"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

159 | ottobre 2018

9788894840544

Classico e Indigeno

Una lettura di Dimitris Pikionis a “documenta 14”

Bianca Maria Fasiolo

English abstract

Learning from Athens è il titolo con cui è stata inaugurata ad aprile 2017 la quattordicesima edizione di “documenta”, manifestazione internazionale d’arte contemporanea fra le più rilevanti in Europa che si svolge con cadenza quinquennale in Germania dal 1955. “documenta” ha tradizionalmente sede nella città di Kassel dove è nata e da dove non si è mai, se non parzialmente, spostata, anche dopo la caduta del muro di Berlino e la conseguente perdita di rilevanza geografica della città, prima luogo di confine tra ovest ed est.

Nelle edizioni precedenti si assiste a più di un tentativo di portare l’esposizione oltre i confini cittadini e nazionali. Nel 2002 “documenta 11”, curata da Okwui Enwezor, si articola attraverso delle cosiddette piattaforme che creano un collegamento tra Kassel, Berlino, Vienna, Nuova Deli, Santa Lucia e Lagos. Nel 2012 invece, per volere della curatrice Carolyn Christov-Bakargiev, un’estensione della mostra viene aperta in parallelo anche al Tajbeg Palace di Kabul, Afghanistan. Sono entrambi tentativi di decostruire o sfidare il taglio marcatamente eurocentrico proposto dalla manifestazione sin dai suoi inizi per aprire ad un discorso autenticamente globale e post-coloniale che ponga simbolicamente fine alla supremazia culturale dell’Occidente (Szymczyk 2017).

Nel 2017 “documenta 14” decide di portare avanti un’operazione di dislocamento fisico dell’esposizione, questa volta scegliendo la città di Atene come sua seconda sede. A rendere questa edizione relativamente eccezionale rispetto ai casi precedenti è però la portata dell’operazione, dal momento che l’evento viene diviso in due parti di ugual importanza e a partire da aprile si assiste a un vero e proprio trasferimento di “documenta” nella capitale greca. La mostra viene inaugurata a Kassel solo successivamente, concedendo così ad Atene un’esclusiva di diversi mesi.

Quello di “documenta 14” non è tuttavia solo un trasferimento unidirezionale, dalla Germania verso la Grecia, ma l’idea guida è di dare forma a uno scambio fra le due città coinvolte. A Kassel, una delle sedi storiche della manifestazione, il Fridricianum, è interamente occupato da una consistente selezione di opere di artisti greci e internazionali provenienti dall’EMST, il Museo Nazionale di Arte contemporanea di Atene e molte sono anche le riflessioni presenti in mostra sul passato e il presente delle relazioni fra Grecia e Germania.

Stando a quanto raccontato dal curatore Adam Szymczyk nel testo introduttivo al catalogo dell’esposizione, il Reader, l’idea di lavorare da e con Atene nasce nel 2013, in un momento in cui la città è emblema di una crisi globale che colpisce diversi stati europei e la Grecia in particolare. 

Foremost and among the catastrophes that we have encountered as we have worked on documenta 14 has been the economic violence enacted, as it seems, almost experimentally upon the population of Greece. Brought about by subsequent phases of austerity measures imposed by international financial institution in unison with European Union leaders, such measures have resulted in the de facto loss of sovereignity of the current and any future Greek political constituency, as well as the loss of Greek citizen's individual freedom after capital control instruments were implemented in 2015 (Szymczyk 2017, 23).

Al fine di decostruire i presupposti di una narrazione tradizionale che viene vista eccessivamente eurocenrica, per il curatore sembra avere senso spostare la quattordicesima edizione di “documenta” dal margine di uno dei centri di potere economico europeo, Kassel, verso una città come Atene che fu “la proverbiale culla di quella stessa civiltà europea che ha raggiunto il suo presente stato di esaurimento” (Szymczyk 2017, 29). La capitale greca è inoltre, anche per la sua posizione geografica, un luogo emblematico delle sfide e delle trasformazioni in atto in tutto il continente e quindi un centro privilegiato per imparare a guardare il mondo da prospettive altre, disimparando (unlearning è una delle parole chiave della metodologia di lavoro della manifestazione) a pensare attraverso i paradigmi della cultura dominante che vede la superiorità dell’ovest esercitata – nel passato e nel presente – a discapito di altri, i cosiddetti “barbari”, ossia tutti coloro che in questa narrazione vengono considerati inaffidabili, incapaci o non illuminati, e necessariamente destinati ad essere soggiogati (Szymczyk 2017, 30). 

