"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

146 | giugno 2017

9788894840223

"Neither from nor towards; at the still point, there the dance is"

Recensione alla mostra di Bill Viola "Rinascimento elettronico" (dal 10 marzo al 23 luglio 2017, Palazzo Strozzi, Firenze 2017)

Monica Centanni, Anna Fressola, Anna Ghiraldini, Alessandra Pedersoli

English abstract

Neither from nor towards; at the still point, there the dance is,
But neither arrest nor movement. And do not call it fixity.
Thomas S. Eliot, The Four Quartets

"Rinascimento elettronico": un titolo forte ed efficace, ma che risulta, a conti fatti, riduttivo. In mostra a Palazzo Strozzi non è il confronto tra l'artista contemporaneo e i suoi modelli rinascimentali – fra tutti, la Pietà di Masolino; la Visitazione di Pontormo, fisicamente presenti nell'allestimento – e neppure la rilettura dei 'classici', tradotta ed esaltata dal medium elettronico – quella video-arte in cui Viola si è imposto, da circa vent'anni, come maestro. Di una sfida, piuttosto, si tratta: sfida ambiziosa lanciata contro i modelli, in nome dell'urgenza di una loro reinvenzione. In questo senso, se la rivoluzione dell'arte rinascimentale resta il riferimento primo del nuovo atto artistico, lo è in un modo tutto da scoprire. O meglio: in un modo che ogni visitatore è chiamato a scoprire secondo la piega della sua propria, unica e soggettiva, vibrazione estetica.

Il percorso prende avvio dal piano nobile del Palazzo, in cui trovano posto i lavori di Viola che si confrontano in modo diretto con l’antico, in un taglio cronologico che inizia dalla metà degli anni Novanta e culmina con le esperienze del 2014. Prosegue e termina, quindi, nella Strozzina, il piano ipogeo di Palazzo Strozzi, in cui le opere sono messe in rapporto dialogico con la scena fiorentina nella quale Bill Viola opera tra il settembre 1974 e il febbraio 1976 – “anni di piombo” che vedono il giovanissimo artista a Firenze come direttore tecnico del centro art/tapes/22. Una traiettoria che si propone come una sorta di rito di iniziazione condotto non progressivamente, ma già perfetto ad ogni grado, per ciascuna epifania. Una apoteosi del corpo e dei sensi, ma girata al contrario.

L'incrocio

Senza preamboli, subito, dalla prima sala, è l'immersione totale in medias resres o piuttosto realia, concretissimi realia, sensibili e fisicamente palpabili benché siano fatti solo di luce. Lo spettatore che varchi la soglia d’ingresso del Piano Nobile si trova immediatamente dentro la prima, doppia, installazione di Viola – The Crossing (1996). L’artista lavora con gli elementi primigeni, con il fuoco e con l'acqua, e l'opera è come la traccia, scoperta, di un rito iniziatico. Le geometrie della sala longitudinale voltata a crociera che accoglie l’installazione risultano quasi completamente annullate dall’assenza di fonti luminose: soltanto la luce riflessa della proiezione modella lo spazio. Tra il buio dello spazio reale e l'ombra dello spazio multimediale si instaura un dialogo stretto e necessario. Un uomo incede con sicurezza verso lo spettatore, muovendosi in un intervallo adimensionale in cui sembra percepibile l’attrito dell’aria e il peso del corpo che avanza; la sua ombra è proiettata su un pavimento che lentamente si manifesta grazie ai fari che illuminano la scena e che, contestualmente, rivelano il profilo del protagonista. Nello spazio della sala saturato dal suono – forte assoluto assordante – che scaturisce dalle due proiezioni, purificato dalle fiamme che divampano davanti ai suoi piedi o dall’acqua che scroscia sulla sua testa, in un gioco di contrasti direzionali l’uomo sembra ascendere sotto il peso dell’acqua che scroscia dall’alto, e simultaneamente pare discendere ad Inferos, inghiottito dalle fiamme: comunque scompare, inesorabilmente assorbito dalla potenza degli elementi. Alla fine, è soltanto qualche goccia d’acqua e il bagliore residuale di fiammelle in via di spegnimento, poco più che fuochi fatui – poi il buio. L’immersione – ascensione e discensione, soluzione nell'acqua e dissolvimento nel fuoco – dura poco più di 20’.

