché il fatto stesso non richiedeva altra dottrina che la sinceratione dell’animo mio e di quel religioso affetto che io devo a Dio et alla legge che egli mi ha data, potendo nel resto ogni giudicioso intelletto per sé stesso conoscere, in leggendo quel libro, quanto spropositamente l’Autore vada disfidando altri in cosa, alla quale a nessuno, o Hebreo o Christiano, è lecito di contradire. Piacciavi dunque, cortesissimi Lettori, di veder per semplice curiosità questa mia necessaria difesa e, come giusti e benigni giudici, assolvendo chi falsamente viene accusato, rimovete dalla vostra presenza il falso accusatore, e vivete lieti.

Dedicatione Dell’Opera al Signor Simon Copia suo dilettissimo Genitore.

[5] La Dedicatione di questa mia breve ma necessaria fatica non poteva convenevolmente esser diretta se non a chi ha fatto passaggio da questa mortal vita, accioché gl’effetti stessi corrispondessero a quel che nell’opera affermo esattamente l’essere immortale dell’anime: onde a te, anima direttissima, che desti l’essere a quel caro composto da cui fu generata in questo mondo, a te dico, mio svisceratissimo genitore, che, benché spogliato del caduco velo tra spirti viventi dimori e dimorerai in eterno, ho voluto io far questo picciolo dono. [6] Primieramente perché concedendoti la Divina bontà di essere partecipe delle cose di qua, possi accrescer le tue gioie, con quel poco acquisto di fama che nel mio nome forsi vedrai, per la qual cagione penso non ti farà men caro haver prodotto una donna per conservazione del tuo nome al mondo di quel che ti sarebbe stato l’haver prodotto un huomo come in questa vita mostravi estremo desiderio, e poi anco per darti qualche segno della continuazione che in me perpetuamente si conserva di quell’inespressibile amore che sempre mi portasti. Godi dunque per hora questa picciola caparra dell’affetto immenso di una tua diletta figliola, ché se mi sarà concesso poter sperar salute che vita, come mi è conceduta alcuna fecondità de’ parti dell’ingegno, vivrà in essi vivamente espresso, non meno il tuo che il mio nome.

 

[7] Signor, che dal mio petto arderti avanti
Mai sempre scorgi in holocausto il core,
E sai ch’altro desio che frale honore
M’instiga a porger preghi, a versar pianti.

Deh, volgi in me il tuo sguardo, e mira quanti
Strali m’avventa il perfido livore,
Sgombra da cieche menti il fosco errore
Né d’oltraggiar il ver l’empio si vanti.

Ben so ch’indegna di tue gratie io sono;
Ma l’alma che formasti a tua sembianza
Fia ch’ad esserle scudo ogn’hor ti mova.

Cessi d’audace lingua il falso suono,
E chi adombrar la vuol scorga per prova
Che la mia fede ha in te ferma possanza.

[8] Con la tua scorta, ecco, Signor, m’accingo
A la difesa, ove m’oltraggia e sgrida
Guerrier, che ardisce querelar d’infida
L’alma che, tua mercé, di fede i cingo.

Entro senz’armi in non usato aringo,
Né guerra io prendo contra chi mi sfida
Ma perché tua pietà mio Dio m’affida,
Col petto ignudo i colpi suoi respingo.

Che se di polve già l’armi formasti
Al grand’Abram contra i nemici Regi
Sì ch’ei di lor fe’ memorando scempio.

Rinova in me, bench’inegual l’esempio,
E l’inchiostro ch’io spargo fa ch’hor basti
A dimostrar di tua possanza i pregi.

