"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

154 | marzo 2018

9788894840322

Grazie e disGrazie

Albrecht Dürer e l’insorgenza della rappresentazione della strega come distorsione dell'immagine delle tre Grazie

Sara Arosio

English abstract
I. Tre Grazie e Quattro donne

Dare, ricevere, restituire. Così Seneca definiva la triade delle Grazie, solitamente rappresentate come tre sorelle giovani e sorridenti, vestite di veli trasparenti, con le mani intrecciate, unite a cerchio in una danza:

Quare tres Gratiae et quare sorores sint, et quare manibus inplexis, et quare
ridentes et iuvenes et virgines solutaque ac perlucida veste. Alii quidem
videri volunt unam esse, quae det beneficium, alteram, quae accipiat,
tertiam, quae reddat; alii tria beneficorum esse genera, promerentium,
reddentium, simul accipientium reddentiumque (Seneca, De beneficiis I,3).

1 | Medaglia con ritratto di Giovanni Pico della Mirandola (recto); Tre Grazie (verso), sec. XV, National Gallery of Art, Washington (DC).

Lo schema coreografico circolare nella lettura neoplatonica rappresenterà anche il circolo dell’amore divino. La divinità concede alla figura umana il dono d’amore: Amor, rappresentata di spalle al centro del sistema, si volge verso Voluptas alla sua destra, la quale lo riceve e, in seguito, restituisce il dono della grazia mediante la bellezza (il dono, dopo essere passato a Voluptas, ritorna ad Amor attraverso Pulchritudo); l’armonia del mondo si mantiene in equilibrio a patto di rispettare la triangolazione circolare delle Grazie (Wind [1958] 1986, 32-45).

Questa l’immagine delle Grazie che approda al Rinascimento italiano soprattutto grazie alla lettura filosofica dell’Academia platonica fiorentina.

Il 1497 è la data riportata sul primo bulino firmato di Dürer, solitamente denominata Quattro donne nude (o Quattro streghe). L’incisione rappresenta quattro figure femminili, disposte in cerchio all’interno di una stanza.

2 | Albrecht Dürer, Quattro donne nude (Quattro streghe), 1497, bulino. Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, Firenze.
3 | Sandro Botticelli, La Primavera (particolare), 1482 ca. Galleria degli Uffizi, Firenze.

La rappresentazione si svolge in uno spazio chiuso e presenta quattro donne, a figura intera, in piedi, disposte in cerchio; due di loro sulla destra ci volgono le spalle, mentre le due sulla sinistra si mostrano in posizione frontale rispetto allo spettatore. Tutte le donne sono nude, ad eccezione di quella sulla destra, che si copre il pube con un velo, la cui estremità termina ai piedi della donna sulla sinistra. Esclusa la donna di spalle al centro della composizione, che ha i capelli legati in una coda mossa dal vento e ornata con una corona di foglie, le altre hanno i capelli raccolti dentro un copricapo. Ai piedi della donna centrale si intravede un teschio umano, mentre quella che potrebbe essere una tibia giace ai piedi della donna all’estrema destra dell’incisione. Alla sinistra è raffigurato un demone nell’atto di oltrepassare la soglia di una porta in una nube di fumo e fuoco. In alto, al centro una sfera riporta la data (1497) e una sigla (O • G • C) che, secondo alcune ipotesi di interpretazione, potrebbe essere l’acronimo dell'invocazione “O Gott Hute” (“Che Iddio lo proibisca”, o “Oh dio perdona”), oppure “Origo Generis Humani”, o ancora “Odium Generis Humanis”. Di fatto, a oggi, la sigla è ancora in attesa una decrittazione certa.

Nello schema compositivo delle tre figure femminili in primo piano è evidente il rimando allo schema iconografico delle tre Grazie, rilevato dalla quasi totalità della critica. Lo schema non è però direttamente dedotto dalla tradizione antica la quale, come riporta Servio, prevedeva due delle donne frontali e solo una di spalle:

Quod vero una aversa pingitur, duae nos respicientes, haec ratio est, quia profecta a nobis gratia duplex solet reverti
[“Perché per ogni beneficio elargito da noi si suppone che ce ne vengano restituiti altri due”] (Servio, In Vergilii Aeneidem, I, 720).

Ma probabilmente la composizione è ispirata alle attualizzazioni italiane del tema. Vero elemento di novità è invece una quarta figura inserita – quasi incastrata, è il caso di dirlo – nell’angolo tra la figura centrale di spalle, e quella di destra: l’inserzione della quarta figura femminile interrompe lo schema classico delle tre Grazie e di conseguenza anche la visione allegorica, mutuata dalle fonti antiche ed elaborata da Ficino, della circolazione dell’amore divino. Si introduce così, nella rappresentazione, un importante scarto semantico.

