"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

150 | ottobre 2017

9788894840261

Ninfa diabolica

Sulla revenance dell’immagine

Raoul Kirchmayr

English abstract

1 | Pieter Bruegel il Giovane (attr.), Le tentazioni di Sant’Antonio Abate, olio su tavola, 1616c., Galleria Nazionale di Palazzo Spinola, Genova.

1. Cecità di Freud – Gradiva come Ninfa

La Gradiva di Freud è uno degli avatar della Ninfa warburghiana. Tanto Freud quanto Warburg, infatti, hanno isolato questa figura sfuggente e molteplice, facendone un peculiare oggetto d’indagine. Possiamo così parlare di una singolare prossimità tematica e cronologica tra le ricerche storiche e le impasse metodologiche di Warburg, da una parte, e l’analisi compiuta da Freud del racconto di Jensen, pur con tutte le sue incertezze ermeneutiche, dall’altra. Come la Ninfa si trasforma e si moltiplica sotto lo sguardo dello storico dell’arte, così la Gradiva si sdoppia in uno strano gioco di specchi rovesciati nel quale i movimenti rapidi della Ninfa ritmano una danza di apparizioni e di scomparse. Gradiva è sfuggente, e Freud pare saperlo, fin d’entrée de jeu. Da qui la sua strategia ad anticiparne le mosse analizzando quel peculiare continuum tra sogno e veglia che caratterizza il flusso di pensieri del protagonista del racconto, il giovane archeologo-filosofo Norbert Hanold. Hanold insegue l’immagine di Gradiva come si insegue il fantasma sorto dalle proprie fissazioni, e il racconto non è che la parabola di tale inseguimento, nel quale il desiderio per ciò che è morto (il bassorilievo raffigurante Gradiva) – un passato ormai sepolto che non intende però lasciarsi interrare per sempre – lascia il posto al desiderio di ciò che è vivo (Zoe, amata in carne e ossa).

Freud, come Warburg, è ossessionato dalla Ninfa déguisée. Il resoconto della sua lettura del racconto di Jensen è anche una confessione taciuta a metà e a metà pronunciata. “Nella sua lettura di Gradiva di Jensen, Freud confessa la sua ossessione. Se ne difende senza difendersene. Si divide lui stesso, se così si può dire, nel momento in cui vuole render conto dell’ultima evoluzione della follia (Wahn) di Hanold, la follia ossessionata di un altro – e di un altro in quanto personaggio di finzione” (Derrida [1995] 2005, 104). La follia del personaggio di finzione non è per Freud solo ciò che dev’essere analizzato, ma è anche, più sottilmente, il legaccio di una trappola. Per mettere in trappola Gradiva, Freud la insegue per interposto personaggio. Hanold insegue Gradiva e Freud segue Hanold con lo sguardo lungo le svolte del racconto, pronto a riconoscere le forme del suo delirio e i contenuti dei suoi sogni, per poter attribuire così a Gradiva la sua “reale” identità, premio della caccia.

Però questa operazione non coincide con uno smascheramento di Gradiva: in effetti, dietro la sua immagine, proveniente da un tempo immemore, non si cela alcunché. Se qualcosa vi è di celato e di misterioso, è perché Hanold proietta su di lei i suoi desideri inconsci. Così, quando Freud ne segue le apparizioni, al tempo stesso ascolta il battito del desiderio di Hanold, un desiderio che è ancora ignoto al protagonista. A ogni apparizione, una proiezione; a ogni apparizione, un passo in avanti (di Hanold) verso l’oggetto del suo desiderio. A ogni passo verso una Gradiva sempre meno fantasma e sempre più giovane donna “reale”, un passo dentro di sé, verso i recessi del proprio desiderio. Si tratta quindi di constatare con Freud che il racconto è un teatro dell’immaginario in cui le movenze di Gradiva, con il suo passo sincopato e le sue entrate e uscite di scena, sono gli effetti di un desiderio rimosso. E il premio è, alla stessa stregua del culmine d’una rappresentazione comica, un’agnitio che avviene pronunciando i nomi: risolvere il mistero di Gradiva significa dunque attribuirli correttamente, e riconoscere infine, con Jensen, che “Bertgang equivale a Gradiva” (Freud [1906] 1981, 288).

Tuttavia, Freud segue anche un’altra strategia di lettura, che non è guidata dalla sua ossessione né dal desiderio, il suo, di catturare l’immagine di Gradiva. Analizzando i deliri di Hanold, Freud non si limita a saggiare la consistenza dell’immagine di Gradiva, a determinarne lo status quale entità immaginaria od oggetto reale. “Con l’apparizione di Zoe Bertgang quale Gradiva, che segna il punto di massima tensione del racconto, anche il nostro interesse prende una direzione nuova”, scrive Freud ([1906] 1981, 314). Infatti, nel momento in cui la figura comincia a perdere il grigiore della sua silhouette incisa in un bassorilievo per acquisire i colori della vita, essa si scinde e la sua progressiva ma inesorabile trasformazione in Zoe Bertgang permette l’identificazione inaudita tra Freud e la fanciulla. Infatti, orecchio prestato ai discorsi deliranti di Hanold, Zoe è a sua volta psicoanalista. “Il procedimento fatto seguire dal poeta alla sua Zoe per la cura del delirio del suo compagno di fanciullezza presenta una straordinaria somiglianza, anzi coincide completamente nella sua essenza, con un metodo terapeutico che è stato introdotto nella medicina nel 1895 dal dottor Breuer e dall’autore del presente scritto, e al cui perfezionamento quest’ultimo si è dopo di allora dedicato” (Freud [1906] 1981, 330). La proiezione identificante di Freud non è affatto neutra, come si potrebbe credere, perché induce invero a una doppia cecità: Freud vede bene quella figura, ma non ne riconosce i tratti distintivi. Così egli smette di vedere Gradiva (come Hanold, d’altronde), sia quando egli stesso la convoca grazie all’esempio fornito dalla tela di Rops, sia quando nel finale del racconto non ne coglie l’ulteriore trasformazione à rebours, con cui agli occhi di Hanold Zoe torna a essere Gradiva.

Cerchiamo di comprendere la portata della cecità di cui Freud è affetto: essa non è solamente dettata da una lettura del racconto di Jensen tutta concentrata sulle dinamiche del desiderio del giovane protagonista o sul decorso del delirio indotto dall’oggetto desiderato, ma riguarda più da vicino ciò che Freud stesso vede e non vede nella figura di una Gradiva che progressivamente si metamorfizza, perdendo il suo carattere di cosa antica fatta rivivere dal desiderio e acquisendo la forma di donna in carne e ossa. La perversione feticista di cui Hanold soffre fa tutt’uno con la revenance di Gradiva. Ma la cattura di Gradiva revenante per mezzo della diagnosi dei deliri di Hanold coincide pure con la dissipazione del mistero della sua provenienza: ella è sempre stata là, nei pressi del protagonista, quanto mai prossima, eppure dimenticata e sostituita dalla passione per l’archeologia. In Freud la volontà di dissipare il mistero di Gradiva-Ninfa equivale a un gesto di distanziamento e di esorcismo. Lo scongiuro degli spettri è in atto.

In secondo luogo, c’è anche un’altra cecità da cui Freud è affetto. Il riferimento alla Tentazione di Rops ch’egli fa nella sua interpretazione del racconto di Jensen non è che un anello in una lunga catena di citazioni. Il fatto che Freud illustri il meccanismo della rimozione attraverso l’immagine di Rops denuncia la persistenza di un tema, quello della tentazione del santo, che attraversa tanto la pittura quanto la letteratura del XIX secolo e che apparentemente mal si sposa con il problema dell’ossessione per un’immagine. Ciò che mi sembra essere finora sfuggito all’analisi è che la scelta di Freud potrebbe aver risentito della passione con cui gli artisti della seconda metà dell’Ottocento, in particolare i simbolisti, hanno affrontato il soggetto. Perciò Freud potrebbe avrebbe attinto a un immaginario dai riferimenti iconologici e simbolici pluristratificati. Il soggetto che ne emerge può essere a tutti gli effetti considerato come un nodo nel complesso gioco di rimandi intertestuali cui danno vita le molteplici rappresentazioni della Tentazione.