Non a caso “documenta 14” si concentra in buona parte sul recupero di pratiche e culture indigene di diverse parti del mondo, dando spazio ad artisti che da quelle culture provengono. Si pensi a Beau Dick, membro di spicco e capo ereditario della comunità indigena degli Kwakwaka’wakw nel Canada occidentale o il collettivo di artisti Sami rappresentato da Keviselie/Hans Ragnar Mathisen, Britta Marakatt-Labba e Synnøve Persen, il cui progetto artistico e politico è finalizzato a testimoniare l’orgoglio e il forte senso di appartenenza delle popolazioni indigene della Lapponia al loro territorio. Solo per citare qualche esempio fra i molti. Il pensiero guida che dà forma alla manifestazione è dunque disimparare quello che già si sa e provare ad imparare da questi “altri” in un ipotetico incontro fra eguali, evitando di riprodurre relazioni di potere asimmetrico tra sovrano e subalterno (Szymczyk 2017, 33).

Una volta chiarito il framework concettuale dell’esposizione – o almeno di una parte di essa visto le dimensioni e la complessità dell’operazione – è ora interessante andare a vedere come una simile premessa teorica sia stata applicata nello specifico al caso greco, con particolare attenzione alle relazioni fra i due paesi ospitanti, Grecia e Germania.

Se, come è stato detto, il trasferimento della collezione dell’EMST al Fridericianum è forse l’atto più simbolico dello scambio fra le due città, più complessa è la ricerca storica che viene condotta per andare a ripercorrere i rapporti e gli scambi sia politici che culturali fra i due paesi già a partire da metà Ottocento. 

La sede espositiva della Neue Galerie a Kassel ospita in questo senso diverse riflessioni relative al concetto di nazionalità e senso di appartenenza, ma anche di perdita o mancanza dello stesso. Uno dei luoghi storici della manifestazione – l’edificio – viene utilizzato in questa edizione come il sito della memoria e della coscienza storica di “documenta 14”. Il caso greco viene introdotto da uno degli elementi più simbolici del patrimonio culturale della nazione, ossia la collina dell’Acropoli e il Partenone. In mostra vengono proposte diverse rappresentazioni dell’Acropoli realizzate da artisti più o meno noti che offrono al visitatore la possibilità di osservare le diverse fasi dello sviluppo del sito archeologico a partire dalla seconda metà del diciannovesimo secolo. Dalla veduta del paesaggista tedesco Louis Gurlitt, Akropolis, del 1858, dove fra i resti del tempio si può ancora vedere la torre medievale abbattuta pochi anni dopo, a quella di Alexander Kalderach del 1939, che dipinge un Partenone scintillante e idealizzato, completamente ripulito dalla presenza di strutture risalenti a periodi storici successivi. Non mancano gli schizzi disegnati in situ dal fondatore di “documenta” Arnold Bode durante un viaggio ad Atene nel 1965. In mostra è anche presente un’altra veduta idealizzata, questa volta non del Partenone, ma di una struttura gemella realizzata a inizio Ottocento in Baviera dall’architetto Leo von Klenze, il Walhalla di Regensburg. L’unico autore greco che emerge in una selezione di artisti altrimenti esclusivamente tedesca è l’architetto Dimitris Pikionis, i cui schizzi dell’Acropoli – appartenenti alla serie Inspired by Attica – sono presentati associati a delle fotografie che documentano la realizzazione dei sentieri pedonabili da lui progettati negli anni Cinquanta del Novecento per la collina del Partenone.