Come interpretare questa ‘quarta incomoda’? L’opinione della critica non è affatto univoca: si contano almeno una decina di interpretazioni diverse, che vanno dalla più prudente alla più stravagante, fino a riconoscere nella scena un ‘Giudizio di Paride’ (Faedo 2007, 143). Di seguito analizzeremo alcune delle proposte interpretative, soffermandoci sui modelli e ricostruendo il contesto storico, sociale e culturale che può aver causato l’insorgenza di questo strano soggetto (probabilmente, come si vedrà, legato a un tema stregonesco) nel repertorio artistico di Dürer. È in particolare la presenza del teschio e della tibia ai piedi delle donne, e del demonio che sbuca alla sinistra della composizione, che porta Joachim von Sandrart nel 1675 a identificare le figure femminili come streghe:

Dürer, tra le altre cose, ha inciso su rame tre o quattro donne nude, da alcuni considerate le tre Grazie, ma da me ritenute delle streghe, dato che sono qui raffigurati un cranio, una tibia, fiamme infernali e un’immagine del diavolo (Sandrart [1675] 1925, 63, cit. in Fara 2007, 130).

Della stessa opinione è Antonio Neumayr, il quale, nel 1822, descrive così l’incisione:

Quattro donne nude, di cui quella, che è coronata di lauro, è rappresentata per di dietro, mentre l’altra alla parte sinistra della stampa, la quale è in tal modo la seconda, è coperta con una cuffia sul gusto allemanno. Le altre due, che sono collocate per di dietro una dinnanzi all’altra, veggonsi per davanti. Esse sono ritte in piedi in una camera, in cui vi è pure un teschio con altre ossa. Nel fondo alla sinistra vi è il diavolo, che pare in atto di sortire dall’inferno (Neumayr 1822, 126).

Ma in seguito, agli inizi del XIX secolo, Adam Bartsch smentisce che le quattro donne siano da considerarsi collegate alla sfera demoniaca e intitola il bulino più prudentemente “Quatre femmes nues”. A mediare tra chi identifica il gruppo con le tre Grazie e chi ne afferma l’identità stregonesca si pone Erwin Panofsky, il quale rileva il significato allegorico-didascalico della composizione e ne valorizza la doppia accezione: lo schema classico, espressione di armonia e generosità divina, nasconde in fondo, forse, un’identità diabolica. In evidenza sono gli elementi di novità dell’incisione, descritta come:

[…] una straordinaria esibizione di nudità femminile, intesa come ‘moderna’ nel senso del rinascimento italiano […], tramutata in un’ammonizione contro il peccato (Panofsky [1943] 1979, 95).

Panofsky sottolinea l’enfasi posta da Dürer sulla rappresentazione del corpo femminile, da varie prospettive, che si formalizzerà successivamente nelle tavole dei quattro libri dedicati alle proporzioni umane – i Vier Bücher von menschlincher Proportion, pubblicati tra il 1525 e il 1528 a Norimberga e tradotti per la prima volta in Italia nel 1591 con il titolo Della simmetria de i corpi humani. Decisiva per la composizione della nuova iconografia è bensì l’influenza della mitologia antica, ma in aggiunta Panofsky rileva che il modo della rappresentazione delle figure femminili rientrerebbe nel clima moralistico che in quegli anni, in Germania, si stava affermando sia nella trattatistica sia nel repertorio degli artisti.

II. I prototipi

È utile ricordare che, a cavallo tra Quattrocento e Cinquecento, Norimberga, città natale di Dürer, aveva la fama di essere una delle città più cosmopolite d’Europa, e riuniva alcuni dei più importanti umanisti tedeschi che Dürer frequenta: Conrad Pickel, alias Konrad Celtis, e il grande umanista Willibald Pirckheimer, suo amico fidato e mecenate (ricordiamo che fu grazie a una sua ‘sponsorizzazione’ che Dürer potè recarsi a Venezia nel 1505) e da loro apprende le basi della cultura umanistica che non aveva coltivato durante la sua giovinezza passata nella bottega paterna; nel “vero albergo di dotti” – come Konrad Celtis definisce nel 1501 la casa di Pirckheimer (v. Fara 2007, 10) – Dürer incontrò, fra gli altri, i testi di Platone e di Euclide, di Vitruvio, Cicerone e Orazio, di Plutarco, così come le opere di Alberti e di Francesco Colonna.