Inoltre, ciò che colpisce è che, nella breve descrizione del dipinto da parte di Freud, la figura soggetta a una peculiare cecità ermeneutica sia esattamente quella della Ninfa crocifissa. Allo sguardo di Freud ciò che Rops ha dipinto non è una Ninfa, ma è semplicemente una donna, come se l’esempio fosse giocoforza soggetto al principio di realtà. L’analisi di Freud si ferma al piano letterale, non cogliendo di quella figura l’importanza allegorica e simbolica né, tantomeno, la sua appartenenza a una lunga genealogia d’immagini. Ciò che a Freud è sfuggito è proprio il fatto che il suo esempio, portato a illustrare il meccanismo della rimozione, fa comparire in immagine l’oggetto del suo inseguimento, come se Gradiva-Ninfa beffardamente facesse capolino sulla scena dell’interpretazione nel punto in cui Freud scioglie l’enigma del desiderio di Hanold. Un immaginario, il suo, gli fa collocare la Ninfa nel luogo testuale in cui si dà spiegazione del desiderio rimosso, cioè la verità del desiderio del protagonista. Tuttavia, questo è anche il luogo di un raddoppiamento inaudito, perché non solo ne va del desiderio di un personaggio di finzione, ma forse addirittura della verità stessa come spettrale:

[...] questa verità è rimossa o repressa. Ma resiste e ritorna, come verità spettrale del delirio o dell’ossessione. Ritorna alla verità spettrale. Delirio o follia, l’ossessione non è soltanto ossessionata da questo o da quel revenant, Gradiva ad esempio, ma dallo spettro della verità così rimossa. La verità è spettrale, ecco la sua parte di verità irriducibile alla spiegazione (Derrida [1995] 2005, 107).

La caccia di Freud fallisce, eppure ha successo: perdendo di vista l’immagine di Gradiva, egli ne avrebbe tuttavia colto la verità, grazie al ritmo dell’apparizione e della scomparsa. Non soltanto verità del rimosso, dunque, ma verità della revenance di ogni fantasma che si rende visibile. Detto con una parola del lessico di Warburg, la verità del Nachleben.

2. Le tentazioni di Flaubert

Warburg ha tramutato nella vocazione della ricerca iconologica il tema della 'rinascita' dell’antico, cui appartiene di diritto la lettura della Gradiva da parte di Freud, che a sua volta si innesta su delle sequenze testuali ben definite. Interrogandoci sui limiti dell’esempio impiegato da Freud e aprendone l’interpretazione abbiamo infatti messo in rilievo le sequenze testuali nelle quali è possibile riconoscere due concatenazioni: la prima da Heine porta a Gautier (Kirchmayr 2012) e afferma il Nachleben delle divinità pagane; la seconda porta da Jensen a Freud e racconta la riapparizione della Ninfa nel quadro della revenance degli antichi dei, secondo un movimento che non è la semplice contraddizione della loro scomparsa, ma è la configurazione di un regime discorsivo e di visibilità che chiamiamo sinteticamente 'spettralità'.

Se il primo movimento afferma il ritorno e la riapparizione degli dei pagani, implicando così il loro andirivieni tra il visibile e l’invisibile sulla scena della storia, il secondo riconosce un’assenza storica che non potrà più essere colmata: ciò che si è reso invisibile, ciò che è scomparso non riapparirà più in presenza. La relazione tra la revenance e la scomparsa non può ridursi alla semplice contraddizione, perché c’è anche una scomparsa che non è definitiva, ultima, irrimediabile, ma che segue invece un andamento carsico del tempo storico. In questo senso la revenance accompagna la scomparsa come la sua ombra o il suo doppio, e non come il suo opposto. Ciò che è scomparso può riapparire. Solo, esso riapparirà non più come presenza, ma come spettro.

Ora, vediamo che il tema della revenance degli antichi dei si articola a quello della loro scomparsa in riferimento a un’ulteriore diramazione rispetto a quella che avevamo seguito, da Heine a Freud (v. Kirchmayr 2012), dal momento ch’essa trae la sua origine da un’altra fonte, cioè il dipinto attribuito a Pieter Bruegel il Giovane, intitolato Le tentazioni di Sant’Antonio Abate [fig. 1], opera che si ritiene successiva al 1616 (v. Castelli 2007, 79 e tav. 45 del catalogo iconografico; Castelli indica il dipinto solo come opera della Scuola di Pieter Bruegel).

La tela era appartenuta alla collezione di Francesco Maria Balbi ed era conservata nel palazzo Spinola di Genova, dove nel 1845, durante il suo viaggio in Italia, Gustave Flaubert ebbe l’occasione di ammirarla. La visione del quadro colpì Flaubert a tal punto ch’esso diventò fonte d’ispirazione per la stesura, lunga e tormentata, del racconto omonimo, terminato molti anni dopo, nel 1872, e dato alle stampe nel 1874.

A ogni modo, il riconoscimento della principale tra le fonti della Tentazione flaubertiana va al di là di una questione di ordine filologico, poiché la scrittura del racconto e l’immaginario che vi è messo in scena entrano in una relazione di analogia con la pittura. “La Tentazione si legge volentieri come il protocollo di una fantasticheria liberata. Sarebbe per la letteratura quel che Bosch, Brueghel o il Goya dei Capricci hanno potuto essere per la pittura” (Foucault [1966] 1971, 136]. In questo racconto, dice Foucault, “Flaubert stesso invoca follia e fantasmi” (ibid.).

Per molti versi il cuore del racconto può essere ritrovato nel VI capitolo della sua Tentazione, dove – in un passo conclusivo – Flaubert mette in bocca al demonio un’affermazione che esprime la contraddizione tra la fede e la scienza. Il passo appare inoltre consonante con il progetto nietzschiano di distruzione della metafisica. Il diavolo qui è la raffigurazione – già goethiana – della scienza, la quale ha demolito le credenze ereditate dalla storia della cultura occidentale. Dopo aver dichiarato la scomparsa di ogni fondamento, tanto soggettivo quanto oggettivo (la forma e la sostanza), il demonio enuncia la verità dell’apparenza e la realtà dell’illusione, quasi un’anticipazione del frammento “Storia di un errore” contenuto nel Crepuscolo degli idoli (v. Nietzsche [1889] 1994). È il demonio “nello splendore della sua verità” colui che determina l’ordine delle apparizioni che tormentano l’eremita. “È lui che serve da corifeo al sapere occidentale: guida da prima la teologia e le sue infinite discussioni; poi risuscita le antiche culture con le loro divinità presto ridotte a cenere; poi instaura la conoscenza razionale del mondo; spiega il movimento degli astri e la potenza segreta della vita” (Foucault [1966] 1971, 147). Inoltre, occorre anche riconoscere che, nell’orizzonte nichilistico così evocato dalle parole del demonio e con l’affermazione della sola verità dell’apparenza, ciò che acquisisce una forma spettrale è dio. Si tratta di un ribaltamento prospettico: il cristianesimo come forza che era stata in grado di assoggettare il pantheon delle divinità pagane, conservandole nel suo seno come entità demoniche, è ora spodestato da una forza maggiore, quella della scienza, che si presenta sotto vesti diaboliche. Le parole che pronuncia questa figura sono quelle della verità nascosta del cristianesimo, cioè del suo nucleo che infine si mostra interamente alla luce della storia mediante un movimento di auto-decostruzione (v. Nancy [2005] 2006).