La narrazione proposta dai curatori in questa sede è tutt’altro che lineare e per capire come questa serie di vedute si riferiscano agli albori dello stato greco moderno e alle relazioni con la Germania è necessario ricorrere al Reader dove, in Where and When, do German-Greek relations begin?, Dieter Roelstraete ci ricorda innanzitutto come la Grecia diventi una nazione indipendente solo nel 1832 affrancandosi dal controllo ottomano e trasformandosi in una monarchia a cui capo viene posto il principe Otto I, figlio di re Ludwig I di Baviera. Una decisione presa a tavolino dalle grandi potenze europee del tempo al termine della decennale guerra di indipendenza greca.

Roelstraete propone tuttavia anche un’altra data simbolica per l’inizio delle relazioni greco-tedesche, il 1764, anno di pubblicazione di Storia dell’Arte Antica di Johann Joachim Winckelmann. Un testo fondamentale per la creazione dell’ideale mitico della Grecia antica nella cultura europea del tempo attraverso il quale viene decretata la centralità del paradigma classico nella storia dell’arte occidentale. Un’opera che inoltre contribuisce largamente all’avvento del neoclassicismo di fine Settecento.

Il curatore tuttavia ci mette in guardia:

A tireless apologist for this ideal's dehistoricized aesthetic and thus a key figure in the establishment of the classicist paradigm, Winckelmann is well-known for never having set foot on the Greek soil: ‘his’ Greece remained a figment of the imagination (Roelstraete 2017, 469).

Stando a quest’analisi è probabilmente alla Grecia classica idealizzata da Winckelmann e celebrata dalle corti nord europee che si rifaceva il re Otto al momento di insediarsi come sovrano del nuovo stato, un’immagine molto distante dalla realtà greca di allora soprattutto se si considera l’influenza culturale dei secoli di dominazione ottomana appena conclusasi. A sostegno di questa ipotesi vale la pena citare che fra i primi provvedimenti presi dal re ci fu la decisone di spostare la capitale da Nafplio, città costiera strategica dal punto di vista commerciale, alla più simbolica Atene, al tempo un insignificante insediamento di non più di 8000 abitanti senza diretto accesso al mare. Simultaneamente viene organizzata anche la ricostruzione di Sparta presso il sito della città antica, un luogo forse immaginato come secondo centro del regno (Hamilakis 2014).

L’ambiziosa pianificazione della nuova capitale viene quindi affidata all’architetto Leo von Klenze, già conosciuto alla corte di Ludwig a Monaco e figura di punta del neoclassicismo tedesco del tempo. Vale la pena notare che Klenze è anche l’autore della Ballhaus del parco di Wilhelmshöhe a Kassel, insieme alla Neue Galerie un’altra tradizionale sede di documenta.

A Klenze viene affidato il rifacimento urbanistico della città, di cui in mostra è presentato il piano da lui elaborato insieme ai collaboratori Kleanthis e Schaubert, e la ristrutturazione del Partenone che al tempo era una guarnigione militare e sede di una moschea storica. Antonas ci fa notare come la pianta neoclassica per la nuova capitale prevedesse tre punti centrali organizzati in un triangolo il cui vertice era l’Acropoli. Il cimitero antico di Kerameikos e il Palazzo del Sovrano – ora il Parlamento – guardavano simbolicamente alla collina. Una simile geometria tracciava una relazione immediata tra la nuova città e le rovine antiche in una performance materiale dell’origine comune di Grecia ed Europa, unificando i cittadini dello stato moderno con il nuovo sovrano bavarese

L’architetto si impegna a trasformare la collina dell’Acropoli in un’area archeologica al fine di restituire il Partenone e gli edifici circostanti all'antica gloria del passato classico. Un’operazione questa altamente simbolica il cui fine era esplicitare il più chiaramente possibile la relazione di continuità fra la storia antica della città e la monarchia appena insediatasi, offrendo così legittimità al sovrano che aveva il compito di risollevare le sorti della nazione dopo la lunga dominazione ottomana (Hamilakis 2014). Attraverso un processo sistematico di purificazione del paesaggio vengono rimosse quindi le tracce lasciate sulla collina dalle occupazioni dei secoli precedenti, e in particolare dalla “barbarie” turca. Viene eliminata la moschea con i suoi minareti e le numerose case presenti nell’area del Partenone, gli edifici della guarnigione e, in una seconda fase, anche la torre medievale. Simultaneamente si ricostruiscono i monumenti come il Tempio di Atena Nike e l'Erechtheion necessari al supporto della narrazione storica lineare voluta dall’architetto.