Insieme all’interesse per i soggetti mitologici e per la letteratura greca e romana, gli umanisti sono attratti anche dall’altra faccia della classicità, dal lato oscuro della tradizione classica o, per meglio dire, da quello che la classicità era diventata passando attraverso i secoli dell’Ellenismo e poi del Medioevo: l’astrologia, i tarocchi, la magia e la sua controparte popolare, la stregoneria. In questo contesto, hanno una stagione di rinnovata fortuna le figure di maghe della letteratura antica, spesso descritte nell’atto di rapire e uccidere bambini per usarne le carni per i loro malefici: la malefica Canidia di Orazio, che durante la notte imperversa tra le tombe e prepara un filtro d’amore con gli organi interni di un bambino appena ucciso; o le striges dei Fasti di Ovidio, le quali:

Nocte volant puerosque petunt nutricis egentes / et vitiant cunis corpora rapta suis / carpere dicuntur lactentia viscera rostris, / et plenum poto sanguine guttur habent. / Est illis Strigibus nomen; sed nominis huius / causa quod horrenda stridere nocte solent (Ovidio, Fasti VI, 135-140).

Volan la notte, e delle cune vanno / I bambini a rapir, che privi sieno / Di lor nutrici, e strazio fier ne fanno. / Corre fama, che i visceri nel seno / De i lattanti bambini lor rostro offende; / Chiamansi Strigi, e tal ragion si rende / Di questo nome, che uso di essi sia / Nell’atra notte alzare strida orrende (trad. di Giambattista Bianchi di Siena).

Ma sono anche le lamiae noxiae o le taeterrimaeque Furiae, le “vecchie incantatrici” (cantatrices anus) che troviamo nelle Metamorfosi di Apuleio; o le donne tremende che, racconta Petronio nel Satyricon, sottraggono con l’inganno il corpo di un bambino morto alla madre, lasciandole in cambio un fantoccio in paglia. Figure della magia al femminile che hanno i loro prototipi in Circe, la bellissima maga che con le sue pozioni trasforma gli uomini in bestie; o Medea, la maga potente, la sacerdotessa di Ecate, che esercita i suoi poteri sui corpi donando loro invulnerabilità e giovinezza, ma che è potente anche sulla vita e sulla morte.

Questi ‘tipi’ stregoneschi presenti, anche se marginalmente, nei testi antichi, coincidono in modo sorprendente con le descrizioni popolari delle streghe di cui si ha notizia dal primo Cinquecento, ma corrispondono anche ai potenti soggetti femminili che popolano i manuali demonologici, primo tra tutti il Malleus Maleficarum – la “bibbia” degli inquisitori.

Certo è però che l’ispirazione dell’incisione di Dürer del 1497 non proviene dai prototipi antichi: non c’è nulla di Medea, nulla di Circe, nulla delle striges ovidiane ne Le quattro streghe. Se per quanto riguarda un’incisione successiva a stesso soggetto, La strega (1500-1505), è possibile riconoscere un parziale debito di Dürer nei confronti del modello antico (la donna in groppa al capro è Diana, o Afrodite Pandemos), per l’incisione del 1497 non è plausibile richiamare un modello letterario preciso. Il pathos demonico della strega a cavallo del capro, che emergerà nell’incisione successiva, è totalmente assente. Le Quattro donne sono ancora, a modo loro, rappresentanti di una bellezza femminile classica, quasi accademica.

III. Le fonti di ispirazione contemporanea

Per contestualizzare il soggetto delle Quattro streghe è necessario interrogare diverse fonti eterogenee, ed è necessario ricostruire il contesto sociale e culturale della Norimberga della fine del Quattrocento, negli anni in cui Dürer stava abbandonando la bottega di orafo del padre per fare da assistente a uno dei più importanti pittori/imprenditori della città – Michel Wolgemut.

Per Dürer il periodo di apprendistato da Wolgemut non fu importante soltanto per apprendere i fondamenti dell’arte dell’incisione, che avrà in seguito modo di perfezionare e rinnovare, ma anche perché alla bottega del maestro tedesco vennero affidate al giovane e talentuoso Albrecht le illustrazioni di alcuni importanti testi umanisti che in quegli anni particolarmente fertili stavano vedendo la luce. Dürer ebbe così modo non solo di entrare in contatto con questi testi, ma anche di partecipare in prima persona all’ideazione e realizzazione del loro corredo illustrativo. È per esempio il caso di Das Narrenschiff (La nave dei folli, 1494), il trattato in cui Sebastian Brant aggredisce radicalmente la corruzione della società contemporanea – peccati capitali e vizietti innocui sono ugualmente oggetto di critica – di cui almeno un terzo del ciclo incisorio è di mano di Dürer (Panofsky (1955) 1962,42-43); o ancora del Liber Chronicarum di Hartmann Schedel (Cronache di Norimberga, 1493); in quest’ultima opera le incisioni sono di mano di Wolgemut, ma il testo fu probabilmente commissionato da Anton Koberger, uno dei tipografi più noti in quegli anni a Norimberga e padrino di Dürer.