L'incontro

La seconda sala accoglie il primo confronto in mostra tra l'opera di Bill Viola e il suo dichiarato modello: su due pareti contigue trovano posto La Visitazione del Pontormo (1528 ca.) e The Greeting di Bill Viola, installazione audio-video del 1995. Il riflettore puntato sui colori brillanti della tavola è sufficiente a illuminare per diffusione tutto lo spazio e, mentre lo spettatore confronta i panneggi degli abiti di Maria, di Elisabetta, dell'amica-ancella, con le vesti delle loro personae 'alter ego' nell'opera contemporanea, e mentre commisura le architetture che fanno da fondale alle due opere, si consuma l'incontro e il saluto fra le tre donne, in una sequenza cinematografica suddivisa in tre tempi: dialogo tra due donne che si incontrano; l'arrivo della terza donna (tutta implicita, sottaciuta la sorpresa e la tenerezza del doppio annuncio, al centro del capitolo delle storie di Maria ed Elisabetta); i saluti. La lentezza imposta dall’artista al passo della pellicola consente di sostare su ogni variazione nell'atto e nel gesto delle protagoniste. Allo spettatore è demandato il compito di intepretare i gesti, le variazioni delle movenze, le espressioni dei volti delle tre donne; ma la complessa dinamica relazionale in atto rimane sospesa e non si lascia spiegare neanche con la bella fabula evangelica che funge soltanto da pretesto narrativo. Lontano, alle loro spalle, si intravvedono altre figure che si incontrano, si avvicinano, si lasciano; ma l'arrivo della giovane donna, che esibisce la curva del ventre gravida della nuova vita, concentra il senso di ogni attenzione e di ogni altro incontro. I suoni del video, il sussurro della donna incinta che entra in scena e il vento che agita gli abiti delle tre protagoniste, disegnano un ambiente sonoro sommesso e intimo, che purtuttavia risente del fragoroso avvampare del fuoco e del violento scrosciare dell’acqua che anima la proiezione nella sala precedente. Lo spettatore è invitato a presentarsi, partecipando alla scena dei saluti, per circa 10’.

Il percorso

La terza sala ospita The Path, proiezione a quattro canali video del 2002. È il secondo pannello del polittico digitale Going Forth By Day di cui a Palazzo Strozzi, nella sesta sala, è visibile anche The Deluge. Uomini e donne di ogni età, estrazione sociale e provenienza, attraversano lo spazio al ritmo delle loro diverse andature, in un flusso ininterrotto di corpi in movimento lungo il sentiero verde di una pineta. Alcuni camminano in gruppo, altri singolarmente. Ecco uno che si ferma per aiutare un vecchio ad avanzare; altri portano fiori, valigie, strumenti musicali. La video installazione ha una dimensione di undici metri e l'immagine è ad altissima definizione, al punto che restituisce visibile persino la polvere che si alza da terra al poggiare dei piedi. L'ambientazione è espressamente ripresa dal set boschivo dei quattro pannelli botticelliani della Storia di Nastagio degli Onesti, ispirati alla novella della V giornata del Decameron (i dipinti, non presenti in mostra, sono conservati tre al Museo del Prado di Madrid e uno in collezione privata). Dietro il passeggio leggero e spensierato c'è dunque una caccia, una caccia crudele, e un incubo d'amore. Ma ora è, piuttosto, l'allegra brigata degli invitati alle nozze dei protagonisti della novella di Boccaccio (e alle nozze Pucci-Bini, che Botticelli omaggia nel ciclo, datato 1483) convocati a festeggiare il lieto fine della storia. Lo spettatore, immerso nell’impianto sonoro della pineta, fatto di lievi brusii e di calpestio di passi sul tappeto vegetale, confonde il suo passo e la sua stessa ombra con i corpi colorati in movimento che sfilano in quel teatro dell'umano, movimentato da micro-azioni tutte umanissime. Lo spettatore si confonde, si intrufola – comparsa tra le varie altre comparse – nell'attesa che qualcosa accada. Ma a un certo punto lo schermo si fa per qualche secondo nero; poi tutto ricomincia così come era iniziato. È il corteo di una festa nuziale in un'ambientazione che però, come nella novella di Nastagio, risente di ombre e di incubi, di amore e di morte. La sfilata di tutti noi invitati alla festa dura per 34’ e 30’’.