Secondo l’analisi dell’archeologo Yannis Hamilakis, anch’egli presente nel Reader, più che attraverso un recupero delle tracce materiali riscontrabili sull’Acropoli, il sito archeologico di Klenze si sviluppa tramite una ricreazione talvolta deliberata o immaginaria del passato della città, che invece di prendere atto della realtà del luogo, ne produce una nuova attraverso la selezione di alcuni elementi e la rimozione volontaria di altri:

Therein lies one of the central paradoxes of national archaeology: it often invokes objectivity, neutrality, accuracy, and precision, it privileges empirical observation over explanation and interpretation, yet at the same time it overtly or covertly creates a national past and a national archaeological record, by deliberate selection, de-contextualization, sanitization, and often imaginative re-creation of the past. It invokes the material truths of the nation to prove links and continuities, and yet it masks the fact that it itself re-creates and re-enacts the material ‘realities’ of the national Golden Age, it itself produces the facts on the ground (Hamilakis 2014, 102).

L’area dell’Acropoli viene dunque monumentalizzata e strutturata in modo tale da restituire una lettura univoca e relativamente statica del passato nazionale, una visione idealizzata e stereotipica fortemente influenzata dall’idea neoclassica del concetto di classico all’ora diffusasi in Europa Centrale. Una prospettiva che tendeva a neutralizzare la reale complessità sociale e politica della Grecia di allora (Hamilakis 2014) e che ignorava volutamente l’influenza bizantina e ottomana nel complesso processo di formazione dell’identità nazionale.

Anche Aristide Antonas, artista e contributor di “documenta 14”, segue la stessa linea interpretativa nel suo su intervento su South as a State of Mind, pubblicazione collaterale dell’esposizione:

Here [in Athens], the “real” is sacrificed in favor of the “ideal”, the material for the immaterial, the visible for the invisible, and this pattern has been implemented long enough for all differences to be clearly marked out. Idealism was one of the most powerful means for establishing Athens as the Greek capital under a Bavarian king, and Athens was situated in a German context more easily than in a local one.

Attraverso le sue parole è interessante dunque notare come la ri-costruzione dell’Atene antica sia strumentale, e corrisponda in termini temporali, allo sviluppo dell’Atene moderna, a supporto di un ricongiungimento simbolico con degli antenati la cui identità è il risultato di un costrutto imposto dall’esterno (Antonas 2015). Un’imposizione che lentamente si fa strada nella società greca dove la prospettiva stessa dei cittadini ateniesi si adegua all’interpretazione centro-europea dell’ideale ellenistico.

da sinistra: Stamatios Kleanthis ed Eduard Schaubert, Piano per la nuova città di Atene (1833), inchiostro su carta 46.9 × 61 cm, Staatliche Graphische Sammlung München, Munich Neue Galerie, Kassel.
Louis Gurlitt, Acropoli al tramonto, 1858, olio su tela, Ribe Kunstmuseum, Denmark.
Leo von Klenze, Vista idealizzata dell’Acropoli e l’Areopago ad Atene, 1846, olio su tela, Neue Pinakotek, Monaco di Baviera.
Leo von Klenze, Vista del Walhalla, 1839, olio su tela, Historisches Museum, Regensburg.