Con la pubblicazione di Das Narrenschiff, insieme al dissacrante Moriae encomium di Erasmo da Rotterdam (Elogio della follia, 1511) – pubblicato dopo l’opera di Brandt ma con cui condivide la temperatura storico-culturale e di cui riprende l’impronta sagacemente satirica – l’élite intellettuale tedesca affronta con grande ironia gli anni di profondo rivolgimento che precedono la Riforma luterana, facendo sponda anche sulla cultura popolare. Lo stesso Brant afferma nel proemio della Nave dei folli di aver voluto accostare parola e immagine per raggiungere anche chi non era in grado di leggere:

Ognun di loro [i folli] a gara vuol salire: / Quanti siano, nessuno lo può dire;/ Di loro ho qui ritratto la figura./ Chiunque spregi su carta la scrittura / O a leggere giammai abbia imparato / Potrà ammirarsi qui raffigurato, / E chi egli sia potrà così vedere / E il suo difetto giungere a sapere (Brant [1494] 1984, 4).

A ulteriore dimostrazione del pieno coinvolgimento di Dürer nel clima di un'epoca agitata da varie tempeste culturali e sociali, è noto che nel 1526 Dürer dichiara pubblicamente le proprie convinzioni religiose regalando al Consiglio di Norimberga il dipinto raffigurante i Quattro apostoli, considerato l’“icona dell’evangelismo tedesco”. La posizione di Dürer, effettivamente mai ‘militante’, da un lato dimostra come gli artisti abbiano reagito in modo eterogeneo alla Riforma, dall’altro mette in luce il coinvolgimento suo, e dei suoi colleghi tedeschi, nel “riorientamento spirituale” della Germania di inizio Cinquecento (Aikema 2007, 36). Si consideri che La tentazione dell’ozioso (o Il sogno del dotto), datata solo un anno dopo le Quattro streghe, può essere letta, come sostiene Panofsky, come una sorta di didascalia a un preciso passaggio del Narrenschiff:

A nulla l’infingardo / Serve, se non a mettere su lardo / Tutto l’inverno, al fuoco dormendo / E mai neppure un dito muovendo. / La stufa, ecco il suo luogo preferito. […]/ Della pigrizia il maligno approfitta: / Dentro quei solchi il proprio seme gitta. / Pigrizia – madre di ogni vizio in terra / – Fe’ Israele mormorare ed aver guerra / Dal Signore; e adulterio fomentò / David e colpa, ché s’abbandonò /All’ignavia (Brant [1494] 1984, 254).

Confronto fra 2 | Albrecht Dürer, Quattro donne nude (Quattro streghe), 1497 e  4 | Albrecht Dürer, La tentazione dell’ozioso (Il sogno del dotto), 1498 ca., bulino. Raccolta Bertarelli, Milano.

Per Brant l’ozio è “matrice di ogni vizio”, e abbandonarsi al vizio causa guerre e adulteri. Il demonio che nell’incisione di Dürer s’infila nell’orecchio del dotto è dunque “il maligno” menzionato nei versi del Narrenschiff, che approfitta dell’accidia per penetrare nel corpo dell’uomo e gettare i semi del male, generando lascivia e lussuria in chi dovrebbe invece aspirare alla saggezza e alla giustizia. Ma va spiegata la presenza di una donna in primo piano: il suo modello iconografico è da ricercare nella Venere Medici, di cui condivide parzialmente la postura ma non il profilo allegorico-morale; non si tratta, infatti, di Afrodite Urania – la facies celeste e pura della dea chiamata a istillare nell’uomo il seme dell’amore divino; non è amore infatti quel che insinua nel dotto attraverso la cavità dell’orecchio, ma la tentazione. Non amore, ma desiderio carnale, che si rivela ingannevole, instabile e precario come la sfera e i trampoli con cui gioca il putto/Cupido ai piedi della viziosa Venere.