Pathosformeln e predelle attive

Sono tre le video installazioni (senza sonoro) presenti nella quarta sala realizzate nel 2001 e parte del ciclo The Passions: Viola lavora qui alla rappresentazione delle passioni ispirandosi all’arte sacra medievale e rinascimentale: Surrender; Catherine’s Room e Four Hands.

Nel dittico Surrender un uomo e una donna l’uno capovolto e simmetrico rispetto all’altra si specchiano nell’acqua immergendovisi e riemergendo in un gioco di riflessi che richiama il mito di Narciso: la coerenza narrativa e la congruenza percettiva è messa continuamente alla prova, disturbata dal gioco dei riflessi. L’uomo e la donna, l’uno riflesso dell’altra, l'uno vestito di rosso l'altra di blu, urlano e si disperano, per un attimo sembrano quasi riuscire ad afferrare l’uno la mano dell’altra, ma è solo un’illusione. Dei loro corpi è visibile solo l'immagine sull’acqua – resta soltanto quella traccia. Dura 18’ lo straniamento, finché l’immagine diventa sempre più distorta, instabile, indecisa – diventa pura astrazione. Il video ricomincia e la videoproiezione si inverte.

Catherine’s Room dialoga con il dossale di Andrea di Bartolo “Caterina da Siena fra quattro beate domenicane (Giovanna da Firenze, Vanna da Orvieto, Margherita da Città di Castello, Daniela da Orvieto)” e "Scene delle vite delle Sante", posto sulla parete di fronte. Protagonista è la riflessione sull'isolamento e sulle età della vita: cinque schermi, affiancati orizzontalmente e sviluppati in successione, ospitano cinque stanze e cinque tempi diversi. L’architettura monastica della moderna cella rimanda alla predella di Andrea di Bortolo: è uno spazio minimale che si connota come luogo intimo e privato in cui l’attrice, la stessa in ogni pannello, si affaccenda in azioni che attraverso il dialogo con le Sante del modello si configurano come pratiche rituali. Movimenti solitari scandiscono la giornata dal mattino fino a notte fonda: lo spettatore è chiamato ad assistere, con tutto il peso della sensazione di essere un intruso, il testimone involontario di un segreto. Da una finestra si intravede un ramo di albero ripreso in diverse stagioni, dall’estate all’autunno, che si staglia su un cielo che ricalca diversi momenti della giornata; nell’ultimo video, in cui la protagonista è stesa a letto, dormiente in una postura para-funeraria, improvvisamente si fa buio. Dura 18’39’’ la possibilità che ci è data di spiare l'esclusività di questo spazio interiore e solitario.

Sulla parete opposta, in schermi di dimensione più ridotte, una proiezione in bianco e nero in quattro pannelli: quattro paia mani – di un ragazzo, di una donna e un uomo maturo e di una donna anziana – si accarezzano, si toccano, si incrociano l’una con l’altra, in una partitura gestuale lenta e armoniosa. In Four Hands la pelle delle mani è organo vivo, membrana che avvolge i vissuti che animano gesti automatici e al tempo stesso eloquenti e significanti. Una comunicazione personale e collettiva insieme, nella quale le quattro coppie di mani, assolutizzate come in un disegno leonardesco, dicono in modo diverso la vita: mani ansiose, mani riflessive, mani nervose, mani lisce e tenere, mani rugose in cui si rileva la pulsione delle vene indurite dall'età. E paradossalmente proprio le mani più vecchie anziché esibire un movimento più calmo e posato si fanno più aggressive, più fameliche di tempo. Ininterrotto, interminabile, in loop infinito, è questo concerto di gesti e di vita.