La Forma è forse un errore dei tuoi sensi, la Sostanza una immaginazione del tuo pensiero.
A meno che, essendo il mondo un perpetuo flusso delle cose, l’apparenza non sia quanto v’è di più vero, e l’illusione la sola realtà!
Ma, tu, sei sicuro di vedere? sei sicuro di vivere? Forse non v’è nulla!
Il Diavolo ha preso Antonio; e, tenendolo a braccia tese, lo guarda, le fauci spalancate, pronto a divorarlo.
Adorami, dunque! e maledici il fantasma che chiami Dio!
Antonio alza gli occhi, in un ultimo moto di speranza.
Il Diavolo lo abbandona (Flaubert [1874] 1967, 500-501, con modifiche).

L’ingiunzione a “maledire il fantasma chiamato Dio” è la sintesi di un programma che consiste nel distruggere le credenze e le illusioni. Di tale programma il diavolo è l’artefice e il rappresentante. La sua voce, non c’è dubbio, è la voce della scienza che ha il potere di dissolvere la superstizione e di cancellare gli antichi valori (Orr 2008, 189-206). L’ingiunzione del demonio implica un ulteriore momento nella dialettica dei ribaltamenti dei valori e delle credenze: come gli dei pagani furono detronizzati dal cristianesimo, così il cristianesimo è spodestato dalla scienza. La Tentazione mette in scena quel dramma storico di cui il cristianesimo è il soggetto.

In questa contrapposizione di forze avverse l’una all’altra la figura del demonio si presenta indossando dunque un’ulteriore maschera. Se la linea che – da Heine a Gautier – riconosce nel demonio la forma sopravvivente delle divinità pagane, la linea in cui dev’essere collocato il testo di Flaubert è senza dubbio quella che si diparte dal Faust di Goethe, dove il demonio è personificazione del titanismo dell’uomo e della sua volontà di sottomettere le forze della natura. L’elaborazione del motivo della tentazione da parte di Flaubert mostra allora la contemporanea presenza di più motivi simbolici e allegorici, e di più riferimenti testuali, che precipitano tutti nel tema dell’apparizione dei fantasmi e della loro scomparsa, dissipati dalla luce nera del nichilismo. Più che riconoscere nella rinascita dell’antico un movimento di frattura della continuità storica, Flaubert nella Tentazione denuncia il tramonto contemporaneo del paganesimo e del cristianesimo, inghiottiti dalla modernità.

Non vi è esorcismo più efficace di quello compiuto dalla scienza, senonché esso stesso non è che la conseguenza dell’azione del demonio. Rovesciamento di prospettiva e funzione dissolvitrice di tutti i valori esercitata dal demonio/scienza: è così che per il santo protagonista del racconto “la scomparsa dei fantasmi più avversi alla sua fede, lungi dal confermare l’eremita nella sua religione, la distrugge poco a poco e finalmente la sottrae […], e gli dei morendo avvolgono nella loro notte un frammento dell’immagine del vero Dio” (Foucault [1966] 1971, 151]. Il racconto di Flaubert consegna dunque al lettore il paradosso di un demonio che suscita un corteo di apparizioni e di immagini allo scopo di persuadere il santo che nulla di ciò che aveva alimentato la fede degli uomini fosse degno di credenza. Nulla rimane, e gli dei antichi svaniscono una volta per tutte.

2 | Odilon Redon, La Mort: C'est moi qui te rends serieuse; enlaçons-nous da La Tentation de Saint-Antoine (terza), litografia, 1896.

3 | Odilon Redon, Je suis toujours la grande Isis! Nul n'a encore soulevé mon voile! Mon fruit est le soleil! da La Tentation de Saint-Antoine (terza), litografia, 1896.

4 | Fernand Khnopff, La tentazione di Sant'Antonio, collezione privata, 1883.

3. Le ninfe diaboliche di Méliès

Ispirandosi al racconto di Flaubert, George Méliès, nella sua La tentazione di Sant’Antonio (La Tentation de Saint Antoine), oltrepassa il paradosso e fa scomparire il demonio dalla scena. Ventiquattro anni separano la pubblicazione della Tentazione flaubertiana dall’omonimo cortometraggio di Méliès, che risale al 1898. Non che il soggetto non avesse conosciuto nel frattempo altre raffigurazioni, tra le quali quelle dello stesso Rops, di Theodore Chasseriau e di Odilon Redon, che nel 1896 dà alle stampe l’ultimo di tre diversi progetti litografici realizzati a partire dal 1888 e ispirati al racconto di Flaubert. Di queste serie la seconda era stata espressamente dedicata allo scrittore e la terza porta il titolo di La Tentazione di Sant’Antonio (Hauptman 2005, 89-90). In essa si trovano delle figure femminili i cui tratti del volto, quando emergono dal chiaroscuro inquieto di Redon, non appartengono più al mondo umano. Sono creature umbratili e sfigurate, mentre il demoniaco lascia il campo della rappresentazione e si confonde con la trasfigurazione stessa del volto, che giunge fino alla cancellazione dei lineamenti. Ciò che resta in evidenza è il corpo nudo, inondato dal bianco della litografia – così come in una tela del simbolista Fernand Khnopff, dove la tentazione è raffigurata come un testa-a-testa tra il santo e una densa chiazza di luce giallastra che elimina dalla scena ogni altra presenza (fig. 4) –, quasi a significare la persistenza dell’oggetto del desiderio in una forma tuttavia non più desiderabile perché aliena al mondo umano, come nell’allegoria della Lussuria della lastra 20, intitolata La Mort: C’est moi qui te rends sérieuse: Enlaçons-nous, dove il viso della donna afferrata dalla Morte assume una fisionomia pressoché animale, quasi una forma intermediaria tra la fine di tutte le cose e la loro venuta al mondo. “La Lussuria e la Morte guidano la ronda dei viventi, senza dubbio perché esse rappresentano la fine e la ripresa, le forme che si sfanno e l’origine di tutte le cose” (Foucault [1966] 2001, 146]. Oppure il volto è semplicemente velato dall’inchiostro nero che ne rende irriconoscibili le fattezze, come nella lastra Je suis toujours la grande Isis! (fig. 2 e 3), pur mettendo in evidenza la nudità del corpo.

Il breve film di Méliès – una pellicola della durata di circa un minuto – rappresenta in maniera efficace e ironica i tormenti e le passioni del santo. Méliès trasse di certo ispirazione dal racconto di Flaubert e ne conservò l’ambientazione (la caverna di pietra, il libro), ma della fantasmagoria di divinità che sfilano davanti agli occhi di Sant’Antonio non rimangono che alcuni elementi simbolici tra i quali, in primo luogo, l’apparizione della Ninfa come oggetto di desiderio. Infatti, il corteo di divinità e di figure del mondo pagano che compaiono in visione al santo si riduce alla sola apparizione di alcune silhouette femminili, che tuttavia portano con sé una serie di riferimenti iconologici, il primo dei quali è per l’appunto quello alla Ninfa. Inoltre, il cortometraggio di Méliès trascura del tutto ciò su cui Flaubert aveva imperniato il suo testo, cioè il rapporto tra fede e sapere.

Se si adotta una prospettiva iconologica si può perfino avanzare l’ipotesi che il film di Méliès sia una riproduzione dinamica dell’acquaforte di Rops (v. Malthête [1991] 1992, 226). Invece, è riconosciuto l'interesse di Méliès per il sovrannaturale e il demoniaco, però considerati come manifestazione del meraviglioso: la figura di Mefistofele, che compare tanto in la Damnation du docteur Faust, quanto in Le Roi de maquillage, entrambi del 1904, è infatti ispirata dal gusto per il favoloso più che dalla volontà di dare corpo al mito di Faust (v. Costa 1997, 166).

A ogni modo, tanto rispetto alla fonte nota, cioè il racconto di Flaubert, quanto rispetto a quella dubbia, l’acquaforte di Rops, la sequenza apporta alcune significative variazioni sul tema.

