"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

Paganesimo en grisaille: le Tavole Barberini in mostra a Milano

“Fra’ Carnevale. Un artista rinascimentale da Filippo Lippi a Piero della Francesca”, Milano, Pinacoteca di Brera, 13 ottobre 2004-9 gennaio 2005; New York, The Metropolitan Museum of Art, 1 febbraio-1 maggio 2005

Monica Centanni

English abstract


 

Nell’importante esposizione, organizzata congiuntamente dalla Pinacoteca di Brera a Milano e da The Metropolitan Museum of Art di New York, una tappa importante è segnata dalle Tavole Barberini (mostra: a cura di Matteo Ceriana, Keith Christiansen, Emanuela Daffra, Andrea De Marchi; catalogo: coordinamento editoriale di Carlotta Sembenelli, Edizioni Olivares, Milano 2004). L’evento dà la possibilità, non solo agli specialisti e agli eruditi ma agli studiosi e agli appassionati, di poter ammirare, l’una accanto all’altra, le due Tavole che sono oggi conservate in due diversi musei americani. 

E sul dittico Barberini, come sulle altre opere in mostra, nel ricco e accurato catalogo sono raccolte osservazioni e puntualizzazioni importanti, molte delle quali nuove e originali, nella sostanza e nel metodo (eccellente come impianto storico-metodologico e come proposta ermeneutica, non solo sotto il profilo della ricognizione tecnica, il saggio dei restauratori Roberto Bellucci e Cecilia Frosinini).

La mostra milanese è stata anche l’occasione per rivedere lo status quaestionis sulle due opere di Bartolomeo Corradini attivo ad Urbino tra il 1456 e il 1488, che era stato allievo di Domenico Veneziano e discepolo di Filippo Lippi e maestro di Bramante (e forse di Raffaello); chiara è ora anche, nei singoli passaggi, la vicenda che ha portato le due opere dal Palazzo Barberini a Roma, dove si trovavano alla metà del Seicento, alla destinazione dei due diversi musei americani di New York e di Boston. 

A quanto impariamo dalle schede e dai saggi del bel catalogo (che una volta tanto si presenta come un lavoro organico all’allestimento, approfondito e pertinente) gli studi e le scoperte documentarie recenti hanno dunque, certamente, portato chiarezza sulla  vexata quaestioattribuzionistica e sulla vicenda storico-collezionistica, ma per quanto riguarda le ipotesi sulla committenza, sulla destinazione delle due opere, sull’interpretazione del soggetto le ricerche e le analisi serrate a cui le Tavole sono state sottoposte di recente sollevano più problemi interpretativi di quanti ne risolvano (una ricostruzione della questione filologicamente serrata è nel bel saggio di Andrea De Marchi). 

Si trattava probabilmente degli elementi di un dittico, se non forse delle due parti di un polittico, come finiscono per suggerire, per ipotesi, i curatori. Ma l’impossibilità di ricostruire la posizione reciproca delle Tavole, ed eventualmente quali potessero essere i membri mancanti del polittico, rende di fatto vano qualsiasi tentativo di fondata ricostruzione del contesto: Bellucci e Frosinini, in ragione delle diverse geometrie e del diverso effetto ottico dei due pavimenti, arrivano convincentemente a ipotizzare una collocazione delle due opere alla stessa altezza ma su livelli di profondità differenti – un’ipotesi che rende però ancora più arduo ogni tentativo di ricostruzione. Resta dunque aperta la questione della destinazione delle due opere: eseguite per un ambiente religioso – e quindi da considersi forse come due elementi di quella pala di Santa Maria della Bella citata dal Vasari come opera di “Fra’ Carnovale”, ovvero destinate all’Oratorio della Confraternita dei Domenicani, a cui Corradini afferiva; oppure, una volta che, anche grazie alle ricognizioni di questa esposizione, pare certa l’attribuzione a Fra’ Carnevale della straordinaria alcova lignea di Federico, potrebbero essere state anch’esse destinate a decorare qualche altro prezioso arredo del Palazzo Ducale di Urbino. Ma rimane insoluto il dilemma preliminare: se le opere furono pensate e confezionate per un ambiente religioso – per la chiesa o per un ambiente più riservato come poteva essere l’Oratorio della Confraternita – o se, invece, per lo spazio profano del palazzo del principe.

Le due opere sono titolate convenzionalmente Nascita della Vergine e Presentazione della Vergine al Tempio; ma per quanto riguarda il soggetto Keith Christiansen, che cura le schede di catalogo, per la Tavola di New York arriva al grado minimo della descrizione ecfrastica pre-iconografica: “Sembrerebbe che il dipinto del Metropolitan raffiguri in effetti una scena religiosa incentrata sulla nascita di una bambina, con i visitatori che in primo piano si salutano cerimoniosamente mentre sotto il portico e sullo sfondo si scorgono uomini che conversano, cavalcano, conducono a casa gli armenti...”; invece nel caso della Tavola di Boston si arrende all’impossibilità di trovare un filo tematico coerente che leghi le diverse scenette: il tema risulta insomma “quasi imperscrutabile”.