Manifesto di Sarra Copia al Signor Baldassare Bonifacio

[9] L’Anima dell’huomo, Signor Baldassare, è incorruttibile, immortale e divina, creata et infusa da Dio nel nostro corpo in quel tempo che l’organizato è reso habile nel ventre materno a poterla ricevere: e questa verità è così certa, infallibile et indubitata appresso di me, come credo sia appresso ogn’Hebreo e Christiano, che il titolo del vostro libro, dove vi siete accinto in farsetto a discorrer di tal materia, mi ha fatto sovvenire il detto di quel galante Romano, il quale essendo invitato a voler andar ad ascoltare [10] una oratione in lode di Hercole, disse, "ec quis Herculem vituperat?". Et a tale imitatione dissi anch’io: che bisogno vi è hora e massime in Vinegia di tal trattato et a che proposito stamparli tra Christiani simili materie? Ma quando poi, leggendo più a basso, trovai che il discorso era a me diretto con falsissima supposizione che io sia quella che habbia contrario opinione alla chiarezza di tal verità, non potei non prendere grandissima ammiratione e sdegno insieme della troppo audace calunnia che affirmativamente, e senza alcuna eccettione, mi date, quasi che voi siate perscrutatore de’ cuori humani e sappiate l’intimo del mio animo, solo a Dio noto, ché se pure in alcun discorso io vi ho promossa alcuna difficoltà filosofica o teologica, ciò non è stato per dubio o vacillamento che io habbia mai havuto nella mia fede, ma solo per curiosità d’intender da voi, con la soluzione de miei argomenti, qualche curiosa e peregrina dottrina, stimando ciò esser concesso ad ogni persona che professi studii, non che ad una donna, a donna Hebrea, la quale continuamente vien posta in questi discorsi da persone che si affaticano di ridurla, come voi sapete, alla Christiana fede.

[11] Inconsiderata, dunque, è stata senza dubio la vostra calunnia et io haverei potuto, conforme al merito di essa con altre difese che con quella della penna, farne resentimento, potendo il vostro libro ricever anco querela di libello famoso; ma la pietà della mia legge mi fa pietosa della vostra simplicità, la quale vi ha fatto credere di farvi immortale di fama con trattar dell’immortalità dell’anima e, non havendone alcuna pronta occasione, ve l’havete finta da voi stesso. E però, in vece di venire ad altri cimenti, mi sono disposta, con la breve fatica di due giorni, atterrar quanto da voi mi è stato machinato contra con l’inutili vigilie quasi di due anni, facendo costare publicamente al mondo per mezzo della presente scrittura, che falsissima, ingiusta e fuori di ogni ragione, è l’imputatione da voi datami nel vostro discorso, che da me sia negata l’immortalità dell’anima; il che sarà solo per giustificarmi e sincerarmi appresso tutti coloro li quali non conoscendomi potessero dar qualche credenza all’accusa, in quanto appartiene alla Religione che io professo, che nel resto lascio al giuditio di qual si voglia persona di mediocre intelligenza quanto sia a poter torre [12] né dar fama la vostra penna; benché a rimover ogni dubio della mia opinione in questo dovrebbe bastare il mio preservarmi Hebrea, perché quando io credessi, come voi dite, e non temessi di perder la felicità dell’altra vita, non mi sarebbono mancate occasioni, col cangiar legge, di migliorar il mio stato, cosa nota a persone di molta autorità, che l’hanno istantemente procurato e tentato.

Ma hora che con queste poche linee credo haver cancellata a bastanza quella nota d’impietà che forse incosideratamente havete preteso dare al mio nome, desidero mi facciate piacere che discorriamo tra noi in questo proposito un poco più alla libera e familiarmente. Ditemi dunque, di gratia, Signor Baldassarre, che cosa vi ha mosso a far quel trattato, a stamparlo et ad imbrogliarvi il mio nome. Voi dite con i versi di Virgilio che Dio vi ha eletto a questo: grand’arroganza veramente. Dunque non haveva il Signor Iddio per materia sì sublime e sì importante un ingegno più elevato et un ministro più dotto di voi, Voi solo ha scielto fra la schiera di tutti i litterati per atto a trattar sì degno soggetto: se l’immortalità dovesse esser [13] inserta ne gl’animi, non con altra forza che d’humane ragioni, mal fornita al sicuro si trovarebbe se non havesse altre ragioni che le vostre che, benché da voi siano state cavate da dotti Autori, sono però state male intese e peggio riportate et il trattar debolmente materie tanto importanti è un invigorire le ragioni averse. Potreste dirmi che spesso Dio si serve di mezi bassi e vili ad oprar cose grandi per maggiormente far costare la sua onnipotenza e che fino all’asino di Balaam una volta parlò: è vero, ma in tali casi gl’effetti stessi sono apparsi divini e la viltà de gl’istrumenti non ha loro punto pregiudicato. Voi che scioccamente havete preteso di profetar da voi stesso senza altra inspiratione che di una troppa arroganza, havete mostrato ne gl’effetti la vostra crassissima ignoranza più tosto che alcuna maravigliosa virtù divina: onde potevate, in vece de’ versi di Virgilio, appropriarvi quei di Dante:

Nel mezo del camin di nostra vita
Mi ritrovai per una selva oscura,
Che la deritta via havea smarrita.