Tali variazioni dipendono tutte dal modo in cui appare sulla scena l’oggetto del desiderio con la sua forza perturbante. Come nell’opera di Rops ma diversamente da essa, l’apparizione è diabolica: l’autentica natura della Ninfa crocifissa si svela in corrispondenza della scomparsa del demonio dalla scena e dopo una moltiplicazione della figura femminile. Quel diavolo che Freud trascurerà nella sua descrizione del dipinto, nel film di Méliès era infatti già letteralmente scomparso, quasi a confermare la prescrizione hegeliana sull’inopportunità di mettere in scena il diabolico in quanto sommamente prosastico, essendo questa una “figura cattiva ed esteticamente inutilizzabile” (eine schlechte, ästhetisch unbrauchbare Figur) (Hegel [1835-1838] 1989, 288). Ma, come abbiamo visto, non si tratta solo di un’indicazione stilistica cogente: anche la figura del demonio è soggetta a una strana alternanza di presenza e assenza, un’oscillazione che ne fa un’immagine instabile, al pari di quella della Ninfa.

Se l’acquaforte di Rops si struttura in due tempi (l’apparizione della Ninfa sulla croce e il capolino del diavolo dietro il corpo della Ninfa), la Tentazione di Méliès è articolata su una sequenza in più tempi: l’apparizione della Ninfa tentatrice, il suo sdoppiamento prima e la sua triplicazione poi; quindi la sostituzione (momentanea) del Cristo crocifisso con la figura della Ninfa e, infine, l’apparizione della ninfa come angelo.

5-9 | George Méliès, La tentazione di Sant’Antonio, cortometraggio, 1898, fotogrammi 00:03-00:27

Vediamo in dettaglio i quattro tempi. Il primo (00:03 – 00:10, fig. 5) è dato dalla rappresentazione del santo in una grotta, il suo rifugio d’eremitaggio. Sant’Antonio è vestito con un saio, il capo coperto. Una brocca e un torso di pane, collocati su una pietra che occupa l’asse mediano dell’immagine, simboleggiano la sua povertà e la sua scelta di allontanarsi dal mondo. Un grande crocifisso si allunga dal basso in alto nella parte sinistra dell’immagine, un teschio è posto ai piedi del Cristo.

Il santo è seduto ai piedi della grande croce, compie dei gesti di devozione, battendosi il petto e sprofondando nella lettura delle Sacre Scritture, per cercarvi conforto. Possiamo immaginarlo già vittima dei suoi desideri terreni, se ipotizziamo, con Foucault, che l’immaginario scatenato dell’eremita è il prodotto stesso della lettura del libro: “quello che passa per fantasma non è niente di più che un insieme di documenti trascritti: disegni o libri, figure o testi” (Foucault [1966] 1971, 148). Il secondo tempo è scandito dalla prima apparizione del diavolo sotto forma di ninfa (00:11 – 00:18, fig. 6), la quale spunta all’improvviso ai piedi della croce, seduta dal lato opposto rispetto al teschio.

La fanciulla, vestita con un peplo bianco, tocca il santo per mostrarsi in carne e ossa ai suoi occhi. Sant’Antonio si schermisce, volgendole le spalle e facendo dei gesti di scongiuro, sotto lo sguardo divertito della Ninfa sorridente. Nel terzo tempo (00:19 – 00:27, fig. 8) il santo si guarda attorno per accertarsi che l’apparizione diabolica sia scomparsa e per riprendere le sue letture devozionali. Si accomoda sullo sgabello in legno, al centro della scena, sulla quale irrompono all’improvviso due figure femminili, che letteralmente lo circondano, collocandosi l’una alla sua sinistra e l’altra alla sua destra (00:27, fig. 9).

10-14 | George Méliès, La tentazione di Sant’Antonio, cortometraggio, 1898, fotogrammi 00:27-00:53

Entrambe lo accarezzano e lo toccano, causandone così una reazione più intensa e marcata (00:27 – 00:35, fig. 10). Tale reazione si compendia nella ricerca del teschio posto accanto al Cristo. Questo simbolo della vanitas, della fugacità delle cose terrene, in questo caso rappresenta anche la fuggevolezza del desiderio rispetto alla morte. Sant’Antonio bacia il teschio. Tuttavia, con una prima potente sostituzione simbolica, questo significante della morte è rimpiazzato dalla Ninfa come significante della vita. Prendendo il posto del teschio, la Ninfa simboleggia così la forza della vita che si impone contro la necessità della morte (00:42, fig. 11-13).

15-17 | George Méliès, La tentazione di Sant’Antonio, cortometraggio, 1898, fotogrammi 00:53-00:56

La riapparizione della seconda Ninfa è quindi seguita dalla riapparizione della terza. Tutte e tre le Ninfe circondano nuovamente il santo. Prendendosi per mano, le figure femminili danzano in girotondo (00:53 – 00:56, fig. 15-17).

18-22 | George Méliès, La tentazione di Sant’Antonio, cortometraggio, 1898, fotogrammi  00:53-00:57

23 | Sandro Botticelli, La Primavera, tempera su tavola, 1482c., Galleria degli Uffizi, Firenze.

Le tre figure femminili danzano attorno all’eremita, coperte da veli che lasciano indovinare le loro forme. Dai movimenti della loro danza, dal girotondo che compiono dinnanzi agli occhi del santo, si potrebbe supporre che esse siano la trasformazione delle tre Grazie, così com’esse sono rappresentate nella consueta iconologia (fig. 18-22; v. Starobinski 1994) che, com’è noto, si ritrova tra l’altro nella Primavera di Botticelli analizzata da Warburg (fig. 23; v. Warburg [1893] 2003). Tre potenti elementi iconologici sono dunque contemporaneamente presenti nei fotogrammi dell’ultime sequenza: il crocifisso, la Ninfa al posto del Cristo, le tre grazie in girotondo.

24-28 | George Méliès, La tentazione di Sant’Antonio, cortometraggio, 1898, fotogrammi 00:57-01:07

La danza delle Ninfe-Grazie spinge Sant’Antonio ai piedi della croce, per invocare il Cristo (fig. 24; 00:57 – 1:00). Ma alla sua preghiera segue un’ulteriore apparizione, che ritma il climax delle manifestazioni demoniache: quella della Ninfa sulla croce (fig. 25; 1:00) che, esattamente come nell’acquaforte di Rops, prende il posto del Cristo, spodestandolo. La sequenza continua mostrando la Ninfa che scende dalla croce, mentre contemporaneamente – al polo opposto della scena e simmetricamente alla croce – appare la Ninfa angelica (fig. 26; 1:02), che viene indicata con il dito dalla Ninfa crocifissa (fig. 27; 1:04). Quest’ultima scompare un istante dopo, affinché si dia un’immagine di sintesi negli ultimi fotogrammi, con la ricomparsa del Cristo sulla croce (a sinistra) che accompagna la Ninfa angelica sulla destra (fig. 28, 1:05-1:07).

La conclusione della sequenza sancisce dunque la sconfitta della tentazione: la potenza demoniaca, che si è mostrata nella sua proliferazione di figure femminili, è soggetta a una Aufhebung dialettica che ha comportato la messa a regime e la 'positivizzazione' del negativo. L’immagine di sintesi finale illustra la potenza della sublimazione: il desiderio è conservato, ma al tempo stesso spostato su un oggetto più elevato (l’angelo) che fa da figura intermediaria tra il mondo della salvezza (il Cristo crocifisso) e il mondo della perdizione (le Ninfe), tra il cielo del cristianesimo e il mondo sotterraneo dei culti pagani.

29 |  Félicien Rops, La Tentation de saint Antoine, pastello, 1878, Bibliothèque royale de Belgique, Bruxelles.