Obiettivamente gli unici elementi che rimandano a un contesto sacro, e segnatamente mariano, sono nella tavola di New York (la cosiddetta Nascita) le aureole-nimbo che circondano il capo della puerpera (Anna?) e del neonato (Maria?) e il fatto che le donne in primo piano tengano in mano corone di rosario; nella tavola di Boston l’unico segno certamente mariano è nella decorazione della struttura ad Arco trionfale che introduce all’edificio (Tempio?) – le statue dell’Angelo e di Maria annunciata collocati sulla mensola superiore, e la scena della Visitazione che appare en grisaille sul pilastro a sinistra. Tutto il resto è davvero fantasia. I molti enigmi sono dovuti senza dubbio, come indicano i curatori, anche “alla nostra incapacità di capire più in là di un certo segno l’arredo di chiese e oratori in epoca antecedente alla normalizzazione introdotta dal Concilio di Trento”.

La lettura critica, passando attraverso le ricognizioni della precettistica coeva e della trattatistica immediatamente successiva, da Alberti a Piero, da Vasari a Lomazzo, ritorna dunque al punto di partenza e si riavvia a partire dalla prima impressione che le Tavole Barberini impongono allo spettatore. E senza dubbio, come è stato da tempo osservato, è l’architettura la protagonista indiscussa delle due composizioni. Prospettive e architetture si impongono sul soggetto che è, in senso lato, ‘sacro’ ma certamente non strettamente religioso né, tanto meno, devozionale: le incisioni guida condotte dal Maestro direttamente sul gesso preparatorio, le linee che solcano tutta la superficie delle tavole, fino a passare sopra ai volti delle figure (fino a solcare il viso della bambina-‘Maria’), costituiscono la traccia materiale e visibile della insistita akribia dell’artista, un’esibita ricerca formale che si traduce in prepotenza dell’intenzione geometrizzante sul rispetto del soggetto.e sulla stessa qualità della resa pittorica.

Dunque, se pure di storie mariane si tratta, la narrazione agiografica sarebbe un puro pretesto narrativo. Si racconta qui invece una storia di maestose architetture che traggono i loro modelli dai monumenti antichi e dalle loro felici rielaborazioni recenti (il Tempio albertiano di Rimini, in primis): un esercizio tecnico di prospettive studiato fino all’eccesso, una ricerca di rigore prospettico persino “strenua e ossessiva” (così Daffra, sulla scorta delle osservazioni di Frosinini e Bellucci), tanto da insinuare il sospetto che il Maestro proponga quest’opera come prova di abilità al principe committente, quasi a voler giustificare e difendere il suo ruolo nell’équipe degli architetti del Palazzo Ducale di Urbino nel momento in cui Federico di Montefeltro cercava di attrarre a corte, al fianco di Francesco di Giorgio Martini, artisti del calibro di Luciano Laurana e Piero della Francesca.

Un saggio prezioso del catalogo è dedicato al rapporto che lega la poetica di Fra’ Carnevale ai più importanti episodi dell’architettura contemporanea: Matteo Ceriana, nell’illustrare le diverse testimonianze che concorrono ad attestare la valentia professionale del pittore-disegnatore-inventore, porta una serie di prove documentarie e di confronti iconografici che confermano anche la qualità e la raffinatezza della cultura architettonica del Maestro.

Già le fonti cinquecentesche definiscono il maestro di Bramante, “eccellente nelle prospettive” (dove il termine ‘prospettiva’ non ha accezione tecnica, ma va inteso in senso tipologico); e “quadri di prospettive”, “prospettive con figure piccole” sono propriamente le Tavole Barberini. Le figure – nota Daffra – sono dunque “un accidente secondario rispetto alla griglia spaziale autonoma e soverchiante”. E quindi la fragile grazia delle due Tavole, la loro mirabile e sofisticata armonia, sarebbe anche il riflesso di un esercizio di stile; un gioco di prospettive, ancor più accattivante per il fatto che questa architettura illustrata con figure provoca i nostri sensi intellettuali con il “gusto sottile per il linguaggio cifrato, l’allusione criptica che sconcerta e cattura chi come noi, ne ha perduto le chiavi”.

