"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

150 | ottobre 2017

9788894840261

Un caso di narrazione spaziale

La metrica di César Manrique a Lanzarote

Anna Ghiraldini

English abstract
Una premessa*

Per trattare l’opera di César Manrique, già oggetto di diffuse meditazioni storico-architettoniche da parte dalla letteratura contemporanea, è necessario trovare un vocabolario in grado di trascendere i limiti della spuria rassegna e di reggersi su salde premesse metodologiche. Tenuto in debita considerazione il carattere poliedrico dell’artista in esame – pittore, scultore, architetto, attivista politico, ecologista – il lessico deve poter prendere il largo dai mezzi convenzionali di restituzione della sua opera, come il disegno bi- e tri-dimensionale, e soppesare altri aspetti, come il passaggio del tempo e il coinvolgimento emotivo – la fenomenologia e i sensi – nella lettura del patrimonio architettonico realizzato.

Come sostiene Fabio Colonnese in Movimento percorso rappresentazione. Fenomenologia e codici dell’architettura in movimento:

[...] È un linguaggio, quello degli architetti, ricco di termini impropri presi a prestito da altri campi e frutto di un lungo processo di assimilazione di immagini metaforiche estranee all’architettura (Colonnese 2012). 

Per questo ho preso alcuni termini significativi – spazio, tempo, movimento, percezione, appercezione – e ho costruito un racconto per immagini. L’odologia seguita prende le mosse dall’indagine dei diversi campi che afferiscono all’architettura: la filosofia, la fotografia e il montaggio diventano i mezzi indispensabili per la disamina dell’oggetto architettonico. Allo sconfinamento semantico tra discipline, si affianca la redazione di un corollario di regole vicine dal punto di vista dialettico, e che tuttavia concorrono a indagare la materia architettonica secondo ambiti semantici lessicalmente polarizzati.

“Il mondo della percezione si prolunga in quello del movimento” (Merleau Ponty, 1964): la percezione dello spazio in movimento è sostanziata dall’approfondimento delle teorie sulle particolarità della percezione mediante i sensi, atte a coinvolgere l’osservatore in un preciso percorso (o passeggio) che gli offrirà l’opportunità di realizzare una narrazione, o di tradurre una sequenza di sensazioni.

In questa ricerca transdisciplinare, l’uomo che misura lo spazio investendolo di aspettative, emozioni, significato, è l’uomo di Giancarlo De Carlo, per il quale

[...] misurare un evento architettonico vuol dire riportarlo alla dimensione del proprio corpo e capirlo, oltre che con la mente, con i sensi: solo allora si apprezzano le dimensioni, e anche le qualità, di un luogo; perché misurando si coglie l’insieme attraverso i particolari e viceversa (De Carlo 2000).

Manrique e Lanzarote

César Manrique Cabrera (1919-1992) è stato un personaggio poliedrico del panorama artistico internazionale del Novecento: pittore, scultore, architetto, attivista politico ed ecologista, la sua figura è legata a doppio filo all’esperienza del territorio natale, l’isola di Lanzarote, del cui destino si è occupato attivamente per oltre vent’anni della sua vita.

Il suo eclettismo emerge nella continua investigazione che, dalle prime esperienze pittoriche, lo porta a valicare i limiti imposti della tela e a impadronirsi della dimensione dello spazio: l’integrazione trasversale di diverse arti è frutto della sua passione per l’assiduo rinnovamento e la ricerca di nuove formule compositive. Grazie al suo interesse e al progressivo approfondimento del suo rapporto con la natura, è stato capace, da artista, di far sentire nelle sue opere l'eco delle forme e dei ritmi dettati dal paesaggio. La sua decisa volontà d’integrazione dell’arte in una natura valorizzata e trasformata lo porta a elaborare una poetica affine a quella della Gesamtkunstwerk.

Anima gli interventi di Manrique la volontà di mescolare forme e materiali moderni ai temi dell’architettura tradizionale di Lanzarote: tale concezione rimane a lungo la cifra dei nuovi insediamenti abitativi che rivelano, come primo intento, il rispetto del patrimonio naturale e culturale dell’isola. Nonostante il “futuro impossibile” di Lanzarote – votata al turismo e quindi terreno infecondo per la codifica di uno stile architettonico canario che prenda le mosse dal vernacolo – l’impronta che Manrique difende e cerca di trasmettere ai posteri è stata in grado di ispirare e di fecondare positivamente alcuni progetti del turismo massivo.