Potrei anco dire che lo stato in che vi ritrovate di Sacerdote e di persona esemplare vi spinge [14] a prender tutte l’occasioni che vi si presentano di giovare con la dottrina e con le opere al prossimo: ah, Signor Bonifaccio, quando anco lo zelo religioso vi havesse mosso, non conveniva però che presumeste più oltre di quello che le vostre forze comportavano.

Voi, che scrivendo ogn’hor v’affaticate
Di guadagnarvi un honorato nome,
Prendete a vostra forza ugual soggetto.

E quel che segue

Voi trattar dell’anima? Voi dell’immortalità? Materia la più difficile & ardua che habbia la Filosofia, la quale vi resterebbe forse in qualche parte avviluppata, se non fusse il soccorso della Teologia; sapete pure, in conscienza vostra, che non siete né filosofo né teologo e, se non erro, di vostra bocca ho udito dire che tali scienze non sono di vostra professione, e pur così audacemente havete voluto metter mano in pasta circa materia sì alta! E vi siete assicurato a stampar vostri discorsi con titolo così sublime? Con tutto che voi mostriate di far tanta reflessione sopra quella famosa sentenza, Conosci te stesso, sapete pure che Horatio dice nella Poetica, se pur l’havete veduta [15]:

Il primo fonte, e’l rio del scriver bene
Senza dubbio è ‘l saper

tradotto dal Dolce. Poiché la vera gloria non si procaccia con l’ostentatione ma con la fatica, sentenza del medesimo Autore:

Vedesi, che colui, che giunger tenta
A la meta, ch’ei brama nel suo corso
Molte cose patì sendo fanciullo;
Sudò sovente, e provò caldo, e gelo.

Ma l’importanza è che anco in voi può quella pestifera opinione

A me par brutto in vero esser lasciato
Indietro da color, che dotti sono,
E convenirmi confessar in tutto
Non saper quel, che mai non imparai.

Dovea in questo almeno farvi alquanto ritenuto l’esempio di Aristotele al quale non è quasi bastato l’animo di lasciarsi intender chiaramente in tal materia. Io per me non vi parlo in questa guisa per far la maestra o la filosofessa in insegnarvi, come voi per ischerno mi dite nel medemo tempo, che venite a farmi il pedante, poiché confesso di esser assai più ignorante di voi in queste scienza ‹sic!›, ma per riferirvi quello che odo da tutti coloro che vedono il vostro libro. [16] Altro ci vuole, Signor mio, che il titolo di “Iuris utriusque Doctor”, per trattare dell’immortalità dell’anima: ma per farvi accorgere della poca pratica che havete, sì delle scritture spettanti al Teologo come delle ragioni spettanti al Filosofo, basti rammentarvi l’istessa calunnia che a me date nel principio, nella quale, supposto falsamente che io neghi l’immortalità, dite che io, sola tra gl’Hebrei dopo tanti migliaia d’anni, sono trascorsa in tal errore, nel che se pur non havete vedute le altre scritture, e Gioseffo Flavio Historico che le varie opinioni dell’Hebraica Natione riferisce, vi scuso: ma non vi scuso già che non habbiate a mente l’Evangelio della vostra Fede, poiché vi sareste ricordato che in San Mattheo, al cap. 22, li Saducei, una fetta di Hebrei che negava l’immortalità, andorono a promoverne anco difficultà a Christo, dal quale fu saviamente sodisfatto e posto silentio alle loro interrogationi. Soggiungete anco che io nego fede all’infallibil chirografo che scrisse Dio di sua mano: io non so che altro chirografo si trovi nella Sacra Scrittura dalla mano di Dio scritto che il Decalogo, al quale io non solo aderisco con la fede ma anco con le opere, per quanto posso. [17] Se voi havesti alcun’altra scrittura fatta dalla mano di Dio in proposito dell’immortalità, haverei caro di vederla. Ma veggiamo quanto bene e con quanta pratica della lingua e della scrittura Hebraica vi siate anco valuto della voce Ruach per formarne argomento a vostro proposito. Dite che nella Sacra Scrittura significa propriamente questa voce, la mente Humana, l’Angelica e la Divina: io qui potrete richiedervi strettissimo conto di sì fatta interpretatione, se haveste parlato di vostro sentimento. Ma perché so che voi non havete mai veduta lingua Hebraica e che da altri è stato soffiato nella vostra ciarbottana, dirovvi solo che da questo fate conoscere chiaramente che anco le altre cose tutte che havete dette vi siete assicurato a dirle senza intenderle. Almeno in questo particolare, parlando voi con una Hebrea dovevate farvi imboccare da chi meglio intendesse la proprietà della lingua poiché Ruach altro di sua proprietà non significa che l’aria, il vento et il fiato col quale noi respiriamo, onde si può vedere quanto bene calzi la vostra conseguenza mentre pretendete per tal voce provare che l’anima sia assolutamente incorporea et immateriale, [18] benché a voler ancor trovare quello che in tal luogo concludiate, vi vuole altra logica che quella di Aristotele.

