"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

161 | dicembre 2018

9788894840568

“I, Kusama, am the modern Alice in Wonderland”

Alice e Kusama, di riflesso per infiniti specchi

Laura Leuzzi

English abstract

Fig. 1 | Yayoi Kusama, Alice in Wonderland Happening, Central Park, New York 1968

“How about taking a trip with me out to Central Park ...under the magic mushroom of the Alice in Wonderland statue. Alice was the grandmother of the Hippies. When she was low, Alice was the first to take pills to make her high. I, KUSAMA, AM THE MODERN ALICE IN WONDERLAND. Like Alice who went through the looking grass, I, Kusama (I haved lived for years in my famous, specially built room entirely covered by mirrors) have opened up a world of fantasy and freedom. You too can join my adventurous dance of life” (Kusama, 2011, 42).

Con queste parole, l’artista giapponese Yayoi Kusama invitava il pubblico a unirsi a lei – “matta come il cappellaio” e alla sua “troupe di ballerini nudi” (Kusama 2011, 42) – in occasione di un suo happening al Central Park di New York. L’happening, parte di una serie che diverrà famosa – The Anatomic Explosion – ebbe luogo tra il luglio e il novembre del 1968. Allora Kusama – celebrata nel 2018 da un film, Kusama-Infinity, e diventata ormai fenomeno di culto globale – era ancora poco conosciuta al grande pubblico e alla critica internazionale (nonostante una apparizione alla Biennale del 1966). E a New York, proprio in quegli anni (1957-1973), sviluppava la sua pratica sperimentale condotta tra happening, installazioni e performance.

Come spiega il comunicato stampa dell’azione a Central Park, scenario dell’impresa era la celebre statua bronzea con Alice, il Gatto del Cheshire, il Bianconiglio, Ghiro e il Cappellaio Matto, realizzata qualche anno prima (1959) dallo spagnolo José de Creeft, in memoria della moglie del filantropo e committente dell’opera George Delacorte – Margarita – che pare amasse molto le opere di Carroll. Scegliendo come set proprio quel monumento e grazie al testo del volantino, Kusama rivendicava un forte collegamento personale e culturale con la figura di Alice, madrina e nume tutelare della cultura hippie di quegli anni e dell’artista stessa, la cui pratica artistica e le cui vicende biografiche sembrano far eco alle stesse storie di Carroll. Per la maggior parte delle figure, De Creeft nella sua scultura – molto tradizionale per fattura e stile – si era ispirato all’iconografia tradizionale delle 92 illustrazioni di John Tenniel per l’edizione di Alice’s Adventures in Wonderland (1865) e Through the Looking-Glass and What Alice Found There (1871) pubblicata dalla casa editrice Macmillan. Questo tea party di bronzo, che solitamente accoglie i giochi infantili, diventava così il set dell’happening artistico, nel quale i corpi nudi dei performers erano ricoperti dall’artista con dei pois (polka dots), sua cifra caratteristica, e si arrampicavano sulla scultura come fossero essi stessi bambini, sorpresi (ma forse non troppo) dallo scatto fotografico mentre giocano tra le (e con le) immagini di bronzo.

E come promette l’artista nel comunicato, visto che l'ora era quella giusta, sarebbe stato servito del tè a tutti i partecipanti: in qualche modo quindi la performance si presentava anche come un libero re-enactment, una rievocazione in spiritu del “tè dei matti” (A mad Tea Party, Cap. 7). La scelta dell'ora del tè – secondo Jo Applin – potrebbe però suggerire anche un'allusione alla situazione politica e sociale dell’epoca: negli anni ’60 erano tanti i movimenti di protesta contro la guerra del Vietnam e contro la rielezione di Nixon, movimenti che richiamavano per qualche aspetto lo spirito di ribellione del Boston Tea Party del 1773 (Applin, 2012, 90).