Manrique riversa le sue forze nell’esegesi dell’integrazione delle arti nella natura e, pertanto, il suo lavoro spaziale può essere compreso appieno solo attraverso la stretta relazione di arti e natuta (Mulazzani, 2010): in questa dialettica, tesa e vitale, l’artista realizza un esercizio di partecipazione attiva attraverso il suo genio creativo, operando nel paesaggio e modellandone la forma. Un intento morale e, insieme, un codice etico ed estetico guida il suo operare: per la decorazione dei suoi edifici, accanto ai materiali naturali come la roccia vulcanica, il carbone, la ghiaia e il legno, utilizza anche elementi di recupero cui dona una seconda vita. È un linguaggio che pare desueto, ma che ha l'effetto di acuire la vitalità plastica della struttura propria del patrimonio che realizza.

Le creazioni architettoniche di Manrique possono essere lette come spazi ampi, che si delimitano l’un l’altro mediante l’uso di soluzioni singolari di grande forza plastica. Le sue idee sullo spazio insistono sull'esplorazione del concetto di curva, nelle sue continuità e nelle sue pieghe: è pertanto lecito parlare di architettura organica – nel senso che le parti sono collegate al tutto e il tutto si relaziona con le diverse parti. In questo senso, si può dire che,  dai giardini antropizzati alle multiformi enfilades possibili nelle sue sculture spaziali, gli spazi di Manrique sono caratterizzati da movimenti sincopati, veri e propri stop motion: punti di vista in successione.

I suoi edifici hanno un’articolazione formale che è il paesaggio, di cui l’artista riconosce il forte carattere compositivo, a dettare. L’unione tra arte e natura è così indissolubile, tanto nelle opere pittoriche quanto in quelle spaziali, da rendere spesso difficile stabilire fino a che punto una compenetri o condizioni l’altra.

L’idea di vastità e infinito che si solleva dall’immensità dell’oceano e dalla vacuità dei campi di lava rimanda al bordo del sublime: il potere della natura sull’uomo, la privazione così com’è percepita nel buio, il silenzio e la solitudine, innalzano l’osservatore a una dimensione di incompiutezza fisica e intellettuale. Il vuoto come assenza di vita che sale dalle distese di terra bruciata è compensato dal ritmo delle mutazioni, in continuo, lento e costante, divenire. Le policrome testure dei campi di lava, unite al contrasto che la luce del sole crea tra la roccia vulcanica, e i prospetti immacolati degli edifici fanno da sfondo alle proposte architettoniche di Manrique, riportando il suo fare architettonico all'arte pittorica. Il suo determinismo naturalista ne guida la sensibilità: tutto quanto lo circonda, tutto quanto costituisce il paesaggio, si fa materiale da costruzione per l’immaginazione e la realizzazione del nuovo progetto. Anche per questo il suo disegno non è mai semplice imitazione del vernacolo. Le strutture delle sue opere sono organiche, destinate non tanto a rivaleggiare con la natura ma a imitarla, ad assimilarla, a lasciarla fluire generosamente all'interno dello spazio costruito: a “mettere in scena la natura” (Allen, 1994).

Primo scopo dei suoi interventi spaziali è rendere l’uomo parte attiva nel gioco delle meraviglie della natura, accrescendo l'estetica di una comunicazione totale con il paesaggio. L’artista svolge un ruolo decisivo nel mantenere una conversazione intima e infinita con la natura; si tratta di un esercizio artistico privilegiato, cui l’umanità è chiamata a prendere parte attraverso la contemplazione dei suoi lavori che dialogano senza mediazione con i sensi.

Il suo operare sorge in modo istintivo, in carenza di presupposti (e quindi di pregiudizi) teorici, senza che ciò leda la qualità e la stoffa del suo lavoro: la sintassi delle sue opere, reazione al depauperamento architettonico che ha preso piede sull’isola, si carica della forza retorica che viene dalla stretta relazione con un ambiente liminale (Galante Gómez, 1990): in questo senso, l’artista è Signore di un tempo arcaico in cui i progetti altro non sono che pure idee di armonia spaziale (Allen, 1994).