Se si paragona la versione di Méliès della Tentazione a quella di Rops (fig. 29), ritroviamo due dinamiche pulsionali differenti: nella prima c’è sublimazione, nella seconda rimozione. Tuttavia, in entrambi i casi la ninfa appare come una figura di sintesi: nel primo caso, infatti, essa si presenta con i tratti dell’angelo, incorporandoli; nel secondo caso è raffigurata al posto del Cristo, che è spodestato dalla croce, ma sospinta dalla forza opposta del demoniaco. Si può anche osservare che la sequenza di Méliès aggiunge all’acquaforte di Rops un’ulteriore scena, quella finale dell’apparizione della Ninfa angelica, ultima trasformazione della Ninfa susseguente alla sua moltiplicazione.

Il movimento finale del film di Méliès è particolarmente interessante perché non introduce una semplice coda alla sequenza, ma produce un effetto à rebour sul suo senso. Il cortometraggio, infatti, mostra l’ossessionante revenance della figura della Ninfa, perfino moltiplicata. Quando Freud discute della funzione del sintomo nella Gradiva facendo ricorso all’acquaforte di Rops, si limita a impiegare l’immagine come illustrazione della funzione economica del sintomo e del rapporto tra il rimosso e la forza rimuovente. Se leggiamo Freud dopo Méliès, non possiamo non riconoscere che i tempi della moltiplicazione/trasformazione della Ninfa rendono più complessa la logica apparenza/verità che orienta la lettura sintomale di Freud.

Méliès, infatti, procede al di là di Freud sia quando inserisce la sequenza del girotondo, sia quando chiude il racconto con l’immagine di sintesi che va a completare le sequenze precedenti. Con la sequenza del girotondo, Méliès mostra il doppio legame tra la Ninfa e le Grazie, non tanto nel senso che le Grazie rappresenterebbero un rilancio della forza seduttiva del diavolo – completamente rimosso dalla scena nel cortometraggio – di fronte alla resistenza del santo eremita, quanto nel senso che le Grazie rappresentano una moltiplicazione differenziale – e per questo diabolica – della figura della Ninfa.

Da questa angolatura ermeneutica, il diavolo non è e non può essere la verità della Ninfa: al contrario, esso non è che una delle forme con cui si presenta la forza produttiva delle immagini, assieme alla loro capacità di migrazione e di disseminazione. Inoltre, la moltiplicazione della figura della Ninfa nel girotondo delle Grazie fa emergere un tratto ulteriore: se le Grazie sono l’allegoria della potenza generosa e donatrice, la Ninfa ne è ugualmente il luogotenente manifesto, come Warburg riconosce nella tavola 42 di Mnemosyne, grazie alla quale individua i legami segreti tra figure apparentemente distanti e le polarità che distribuiscono tali figure in coppie oppositive. Pertanto, per quanto le ricerche di Warburg siano in effetti contemporanee alla nascita del cinema (Agamben 2007, 23), il cortometraggio di Méliès ci porta a pensare un elemento che non emerge a sufficienza né in Warburg né in Freud: la Ninfa non è un tipo di immagine ricorrente, che si presenta per mezzo di variazioni che intervengono lungo il corso storico (come aveva pensato in un primo tempo Warburg), né la figura eminente del desiderio rimosso, prodotto dello scontro tra forze contrapposte (come ritiene Freud). Piuttosto, essa rifiuta di essere ricondotta a un singolo pattern, dal momento che è potenza figurale e forza figuratrice che ritorna e, per mezzo della sua revenance (leggi: il suo Nachleben), essa si diffrange, contemporaneamente una e molteplice, seducente e angosciante.

Ciò che emerge da queste sequenze che in parte si incrociano, in parte si sovrappongono, in parte si concatenano attraverso un gioco di rimandi e di variazioni, è che la Ninfa moderna non è affatto scomparsa, condividendo con ciò il destino degli antichi dei pagani, ma vive un’esistenza umbratile, come fantasma che ricomparirà nuovamente sulla scena della letteratura e delle arti visive del Novecento. Non essendo affatto scomparsa dal mondo moderno (secondo la tesi del definitivo tramonto degli antichi dei e come segno della definitiva secolarizzazione della nostra civiltà; v. Didi-Huberman [2002] 2004), essa si ripresenta come figura del corpo femminile soggetta a migrazioni e a spostamenti.

Siamo nel solco della revenance delle divinità pagane, del loro Nachleben come loro ritorno spettrale: il rapporto con il sacro non si è esaurito, ma ha acquisito altre forme che dicono dell’invisibilità del diabolico, dell’apparizione dell’oggetto del desiderio, della persistenza del fondo pagano-dionisiaco nella civiltà moderna e cristiana ma che, soprattutto, mettono sulle piste di un concetto di verità spettrale. Per inciso, è qui che Warburg incontra tanto Nietzsche quanto Freud, cioè nel momento in cui si è saputo sporgere verso quel margine del visibile che, con la sua oscurità, costituisce la matrice da cui si generano le immagini fantasmatiche degli dei pagani.

4. Revenances. L’immagine oltre la rappresentazione

Ci si può chiedere se è possibile pensare l’enigma della Ninfa in modo tale da reinquadrare le precedenti letture, mostrando per quali ragioni esse non ne hanno colto che aspetti limitati, con la conseguenza che le risposte fornite alla fine riducono la figura della Ninfa a una formula. Nel caso di Warburg si tratta letteralmente di una Pathosformel, di una “formula di pathos” che è determinata dalla bipolarità degli opposti (la Ninfa come al tempo stesso figura della vita e della sofferenza, della vita e della morte). Qui si potrebbe pure aggiungere che neppure il ricorso a una concezione di “immagine dialettica”, come quella sviluppata da Walter Benjamin, pare offrire una chiave sufficiente per venire a capo dell’enigma della Ninfa. Se, infatti, l’immagine dialettica è pensata come quella polarità che crea una tensione essenziale tra gli opposti, conservandoli e mai superandoli in una sintesi superiore (e l’immagine è esattamente questa tensione resa visibile), allora rimane ancora da spiegare che nel caso della ninfa c’è un invisibile che pare ancora sfuggire a questo tipo di concettualizzazione.

Se ci rifacciamo al caso di Freud e al suo commento alla Gradiva di Jensen, si può notare che la figura della Ninfa è concepita a cavallo tra l’ordine del visibile (della presenza, della realtà) e l’ordine dell’invisibile (dell’assenza, del mondo sepolto del passato), dove l’ambito intermedio è dato dal sogno e del delirio. Inoltre, la Ninfa è simultaneamente figura dell’inconscio, della vita e dell’analista che emerge dalla contraddizione tra presenza e assenza, nella quale l’imago della Gradiva rediviva svolge il ruolo della mediazione: essa è in altre parole il commutatore da un regime (quello dell’assenza, cioè del delirio e del sogno) a un altro (quello della presenza, cioè della percezione, dominato dal principio di realtà). In queste interpretazioni, che in fondo si basano tutte su uno schema in cui la polarità è sempre definibile e riconoscibile (tanto che possiamo parlare anche nel caso di Freud di una presenza dell’assenza) ciò che viene perso di vista è che la Ninfa non può mai essere fissata una volta per tutte, come si trafigge una farfalla con uno spillo, a completare una collezione che mai potrà dirsi conclusa una volta per tutte.

Infatti, se rimaniamo all’interno di una concezione dualistica dell’immagine, non possiamo fare altro che consegnare l’interpretazione della Ninfa a una fenomenologia della presenza e dell’assenza, accompagnata dalla sua semantica. Tuttavia, ogni “oggettivazione” e ogni “presentificazione” dell’immagine non può che rientrare a pieno titolo in una logica della rappresentazione, che a sua volta rinvia a una metafisica. Se anche Benjamin aveva cercato di sottrarsi a una deriva di questo tipo, certamente non si può venire a capo dell’immagine della Ninfa come 'vita postuma' senza con ciò rivedere quel modello bipolare di dialettica affinato da Benjamin nel Passagenwerk (Benjamin [1927-1940] 2010) e nelle tesi sul concetto di storia (Id. [1940] 1997).