È a partire dalla fine del XIX secolo che soprattutto la classe intellettuale prova a sviluppare una narrazione nazionale che sfidi quella dominante e sia in grado di rendere conto della complessità del passato greco, reintegrando e giustificando l’avvicendarsi delle fasi storiche che hanno contribuito alla creazione della coscienza nazionale. Primo fra tutti è fondamentale in questo senso poter riabilitare il patrimonio bizantino e dare conto dell’influenza del ruolo del cristianesimo nella costituzione dello stato moderno. Viene ripresa anche l’esperienza di Filippo e Alessandro il Grande in Macedonia prima osteggiata dalla storiografia officiale. Il concetto stesso di ellenismo, recuperato e imposto dalle potenze centro europee, perde lentamente i connotati di periodo cronologicamente e concettualmente delimitato, ma si trasforma in un elemento culturale dominante che appartiene intrinsecamente all’identità greca e che persiste nel tempo, accompagnando non senza modificarsi, i diversi momenti attraversati dal popolo verso lo sviluppo della nazione. L’ellenismo non è più dunque uno e univoco, ma molteplici: l’ellenismo macedone, bizantino, moderno ecc... (Hamilakis 2014).

Questa rilettura della grecità, messa in questione dai greci stessi avviene attraverso lo studio della storia, della lingua, della religione e, non da ultimo, dell’architettura. A dispetto infatti delle numerose ricerche sulla Grecia classica, fino ai primi del Novecento gli studi portati avanti sulla struttura sia sociale che morfologica del territorio contemporaneo non erano allora molti.

In particolare, in architettura, per reagire al dominante stile neoclassico e l’imitazione delle formule provenienti dall’estero si volge l’attenzione al popolo greco e ai suoi costumi e stili di vita, alla ricerca di elementi essenziali che possano caratterizzarne l’unicità. L’attenzione si concentra progressivamente sulle forme e i metodi dell’architettura vernacolare locale, diffusa nelle campagne e sviluppata dai ceti più umili della popolazione, lontana dai dettami dello stile nazionale ufficiale. Nel ventesimo secolo soprattutto, i valori della grecità emersi dallo studio delle aree rurali vengono utilizzati in opposizione all'ideale classico al fine di recuperare e ridefinire una grecità autentica (Bastéa 1995).

È probabilmente in questo frangente che nelle stanze della Neue Galerie a Kassel viene installato il lavoro dell’architetto Dimitris Pikionis, quasi a fronteggiare con la sua ricerca e il suo lavoro le vedute idealizzate dell’Acropoli “neoclassica”.

Architetto e professore presso l’Università Politecnica di Atene, Pikionis, insieme a molti intellettuali del suo tempo, era alla ricerca di un analogo moderno del vernacolare in architettura, voleva trovare uno stile che potesse essere “vero”, ossia che appartenesse al presente storico ma che fosse anche fortemente radicato nel paesaggio e nella cultura dello spazio geografico della nazione (Theocharopoulou 2010). Dopo la prima esperienza modernista della scuola del Licabetto, disegnata all’inizio degli anni trenta e fedele ai principi del Bauhaus, Pikionis si allontana sempre di più dal movimento modernista di allora, considerandolo troppo distante e sconnesso dalla memoria storica greca e non in linea con la tradizione. In mostra ci viene ricordato come, in aperto contrasto con il Quarto Congresso di Architettura Moderna (CIAM IV) del 1933 egli pubblicò un breve testo in cui veniva esplicitata la sua versione di architettura moderna in relazione alle specificità culturali e climatiche di un luogo, deridendo nel contempo l’universalismo piatto e il grigio cemento del movimento europeo. 

È così che nei suoi progetti successivi si assiste ad esempio all’introduzione di soluzioni provenienti dalla tradizione architettonica Macedone e della Grecia del nord, sia dal punto di vista dei materiali che delle tecniche costruttive. Da notare come Pikionis non si limiti mai però alla copia o alla riproduzione letterale, ma rimanga sempre aperto a forme di eclettismo, facendosi influenzare anche da culture extra europee come quelle dell’Estremo Oriente e in particolare la cultura giapponese nella quale ritrova le virtù di semplicità, riservatezza e razionalità della tradizione greca (Theocharopoulou 2010).