L’intimo rapporto tra architettura e natura richiede assoluta coerenza tra massa, scala, volumi e dettaglio: ovvero tra il tutto e le sue parti. Il linguaggio speciale dell’architettura di Manrique si lascia interpretare in questa chiave. Si tratta di un linguaggio il cui vocabolario torna circolarmente sulle medesime voci: le strutture circolari che rimandano ai taros preispanici; gli elementi e le soluzioni di volumi giustapposti alle architetture tradizionali; le trame e le forme arrotondate che portano alla mente le strutture tipiche di culture ancestrali; l’effetto sorpresa sempre presente: e infine, su tutto, la qualità formale organica che dà vita ad architetture di grande intensità estetica.

Quattro sequenze per quattro architetture

Gli interventi pubblici di Manrique si contraddistinguono per l’uso reiterato di un lessico preciso, composto da un numero limitato di termini fortemente caratterizzati; nonostante ogni architettura sia frutto della contingenza del contesto, Manrique rispetta sempre un frasario minimo che all’occorrenza si presta ad essere declinato e arricchito.

1. Il tema della scultura. I suoi interventi pubblici e la sua prima casa si localizzano nel paesaggio mediante una scultura: Guatiza, la città che ospita il Jardín de Cactus, annovera tra gli edifici bassi del suo skyline una succulenta fuori scala in ferro verde, patentente pop; il Mirador del Río e los Jameos del Agua sono identificati da una scultura in ferro a forma rispettivamente di pesce e uccello e di aragosta stilizzati; El Diablo, il ristorante realizzato da Manrique nel Parque Nacional de Timanfaya, è introdotto da un demonietto in legno situato lungo l’unica strada che porta in questa compagine arida.

2. Il tema della soglia. Tutte le sue architetture presentano un portale che funge da ingresso e forte cesura con l’ambiente esterno: si tratta di una struttura litica che taglia lo sguardo indiscreto dell’osservatore impedendone la vista sull’interno.

3. Il tema del percorso. Una volta varcata la soglia, il fruitore si trova sempre di fronte a una struttura che ospita la biglietteria, il vero inizio della speculazione estetica dell’architettura: il cammino che porta all’interno dell’opera è lungo, può disorientare, in certe occasioni è addirittura impervio – los Jameos del Agua ha una scala a chiocciola piuttosto ripida; il Mirador del Río ha un corridoio poco illuminato che piega a gomito.

4. Il tema dell’esplosione dello spazio. Superato il percorso, l’osservatore raggiunge il cuore dell’architettura: si tratta di uno spazio, sia esso coperto o scoperto, che trae origine e forza dal paesaggio d’elezione, in un gioco di mise-en-scène della natura peculiare del contesto. Questa nuova dimensione si profila in forte contrapposizione – dimensionale, cromatica, luminosa – rispetto alle parti che la precedono.

Le stesse categorie possono essere estese anche alle due architetture private, ora fondazione e museo, in cui ha vissuto Manrique negli ultimi vent’anni della sua vita, una volta tornato a Lanzarote dalle sue peregrinazioni alla fine degli anni Sessanta del XX secolo.

Il percorso costruito all’interno della Fundación César Manrique attraversa di continuo spazi liminali: sono presenti molti corridoi e soglie, veri e propri diaframmi che separano spazi molto diversi tra loro dal punto di vista ed estetico e sintattico. Il superamento di questi varchi media alla necessità di mettere in comunicazione realtà in opposizione anche per la semplice illuminazione.

L’architettura parla due lingue distinte dipendenti dalla quota nella quale si è immersi: il piano epigeo, razionale nel bianco e nel rigore delle sue pareti, ospita le opere d’arte della collezione di Manrique; il piano ipogeo, circoscritto plasticamente da solide partizioni vulcaniche, è una deriva al contempo sensuale e introspettiva. Questi universi slegati, la cui distanza è apparentemente incolmabile, sono di volta in volta anticipati al visitatore mediante il montaggio, nella camera chiara della Fundación, di aperture e cavità che inquadrano scorci afferenti all’una e all’altra dimensione. I sensi dell’osservatore non restano in stato quiete neppure un attimo, continuamente colpiti da stimoli diversi.

L’evoluzione dello spazio e del tempo è tangibile; la camera, ben consapevole dell’importanza del gesto nell’architettura che essa stessa è capace di enfatizzare, procede in repentini cambi di scena. L’immagine succede al gesto e il gesto al pensiero: il punto di vista è un’altra possibilità, l’ennesima. Pertanto, in questo sillogismo sufficiente e necessario a supportare la pratica, il montaggio risulta un’azione ragionata latrice di significato.