Con La tentazione dell’ozioso Dürer, in linea con la letteratura moraleggiante in voga quegli anni, descrive i rischi che il sapiente corre quando abbandona la via della prudenza e della temperanza e si abbandona al vizio. Per dare immagine al monito morale, l'artista ricorre a un modello classico in cui è protagonista il corpo femminile investito però di un’accezione negativa: quella Venere è causa di vizio e di peccato, simbolo della lussuria e instabilità che è un carattere costitutivo della donna – una concezione perfettamente in linea con le idee che si stavano diffondendo in Germania in quegli anni. Sotto lo stesso cielo culturale, Erasmo da Rotterdam si esprime così sullo stesso tema:

Se non fosse per me [parla la Follia], le donne non possederebbero il bene ammaliante della bellezza […] grazie al quale tiranneggiano anche sui più feroci dei tiranni. […]. Ma gli uomini le ammirano soprattutto per la loro vena di pazzia […]. E concedono loro tutto quello che desiderano. […] Per rendersi conto che questa affermazione è pura verità basti pensare a quante sciocchezze e follie l’uomo è disposto a compiere per guadagnarsi il piacere di un’ora d’amore (Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia, ed. it. 2006, 36-37).

Se Erasmo però si prende beffa dell’uomo in generale, condividendo con Brant il disprezzo nei confronti dell’ipocrisia del suo tempo, a partire dalla fine del Quattrocento la trattatistica moraleggiante che si nutre dello stesso clima culturale è ben più violenta nei confronti del genere femminile e contribuirà all’avvio della caccia alle streghe di metà Cinquecento.

Infatti, fra i molti trattati, moralistici o satirici, e i testi letterari che le tipografie di Norimberga davano alle stampe in quegli anni, spicca la nuova edizione di uno dei manuali destinato ad avere un grande successo: il Malleus Maleficarum (Martello delle streghe), pubblicato per la prima volta nel 1487 a Strasburgo, scritto da due domenicani – Heinrich “Institor” Kramer, che nel 1464 era stato nominato inquisitor haereticae pravitatis, e Jacob Sprengerche poi ebbero l'incarico dal papa Innocenzo VIII di estirpare la stregoneria dalla Germania. Il Malleus fu uno dei testi chiave utilizzati da giudici e inquisitori per identificare le streghe e per giustificare e disciplinare la loro persecuzione.

È con il Malleus, e grazie ad esso, che si istituzionalizza il crimine della stregoneria e, soprattutto, che si individua un profilo della ‘strega’, da perseguire e condannare in quanto tale, a prescindere dai delitti commessi: si tratta di un profilo essenzialmente femminile, in quanto si va affermando l’idea di un legame che il diavolo intratterrebbe con la donna (immediato è il prototipo biblico di Eva e il serpente), un legame facilitato dalla lussuria intesa come vizio costitutivo dell’essere femminile. Il Malleus, composto con una curiosa commistione di ermeneutica teologica e credenze popolari, è popolato anche da soggetti tratti direttamente dalla mitologia classica: un testo sconcertante e contradditorio, che però riscuote un enorme successo perché cade in un momento storico assolutamente favorevole – gli anni che precedono e preparano la Riforma. Tra il 1487 e il 1669 il testo fu ristampato in trentaquattro edizioni; due di queste, rispettivamente quella del 1494 e del 1496, per i tipi di una tipografia che a Dürer era più che famigliare – quella del suo padrino Anton Koberger (Zika 2003, 321-323).

Nonostante una conoscenza diretta di Dürer del Malleus sia indimostrabile, è tuttavia certo il contatto avvenuto in quegli anni tra gli autori del testo e l’Italia, in particolare Venezia. Nel periodo del secondo viaggio in Italia, infatti, Dürer lavora alla splendida pala dedicata alla Festa del Rosario (1506), destinata alla decorazione della chiesa di San Bartolomeo a Venezia, commissionata dalla comunità tedesca della Confraternita del Rosario, fondata a Strasburgo dallo stesso Jacob Sprenger.

La prossimità di Dürer al Malleus Maleficarum (almeno per la presenza del libro nel ‘catalogo’ della tipografia del suo padrino a Norimberga) ha indotto parte della critica a cercare in quello stesso testo la fonte dell’incisione delle Quattro streghe. Secondo Moritz Thausing, l’ipotesi di una suggestione stregonesca nel tema dell’incisione si fonda su un racconto contenuto nel Malleus (Thausing [1876] 1882, 214-215): nel capitolo XIII, dedicato al “modo in cui le streghe ostetriche arrecano i danni peggiori”, i due autori si servono del racconto in prima persona di una donna “onesta e immensamente devota” e del suo incontro con una strega:

Quando si avvicinarono i giorni del parto, un’ostetrica insisteva in modo importuno perché accettassi il suo aiuto per partorire. Ma io, consapevole della sua cattiva reputazione, nonostante avessi deciso di prendermene un’altra, fingevo, con parole pacifiche, di voler accettare le sue richieste. Poiché giunto il giorno del parto, avevo chiamato un’altra ostetrica, la prima, una notte (trascorsi solo otto giorni) entra con profondo sdegno nella mia camera con altre due donne; si avvicinarono al letto in cui giacevo [...] e mi trovai priva di forze in tutte le membra e nella lingua che non avrei potuto muovere neppure i piedi [...]. La strega che stava in mezzo fra le altre due, proferì queste parole: “Eccola, la peggiore delle donne, che non mi volle accettare come sua ostetrica, non se la passerà liscia”. E dato che le altre due che stavano al suo fianco la supplicavano: “Non ha mai fatto del male a nessuna di noi”, la strega soggiunse: “Poiché mi ha fatto questa offesa, io voglio tuttavia metterle nelle viscere qualcosa per cui prima di sei mesi, grazie a voi, non proverà nessun dolore, ma, trascorso questo tempo, si struggerà a sufficienza”. Quindi si avvicinò e toccò con la mano il ventre, e mi sembrò che mettesse nelle mie viscere, dopo aver estratto gli intestini, qualcosa che non ebbi la possibilità di vedere (Sprenger, Kramer, Malleus Maleficarum [1486-1487] 2006, 248-249)..

Riassumendo: una donna aveva assunto, come di consuetudine, una levatrice per aiutarla durante la gravidanza e poi nel parto, ma ben presto però la donna fu allontanata dalla casa perché sospettata di compiere malefici e praticare la stregoneria; per vendicarsi dell’ingiuria subita, la presunta strega e altre due compagne di Sabba si introdussero nella camera della donna per uccidere il feto nel grembo della madre. Le tre toccarono il ventre della malcapitata, operando un sortilegio. Passati i sei mesi la donna partorì, ma il parto si risolse in un aborto perché, tra grida di dolore, uscirono dal suo ventre soltanto spine di rosa e pezzi di legno.

Nonostante sia forse una forzatura far risalire direttamente al Malleus il soggetto dell’incisione, nella prospettiva di un contatto più o meno diretto di Dürer con la trattatistica stregonesca e con gli aneddoti che giravano comunque all’epoca sui malefici delle streghe, il soggetto della rappresentazione potrebbe essere leggibile alla luce della storia del maleficio operato dall’ostetrica malvagia e dalle due complici contro la puerpera. Infatti, nonostante il dialogo gestuale sia in parte coperto dalla presenza in primo piano dei corpi delle donne, facendo attenzione alla direzione dei movimenti delle loro braccia possiamo intuirne la destinazione: tutte tendono verso il centro dell’incisione, che coincide quasi perfettamente con il ventre della donna.

Panofsky rileva la totale mancanza di pathos, e di qualsiasi forma di reazione negativa, da parte della donna che subisce il maleficio e in questo senso la vede come:

“[…] Complice e non vittima, e, in effetti, può essere una giovane strega che desidera liberarsi di un “figlio del demonio”. (Panofsky [1955] 1962, p. 95)

5 | Martin Schongauer, Vergine savia, post 1450-ante 1491, bulino. Musei Civici di Pavia.

Vi è tuttavia, nella figura centrale, un elemento che disturba la quiete patetica che pare essere il mood della composizione, un “indicatore di pathos”: la donna posta al centro è immobile e sembra subire un’azione piuttosto che provocarla, ma notiamo che una brezza di origine esterna muove i suoi capelli. È ormai consolidata, grazie agli importanti studi di Aby Warburg sul Rinascimento italiano, l’ipotesi secondo la quale gli “accessori in movimento” siano l’espressione esteriore di un moto interiore. Ma è altrettanto noto che, a differenza del primo Rinascimento italiano, nell’arte tardogotica del Nord, anche figure che non presentano alcuna traccia di movimento fisico o di pathos emotivo esibiscono i capelli mossi dal vento: Panofsky porta l’esempio delle Vergini sagge, quiete ma con i capelli in agitazione, di Martin Schongauer, notissimo e stimato pittore e incisore di Colmar presso il quale Dürer si reca nel 1492, durante il suo viaggio al Nord, mancando però di incontrarlo perché l'artista era defunto da quasi un anno.

Certamente anche il dettaglio dei capelli mossi, forse dedotto dallo stesso Schongauer, rivela, una volta di più, l’attenzione che Dürer riserva ai modelli classici, ma anche ai maestri contemporanei. In questo senso, anche la classicità delle Quattro streghe è ancora influenzata da un certo retaggio gotico, ma che spinge sempre di più verso quello che in Germania sarà chiamato dallo stesso Dürer “Wiedererwachung”, il Rinascimento tedesco. Dürer fu, infatti, il primo artista del Nord che “sentì il pathos della lontananza”. Resta che il contatto con i modelli antichi, che esercitano su Dürer un forte ascendente, è sempre mediato dall’arte Rinascimentale italiana:

Non c’è un solo caso in cui si possa dire che Dürer ha disegnato direttamente dall’antico, né in Germania, né a Venezia o a Bologna. Egli trovò l’antico solo là dove (secondo la sua confessione di ammirevole franchezza) l’antico già era stato rivissuto per generazioni: cioè nell’arte del Quattrocento italiano, dove il classico gli si presentava in una forma modificata secondo canoni del tempo, ma, proprio per questo, a lui comprensibile (Panofsky [1955] 1962, 264-268).