Se si mette in discussione la deriva rappresentativa-metafisica, si può pensare che l’immagine della Ninfa possa anche essere interpretata non come il risultato di una tensione bipolare, ma come l’effetto di un processo economico e differenziale. In questo senso, essa è la sintesi sempre instabile di un gioco di forze inapparenti e, per questa ragione, eccede il regime della rappresentazione. Il suo carattere eccedente – che pertiene al dominio dell’invisibile – non è pertanto riconducibile alla definizione della Ninfa come “immagine dell’immagine” coniata da Agamben (2007, 53-54), il quale pare alludere alla Ninfa come a un’immagine paradigmatica per ogni altra immagine pensata nella sua storicità: “La ninfa è l’immagine dell’immagine, la cifra delle Pathosformeln che gli uomini si trasmettono di generazione in generazione e a cui legano la loro possibilità di trovarsi o di perdersi, di pensare o di non pensare” (ibid.). Un’interpretazione siffatta resta pienamente all’interno della metafisica, con la conseguenza che diventa difficile comprendere quale possa essere il carattere unheimlich riscontrabile nell’immagine della Ninfa. Non è un immagine alla seconda potenza (rappresentazione di rappresentazione), né un modello archetipico dell’immagine (l’essenza o il paradigma dell’immagine), ma è eccedente se stessa, è una immagine-più-che-immagine, ovvero un’immagine in grado di contestare il regime di presenza-rappresentazione in cui tuttavia non può non comparire.

Rispetto al regime di presenza-rappresentazione, l’immagine della Ninfa denuncia un’estraneità. Ricordiamo che fu tale estraneità rispetto alle coordinate storico-culturali, religiose e perfino psicologiche nella Firenze del Quattrocento ad avere messo Warburg sulle piste del carattere anacronico dell’immagine della Ninfa. L’effetto prodotto sullo sguardo dello storico dell’arte può derivare certo dal carattere misterioso della leggiadra silhouette femminile dipinta dal Ghirlandaio, ma può pure essere messo in relazione con un’interrogazione sulla forza di quell’immagine, sulla sua dynamis. Il suo anacronismo, così, non è solo relativo al fatto che tale immagine proviene dall’antichità e si presenta in un soggetto che è tipico della devozione cristiana, ma anche e soprattutto perché l’anacronismo scompiglia la coerenza della rappresentazione, la sua semiologia, il quadro di valori ch’essa rende visibile.

Ciò che l’immagine della Ninfa scuote con la sua forza perturbante è l’ordine metafisico della rappresentazione: agisce sì come sintomo, ma non solo e non tanto nel senso di un farsi visibile di una forza rimossa, quanto e piuttosto come forza de-rappresentativa capace di contestare l’ordine all’interno del quale trova collocazione. In presenza della Ninfa siamo dunque al limite dell’ordine della visibilità e certamente al di là del discorso freudiano. Certo, è sempre possibile ricondurre l’immagine della Ninfa all’interno dei limiti di una metafisica della rappresentazione mediante un’operazione di chiusura che, pur permettendo la concettualizzazione dell’immagine, ne perde di vista il suo tratto unheimlich. L’Unheimlichkeit è strettamente legata a ciò che chiamiamo la spettralità dell’immagine. Reintegrare l’immagine della ninfa in un ordine di tipo metafisico-rappresentativo significa dunque negarne la spettralità per neutralizzarne gli effetti spaesanti, quegli effetti che – si è già notato – si dispiegano nel carteggio tra Warburg e Jolles e che guidano d’altronde la doppia operazione condotta da Freud, consistente nel convocare gli spettri e nello scongiurarli:

Freud, come è noto, ha fatto di tutto per non dimenticare l’esperienza dell’ossessione, della spettralità, dei fantasmi, dei revenants. Ha tentato di renderne conto. Coraggiosamente, in modo tanto scientifico, critico e positivo quanto possibile. Ma pur facendo questo, ha anche tentato di scongiurarli. Come Marx. Il suo positivismo scientifico si è messo al servizio della sua ossessione dichiarata e della sua paura inconfessata (Derrida [1995] 2005, 104).

E come non sospettare che questo stesso gesto positivistico, che vorrebbe garantire una protezione rispetto alla credenza nei fantasmi e contemporaneamente ricondurli entro l’ambito del logos con un’operazione di scongiuro, non sia analogo a quello di Warburg?

Questo doppio movimento di apertura e di chiusura, di convocazione e di scongiuro – questo strano fort-da che ha scandito il ritmo dell’indagine a coloro che si sono accinti a descrivere l’apparizione spettrale – pare proprio la condizione che permette la comprensione del senso dell’apparizione medesima.

L’oscillazione è riscontrabile anche nell’operazione mediante la quale Agamben pare voler istituire – o, meglio, re-istituire – un ordine metafisico della rappresentazione in relazione alla spettralità. Infatti, il suo trattamento dello spettro punta a fare di quest’ultimo una copia sbiadita di un originale. Seguiamo dunque il ragionamento di Agamben, quando pone in relazione l’immagine e lo spettro, l’immagine e il fantasma, attribuendo alla prima il significato di vita e di pienezza, di mobilità storica e di dinamicità, mentre lo spettro e il fantasma non sarebbero che un derivato, una copia depotenziata e irrigidita dell’immagine, una sua ossificazione che ha perso quasi del tutto il suo rapporto con la storia e, dunque, con la temporalità. Agamben scrive:

Le immagini di cui è fatta la nostra memoria tendono […] nel corso della loro trasmissione storica (collettiva e individuale), incessantemente a irrigidirsi in spettri e si tratta appunto di restituirle alla vita. Le immagini sono vive, ma, essendo fatte di tempo e di memoria, la loro vita è sempre già Nachleben, sopravvivenza, è sempre già minacciata e in atto di assumere una forma spettrale. Liberare le immagini dal loro destino spettrale è il compito che […] Warburg – al limite di un essenziale rischio psichico – [affida] […] alla sua scienza senza nome (Agamben 2007, 22). 

L’impalcatura logica del discorso è molto chiara e prende la forma di un rapporto mimetico: da un lato l’immagine e la vita (una vita che è “sempre già Nachleben, sopravvivenza”), dall’altro lato lo spettro come irrigidimento dell’immagine stessa, della memoria e del tempo. Lo spettro mima l’immagine (cioè la vita come Nachleben) e per questo ne è una degradazione, pure in termini di degradazione della memoria, e dunque di oblio. La conseguenza è che occorre “liberare” le immagini dal loro doppio, cioè dallo spettro, ed è questo il compito che Agamben ritrova in Warburg.

Se, da un lato, Agamben riprende il senso del programma culturale warburghiano, dall’altro lato, non sembra trarre alcune conseguenze relativamente alle sue deviazioni possibili e ai suoi effetti. Certamente, da uomo di formazione e cultura positivistica quale Warburg fu, tale programma fu improntato alla riattivazione delle risorse del logos contro le derive irrazionalistiche della contemporanea cultura occidentale, ma è altrettanto certo che la lotta da lui intrapresa lo costrinse ad attraversare il territorio del mito e del simbolo fino a giungere alla frontiera delle potenze dell’alogos, ch’egli temeva sopra ogni cosa.

Nel suo viaggio verso l’altra faccia del logos Warburg non poté più opporre a tali potenze l’esorcismo reso possibile dalle scienze della sua epoca. Se il compito assegnato da Warburg a una rinnovata storia dell’arte era quello di ritrovare le fonti del logos riconoscendo nella storia delle immagini le tracce della lotta tra il logos e l’alogos – ed è questo il tratto nietzschiano che è possibile riscontrare nella sua ricerca – non si può anche non riconoscere che tale compito lo condusse a un corpo a corpo con le potenze demoniche il cui esito ultimo, eppure al tempo stesso inaugurale, fu il progetto di Mnemosyne. In breve, Mnemosyne è il primo nome di una “scienza senza nome” in grado di accogliere – e non escludere – l’altro dal logos.