L’ultima abitazione nella quale ha vissuto César Manrique è ad Haría e dopo la sua morte è stata convertita a museo.
 La fotografia d’insieme cede qui il passo al dettaglio quotidiano, reso a grande scala: la sfera intima e aptica, in cui percezione tattile e posizione della mano rispetto all’oggetto si trovano combinate, è indagata da un occhio curioso che, in forza di tutto ciò, non sospende il gesto bensì lo accompagna. Non solo tatto, quindi, ma memoria collettiva: la casa/museo diventa esaperazione estetica, è teatro della memoria e si muove per immagini. L’itinerario seguito realizza pertanto un inventario di massima che racconta gesti banali estremizzati a contenitori culturalmente e antropologicamente rilevanti, qui in mostra; il subconscio, in un ultimo, definitivo movimento, aggiunge l’esperienza pregressa personale all’immagine, rendendola maggiormente eloquente.

La dimensione privata è declinata in tre spazi affini: la casa, il giardino, l’atelier, ognuno con una propria specificità. L’architettura si esplica anche e soprattutto attraverso gli interni e gli arredi ospitati, disegnati dallo stesso Manrique.
 Le zone dell’abitazione sono raccontate cinematograficamente nella sequenza di spazi ampi la cui soglia, qualora presente, è un varco dinamico che si supera in modo rapido e in-mediato e si costituisce limite solo come estrema conseguenza della ragione.

La compagine paesistica che accoglie e confina los Jameos del Agua funge da importante modello nella realizzazione dell’opera: la potenza tellurica sprigionata dalla terra è paradossalmente lo scenario plastico e il motore immobile che guida la mano di Manrique, alla stregua di un demiurgo.

Il movimento sincopato che l’architettura prescrive di compiere al suo interno si articola nella successione di spazi intimi coperti, scuri e riempiti di riflessi e suoni, e scoperti ampi e luminosi, all’interno dei quali deriva e osmosi si fondono e confondono: l’erranza cede involontariamente il passo al rispetto delle linee di forza marcate presenti nella tettonica del luogo.

La dimensione litica del complesso, in cui il bordo/limite tra arte e natura risulta ingenuamente labile e passibile di molte interpretazioni, rimanda al concetto di tempo assoluto – il susseguirsi lento delle ere, nel quale l’uomo non può che misurare l’orografia del territorio mediante lo spostamento nello spazio senza alcuna mediazione espressamente raccontata.

La sequenza è qui caratterizzata da cambi di scena repentini, enfilades di passaggi, sipari aperti su recessi e vedute nel paesaggio de los Jameos: la dinamicità dell’architettura si sostanzia nella diacronia e, binomio proposto ancora ma con occhio nuovo, il bordo/limite tra ogni diverso scatto si fa una faccenda che riguarda la soglia. Intervengono i materiali naturali affiancati a una controparte opportunamente trattata, filo conduttore in tutta l’opera, che scandiscono il taglio scenico di ogni parte nella successione.

Il Jardín de Cactus come opera d’arte totale si polarizza attorno a temi in forte contraddizione semantica, che esaltano nettamente l’intervento di Manrique nel territorio in prossimità di un nucleo cittadino.
 Si tratta di una immersione graduale in un invaso che è un palinsesto – un luogo con una storia più volte riscritta – attraversando una serie di stadi successivi e seguendo un tracciato prestabilito. A una quasi inesistente gerarchia di percorsi, si affiancano linee di tensione marcate che portano il fruitore verso i luoghi salienti del complesso, dai quali godere dei forti contrasti che caratterizzano il giardino: il cactus come dato naturale, da un lato, è protetto e salvaguardato dall’elemento fortemente antropizzato del giardino e, dall’altro, funge da archetipo di una compagine di componenti a sua imitazione, che copiano e moltiplicano il prototipo, declinando la specificità dell’intervento in modo ancora più scenografico: la forma plastica e gli aculei dei cactus ispirano intensamente l’artista che estende l'aspetto aculeato agli oggetti artificiali che crea, in un mal celato processo di dissimulazione.

La forte cesura rispetto alla città che batte all’esterno dell’alto muro attorno al giardino, della quale non si riesce a vedere nulla se non dalla terrazza più alta, rende peraltro inconsistente un paragone tra elementi per la grande differenza di scala, e si unisce al lavoro di cesello perpetrato da Manrique, che dimostra di volere ancora una volta assumere il ruolo di demiurgo del suo cosmo.

Il contatto imposto da Manrique agli elementi naturali e ai dati materici palesa grandemente il contrasto tra natura e arte il cui confine (o confino?) è ancora una volta labile.