Delle ragioni poi spettanti al filosofo quanto siate intelligente, veggasi nell’istesso bel principio: dove dite che Lucretio chiama a torto “sole de’ filosofi” Epicuro, il quale negava l’immortalità dell’anima, et a me che voi stimate dell’istessa opinione, dite che conviene a ragione il nome di “luna delle filosofesse” e qual sia la proportione di questa ragione, lasci considerarlo a chi legge, benché io credo che quella comparatione sia stata da voi posta per occasione di scherzare insipidamente come in altro luogo quando affermate che la corruttione non si fa senza moto, cosa altretanto pregiudicante alla gravità della materia che si tratta quanto alla modestia conveniente alla vostra condizione et alla professione che fate di religioso; né posso contenermi di notare anco un altro luogo appresso me tanto degno di riso, quanto voi lo fate di compassione et a carte dieci del vostro Libro nel fine, dove dite “Piacesse a Dio che più tosto da burla che la buon senno si morisse”, modo di parlare che esprime il vostro desiderio, il quale sarebbe di non [19] morire, ancorché crediate l’anima immortale! Eh, Signor Bonifaccio, a che giuoco giochiamo? Credete fermamente quel che predicate o no? Se l’anima con la separatione dal corpo acquista meglior conditione di essere, come voi provate e come è certo, perché dunque posponete mal volentieri questo stato a quello donde deriva il vostro affetto più alla presente che all’altra vita? È pur vostro argomento a carte num. 14 che la morte, secondo la retta ragione, è alcuna volta da desiderarsi e preporsi alla vita, massime per le operationi di fortezza e di altre virtù, come voi ne apportate gl’esempi e l’autorità di Aristotele avvertite che questo contradirsi è cattivo segno.

Se non fusse per me digressione, mostrerei tante di queste sciocchezze e luoghi contradittorii che non resterebbe alcuna vostra propositione intatta; ma ciò fuori dal mio proponimento, perché non vorrei che alcuno potesse credere che con oppugnar le vostre ragioni io mi opponga in maniera alcuna alla verità della vostra conclusione: oltre che mostrare i difetti et imperfettioni della vostra scrittura, altro volume vi bisognerebbe che di un breve foglio, non havendo ella altro di buono che la causa [20] che difendete: nel resto, è così piena di false intelligenze di termini, di storti e mal intesi sentimenti di scrittura, di false forme di sillogismi, di cattive connessioni e strani passaggi da una in altra materia, di sproposite citazioni di autori e, finalmente, di errori di lingua, che nessuno può continuare a leggerla senza dar qualche titolo al compositore.