È proprio questo il punto in cui è possibile divergere da Agamben e dalla sua interpretazione dell’immagine della ninfa: lo spettro non è la forma cristallizzata dell’immagine, la copia che opera come il negativo nei rispetti del positivo, ma ne è invece la sua potenza, la sua intrinseca dynamis. Come dire che la differenza tra l’immagine e lo spettro – quella differenza che produce i suoi massici effetti di doppio – è più antica della dialettica tra il positivo e il negativo, più antica dello stesso rapporto di mimesi tra l’originale e la copia. Di conseguenza, anche la nozione stessa di Nachleben non esclude la spettralità da una vita che è “già da sempre” sopravvivente: al contrario, se la vita è “già da sempre” sopravvivenza, essa non potrà che essere in sé spettrale.

La sopravvivenza non esclude la spettralità, ma la inscrive in sé, di modo che ciò che è “postumo” lo è in quanto spettrale. Non si tratta allora di ricondurre l’immagine alla pienezza d’una vita che perfettamente coincide con sé, ma di ritrovare nell’immagine la differenza tra la vita e la sopravvivenza: ogni istante di vita è attraversato dalla morte, la compresenza di vita e morte definisce la struttura stessa del Nachleben. Il Nachleben è differenza di “vita-e-morte” in quanto è lo scarto operato dalla vita rispetto alla morte ed è la morte che lavora nel cuore della vita.

Per questa ragione occorre pensare il rapporto tra l’immagine e lo spettro, di modo che non si attribuiscano alla prima i tratti e le qualità che solitamente conferiscono alla presenza, alla vita ecc. come altrettante forme dell’originario. Occorre mettere metodologicamente tra parentesi la logica dell’origine, che fornisce tanto il presupposto quanto il quadro discorsivo dell’esclusione del carattere spettrale e unheimlich dell’immagine. Occorre disattivare una metafisica dell’immagine come presente vivente che è esattamente ciò che impedisce di riconoscere il tratto distintivo e singolare della figura della Ninfa, ovverosia che essa è spettrale e che la sua spettralità non dev’essere affatto interpretata come una degradazione di una sua originaria vitalità/dinamicità. Lo spettro è la Ninfa e, specularmente, la Ninfa è lo spettro: è proprio grazie alla posizione di questa identità differenziale che possiamo parlare di una dinamicità dell’immagine della Ninfa. Non si tratta allora di congedare gli spettri, come forse anche Agamben fa, ma di riconoscere la loro presenza fantasmatica e umbratile nella nostra esperienza, e nella nostra esperienza delle immagini.

Il gesto di scongiuro della parte unheimlich dell’immagine della Ninfa pare ricalcare quello compiuto in un magistrale saggio di diversi anni precedente, contenuto in Infanzia e storia. Nel bel saggio Il paese dei balocchi Agamben discute il problema della storia in dialogo con Lévi-Strauss ma anche mostra alcuni limiti interni al pensiero di quest’ultimo (Agamben [1978] 2001, 67-92). Lo fa prendendo come filo conduttore il rapporto tra il rito e il gioco, in funzione dei due assi della sincronia e della diacronia. Tale filo conduttore lo porta quindi nei pressi del riconoscimento del senso attribuito alle cerimonie, in particolare a quelle funebri, come momento antropologicamente denso. Agamben mette sotto il fuoco dell’analisi il problema del rapporto tra le generazioni, la funzione che in esso svolge la riproduzione culturale delle forme e dei contenuti mitici, il significato simbolico che le culture attribuiscono alla morte.

Sulla cerimonia funebre come luogo liminare dell’esperienza Agamben afferma un punto assai importante: con la morte i significanti della diacronia e quelli della sincronia s’invertono e si confondono (Agamben [1978] 2001, 86). Il caso dell’immagine del morto è di particolare rilevanza perché mette in scena una logica del doppio (con i suoi effetti unheimlich di inversione e di confusione) che pare essere debitrice delle tesi presentate da Otto Rank nel suo celebre saggio, in particolare là dove questi raccoglie degli elementi etnografici per suffragare la propria intuizione, con cui riconduce le apparizioni dei “doppi” all’angoscia provata per la morte dell’altro (Rank [1914] 2001, 76 sgg.). La morte, infatti, trasforma il morto in un fantasma che infesta i luoghi e ossessiona i viventi e che il rito ha il compito di trasformare in potenza positiva e benigna. All’interno del sistema simbolico che opera la distinzione tra i termini opposti, conferendo loro significato, vi sono alcuni significanti che da instabili quali sono richiedono di essere tramutati in significanti stabili. Tanto in una prospettiva diacronica quanto in una sincronica, i significanti instabili sono quelli dei “bambini” (coloro che da poco sono giunti al mondo, passando dall’invisibile al visibile) e quelli delle “larve” (i morti che da poco sono usciti dal mondo, transitando dal visibile all’invisibile). Tra i due significanti esiste dunque una specularità, dovuta alla marginalità dei due significanti rispetto all’ordine simbolico e alla loro non piena appartenenza a quest’ultimo. Ciò li rende decisivi per il funzionamento stesso dell’ordine:

[…] larve e bambini, che non appartengono né ai significanti della diacronia né a quelli della sincronia, appaiono come i significanti della stessa opposizione significante fra i due mondi che costituisce la possibilità del sistema sociale. Essi sono, cioè, i significanti della funzione significante, senza la quale non ci sarebbe né tempo umano né storia. Il paese dei balocchi e il paese delle larve disegnano l’utopia topologia del paese della storia, che non ha luogo se non in una differenza significante fra diacronia e sincronia, fra aiṓn e chrónos, fra vivi e morti, fra natura e cultura (Agamben [1978] 2001, 90).

Agamben qui disegna i contorni di uno spazio interstiziale, di uno Zwischenraum, che permette l’istituirsi delle coppie oppositive da cui si struttura l’ordine sociale assieme all’ordine del tempo. Le entità proprie di tale Zwischenraum, cioè le larve e i bambini, al tempo stesso vi appartengono e non vi appartengono. Questo spazio permette alla funzione significante di poter operare in modo tale da trasmutare l’instabile in stabile, e di convertire l’invisibile in visibile e viceversa.

Quando Agamben definisce questi significanti mediante un raddoppiamento (“significante di significante”), mi pare che mostri lo stesso gesto messo in scena nel caso dell’interpretazione della Ninfa. La stessa logica del raddoppiamento vale tanto qui quanto nel caso della definizione della Ninfa come immagine dell’immagine. I fantasmi (le larve) equivalgono ai bambini nella loro funzione simbolica di permettere l’attraversamento del presente verso il passato, così come i bambini lo sono del passato verso il futuro. Il che ci porterebbe a domandarci qual è lo statuto peculiare del fantasma (la “larva”) che compare all’incrocio tra il piano dell’ordine simbolico, in quanto significante, e di quello dell’immaginario, in quanto immagine. La risposta di Agamben, che si rifà a Warburg, è Nachleben:

[…] non faticheremo molto a riconoscere le “larve” in quei Nachleben e in quelle sopravvivenze dei significanti del passato, spogliati del loro significato originale, cui la scuola warburghiana ha dedicato studi tanto fecondi ed esemplari. Le immagini irrigidite degli dei pagani e le cupe figure dei decani e dei paranatellonta astrologici, di cui possiamo seguire ininterrottamente attraverso i secoli la larvale e larvata sopravvivenza, come tutti gli altri innumerevoli significanti del passato, privati del loro significato, sono l’esatto equivalente delle larve, sono le larve che le culture mantengono in vita nella misura stessa in cui, invece di giocare con esse, le esorcizzano come fantasmi minacciosi (Agamben [1978] 2001, 91).