Il Mirador del Río si costituisce attraverso un lessico precipuo, realizzandosi come caso unico all’interno del panorama architettonico formalizzato da Manrique: la forte dicotomia che anima quest’opera si mostra in tutta la sua forza compositiva e, una volta di più, va a beneficiare di un parterre semantico di analogie e contrasti che concorrono a descriverlo in maniera esaustiva.

Il (ri)montaggio, la (ri)lettura dell’architettura qui presentata si avvale dello strumento della sequenza come mezzo di trasmissione del passaggio del tempo. Si vanno a leggere in questo modo modificazioni di tipo liminale e superficiale, nella dimensione diadica di confronto e contrasto tra materiale e materico: il tempo scorre su brani di Lanzarote naturali o antropizzati, comunque resi sublimemente artificiali dall'impronta dell'artista/architetto. La dimensione aptica si traduce in un intervento sul e nel paesaggio contestualmente forte e camaleontico: l’architettura c’è ma si cela sotto una coperta di artificio. L’intervento del Mirador è dissimulato dal rivestimento in pietra lavica – un esterno che assume i colori della terra da cui sorge e dalla quale dipende la sua emersione: il Mirador è a un tempo epigeo e ctonio.

L’interno della camera chiara, il cono ottico progettato da Manrique, suggerisce una narrazione dentro quello che si può definire dispositivo solo in termini molto generali: l’apoteosi si sublima mediante una passeggiata in cunicoli e meandri che esplodono in fermi immagine e diapositive su cui l’occhio trascorre in una continua deriva priva di sosta, di determinazione, scivolando sulle liscie pareti bianche.

Il Mirador è luogo da cui vedere, in cui essere visti e dove il corpo si dilata fino a essere assorbito e a farsi uno con il vuoto scenico; l’occhio rimane l’unico strumento di misura e racconto di questa realtà tattile, tutta estetica.

Il Restaurante El Diablo è un’architettura dall’identità forte poggiata su un territorio lunare di difficile controllo, il Parque Nacional de Timanfaya, dal quale si stacca iscrivendovi un segno chiaro e rigoroso. Il paesaggio è periferico dal punto di vista sia geografico che antropologico ed è, assieme, la più chiara esemplificazione dell’origine contradditoria e bipolare dell’isola di Lanzarote.

Alla vocazione dicotomica tettonico/stereotomica, l'archittetto risponde precisamente mediante l’avvicinamento graduale: uno zoccolo duro rivestito in pietra nera e rossa trattiene a stento un grande cilindro di vetro pronto a esplorare questo paesaggio lunare sterminato e sublime. 
La regione, unitamente al Restaurante El Diablo che ne fa parte, è un perfetto set cinematografico, dove la scena, il paesaggio da ammirare attraverso le superfici trasparenti di questo cannocchiale, è letta nella sua esasperata immobilità nel montaggio di punti di vista sequenziali: tutto ciò che è all’interno delle sale è movimento in rapido divenire, tutto ciò che è fuori è movimento in potenza.

Il ristorante costruisce un interessante cortocircuito con 2001 – Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, Stanley Kubrick, 1968): le scene iniziali del film, infatti, sono state riprese delle lande brulle del Timanfaya e non è banale pensare che possa esserci una certa qual ingerenza dell’architettura della stazione spaziale nella struttura di El Diablo.

Glossa

Ho voluto evitare di scivolare nell’operazione concettuale critico-storica, peraltro già grandemente praticata sia nel periodo di vita dell’artista che dopo la sua morte, per concentrarmi sulla messa in campo di altri strumenti; il sistema cartesiano poco si addice alla disamina di un’opera apparentemente convenzionale, latrice, invece, di un significato intenso che mi si è disvelato man mano che procedevo con il lavoro di analisi, ben lungi da ogni previsione.

La prospettiva è stata di tipo immersivo: all’occhio educato dall’architettura, il carattere forte delle architetture realizzate da Manrique a Lanzarote si mostra nella sua dimensione tattile, tettonica e materica. L’intensità dell’operazione estetica compiuta dall’artista suggerisce in modo naturale e logico un approccio per immagini; lo scatto, la disamina, la censura, la cesura, la lima, sono operazioni che, nella loro successione dialettica, pongono il montaggio come soluzione privilegiata, forse l'unica da adottare per narrare l’architettura di Manrique. Il montaggio che si ricollega all’idea del gesto perché è esso stesso gesto e movimento, stimolato esclusivamente da un pensiero. L’immagine, in quest’ottica, è a un tempo atto e dialogo, è strumento di critica del mondo e unità minima della memoria. L’immagine succede al gesto e il gesto al pensiero: il punto di vista è una delle infinite possibilità. La dimensione tattile si arricchisce del dato dell’esperienza acquisendo valenza aptica, in cui immagine e memoria si fondono e confondono e danno conoscenza e consapevolezza. Pertanto, in questo sillogismo, il montaggio risulta un’azione ragionata che parla di significanza.