Tornando alle Quattro streghe, l’incisione di Dürer oggetto di questo studio, notiamo che la figura centrale volge le spalle all’osservatore, in una postura che pare attestare rifiuto e negazione. Significativa pare in questo senso anche la posizione delle sue braccia, impegnate a coprirsi il seno e il sesso, in una posizione che riprende la Venus pudica medicea, forse per la mediazione di Botticelli o, più probabilmente, dedotta da un’incisione di Jacopo de’ Barbari: nella Vittoria e Fama, datata alla fine del ’500, le due figure femminili sembrano quasi sovrapponibili alle due figure in primo piano, a destra nell’incisione di Dürer. Si noti in particolare l’acconciatura e la postura della donna centrale in Dürer, ma anche la postura del collo, la posizione del braccio sinistro e l’espressione del viso della donna sulla destra, tutti particolari evidentemente dedotti dall’incisione di de’ Barbari. Va tuttavia precisato che la questione intorno alla datazione della stampa di de’ Barbari e la presunta derivazione del modello di Dürer è ancora un capitolo aperto (Aikema 2018, 346).

Confronto fra 2 | Albrecht Dürer, Quattro donne nude (Quattro streghe), 1497 e 6 | Jacopo de’ Barbari, Vittoria e Fama, 1495-1500 ca., bulino. Rijksprentenkabinet, Amsterdam.

Nell’incisione di Dürer, dunque, la figura centrale può essere letta anche come una sorta di ‘Venere rovesciata’ e, se è plausibile il collegamento con la storia stregonesca dell’aborto procurato, si tratta, anche dal punto di vista tematico e narrativo, di un’anti-Venere che, anziché promettere la rinascita del mondo a primavera, è ‘madre di morte’. Infatti la donna rappresentata di spalle non è, come nell'incisione di de’ Barbari o nel ‘ciclo’ mitologico di Botticelli, la protagonista di un’epifania allegorica positiva, ma della sua negazione. La figura compie una rivoluzione intorno a sé e nell’inversione anche la sua essenza si converte.

7 | Schema della Venere di Botticelli a confronto con la strega di Dürer (disegno dell’autrice).

L’invenzione del soggetto è perfettamente consonante alla poetica dell’artista: varrà ricordare che secondo Dürer un buon maestro deve essere prima di tutto originale; nota Panofsky sul punto “Chiunque vuole costruire qualcosa sceglie uno schema deliberatamente nuovo, che nessuno ha mai immaginato prima” (Panofsky [1943] 1979; 7). Va considerato in particolare che nel periodo in cui produce le Quattro streghe egli si divertiva a produrre “extraordinary and unusual designs” (Sullivan 2000, 355): l’idea doveva essere nuova, unica, creazione originale dell’artista che affermava il suo ‘genio’ individuale e il suo ruolo, anche nel contesto di una Norimberga tardogotica in cui prevaleva una considerazione dell’arte come artigianato.

Nel repertorio di Dürer convergono così, in competizione con i soggetti religiosi, soggetti bizzarri, allegorico-simbolici, variazioni mitologiche, invenzioni allegoriche, elementi folclorici e altri soggetti profani attinti da episodi curiosi e fatti di attualità, come nel caso de La scrofa mostruosa di Landser, una scrofa nata con otto zampe comparsa nello stesso anni in un foglio voltante di Sebastian Brant.

8a | Albrecht Dürer, Scrofa a otto zampe, 1496, acquaforte.
8b | Sebastian Brant, La scrofa mostruosa di Landser, 1496.

Fra questi soggetti eccentrici può rientrare anche il tema stregonesco, che permette a Dürer di muoversi in questo terreno non ancora frequentato e che gli concede la libertà di creare e inventare nuovi modelli, come accadrà con La strega, copiata a più riprese da artisti nordici e non, fino a fissarsi come modello iconografico. Da sottolineare che le numerose streghe di Hans Baldung Grien sono tutte rielaborazioni da Dürer, ma anche Agostino Veneziano inserisce ne Lo stregozzo una copia della strega dureriana.

9 | Agostino Veneziano, Lo stregozzo,1518, bulino, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, Firenze.