È questo un passo che richiederebbe un’analisi attenta, direi quasi parola per parola, per poter mettere alla prova il senso del Nachleben che vi viene affermato. In modo economico, ci limitiamo a osservare che mentre ancora in Il paese dei balocchi l’esorcismo del Nachleben è connotato come un “irrigidimento della funzione significante” (Agamben [1978] 2001, 92) che denuncia l’inceppamento del sistema binario, al punto che non è più assicurato lo scambio dei significanti, in Ninfe, al contrario si tratta per l’appunto di “liberare le immagini dal loro destino spettrale” (Id. 2007, 22), dissipando così il tratto paradossale e instabile, folle o delirante, che ne caratterizza l’apparizione.

Per converso, la posta in gioco è una resistenza al desiderio di esorcizzare il Nachleben. Non si tratta di contrapporre un discutibile irrazionalismo a un’istanza razionalistica che vorrebbe spazzare il campo da tutto ciò che può essere ridotto a un determinismo e a un causalismo metodologici (dunque a un positivismo metafisico), ma si tratta piuttosto di accogliere l’alogos per poter liberare il logos dal suo doppio. Non si tratta, dunque, di pensare l’immagine o lo spettro, ma l’immagine come spettro. Lo spettro può sempre essere immagine, ma non ogni immagine è spettrale: non c’è nessun rapporto necessario tra l’immagine e lo spettro, ma là dove c’è spettro c’è un’immagine che eccede il campo della presenza, ovvero i limiti metafisici della rappresentazione.

Da un lato, lo spettro ha bisogno dell’immagine per giungere alla presenza (è l’immagine-spettro, ovvero lo spettro come immagine), ma dall’altro vi sono immagini che non possiedono alcuna forza perturbante, come ben aveva capito Freud. Ci sono delle immagini che ci interpellano, catturando il nostro sguardo, e ci sono immagini che invece rimangono mute, perfettamente adeguate all’ordine della rappresentazione. Se ammettessimo invece il rapporto tra immagine e spettro così come lo concepisce Agamben, ci sarebbero due classi di immagini, le une per così dire “piene”, dinamiche e vitali, le altre che invece sono una degradazione delle prime. È certo che questa divisione non ci permetterebbe di comprendere il carattere disturbante che certe immagini possiedono per il nostro sguardo.

A tutte queste interpretazioni opponiamo – pur in continuità con esse – un’apprensione dell’immagine della Ninfa né in termini di simbolo né in quelli di rappresentazione né in quelli di immagine. I termini di simbolo, rappresentazione e immagine non possono fare altro che riportarci in un universo del discorso pregiudicato da una metafisica. Analogamente, non possiamo neppure impiegare la parola 'figura' che rischierebbe di essere compresa come un sinonimo delle parole appena elencate. A tutti questi termini preferisco il termine di 'figurale', che nel pensiero di Lyotard indica una dimensione al tempo stesso inconscia, invisibile, energetica, pulsionale e desiderante (v. Lyotard [1971] 1989). La Ninfa è (il) figurale. Essa sarebbe al tempo stesso una delle molteplici manifestazioni del figurale e il figurale stesso, secondo quella logica della deiscenza delle immagini che ci porta a guardare nella direzione di un pensiero del simulacro e non più della mimesi tra un originale e una copia.

La Ninfa godrebbe dunque di uno statuto duplice, che rende complessa la sua decifrazione. Infatti essa sarebbe contemporaneamente la figura di se stessa, l’immagine di se stessa (come ha ben compreso Agamben), la rappresentazione di se stessa e perfino il simbolo di se stessa, cioè il simbolo del simbolo, o il significante del significante. Ma dire che è l’immagine dell’immagine o il significante del significante non sposta l’enigma dell’immagine della Ninfa se non di un livello logico, senza per questo entrare nel merito del paradosso che si genera quando prendiamo in esame siffatti fenomeni, con i quali possiamo indicare al contempo stesso un elemento di una classe e la classe intera, come se ciascun elemento della classe significasse anche la classe intera.

Ecco perché ogni raffigurazione della Ninfa fa parte della serie storica (virtualmente infinita) delle immagini delle Ninfe (di quelle dipinte come di quelle raccontate, cioè in fondo dipinte con le parole) e simultaneamente essa eccede questa serie in quanto la riassume interamente in se stessa. Warburg, ricordiamolo, aveva fatto esperienza di una prima grande impasse metodologica esattamente su questo punto del percorso, come testimoniano il carteggio con André Jolles e le successive ricerche (v. Warburg, Jolles [1900] 2007).

Il doppio statuto iconologico ed epistemologico dell’immagine della ninfa fa sì che non sia mai sufficiente un’indagine puramente storica – legata com’è a un empirismo metodologico – né che l’indagine si disponga su un piano di ordine extrastorico, per esempio di tipo semiotico o strutturalistico – che, all’inverso, rischierebbe di peccare di logicismo. In ogni caso il prezzo da pagare consiste nel perdere di vista l’immanente temporalità storica dell’immagine 'sopravvivente'.

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O. Rank, Il doppio. Uno studio psicoanalitico [1914], Milano 2001.

Starobinski [1994] 1995
J. Starobinski, A piene mani. Dono fastoso e dono perverso [1994], Torino 1995.

Warburg [1889] 2003
A. Warburg, Botticelli [1889], Milano 2003.

English Abstract

In Jensen’s story as it is interpreted by Freud, the romanesque figure of Gradiva displays a peculiar kinship to Warburg’s Nymph. Both Gradiva and the Nymph are subjects of a polarity which reveals their double meaning as figures of life, on the one hand, and as lieutenants of the devil (that is, as figures of death), on the other. In other words, the Nymph is the paradigm of what Warburg conceived not only as Pathosformel, but also as Nachleben, “survival” in the sense of the image’s “posthumous life”. As Warburg hunted the Nymph in his famous correspondence with Jolles on the “Ninfa florentina” project, Freud hunted Gradiva all the way through Jensen’s text, in order to define the meaning of such an image in his theory of repression. Through this search, Freud fell victim to double blindness: he did not recognize the presence of the Nymph in Rops’ painting The Temptation of the Saint Anthony, which he took as a visual example of the repression process, consequently missing the truth of the image.

However, if we follow the thread of another Temptation of the Saint Anthony, that painted by Pieter Brueghel the Young, it leads to a different textual source; Gustav Flaubert’s tale. This work allows us to understand the figure of the devil in its connection to the Nymph, and links it to the themes both of the pagan gods’ dawn, and of the conflict between science and faith, bringing a nihilistic vision of the modern age.

Whereas the devil plays a pivotal role in Flaubert’s Temptation, in George Méliès’ short film version of the tale, dated 1894, it completely disappears, giving room to the Nymph as its substitute. The footage clearly shows a constant appearing-disappearing movement of the Nymph, its multiplication into three feminine figures surrounding Saint Anthony in a round dance reproducing that of the Graces, and the replacement of Christ on the cross by the Nymph, as seen in Rops’ Temptation.

The reconstruction of these intertextual links allows us to better understand the meaning of the Nymph as an iconological figure that fully represents Warburg’s concept of Nachleben.
In an indepth confrontation with two essays by Giorgio Agamben, according to which the Nymph is conceived as the “image of the image” as well as a phantom haunting the history of Western culture, the hypothesis of this essay moves towards a contemporary theory of the simulacrum which encompasses every form of a dualistic and metaphysical concept of the Nymph’s image. From this point of view, the Nymph is not a simple image but a figural and invisible force belonging to a fundamentally non-representational domain.

keywords | Freud, Gradiva; Nymph; Aby Warburg; Mnemosyne Atlas. 

Per citare questo articolo / To cite this article: R. Kirchmayr, Ninfa diabolica. Sulla revenance dell’immagine, “La rivista di Engramma” n. 150 vol. 2, ottobre 2017, pp. 37-63 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2017.150.0053