Emersione

Il ciclo The Passions prosegue con Emergence, una retroproiezione video a colori del 2002 ospitata nella quinta sala, terza deviazione dal Rinascimento in mostra a Palazzo Strozzi, posta in rapporto dialogico con Cristo in pietà, un affresco staccato di Masolino da Panicale. Le due opere, poste a poco meno di quattrocento anni e poco più di cinque metri di distanza l’una dall’altra, si contendono lo sguardo dello spettatore che ne fa esperienza simultanea entrando nella sala illuminata da una luce soffusa, e pervasa da un silenzio che sa di mistero. La Pathosformel che lega le due opere è quella, archetipica, della deposizione di Cristo. Nell’affresco di Masolino il Cristo rigido, pallido, nudo ha gli occhi socchiusi in una linea sottile che traccia insieme la separazione e la confusione tra vita e morte. Quel Cristo è il cadavere di Dio, pronto ad essere sorretto dalla Madre e San Giovanni, come fulcro di una pietà stante. In Emergence, prima, ai due lati del sepolcro due Marie soffrono l'assenza. Piegate, raccolte, le Marie quasi non si muovono, e certo non hanno animo di guardarsi, di parlarsi. La perdita le ha rese attonite: chiuse, mute, sopraffatte. Stanno male e noi stiamo male con loro, perché quel tempo vuoto dura abbastanza per coinvolgerci nel dolore dell'assenza. La più giovane tenta, forse, un dialogo di sguardi. Ma la più grande, la Madre, non può, non ce la fa. E noi con lei. Che peso, che pena: non c'è nient'altro da fare che coprirsi la testa, chiudersi nel velo, e stare chiusi. Chiusi e muti in un dolore impotente. La presenza del sarcofago si fa pietra, si fa sasso che schiaccia il cuore e i sensi: la madre è raggelata. L'altra, nella disperazione, ancora vede qualcosa, interagisce con quanto succede. E a un certo momento è lei, la giovane Maria, che si accorge che qualcosa sta accadendo: è lei che vede apparire il colmo della testa che emerge dalla dimensione submondana, separata dal mondo di qua dal bordo orizzontale della parete acquea. Si guardano, allora: ma la madre dapprima vede solo l'acqua che tracima dal sarcofago: non osa sperare altro. La ragazza invece si accorge dell'emergere della presenza, prima ancora che dall'acqua spunti la testa. È la ragazza che si accorge di lui, che si volta per prima; è la ragazza che gli tocca una mano, quasi per sincerarsi che sia davvero un corpo, non un cadavere. La madre è ancora piegata in se stessa, fatta sorda e cieca dall'eccesso del dolore. Ma lentamente esce dall'acqua il corpo maschile – nudo, bianco, bellissimo. Il bianco marmoreo della carne pare il bianco perfetto della morte. Le donne ora si scuotono. Sono già pronte ad accoglierlo, pronte a farlo rinascere. Ora è la madre che lo prende tra le braccia: è livido, ma tenero quel corpo, non esibisce segni di ferite. Terreo ma bellissimo. Dopo averlo preso tra le braccia (pesa quel corpo di carne) lo depongono a terra: ma non è una deposizione. Ora il figlio appare stanco, stanco di morte; ma via via il colorito delle sue carni si riscalda di colore, via via meno livido. Le donne lo toccano, lo scaldano con un panno che non è funebre ma natale; un telo per scaldare un poco quel corpo, per fargli dimenticare a poco a poco il gelo della morte. Gli baciano le mani e piangono finalmente. Lui è di nuovo qui. Una pietà rovesciata: la madre e l'altra Maria accolgono tra le loro braccia il corpo del figlio che rinasce – e noi con loro. Tutto, dal compianto alla scena della paradossale pietà, nuovo natale di vita anziché di morte, accade in circa 12’.