Nel 1951, appena due anni dopo la fine della Guerra civile che vede la vittoria del governo contro la frangia armata del Partito Comunista, il Ministro dei Lavori Pubblici affida a Pikionis la progettazione dell’area attorno all’Acropoli. Un incarico importante, dato a una figura ritenuta capace di riconoscere e valorizzare la complessità dell'area storica offrendo una manifestazione visibile della nuova identità nazionale. L’incarico consiste nello sviluppo dei percorsi che dovevano unire il Partenone con i monumenti circostanti fino a raggiungere l’adiacente collina del Filopappo. Pikionis si dedica completamente al progetto la cui realizzazione avrà una durata di quattro anni. Sin da subito viene privilegiato un sistema di sentieri percorribili esclusivamente a piedi, intervallati da tratti di bosco e numerose terrazze che si articolano lungo un’area di circa 80.000 metri quadri. Per la pavimentazione vengono scelti frammenti di marmo e pietre provenienti in gran parte dagli scarti del sito archeologico dell’Acropoli e dalle macerie degli edifici neoclassici che vennero allora abbattuti per fare spazio alla progressiva espansione urbana della città. I diversi elementi vengono riarrangiati nel percorso attraverso un sistema di simboli e segni elementari elaborati in corso d’opera da Pikionis e i suoi studenti di architettura in collaborazione con le maestranze locali coinvolte nel lavoro. Il progetto viene sviluppato infatti per la maggior parte in situ, spesso in assenza di un disegno preliminare, decidendo mano a mano la forma generale dei percorsi e adattando ogni particolare alla caratteristiche morfologiche del paesaggio (Kehagias, pubblicazione online).

Dimitris Pikionis mentre lavora al sito della chiesa Dimitrios Loumbardiaris, 1954–58, Archivio Agni Pikioni, © Dimitris Pikionis A.M.K.E., Atene.

Il padiglione adiacente alla chiesa di Dimitris Loumbardiaris, pensato per offrire ristoro a chi cammina, viene costruito con una specie di pino locale ed è sviluppato come un tempio giapponese dove il pavimento soprelevato poggia su grandi massi, un richiamo indiretto alla struttura del Partenone, il cui stilobate è dedotto direttamente dalle rocce dell’Acropoli, creando una forte continuità tra edificio e paesaggio. 

Proprio quest’area viene usata da “documenta” ad Atene come sede espositiva, invitando il visitatore della mostra ad attraversare almeno in parte i percorsi sviluppati dall’architetto al fine di avere un’esperienza diretta e sensibile del luogo. In loco è possibile osservare i collage dell'artista Elisabeth Wild, ospitata nella parte interna della struttura, e le tele di Vivian Suter, che lascerà le sue grandi opere astratte all'aperto, nella corte del padiglione, per tutta la durata dell'esposizione. 

Per comprendere l’operazione messa in atto da “documenta 14” e le ragioni della presenza di Pikionis fra Kassel e Atene come rappresentante di una cultura greca riscoperta dal suo stesso popolo, bisogna dunque tenere conto del ruolo giocato dall’architetto nella riattivazione del passato nazionale, in aperta contrapposizione con l’ideologia guida del secolo precedente e in evidente contrasto con la metodologia utilizzata da Leo von Klenze nel recupero del sito dell'Acropoli. Attraverso la scelta dei materiali, frammentari e molteplici, e le tecniche di costruzione tradizionali impiegate, Pikionis riesce a integrare tracce antiche in nuovi sistemi di segni, adottando una metodologia che potrebbe essere definita quasi anti-archeologica (Loukaki 1997). Per mezzo di interpretazioni talvolta molto personali egli apre un dialogo autentico fra antico, vernacolare e neoclassico riuscendo a restituire quel continuum storico complesso che viene negato con l’operazione di statica monumentalizzazione di cento anni prima. Camminando lungo i sentieri che si dipanano fra l’Acropoli e il Filopappo confondendosi a tratti con le rovine del paesaggio circostante, si percepisce una forte dialettica fra il passato e il presente del territorio garantita dalla funzione attiva dei frammenti, che scandiscono il ritmo della visita offrendo un’esperienza autenticamente narrativa.