Nelle Tavole Barberini, come e più che nei capolavori coevi di Piero, come nella cosiddetta Città ideale (per la quale non si esclude la paternità di Fra’ Carnevale), l’architettura non è sfondo né contenitore, ma protagonista indiscussa della scena, e le figure che dovrebbero agire il tema sono invece relegate in un ruolo secondario, quasi pretestuoso e decorativo. Ai margini di “spazi ossessivamente misurati” vive un’umanità – la corte – “elegante ma fragile”. E il fatto che sia proprio l’architettura il vero tema della composizione dà ragione dell’effetto di importanza – anche semantica – che ci viene restituito dai bassorilievi in grigio e dalle sculture che ornano gli elementi strutturali.

Nella decorazione a bassorilievo dei pilastri sono posti in evidenza soggetti ‘profani’; nel senso di episodi del mito classico o di storie evangeliche ma collocate, come il mito, nel tempo  ante legem. Nella Tavola di New York, se la cifra ‘sacra’ del dipinto è affidata alle fin troppo discrete aureole che circondano i volti della puerpera ‘Anna’ e della piccola ‘Maria’, il tema dei bassorilievi è schiettamente pagano. Nella Tavola di Boston, all’inverso, mentre quelli che dovrebbero essere gli attori della narrazione mariana appaiono come generiche comparse di cortigiani, la visualizzazione del progresso dall’era  ante legem all’era sub lege è affidata alla progressione in verticale dell’ornamento lapideo: dalle metope con il Satiro e la Ninfa nel registro inferiore, si passa infatti, sul secondo registro, al riquadro con il saluto di Elisabetta e Maria, per arrivare alle sculture superiori a tutto tondo che raffigurano l’Angelo e Maria annunciata.

  

L’antico è catturato in forma di frammenti mitici rari e preziosi, sintomi esibiti di un gusto erudito ma non pedante, sempre colto e raffinato: in una Tavola l’antico è il Satiro e la Ninfa; dall’altra le tre metope mitologiche – un giovane Bacco ebbro; Sileno o forse Zeus che solleva tra le braccia un Dioniso bambino; un Tritone e Nereide abbracciati (difficilissimo identificare questi ultimi in uno Zeus e Semele che farebbe gioco per ricostruire l’unità di tema dionisiaco).

Il mito e le storie evangeliche che prefigurano l’avvento dell’era della Salvezza, si esprimono nel bianco e nero della grisaille e della scultura: comunque la cifra ‘sacra’ – cristana o profana – sta nell’ornamento architettonico. 

Il monocromo (nella Tavola di Boston esaltato anche dal contrasto con l’effetto spugnato della policromia sulle colonnine) sigla il passato in intenso contrappunto semantico rispetto al presente dell’attualità – la vita di corte colorata di vesti e di acconciature, di dame e di paggetti, di santi e di mendicanti. Rispetto alla corte e al palazzo – il passato ante Christum natum è un bellissimo (‘classico’) film in bianco e nero bloccato nel fermo immagine della  grisaille.

Una prefigurazione così intensa e potente che l’espressività delle figure scultoree contende in dinamismo vitale con la vivacità aggraziata ma stereotipa delle figurette che, “col loro tono di svagatezza signorile e disimpegnata ” (Emanuela Daffra), animano le scene di vita cortese. Le vignette miniate che animano i dipinti sono in subordine, per valenza tematica, sono più deboli nella resa icastica, rispetto alle figure di pietra del passato. In alto si impongono le figure a tutto tondo dell’Angelo e dell’Annunciata, e dal loro piano distaccato, quasi un fuori campo, forniscono altresì l’unica risposta chiara e incontrovertibile all’enigma del soggetto. Ma sotto, nel pieno campo del nostro sguardo, vince la Menade che con il suo dinamismo smuove la superficie del marmo, vince il Satiro, vince la Nereide tra le braccia di Tritone, vince Bacco ebbro e Dioniso bambino. Sul colore che contrassegna l’attualità contemporanea vince, in incisività ed efficacia espressiva, il monocromo che marca l’antico.

English abstract

Presentation of the exhibition “Fra’ Carnevale. Un artista rinascimentale da Filippo Lippi a Piero della Francesca” held in MIlano, Pinacoteca di Brera and in The Metropolitan Museum of Art in New York.

 

keywords | Pinacoteca di Brera; Metropolitan Museum of New York arberini; Corradini; Fra’ Carnevale; Myth; Exhibition.

Per citare questo articolo: M. Centanni, Paganesimo en grisaille: le Tavole Barberini in mostra a Milano. “Fra’ Carnevale. Un artista rinascimentale da Filippo Lippi a Piero della Francesca”, Milano, Pinacoteca di Brera, 13 ottobre 2004-9 gennaio 2005; New York, The Metropolitan Museum of Art, 1 febbraio-1 maggio 2005, “La Rivista di Engramma” n.37, novembre 2004, pp. 47-52 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2004.37.0009