"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

155 | aprile 2018

9788894840339

Venezia piena

Angela Vettese

English abstract

Ritorno in Piazza, l’acqua e le pietre, fotografia di Anna Zemella, 2016.

L’obiettivo della cinepresa è sulla prua di una gondola e guarda Venezia dall’acqua. Notiamo qualche cambiamento di scala, di colore, di stile, ma restiamo in questa capsula di memorie abitata da compratori. Siamo nel film Chain City di Elizabeth Diller, Ricardo Scofidio e Charles Renfro, in cui la città lagunare è montata insieme a molte delle gemelle che l’hanno copiata nel mondo: così l’immaginario resta uguale ma il luogo fisico passa da Las Vegas a Nagoya, Tokyo, Macao, Doha. Non si può dire che le altre Venezie siano finte, dato che sono solide e abitate, ma si perde la nozione del vero, del luogo, del come. Queste Venezie sono apparentate dall’idea di mostrarci una meraviglia insensata, una fascinosa ma inutile Wunderkammer.

Ma Venezia ha invece molti perché, qualcuno oramai inattuale, come le calli dedicate a mestieri che non esistono più, qualcun altro invece rimasto intatto o tornato efficace, come quei centri commerciali detti ‘fonteghi’ uno dei quali è stato riportato al suo ruolo da un restauro di Rem Koolhaas; un po’ timido, invero, come tutto ciò che succede tra Rialto e San Marco e diversamente da alcuni restauri coraggiosi all’Arsenale. Ma qui la norma non detta è che si può fare di tutto – allungare l’isola con il forcone abnorme della stazione marittima, costruire un Palazzo di Giustizia nero e aguzzo come uno chalet a Piazzale Roma (C+S Architects, 2002/12), creare una zona intera alla Giudecca con palazzi che vanno dalla dolcezza della casa di Cino Zucchi alla durezza dell’ex Junghans. Purché ciò non avvenga al centro della cartolina o in luoghi molto visibili: a Tadao Ando è stato permesso di ricostruire un teatrino con muri sofficemente curvi, a San Samuele, ma senza che dal di fuori si percepisca l’incredibile modernità del suo gesto. La Venezia dei souvenir non deve essere visibilmente turbata.

Vale sempre la pena ricordare che c’è stato un dibattito sul rinnovamento della città e che non è stato inutile, anzi a quello si finisce per riallacciarsi ogni volta che si combatte un po’ per favorire il nuovo: iniziò soprattutto con il volume Venezia di Sergio Bettini (1953) e si allargò, nel 1954, con la mostra Venezia Viva a Palazzo Grassi. Di quanto fosse difficile portare avanti le idee di rinnovamento seppe molto Giuseppe Mazzariol (1922-1989), cui la città diede molti incarichi e quasi nessuna soddisfazione e che vide svanire i due progetti maggiori di cui si era fatto latore: l’ospedale a San Giobbe, progettato da Le Corbusier in tale modo da potersi estendere, se necessario, colonizzando l’acqua, e il palazzo che Frank Lloyd Wright avrebbe voluto erigere dove sorge il volume di mattoni che ora ospita la Fondazione Masieri. Però innovare si può e soprattutto si deve: i numeri del turismo lo pretendono. A un certo punto se ne dovrà rendere conto anche chi è immobilista.