Numerosi elementi del pur breve testo di accompagnamento forniscono spunti e stimoli per un’analisi dell’opera e del ruolo della figura di Alice nella pratica e nella poetica artistica di Kusama. Sarà appena il caso di ricordare che la ripresa di Alice ha avuto nelle arti visive un flusso ininterrotto, dalla prima pubblicazione dei volumi di Carroll fino a oggi; un flusso che è a sua volta oggetto di una miriade di analisi e di mostre: valga come esempio l’esposizione itinerante iniziata alla Tate Liverpool nel 2012 e che ha toccato il Mart di Rovereto nello stesso anno (Delahunty, Schulz 2012). Tra le opere in mostra – direttamente e indirettamente ispirate da Carroll – se ne notano diverse a testimoniare il rinnovato interesse per Alice negli anni ’60: le tele, ad esempio, di Adrian Piper del 1966, la Alice Pleasance Liddell di Paul Laffoleu del 1968, o ancora le dodici illustrazioni di Salvador Dalí del 1969 e le stampe di Max Ernst del 1970, quelle di Graham Ovenden e ancora quelle di Peter Blake, sempre risalenti al 1970. L’esposizione, peraltro, includeva proprio due fotografie dalla performance del ’68 di Kusama (Delahunty, Schulz 2012, 132-133). Quelli presenti in mostra sono solo alcuni degli artisti, che fin dalla prima pubblicazione dell’opera di Carroll, si sono cimentati nel realizzare opere che illustrino, raccontino o semplicemente facciano da complemento visivo alla storia e alla pubblicazione delle avventure della bimba nel Paese delle meraviglie.

Tornando all’analisi del comunicato stampa, risalta la ripetizione del cognome dell’artista, segno – come nota Applin – che Kusama sembra muoversi dentro e fuori l’azione, al contempo soggetto e oggetto dell’happening (Applin 2012, 18), contribuendo così a una sensazione di straniamento nello spettatore, trasportato in una zona tra ‘sanità e follia’, che fa eco al Cappellaio Matto, richiamato espressamente da Kusama, e alla stessa Alice (“What nonsense I’m talking”, Kusama 2012, 20). L’artista qui si riferisce anche alla sua condizione personale e ai numerosi ricoveri in ospedali psichiatrici in quegli anni. D’altronde l’ossessivo uso dei polka dots – con cui vengono ricoperti i perfomer anche nell'happening del '68, per cui l’artista si definisce “Princess of polka dots” e ancora “Queen of Love and Polka Dots” – se da un lato si può riferire allo sviluppo di font e motivi editoriali stimolati dalla Pop Art e dalla Op Art (DeVere Brody, 33), da un altro può essere ricondotto – come riconosce l’artista stessa – alle sue ossessioni e patologie: la prima ispirazione le sarebbe venuta infatti da una allucinazione che aveva avuto in età infantile. I polka dots vengono in varie occasioni associati a diversi temi e concetti, la pace, la luna, e l’erotismo, quando compaiono rossi nelle installazioni (DeVere Brody, 33).

Merita inoltre uno sguardo attento il rapporto genealogico tracciato dalla Kusama tra la pratica del consumo di stupefacenti nella cultura hippie e la crescita e il rimpicciolimento di Alice negli episodi narrati nel secondo e terzo capitolo di Alice nel Paese delle meraviglie: la boccetta (little bottle) e la tortina (very small cake) con il liquido dal curioso sapore (un misto di “cherry-tart, custard, pine-apple, roast”) divengono “pillole” (pills), che invece di far diventare Alice più grande (grow larger) o più piccola, la “sballano”, facendola passare da low (termine che può indicare l’aggettivo “basso” o anche l’essere giù di morale) a high (letteralmente “alta”, ma la parola può indicare anche lo stato di euforia indotto da sostanze stupefacenti, e quindi può essere tradotta in gergo come “inebriata”). Muovendosi su questi aggettivi, che nel loro doppio senso si correlano alle grandezze e alle taglie carrolliane, la Kusama scatena un curioso effetto linguistico e semantico, che traghetta la ”bambina meravigliosa” dall’epoca vittoriana direttamente dentro lo slang contemporaneo.