Inondazione

La sesta sala è divisa in due da un setto spesso e cavo, perpendicolare all’ingresso, che ospita l’affresco Diluvio universale e recessione delle acque di Paolo Uccello, riportato su tela. La lunetta, illuminata drammaticamente da un faro che ne evidenzia i rossi accesi, funge da tamburo al portale che permette l’accesso alla seconda parte della sala, dove è proiettata l’opera The Deluge; questo ingresso è disassato rispetto alle porte delle sale precedenti e si pone pertanto come una forte interruzione all’enfilade. Il ritmo della scena è scandito dai rumori di una strada poco trafficata: si avvertono passi leggeri delle persone che transitano sul tratto di marciapiede posto di fronte a un edificio, il prospetto illuminato dalla luce soffusa di un giorno di equinozio d’autunno, di cui si vedono i primi due piani: al centro dell’attacco a terra, trattato a bugnato liscio, sta una porta con tamburo triangolare che mostra un’alta scalinata rivestita da moquette scura, affiancata da due porte murate sopra le quali sono due finestre dietro cui non vi è alcun segno di vita. I passanti, come in The Path, sono persone di ogni estrazione sociale ed età: non possiamo non identificarci nell’uomo di mezza età che attraversa la scena portando pochi libri alla volta; non possiamo non lasciarci pervadere per un istante dalla sensazione di tristezza per il palloncino rosso che scoppia tra le mani al bambino. I movimenti dapprima sembrano calmi ma si fanno via via più agitati fino a tramutarsi in una corsa, in una scena di panico collettivo: gli abitanti del palazzo bianco scendono velocemente le scale, inciampano, si spingono, corrono via in mezzo ai passanti. La loro fuga scomposta è accompagnata da uno scroscio e le scale d’ingresso vengono inondate da una cascata d’acqua che porta con sé valigie e altri oggetti: le finestre del primo piano sono sventrate dalla furia dell’acqua. Il visitatore si rende conto, solo ora, di non essere parte della scena: può soltanto assistere alla tragedia, inerme e impotente, perché l’acqua non lo investe. Il delirio dura pochi secondi, forse un minuto, forse cinque, per poi diminuire di intensità fino ad esaurirsi. La luce, che disegna un’ombra sul prospetto rimasta invariata rispetto alla situazione iniziale, sembra ora più nitida. Nessuno transita più sul marciapiedi bagnato e lo sgocciolìo residuo della cascata è l’unico suono in scena. Il fiume umano è stato interrotto dal fiume d’acqua. Il tutto in poco più di 34’.

Rinascite e tableaux vivants

Un altro diluvio è al centro di Inverted Birth. Dall’oscurità fangosa della morte alla luce, per attraversamenti: di sottofondo un movimento sonoro che dal gocciolìo si trasforma in uno scroscio violento. Nell’imponente proiezione video che occupa la settima sala, un uomo in piedi a torso nudo campeggia nel buio: il suo corpo gronda di un liquido nero vischioso: d’un tratto il liquido è attratto magneticamente verso l’alto prima sporcando e poi ripulendogli il corpo, il viso. Il diluvio ascensionale che lo pervade si trasforma, l’uomo si tocca il petto, e il liquido ascendente che prende la forma di una cervice uterina invertita, dal nero catrame sfuma nel rosso del sangue fetale, quindi in un bianco latteo; sgorga infine come un'acqua purificatrice, a presentare il neo-nato agli spettatori, testimoni del suo risveglio. Di questo tempo eterno, ciclico e infinito, si può invertire la freccia. Tutto può ricominciare: lo dimostra questa nascita rovesciata che avviene in 8’22’’.

L’ottava sala è anch'essa ripartita in due da un setto. Al di qua, le due opere Adamo ed Eva di Lucas Cranach (1528), giganteggiano una accanto all’altra, illuminate da una luce calda che produce un’ombra sul muro perfettamente congruente alle forme che la proiettano. Al di là, due schermi rettangolari appoggiati verticalmente alla parete in uno spazio scuro, ospitano i corpi nudi di due anziani, anch'essi a grandezza naturale, un uomo e una donna, che compaiono da lontano dapprima in una proiezione in bianco e nero a bassissima definizione, e che avvicinandosi si colorano dei colori della vita, ma della vita compaiono anche le macchie – le lentigines senili che tatuano con il marchio del tempo il corpo. I due tengono in mano una torcia e fronteggiano, solitari ed imponenti nella loro fragilità, lo spettatore; la torcia serve a esplorare con gesti lenti e attenti la pelle, quasi scoprendo in diretta le tracce che il tempo ha impresso sulla loro superficie. Cosa cercano? Immortalità o eternità? È una cherche, comunque, drammatica e disperata e i loro sguardi incrociano quelli degli astanti quasi a interrogarli – per mostrarsi, per rispecchiarsi, per trovare una risposta o un conforto. È un'angoscia tenera e inesorabile, che via via si tramuta in una serenità più quieta, più consapevole. I due d’un tratto abbandonano la minuziosa ricerca dei segni della vita, portano al petto le mani e gli schermi specchio in cui sono riflessi sembrano trasformarsi in sepolcri. Ecco, scompaiono. La cerca di quel pomo che non garantisce nessuna immortalità dura circa 19’.