Osserviamo per un attimo un fenomeno di cui si parla spesso con troppo pochi dati alla mano: pur avendone parlato in molti convegni, gli studi con aspetti quantitativi e legali riguardanti il turismo sono pochi, tra cui quello di Jan Van Der Borg del lontano 2007. Su richiesta del Comune, inoltre, dal gennaio 2012 al gennaio 2013 sono stati distribuiti dal Dipartimento di Economia di Ca’ Foscari 2.606 questionari a visitatori del centro insulare, intercettando i non veneziani da luoghi comuni come Stazione, Strada Nuova, Rialto, Accademia, San Marco. Pernotta solo il 64%, ma il numero di notti di permanenza che viene dichiarato è al di sopra di quello che dicono le statistiche offerte dagli alberghi: circa 4 notti di media, in parte oscure ai dati ufficiali perché spese a casa di amici o in quella selva di nuovi posti di accoglienza che si chiama ‘albergo diffuso’: ne fanno parte affittacamere e bed and breakfast non dichiarati, ma che si fanno pubblicità candidamente nei siti di turismo e accoglienza. Solo recentemente se n’è avviato una sorta di censimento. Il 4% viaggia con un gruppo organizzato, mentre gli altri si organizzano da soli viaggiando in famiglia, in coppia o con amici. Quindi il problema delle gite a pacchetto è ampiamente sopravvalutato, anche perché sono le sole davvero riconoscibili. Ma questo significa che molti visitatori vagano alla rinfusa, lasciando vuote molte sedi cittadine che sarebbero interessanti. Il 52% dei visitatori è europeo e solo il 24% viene da paesi ricchi e lontani come l’America e la Cina. Si fa poco per promuovere l’arrivo di chi potrebbe spendere di più. Circa l’89% delle visite avviene a scopo di svago e anche questo è un peccato, nonché una conseguenza di strutture informative inefficaci: come si è visto, l’offerta di mostre, concerti, eventi è molto ampia e la gente non li disdegnerebbe, se sapesse dove dirigersi. Altrimenti non si assisterebbe all’enorme successo di pubblico di mostre di basso profilo, ma molto visibili, su argomenti e personaggi improbabili, o ai concerti di qualità non eccelsa che si tengono nelle chiese sconsacrate e capaci di farsi pubblicità, magari con l’aiuto di hostess vestite da veneziana del Settecento sopra agli anfibi e ai jeans.

L’uso poco efficiente delle informazioni via internet è un peccato, perché ormai oltre il 73% delle persone lo utilizzano, considerando anche che l’età media di chi arriva è bassa – 38 anni – quindi non si tratta di analfabeti digitali. Il 35% dei servizi, soprattutto riguardo alle camere dove dormire, sono acquistati attraverso quel canale. Il tempo di permanenza sul sito ufficiale dedicato alla scelta della propria visita, VeneziaUnica, nel 2015 ha fatto registrare un tempo medio di sguardo al sito stesso di soli 4,32 minuti (Annuario 2016, 54). Intercettare i turisti e informarli, nella speranza mai persa di potere organizzare meglio i flussi, non sarebbe impossibile, dal momento che quasi tutti arrivano in città dalle stesse porte: Piazzale Roma, la Stazione e gli aeroporti di Venezia e Treviso.

Venezia è nata per controllare chi arriva e lo potrebbe ancora fare, se volesse. Invece si permette che al Tronchetto agiscano più o meno indisturbati i cosiddetti ‘intromettitori’, coloro che portano in giro i turisti con mezzi abusivi e dirigendoli dove credono. La spesa media giornaliera è di 169 euro a persona – molto bassa se si considera che ciò comprende il cibo e il pernottamento. Se si può avere simpatia per gli studenti che non lasciano in città che 25 euro, altri visitatori potrebbero essere aiutati da servizi migliori a pagare qualcosa in più. Tanto più che quasi tutti dichiarano di volere tornare. La tendenza all’aumento dei turisti nel numero, più che nella permanenza, è fortissima, ma Venezia non subisce un assalto più grave di altri centri italiani: nel decennio 2005-2014 Roma ha incrementato l’afflusso del 51,30%, e Venezia del 30,15% – più o meno quanto Firenze dove gli arrivi sono aumentati del 29,25%. Per contro la città tende a guadagnare più di ogni altra da chi arriva: il costo minimo di una camera d’albergo a Venezia è 115,28 euro, a Roma di 80,92 e a Firenze di 77,76.

Venezia non ha bisogno di biglietti d’ingresso e numeri chiusi, cose che disincentiverebbero i cosiddetti city users, coloro che la abitano davvero e che la rendono viva, anche se non vi risiedono ufficialmente. Ha bisogno semmai di ampliare le zone di percorrenza e di concepirsi come “sistema integrato: una splendida città, la laguna, molte altre zone limitrofe poco visitate. Un turismo che si allarghi, sia dentro la città che nei dintorni” (Ferlenga 2016, 8). E per far questo occorre soprattutto informare con tutti i mezzi possibili: da un sito del Comune veramente visibile ad applicazioni in molte lingue e per molti diversi palati, dai Qr code su palazzi, monumenti e imbarcaderi, fino ad accordi con Google per pubblicizzare itinerari insoliti o tematici.