La camera si mostra ben consapevole dell’importanza del gesto nell’architettura, ed essa stessa si propone come lo strumento capace di enfatizzarlo: procede nel (ri)montaggio di un fotogramma dopo l’altro, ciascuno connotato da una forte carica sensuale che racconta il movimento nello spazio e nel tempo, la vision in motion che ha animato ogni passo compiuto all’interno delle opere e che porta la riflessione sulle premesse. Il lavoro sul percorso filmico. che si è a poco a poco svelato all’interno dell’architettura, è transitato dall’indagine visiva sui materiali e le testure, la piccola scala del dettaglio, fino a coinvolgere la percezione del passaggio del tempo nell’invecchiamento, nella patina, che la fenomenologia quotidiana lascia sull’opera: il riflesso, l’ombra, l’uso, l’abuso, tutti aspetti che concorrono a fare architettura e a misurare l’opera nel tempo e il tempo nell’opera.

Nota bibliografica
  • Allen 1994
    Jonathan Allen, César Manrique y el futuro imposible, in “Atlántica Internacional. Revista de las artes”, Las Palmas de Gran Canaria 1994.
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  • Bruno 2007
    Giuliana Bruno, Public Intimacy. Architecture and the Visual Arts, Cambridge 2007.
  • Careri 2006
    Francesco Careri, Walkscapes. Camminare come pratica estetica, Torino 2006.
  • Colonnese 2012
    Fabio Colonnese, Movimento percorso rappresentazione. Fenomenologia e codici dell’architettura in movimento, Roma 2012.
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    Jacques Gubler, Motion, émotions. Architettura, movimento e percezione, Milano 2014.
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  • Merleau-Ponty [1964] 1989
    Maurice Merleau-Ponty, L'occhio e lo spirito, Milano [1964] 1989.
  • Merleau-Ponty [1964] 1969
    Maurice Merleau-Ponty, Il visibile e l'invisibile, Milano [1964] 1969.
  • Moholy-Nagy 1947
    Laszlo Moholy-Nagy, Vision in motion, Chicago, 1947.
  • Mulazzani 2010
    Marco Mulazzani, Architettura e paesaggio costruito, Milano 2010.
  • Pallasmaa 2007
    Juhani Pallasmaa, Gli occhi della pelle. L’architettura e i sensi, Milano 2007.
  • Santana 1991
    Lázaro Santana, Manrique. Un arte para la vida, Las Palmas de Gran Canaria 1991.
English abstract

César Manrique Cabrera (1919-1992) was a multi-faceted character of the 20th century international art scene: painter, sculptor, architect, politician and ecologist, his figure is linked to the experience of the native territory, the island of Lanzarote, whose fate has been actively engaged for over twenty years of his life. His eclecticism emerges in the ongoing investigation that, from his first pictorial experiences, leads him to overcome the imposed limits of the canvas and to take possession of the space dimension: the transversal integration of different arts is the result of his passion for holistic renewal and research of new compositional formulas. Thanks to his interest and to the progressive deepening of his relationship with nature, he was able to make his works feel in echoes of the shapes and rhythms dictated by the landscape. His determined will to integrate art into a valued and transformed nature leads him to elaborate a poetic similar to that of the Gesamtkunstwerk.

*Il contributo qui presentato è un estratto ragionato della tesi di Laurea Magistrale in Architettura (E)Motion. Un percorso nell’opera architettonica di César Manrique che ho discusso due anni fa all’Università Iuav di Venezia sotto la guida dei Proff. Renato Bocchi e Carmelo Marabello.

keywords | Cabrera; Lanzarote; Gesamtkunstwerk. 

Per citare questo articolo / To cite this article: A. Ghiraldini, Un caso di narrazione spaziale. La metrica di César Manrique a Lanzarote, “La rivista di Engramma” n. 150 vol. 1, ottobre 2017, pp. 637-650| PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2017.150.0100