Fin hora però non habbiamo scoperta la cagione che vi ha potuto movere ad intraprendere sì notabile impresa: non posso credere esser stata malignità, poiché di questa pare che mi assicuri la vostra amicizia e la piacevolezza della vostra natura. Potrebbe forse dirsi esser stato l’istesso non sapere, atteso che mi ricordo haver letto nel Galateo che, tra l’inciviltà che commettono gli huomini, una è il voler far ostentatione di se stessi in quello in che manco vagliono e però, dice egli, si trovano molti li quali non sapendo cantare o havendo cattiva voce prorompono sempre in qualche cantilena mentre sono nelle conversationi; e chi non sa ballare vuol sempre far lo snello et il leggiardo ne’ movimenti, il che si può creder che facciano per esser tenuti scientifici in quello in che fanno di esser più ignoranti, e non si [21] accorgono che non solo accrescono il concetto della lor ignoranza ma disgustano la conversatione, al qual proposito può applicarsi anco l’esempio di coloro li quali havendo qualche parte difettosa cercano sempre adornarla di vestimenti vaghi, come alcuno che havendo le gambe storte procura portarvi sempre calze de vaghi colori quasi per fare che la bellezza esterna compensi il difetto interno e non si avvede che in tal guisa fa maggiormente riguardevole esso difetto et alletta gl’occhi de’ riguardanti a considerarlo. Se da tal movimento havesse havuto origine la vostra opra, Signor Baldassare, faccio giudice voi stesso se sarebbe da sottoporre alla disciplina del Galateo.

Horsù, senza più andar affaticando il pensiero per investigare altre ragioni, a me da l’animo d’indovinar la vera questa volta e so che voi il confesserete alla libera: altro non vi ha indotto a far sì longa e vana fatica se non quella vana che vi fa correr volentieri alle stampe credendo che la fama consista in haver di molti volumi fuori, senza haver consideratione alla stima che ne fa il mondo, il qualche credo sappiate per esperienza quanto mal di soffisfaccia [22] di cose mediocremente buone, non che le dozinali e scioccamente composte e però a non correr così facilmente alla stampa, ci fa avvertiti la medema Poetica di Horatio.

Stimasi degno di riprensione
Qual, che si sia Poema ove l’autore
Consumato non v’habbia a lungo tempo
E più volte mutata questa, e quella
Parte, fin che corretto e castigato,
Al suo perfetto fin condotto il veggia.

Con tutto questo per sì fatta cagione compatisco al vostro animo il quale cupido di gloria va, per così dire, mendicandola per diverse strade, appagadosi del fumo ove non può haver la luce, poiché la vana immoderata sete di gloria indulse anco Empedocle a gittarsi nella voragine di Etna.

Empedocle bramoso
Di lascia falsa opinione al Mondo,
Ch’egli fosse rapito vivo in Cielo,
E raccolto nel numero degli Dei
Gettossi d’Etna nell’ardenti fiamme.

Ma per sì bel pensiero a che effetto sfidar una donna? Et una donna che, se bene è vaga di studii, non ha però tali scienze per sua professione.

[23] Bisognava per mostrarsi intrepido e valoroso sfidar gl’Empedocli, gl’Anassagori, gl’Epicuri, gl’Aristoteli, gl’Alessandri Anfrodisei, gl’Averroi e poiché a loro non è conceduto venire dove campeggiate voi, andarli a trovare ne’ loro steccati medemi, che con altretanta facilità haverebbono forse rintuzzato il vostro orgoglio, con quanta poca modestia voi sparlate di alcuni di loro con titolo anco di porci. Ma, per quel che vedo, voi havete voluto fare, come si suol dire, il bravo in credenza, poiché non solo siete comparso in isteccato dove non è chi contradica alla vostra querela, ma dove, quando anco haveste contradittore, che non credo, non è conceduto il campo franco, di modo che, o valoroso fidatore delle donne, il campo è tutto vostro: passeggiate in esso pur altiero, vibrando i colpi all’aria, o valoroso campione, o generoso guerriero, e senza che si oda altro strepito che della vostra rauca tromba, gridate pur da voi stesso: "vittoria, vittora!" e, benché al suono di queste mie brevi parole vi parrà forse di haver trovato qualche incontro da poter intraprender nuova giostra, vi replico, come di sopra vi ho dichiarato, che questo non è cartello di risposta alla vostra sfida, ma un [24] semplice manifesto per iscusarmi del mio non comparire, non essendo cagion di combattimento dove non è contrarietà di pareri, né in detti né in fatti, sì che per me potete deporre affatto l’armi che ancorché mi provocaste di nuovo con mille ingiurie, non sono più per contraporvi alcuna replica per non consumare inutilmente il tempo, massime essendo io così nemica di sottopormi a gl’occhi del mondo nelle stampe, come voi ve ne mostrate vago, vivete lieto, e sperate per voi giovevole quell’immortalità che predicate e se viverete così osservatore della vostra Christiana legge come io professo di essere della mia Hebrea.