Si è detto che la ricetta per aiutare la Venezia insulare sia ridurre drasticamente i posti letto negli alberghi, puntare sul porto e sull’aeroporto come centri propulsivi per l’economia, coinvolgerla in una megalopoli che comprenda Padova, Treviso e Vicenza. Questo insieme di cure “probiotiche e antibiotiche” (Costa 2015) potrebbe essere decisivo, come è sempre accaduto quando la si è sottratta al suo splendido isolamento, pur tra mille polemiche, con i ponti, la ferrovia, la strada carrabile e il tram. L’ipotesi di aprirla maggiormente alla Terraferma vede molti tentennamenti e qualche inalberato, che addirittura ipotizza di fermare le automobili prima del Ponte della Libertà. Qualche rischio però lo si dovrà correre: dal 2003 al 2015 le presenze sono salite continuamente, senza contraccolpi rispetto alla crisi economica internazionale (Annuario 2016, 11); alcuni musei hanno visto diminuire le presenze, come Palazzo Ducale che ha registrato il maggior calo vicino tra tutti i musei civici con un -9,1% dal 2011 di cui solo ben -5% nel 2015, benché ciò sia compensato dalla diversificazione dell’offerta: il Museo Correr ha visto aumentare le sue visite del 24% in un quinquennio. Il rinnovamento del tipo di allestimento sembrerebbe pagare: il Museo del Vetro, appena ristrutturato, ha guadagnato in un anno il 13% dei visitatori.

La via maestra per il cosiddetto turismo di qualità, dunque, oltre a un allargamento alla laguna della zona pubblicizzata, resta quella della cultura: una città non carrabile e non vicina alle zone agricole non può sperare di avere le risorse di un centro emiliano, dove è facile avere un’industria meccanica e una agro-alimentare di eccellenza. Un campus pedonale e poco pericoloso come la Venezia insulare dovrebbe pensare al proprio sviluppo – e quindi anche alle sue nuove architetture – sotto la forma di creazione di sale adatte ai congressi, di ulteriore incremento della presenza universitaria – la sola in grado di dare un futuro giovane alla città se solo fosse accompagnata da una politica adeguata riguardo alla residenzialità – dello sviluppo pieno dei musei sull’esempio del dinamismo della Biennale – unica istituzione italiana a essere numero uno nel mondo nel campo delle arti contemporanee e tra le poche istituzioni italiane a essere numero uno tout court. Ed è sul contemporaneo che la città può e dovrebbe puntare: cresciuta su se stessa per mancanza di spazio, si è cercato da un secolo di congelarla nella filosofia del ‘dov’era com’era’, o piuttosto di un culto della rovina di matrice romantico-ottocentesca che non pertiene alla sua vera storia e dunque crea un falso.

Qualsiasi passatismo tradisce la sua natura che l’ha vista per secoli all’avanguardia nell’architettura, nelle arti visive, nelle invenzioni tecnologiche e persino mediche. Qui si è chiamato Palladio per combattere Sansovino. Qui è stato giusto chiamare Calatrava, anche se sarebbe stato auspicabile che i progetti e i lavori di realizzazione fossero stati seguiti con maggiore accortezza da parte del committente. A ben vedere, Venezia è davvero viva, cioè puntellata da interventi di architetti che vanno da Mario Botta a Michele De Lucchi, da Alvaro Siza a Renzo Piano e Vittorio Gregotti più molti nomi meno classici che hanno fatto ricuciture egregie del nuovo sul vecchio.