Nel sottosuolo della memoria

La nona sala, la prima della Strozzina, il piano ipogeo di Palazzo Strozzi, ospita The Reflecting Pool, opera datata 1977-1979, fra le prime in cui Bill Viola annuncia i filoni della sua ricerca tecnica e artistica: la manipolazione del tempo, il rapporto dell’uomo con il mondo, la riflessione sull’immagine e l’acqua come simbolo di purificazione e di rinascita. Il video è proiettato su una lastra di vetro che funge sia da schermo che da amplificatore dell’immagine che risulta quindi proiettata quasi oniricamente sui muri corti della stanza e sugli spettatori che la guardano. La sensazione è di aver spiccato un salto appena fuori dal bosco; di uscire dallo specchio d’acqua in una realtà in sospensione; di poter creare, anzi di essere, un riflesso, bagnato dall’acqua tremolante dello specchio in cui galleggia; di aver lasciato una traccia, solo un'ombra nel folto del bosco. Così il visitatore si fa protagonista dell’opera, per i 7’ del suo svolgimento.

La decima sala è uno spazio quasi cubico, bianco, le cui pareti sono tappezzate di foto a grande formato che ritraggono scene di vita della Firenze degli anni '70, un ambiente in cui i fermenti di innovazione e creatività si mescolano alle contestazione di piazza. Firenze è luogo di incontro e scambio, in cui le sinergie sono messe in gioco tra le fila della Facoltà di Architettura: sono gli anni della nascita di Archizoom, Superstudio, gli Ufo e il gruppo 9999 e le gallerie d’arte contemporanea, prima tra tutte la succitata art/tapes/22, centro, nel grande panorama europeo, per la produzione di videotapes. Tra i molti scatti che raccontano la storia del capoluogo toscano, Bill Viola è ritratto con Douglas Davis, Chris Burden, Gérald Minkoff e altri artisti e frequentatori di art/tapes/22.

La sala undici – bipartita, due corridoi contigui bianchi, le pareti spoglie, uno spazio angusto, illuminato da una diffusa luce fredda e asettica – ospita un’installazione sonora dal titolo Presence (1995). Sei canali in loop per voci “ininterrotte”, recita la didascalia. Voci di ragazzi, voci di donne adulte, voci di uomini, giovani e anziani, voci di bambini: tutte sussurrano, impercettibilmente, piccoli segreti, frammenti di storie – lontane, incomprensibili. Ma non è il senso: è il suono, è la presenza che 'fa testo'. I flebili fantasmi dei quali è rimasta solo questa traccia acustica, affidano la loro memoria all'intensità remota delle proprie voci. In sottofondo, a ritmare e ad evidenziare quei sussurri, il rumore di un respiro leggero, e il palpitare a battiti di un cuore. Il visitatore capisce che è un'occasione unica per catturare quelle presenze, per ascoltare voci non più ascoltabili, in un'esperienza che da auditiva diventa sinestesia totale, ipnotica ed extrasensoriale – quasi a percorrere un Ganzfeld, in stato di trance. Difficile attraversare quel corridoio; difficile anche lasciarselo alle spalle, rassegnarsi a perdere quel contatto che pur promette una durata interminabile.