Per concludere, dunque, è importante rimarcare come il grande merito di Pikionis sia quello di parlare dell’identità stratificata del suo paese attraverso l’impiego di tracce materiali in grado di evocare temporalità multiple e dinamiche, “suscitando significati che non derivino dalla sterile imitazione di forme antiche, ma che nascano dall’intreccio di miti, ragioni originarie e contemporaneità” (Ferlenga 2013).

da sinistra: Dimitris Pikionis, serie Inspired by Attica (1930-1950), inchiostro su carta. ©2018 Benaki Museum-Modern Greek Architecture Archives.
Dimitris Pikionis, Acropoli - Filopappo, due disegni preliminari per lo sviluppo dei sentieri verso l’Acropoli, 1954-1957.
©2018 Benaki Museum-Modern Greek Architecture Archives.

Riferimenti bibliografici
  • Antonas 2015
    A. Antonas, The Construction of Southern Ruins, or Instructions for Dealing with Debt, in South as a State of Mind #6 [documenta 14 #1] 2015
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  • Bastéa 1997
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  • Ferlenga 2013
    A. Ferlenga, Imparare dalle rovine, “La Rivista di Engramma”, 110 (ottobre 2013
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  • Hamilakis 2014
    Y. Hamilakis, The Nation and its Ruins: Antiquity, Archaeology, and National Imagination in Greece, Oxford 2014.
  • Loukaki 1997
    A. Loukaki, Whose Genius Loci? Contrasting Interpretations of the “Sacred Rock of the Athenian Acropolis”, Annals of the Association of American Geographers, vol. 87, n. 2, Washington 1997, 306-329.
  • Kehagias online
    N. Kehagias, Paving a Greek Path to a Western Monument.
  • Roelstraete 2017
    D. Roelstraete, Where and When, do German-Greek relations begin?, in Q. Latimer, A. Szymczyk (eds.),The documenta 14 Reader, Munich, London, New York 2017.
  • Szymczyk 2017
    A. Szymczyk, Iterability and Otherness. Learning and working from Athens, in Q. Latimer, A. Szymczyk (eds.),The documenta 14 Reader, Munich, London, New York 2017.
  • Theocharopoulou 2010
    I. Theocharopoulou, Nature and the people The Vernacular and the Search for a True Greek Architecture, in J.-F. Lejeune, M. Sabatino (eds.), Modern architecture and the mediterranean, New York 2010.
  • Hamilakis 2014
    Y. Hamilakis, The Nation and its Ruins: Antiquity, Archaeology, and National Imagination in Greece, Oxford 2014.
English abstract

In 2017, “documenta 14” took place both in Kassel and Athens, an exceptional edition compared to the previous ones that see the German city the only venue for the exhibition. The reason for this choice arose from the complex relations, politically and economically speaking, between Germany and Greece. The idealized views of the Parthenon, hosted in the rooms of Kassel’s Neue Gallerie, are juxtaposed to a series of sketches by Dimitris Pikionis, who in the 1930s drew the Philopappus hill through a system of symbolic and abstract signs, together with several archive photos related to the construction of the stone paths designed by the Greek architect between 1954 and 1958. Pikionis developed an architecture aware of the climatic and cultural specificities of the place, that drew inspiration from vernacular architectural elements and construction techniques and stylistically referred to classical culture, as the Byzantine one, absorbing the stylistic imprint of northern Greece and opening up to oriental influences. Pikionis, unlike his predecessors, managed to create a multiple narration of the Acropolis landscape, restoring its stratified and multiple historical identity, a national identity that takes into account the long experience of Byzantium and transforms the Greek myth imposed by German domination into a more authentic, indigenous, Hellenism.

Keywords | Pikionis; Documenta; Germany and Greece; Acropolis.

Per citare questo articolo/ To cite this article: Bianca Maria Fasiolo, Classico e Indigeno, “La Rivista di Engramma” n. 159, ottobre 2018, pp. 91-104 | PDF.

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2018.159.0006