Il “magic mushroom”, d’altronde, rimanda direttamente ai funghi che campeggiano nella scultura di de Creeft, ma immediato è anche il riferimento all’uso di funghi allucinogeni dilagante nella cultura hippie degli anni ’60.Un ulteriore spunto di riflessione è offerto dalla matrilinearità di questo rapporto genealogico, riconducibile a suggestioni femministe che ritornano in diverse opere nella carriera dell’artista, per quanto è giusto ricordare come Kusama abbia sempre respinto un’associazione diretta al movimento (Applin 2012, 8). Tornando al comunicato dell'happening del '68, l’artista non fa solo riferimento al primo volume della serie carrolliana, ma anche a Through the Looking-Glass, and What Alice Found There e a tal proposito richiama “la sua famosa stanza, costruita appositamente e completamente coperta di specchi” in cui ricorda di aver vissuto per anni. Specchi “infiniti” e stanze specchianti tornano sovente nei suoi lavori e sono stati ricondotti a precisi stimoli ed episodi, come la visita allo studio dell’artista svizzero Christian Megert nel 1965, senza tralasciare l’influenza del pensiero di Lacan (Bishop 2005, 90 in Applin 2012, 19).

Trapela dunque nel comunicato un riferimento alle stanze specchianti realizzate dall’artista negli anni ‘60, fra le quali va ricordata Infinity Mirror Room, Phalli’s Field, opera presentata per la prima volta nel 1965 presso la Richard Castellane Gallery di New York e consistente per l’appunto in una stanza le cui quattro pareti erano coperte interamente di specchi, costruita nella prima sala della galleria, come una “stanza nella stanza“ (Applin 2012, 1). Il pavimento era realizzato con dei pois cuciti tra di loro, in rilievo, a realizzare “a sublime, miracolous field of phalluses” (Applin 2012, 1) in una dimensione di confine tra l’erotico e il ludico. Tale ‘tappeto’ viene riutilizzato in altre occasioni – come ad esempio in 14th Street Happening del 1966 – e viene definito dall’artista il suo “infinite wonderland” (Kusama 2011, 151 in Applin 2012, 17), richiamando ancora una volta il vocabolario carrolliano.
Oltre agli ovvi rimandi al minimalismo e al concettuale, è l’artista stessa a mettere in relazione l’elemento della ripetizione ossessiva con il tema della self-obliteration:

Artists do not usually express their own psychological complexes directly, but I use my complexes and fears as subjects. I am terrified by just the thought of something long and ugly like a phallus entering me, and that is why I make so many of them … I make them and make them and then keep on making them, until I bury myself in the process. I call this obliteration. (Taylor 2012c, 49)

Lo spettatore poteva entrare nella saletta alla Richard Castellane Gallery a piedi nudi, camminando su una superficie inusuale: trovandosi immerso e riflesso in un gioco di specchi infiniti, diventava – per usare le parole della Kusama – “un tutt’uno con l’opera” (Applin 2012, 2). Non è difficile rintracciare tanti aspetti di Alice in quest’opera: dallo specchio che destabilizza, allo spazio confinato che racchiude un piccolo mondo fantastico e libero; dal richiamo a una dimensione ludico-erotica al dispositivo dell’attraversamento, fino all’idea del viaggio come esperienza ultrasensoriale.

L’anno successivo Kusama realizza una nuova stanza da titolo Kusama’s Peep Show – Endless Love Show in cui al tappeto di falli si sostituisce una splendente superficie di faretti. In questa installazione il pubblico non può però entrare: sulle orme di artisti come Duchamp e come Joseph Cornell – con il quale l'artista aveva avuto una breve relazione nel 1964 (Solomon 2015; Taylor 2012a) – Kusama propone un dispositivo per lo sguardo: la fruizione avviene tramite due fori da cui osservare lo spettacolo, che si svolge all’interno di uno spazio al contempo confinato e infinito, grazie di nuovo alla moltiplicazione dell’immagine tramite gli specchi.

Fig. 2 | Yayoi Kusama dentro Kusama's Peep Show or Endless Love Show, 1966.

Dunque – come ha notato Katz – il peep show della Kusama, invece di mostrare scene legate al sesso o al nudo, pone l’accento “on an intersubjective tissue of relationality in which the self implies the other, in which requires the other to come to consciousness of itself” (Katz 2017, 83).