È il solstizio d’inverno del 1974 quando il giovane Viola gira il primo video della dodicesima sala: Eclipse. The Moon Setting Through an Opens Window (Winter Solstice 1974). Nel videotape in bianco e nero l’artista prevede che gli spettatori condividano la sua postura contemplativa, facendosi testimoni della lenta traversata in cielo della luna che si intravvede al di là di una finestra e che è coprotagonista di un esperimento ottico: l’incontro della luce del satellite con il fuoco luminoso di una candela posta sul davanzale. Le due luci si sovrappongono occultandosi a vicenda per alcuni minuti e nel rendersi invisibili l'un l'altra si ha l’impressione di un aumento di intensità luminosa. L’inquadratura è obliqua, il punto di vista laterale, utile a creare l’evento illusorio; una composizione minimale, fatta di linee oblique, tra lo stagliarsi verticale della candela bianca e i due fuochi. Dalla strada, al di là della finestra, i rumori della vita che scorre invisibile, per circa 20’.

Superato Il vapore del 1975, la videoinstallazione esposta nella prima mostra europea dell’artista a Firenze, che in linea con la sua poetica gioca con la dimensione della temporalità e con il coinvolgimento dello spettatore chiamato ad attivarsi di fronte alla multisensorialità dell'opera, oltre la tredicesima sala, che ospita Cycle e Level del 1973 e Olfaction del 1974, tre installazioni su altrettanti schermi, si accede a uno spazio intimo, tre pareti bianche che proteggono una panca: la quarta parete, di color antracite, ospita la proiezione Chott el-Djerid, videotape che Viola realizza nel 1979. L’esperienza è ripresa in due luoghi distinti: il lago salato nel deserto del Sahara tunisino, Chott el-Djerid appunto, che occupa una superficie di circa 5000 kmq e in estate è completamente secco per le scarse, quasi inesistenti, piogge che bagnano la regione; alcune compagini paesistiche tra Illinois e Saskatchewan, in Canada, avvolte in un soffice manto di neve, su cui il video si apre. Risulta molto difficile dai primi fotogrammi capire realmente cosa gli occhi si trovino a osservare: la scena è bianco-grigiastra, cambia in modo repentino, dall'uno all'altro paesaggio e senza una trama da seguire: si succedono immagini che, grazie a qualche dettaglio (il tronco di un albero, i muri di una casa, una staccionata), svelano lentamente l’intorno. Lo spettatore si trova immerso in freddi paesaggi invernali, si alternano scene di bufera o momenti di stasi da cui la vita è completamente esclusa. Al cambio, si presentano all'osservazione una serie di immagini tremolanti tratte, sembra, da diari segreti di viaggi onirici o psichedelici – miraggi dai colori che vibrano come riflessi su uno specchio d’acqua nelle riprese sul lago tunisino, in questo caso animate dalla presenza dell’uomo. In entrambe le situazioni proposte nell'installazione, una sensazioni di straniamento e incertezza accompagna la visione: la vista risulta ingannata da veri e propri trompe-l’oeil e lo spettatore ricorre all’uso di udito, tatto e soprattutto memoria per cercare di spiegarsi ciò che vede e superare così quell’empasse di alienazione che lo tiene aggiogato. Il viaggio visionario dura 28’.

Martiri dei quattro elementi

Chiudono l'esposizione – siamo nella stanza 15 – i quattro video della serie Martyrs (Earth, Air, Fire, Water), realizzati da Bill Viola nel 2014 per la cattedrale londinese di St. Paul. Una grande attesa aveva accompagnato la genesi dell'opera di Bill Viola per la cattedrale di Londra, fisicamente connessa alla Tate Modern grazie al Millennium Bridge (si veda a questo proposito in Engramma, il contributo di Simona Dolari), che avrebbe dovuto essere una felice sintesi tra i temi senza tempo della condizione umana, destinata alla sofferenza e alla morte, e l'efficacia del linguaggio contemporaneo.

Ora, negli ultimi quattro schermi della mostra fiorentina, vediamo quattro corpi che oppongono una muta, ferma, resistenza allo scatenarsi dei quattro elementi. Viola sviluppa l'idea del martire come testimone nella contemporaneità dei dolori altrui: dolori universali, assoluti, nella silenziosa e immobile attesa dell'inevitabile martirio. Le figure su cui si abbatte la violenza dei quattro elementi, stanno impassibili, come in una sorta di ipostasi ieratica. La condizione umana si propone come un'universale attesa: è il tempo della sofferenza che accompagna il passaggio inesorabile dalla vita alla morte, e che però dà all'uomo l'occasione di fronteggiare il destino opponendo eroicamente l'inerzia e la tenacia della propria corporeità alla forza bruta della natura.