Hora, poiché voi per terminare con piacevolezza e diletto il vostro discorso, vi aggiungete la cantilena di un Sonetto per mostrarvi in effetto, con la cetra in mano quell’Orfeo, che nell’opera stessa presumete di essere sufficiente a cavare una novella Euridice dall’Inferno; io, per comparire in Scena con questa parte che voi mi date, terrò contrapunto al vostro canto senza però darvi briga di andare al Regno dell’Ombre, poiché mi trovate in quello della luce.

Sonetto del Signor Baldassare Bonifaccio a Sarra Copia Sulam

[25] Sara, la tua beltà cotanto audace,
Che sdegna tra le prime esser feconda,
E però più caduca assai che fronda,
E però più che vento assai fugace.

Е, se potessi dir, ma con tua pace,
Ciò che la tua bellezza in sé nasconda,
Io direi ch'ella è tomba, ou'alma, immonda
Di colpa original, sepolta giace.

Questa è la colpa, onde quel colpo uscio,
Che la forma immortal di vita priva,
E corrompe l'imagine di DIO.

Corri, corri al lavacro, ond'hor deriva
La vita: CHRISTO è quell'angel sì pio,
Che col sangue i morti figli avviva.

Risposta di Sarra Copia Sulam

[26] Ben so che la beltà ch’al mondo piace
È fior caduco e di superbia abonda;
Ma de la spoglia fral che mi circonda,
Qual si sia, stima in me l’alma non face.

Per più nobil desio mio cor si sface,
Baldassare, ond’ardita, e sitibonda
Quel fonte cerco, onde stillar suol l’onda
Che rende a i nomi altrui fama verace.

Né cercar dee altro Fonte od’altro Rio
Chi di lasciar immortalmente viva
La sua memoria al mondo ha pur desio.

Ché s’a far l’alma in Ciel beata arriva
Onda che bagni il volto o ‘l petto mio,
Di lacrime versar non sarò schiva.

Della medesima. Sonetto all’Anima humana

[27] O di vita mortal forma divina,
E dell’opre di Dio meta sublime,
In cui sé stesso e ‘l suo potere esprime
E di quanto ei creò ti fé Reina.

Mente che l’huomo informi, in cui confina
L’immortal col mortale, e tra le prime
Essenze hai sede nel volar da l’ime
Parti, là dove il Cielo a te s’inchina.

Stupido pur d’investigarti hor cessi
Pensier che versa tra caduchi oggetti,
Ché sol ti scopri allhor ch’a Dio t’appressi;

E per far paghi qui gl’Humani petti
Basti saper che son gl’Angeli stessi
A custodirti et a servirti eletti.

Nota ai criteri di trascrizione

La numerazione delle pagine, non presente nel libello, è progressiva e data a partire dal frontespizio.

Il fine pagina è segnalato dal numero di pagina tra parentesi quadra; si è giudicata superflua una trascrizione paleografica che rispettasse i fine riga, la cui segnalazione avrebbe inficiato la lettura scorrevole del testo. È stata rispettata la paragrafatura.

La lettera 'j', usata in tutti i casi di sostantivo maschile plurale con desinenza -io, è trascritta come 'i' (e.g. “studij” diventa “studii”); i termini disgiunti sono lasciati tali (e.g.: “più tosto”).

Il testo è uniformato secondo le regole convenzionali di trascrizione del volgare in italiano moderno per quanto riguarda la punteggiatura, l’uso delle maiuscole e dei segni diacritici.

English abstract

First online edition of Sara Copio Sullam Manifesto, published in Venice by Antonio Pinelli in 1621.

keywords | Venice; Venetian Jewish community; Ghetto; Sara Copio Sullam; Manifesto.

Per citare questo articolo: Il Manifesto di Sara Copio Sullam (Venezia, 1621). Presentazione e prima edizione on-line, a cura di Anna Ghiraldini, “La Rivista di Engramma” n. 136, giugno/luglio 2016, pp. 218-230. | PDF dell’articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2016.136.0013