Nell’altro verso, non bisogna dimenticare il lascito dell’arte italiana senza il cui esempio non sarebbe stato possibile per Dürer raggiungere la consapevolezza artistica che ne ha fatto il maestro del Rinascimento tedesco:

Se mai sia possibile dire che un grande movimento artistico è opera di un singolo, il Rinascimento nordico è certo opera di Albrecht Dürer. Michael Pacher aveva saputo acquisire alcuni risultati importanti del Quattrocento italiano; ma solo Dürer seppe intravedere, attraverso il Quattrocento italiano, l’antico. Fu lui ad inculcare all’arte nordica il senso della bellezza e del pathos antichi, della forza e della chiarezza della classicità (Panofsky [1955] 1962, 264-265).

Come suggerisce ancora Panofsky:

La forma statuaria dell’Apollo del Belvedere fu sottoposta alla ‘luce contraddittoria’ di un cielo notturno e nuvoloso, che riflette lo strano fulgore di un disco solare, oppure viene posta contro lo sfondo ombroso di una foresta. Altre volte gli atteggiamenti e i gesti classici vennero ripresi senza un mutamento radicale della forma, ma furono investiti di un contenuto del tutto diverso. La bellezza pagana dell’Apollo del Belvedere fu sollevata alla sfera della religione cristiana, abbassata, per così dire, al livello della vita quotidiana (Panofsky [1955] 1962, 266).

Concludendo si potrebbe dire che nelle Quattro streghe il gesto classico e posato delle tre Grazie è stato ripreso da Dürer e tradotto – o tradito – nel gesto pagano e allo stesso tempo popolare delle quattro streghe, rivelando uno dei punti di forza dell’arte rinascimentale tedesca: l’incontro tra l’erudito e il popolare, tra il colto e il folklorico, tra magia e stregoneria, in una feconda commistione di nuove idee e rappresentazioni che non smettevano di stimolare le menti degli eruditi di Norimberga. A questo proposito Bernard Aikema ha recentemente offerto una nuova lettura che potrebbe risolvere l’enigma interpretativo intorno all’incisione delle Quattro streghe (Aikema 2018, 383): si potrebbe trattare di un esempio di “conversation piece”, ovvero una rappresentazione dai significati complessi, frutto di una mente ingegnosa ed erudita, e nata anche con lo scopo di stimolare la conversazione di un gruppo di persone di un certo ambiente culturale – come poteva esserlo quello che si riuniva intorno ai già citati Conrad Celtis (che già Thomas Schauerte ha individuato come la mente dietro al bulino di Dürer) e Willibald Pirckheimer.

Fonti
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  • Erasmo da Rotterdam, Moriae encomium. Erasmi Roterodami declamatio, s.l. 1511, trad. it. Elogio della follia, a cura di Anna Corbella Ortalli, Milano 2006.
  • Hartmann Schedel, Liber chronicarum cum figuris et imaginibus ab initio mundi, ed. A. Kobleger, Nürnberg 1493.
  • Heinrich ‘Institor’ Kramer, Jacob Sprenger, Malleus Maleficarum, Strasburg 1486-1487, trad. it. Il Martello delle streghe. La sessualità femminile nel ‘transfert’ degli inquisitori, a cura di Armando Verdiglione, Milano 2006.
Riferimenti bibliografici
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  • Bartsch [1802-1821] 1980
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English abstract

At the end of the XV century, Italy was witnessing a great spreading of classical antiquity, thanks to the intervention of the Neoplatoic Florence Academy and the mediation of the most important italian artists of the time. In the same years, in 1497, in Germany, Albrecht Dürer was printing an engraving called “The four witches”, in which the echo of the classical schema of the Three Grace and Venus is clear. Yet in Dürer they are both transformed in a new allegory of disgrace and hate, thanks to the addition of a fourth female figure and the inversion of the position of Venus.

However, Classical models are not the only recognizable influence: there is much of the satirical literature and the condemnation of vices and corruption promoted in Germany as a reaction to the Reformation, but also a possible reference to the treatises on witchcraft that were being publishing from the end of the XV century.The essay traces the italian influences - from the scheme of Three Graces to Victory and Fame by Jacopo de’ Barbari - and the nordic influences - Das Narrenschiff, Malleus Maleficarum - to reveal how the Dürer’s genius made a bright use of heterogeneous models to give life to a new representation.

keywords | Classical Antiquity, Neoplatonic Florence Academy, Durer, witches, Venus

Per citare questo articolo / To cite this article: S. Arosio, Grazie e disGrazie. Albrecht Dürer e l’insorgenza della rappresentazione della strega come distorsione dell’immagine delle tre Grazie , “La Rivista di Engramma” n. 154, marzo 2018, pp. 11-31 | PDF di questo articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2018.154.0005