Se poi si pensa alla parabola della Biennale, che è riuscita a portare dentro a un teatro lirico come la Fenice opere di artisti visivi quali William Kentridge, Kara Walker, Mariko Mori tra gli altri, che ha portato ossigeno alla città creando il fenomeno dei palazzi in affitto temporaneo durante i suoi periodi caldi che, nonostante qualche debolezza sul fronte del Cinema e della gestione del proprio archivio, fa transitare i migliori nomi internazionali di ogni settore creativo (è l’unica manifestazione interdisciplinare al mondo). Come si può anche solamente pensare che Venezia, una città così piena di risorse, possa morire come una Traviata? Basta riprendere qualche suggerimento da Fernand Braudel per pensare a

[...] far rappresentare nei teatri opere venute da ogni parte, far durare più a lungo la mostra del cinema e rendere disponibili le opere presentate nelle sale cinematografiche dell’intera città per tutto l’anno. E, con un pizzico di complicità del governo di Roma, non si potrebbe lasciarle un po’ più di libertà? Farne, che so, un porto franco? Fare in modo che ogni Stato vi tenga una propria ambasciata? (Braudel 2013, 109).

Venezia muore se la si lascia senza visione e senza competenze nell’ambito culturale e turistico, cosa che il governo della città sembra perseguire da varie amministrazioni. Perché succede? Chi vuole che succeda? Chi trae vantaggio da un laissez faire così apparente da non sembrare innocente? Queste sono le domande da porsi e da non lasciare nel vuoto.

Bibliografia
  • Annuario 2016
    Annuario del Turismo, Dati 2015, Città di Venezia, Venezia 2016.
  • Bertagna, Marini 2014
    A. Bertagna, S. Marini, Venice. A document, Venezia 2014.
  • Bettini 1953
    S. Bettini, Venezia, Novara 1953.
  • Busacca, Rubini 2016
    M. Busacca, L. Rubini, a cura di, Venezia chiama Boston. Costruire cultura, innovare la politica, Venezia 2016.
  • Braudel 2013
    F. Braudel, Venezia, Bologna 2013.
  • Busetto 2014
    G. Busetto (a cura di), Etica, creatività, città: Giuseppe Mazzariol e l’idea di Venezia, Milano 2014.
  • Costa 2015
    P. Costa, Città metropolitana e bene culturale, “Nexus” 6 (2015).
  • Dal Co, Molteni, Koolhaas, Pestellini Laparelli 2016
    F. Dal Co, E. Molteni, R. Koolhaas, I. Pestellini Laparelli, Il Fondaco dei Tedeschi, Venezia. OMA, il restauro e il riuso di un monumento veneziano, Milano 2016.
  • Ferlenga 2016
    A. Ferlenga, I confini del turismo vanno allargati dentro e fuori la città, “Corriere del Veneto”, 26 agosto 2016.
  • Kush, Gelhaar 2014
    C. F. Kush, A. Gelhaar, Guida all’architettura. Venezia: Realizzazioni e progetti dal 1950, Berlin 2014.
  • Pes 2002
    L. Pes, Storia di Venezia, l’Ottocento e il Novecento, 2002, 2393-2435,
  • Ricci 2010
    C. Ricci (a cura di), Starting from Venice, Milano 2010.
  • Ricci 2012-2013
    C. Ricci, La Biennale di Venezia 1993-2003, L’esposizione come piattaforma, Tesi di dottorato, Scuola dottorale interateneo Ca’ Foscari, Università Iuav Universtià di Verona, Venezia 2012-2013.
  • Van der Borg 2007
    J.V. der Borg, Verso una politica turistica moderna a Venezia, in G. Ortalli (a cura di), Turismo e città d’arte, Venezia 2007.
English abstract

As the film Chain City edit by Elizabeth Diller, Ricardo Scofidio and Charles Renfro recount, the many copies of Venice around the world define an iconic image of the city, blearing the boundary between real and unreal. Although the reproduction of the lagoon may question the meaning of the original one, Venice still demonstrates its peculiar character in the ability to renovate itself. Even if the debate about the renovation of the city is long-lasting, investigating actual data, information and communicative aspects about touristic phenomenon, the need to renew the urbanity of the city becomes evident. Therefore, going through hypothesis launched in recent years to address the over-turistization of the lagoon, the essay focus on those contemporary aspects which could represent alternative ways of development and through which rediscovering new vision of the city.

keywords | Venice, copies, renovation, tourism. 

Per citare questo articolo / To cite this article: A. Vettese, Venezia piena,  ”La rivista di Engramma” n.155, aprile 2018, pp. 183-190 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2018.155.0014