Giocare al Rinascimento

Tutto il gioco che ci propone la mostra fiorentina di Bill Viola è condotto su un campo ben definito rispetto a due coordinate: movimento e tempo.

Movimento, innanzitutto. Ancora una volta Bill Viola ci propone segni della sua poetica che è continua interrogazione sullo stato, di quiete o di moto, in cui materia e corpi si prestano alla rappresentazione. L'opera si presenta come il tracciato, o l'impronta, di un'ontologica irrequietezza delle forme che purtuttavia, nella ricercata lentezza dell'actio, aspirano misticamente a un'ipostasi di quiete. Ovvero, al contrario: l'opera è il teatro in cui tutte le forme per una propria, incontenibile, inquietudine, cercano di riscattarsi dallo stato di quiete, rianimandosi di vita.

E in parallelo rispetto alla dimensione del movimento, lavora anche il fattore-tempo: evidente è una volta di più, sempre più chiaro, che nella cassetta degli attrezzi di Bill Viola, lo strumento-tempo è probabilmente l'utensile più sfruttato. È il tempo-aoristo che irrompe, come nelle opere del Rinascimento, a spezzare l'andamento narratologico del tempo continuato, il descrittivismo della struttura narrativa proprio dell'opera medievale. Ma l'opera di Viola va oltre l'effetto-kairos dell'arte rinascimentale: nel suo aoristo irrompe (ed è una irruzione tecnica ottenuta anche mediante il loop), l'innesco dell'imperfetto. Non in tutto il catalogo, ma nei capolavori di cui la mostra fiorentina espone alcuni esemplari, l'opera d'arte si sottrae così all'effetto, peculiarmente rinascimentale, dell'istantanea assoluta, ma contemporaneamente sfugge anche al ricatto della banalizzazione narrativa (la sequenza di 'vignette' che intrattengono la fabula picta dal Medioevo ai fumetti). La video-arte di Bill Viola sortisce il suo proprio, più preciso, risultato quando non va in cerca né dell'effetto flash, né di una storia: quando non giustappone scatti assoluti, ma non cade neppure nella deriva facilior (sia nella variante didascalica che in quella allegorica) del raccontino a tema.

In questo set lo spettatore è chiamato in gioco con il suo corpo, con le sue percezioni, con le sue proprie emozioni – ricordi, sensi, memoria – con una speciale intensità; non si tratta, semplicemente, di empatia ma di un'esperienza estetica in senso pieno. E in questo senso il rimbalzo estetico, fino al limite dello shock emotivo, non è solo la prova dell'efficacia dell'opera d'arte, ma pare intimamente necessario alla presentazione dell'opera stessa. Movimento, tempo; immersione sensoriale, commozione: ancora una volta da questo percorso fiorentino attraverso le 23 opere di Bill Viola, per 15 stanze, usciamo modificati. Ma anche le sue opere – ce lo dicono i loro colori; ce lo confermano le luci, i rumori e i silenzi delle stanze che le ospitano – risentono della nostra presenza.

Sfida ai modelli; sfida alla stessa idea di Rinascimento. E, ancora una volta – come accade nelle più importanti pagine di riscrittura del canone occidentale – non è affatto scritto che dalla gara il modello esca vincente.

English abstract

Focus on "Rinascimento elettronico" – exhibition displayed in Palazzo Strozzi, Firenze (May/July 2017). Bill Viola uses videos to explore the phenomena of sense perception as paths to self-acknowledgement. His works target universal human experiences—birth, death, and the unfolding of consciousness—and have roots in both Eastern and Western art, as well as spiritual traditions, including Zen Buddhism, Islamic Sufism, and Christian mysticism. Using the inner language of subjective thoughts and collective memories, his videos communicate to a wide audience, allowing viewers to experience the work directly, and in their own personal way.

keywords | Exhibition; Viola; Review; Contemporary art.

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2017.146.0011