In una rete di rimandi che vanno da Hegel a Lacan, passando per il pensiero orientale, Katz riconosce una sorta di meditazione Zen nell’elaborazione ossessiva di questo segno, il polka dot, e ne scrive in relazione alle performance della serie Self Obliterations (Katz 2017, 83-84). Nelle parole dello studioso, si rintraccia in modo evidente il legame con Alice e con il suo percorso di scoperta del sé e dell’altro. L’elemento dello “spioncino” è anche carico di un’altra palese suggestione carrolliana: Alice che spia dal buco della serratura il mondo delle meraviglie.

A questi primi esempi di stanze specchianti, ne sono seguite molti, tanto da fare di questo elemento una firma distintiva, riconoscibile, come i polka dots, della pratica della Kusama. Come notato da Taylor, le opere specchianti degli anni ‘65-’66 “provide the templates for a series of phenomenological environments that the artist has made in the past twenty-five years”. Esse veicolano esperienze dell’infinito e dello spaesamento e sono anch’esse testimonianza del sopra citato processo di “self-obliteration” (Taylor 2012b, 153).

Fig. 3a| Pagina tratta da Lewis Carroll’s Alice’s Adventures in Wonderland. With artwork by Yayoi Kusama, London 2012.

Ma oltre che in queste rilevanti installazioni, il legame dell’artista con Alice si manifesta in un’altra occasione importante: nel 2012 le opere della Kusama accompagnano una nuova edizione di Alice in Wonderland, edita dalla casa editrice Penguin: un’avventura editoriale che trasporta l’autrice giapponese nel popoloso pantheon di coloro che hanno illustrato o affiancato con suggestioni visive i volumi carrolliani.

La pubblicazione – frutto di una collaborazione tra lo Studio Kusama e la galleria Gagosian – riporta i motivi tipici della Kusama, zucche, fiori, vasi, funghi (“allucinogeni”? si domanda ancora Simona Scattina in una recensione, Scattina 2013); l’uso di font di diversa grandezza evidenzia alcune parole e passaggi e non mancano, ovviamente, i famosi pois. Alcune pagine risultano completamente coperte da segni (pois in primis) a rimarcare l’elemento ossessivo, che, nel suo ripetersi e occupare tutte le superfici, provoca una stimolazione dello sguardo del lettore, invitato a vagare, a perdersi e a ritornare sui pattern e sulle figure.

Questa edizione carrolliana – caratterizza da colori vivaci e pervasa da alcuni dei più famosi motivi fantastici dal repertorio di Kusama – non contempla illustrazioni che seguano pedissequamente gli episodi della storia, bensì la accompagna, le fa eco, richiamandone alcuni elementi: Alice stessa compare solo qualche volta, e di conigli o lepri non v’è traccia. Attraverso Alice, la Kusama apre un varco verso il mondo di Alice e verso il suo, quel mondo psichedelico che anima da quasi cinquant'anni la sua fantasia, altrettanto psichedelica. A suggello di questa liaison, spicca la frase che chiude il volume, come una firma: “I, Kusama, am the modern Alice in Wonderland”.

Fig. 3b | Pagine tratta da Lewis Carroll’s Alice’s Adventures in Wonderland. With artwork by Yayoi Kusama, London 2012.

Referenze Bibliografiche
English abstract

The female Japanese artist Yayoi Kusama organised a happening in Central Park, New York dedicated to Alice in Wonderland in 1968. The event press release at that time underlined the profound influence of the Carrollian character of Alice in the artist’s work and a sort of identification with her. This article examines the importance of many Carrollian conceptual elements and topics (mirror, non-sense, puns) in Kusama’s body of works, including a Lacanian interpretation of her creativity highlighting briefly also the new interest of artists and illustrators in the 1960s and 1970s for Carroll’s characters and Alice in Wonderland more specifically. The article ends with an overview of the Penguin edition of Alice in Wonderland with Kusama’s artwork of 2012: this adds her to a long list of artists who have been inspired by the Carrollian characters and stories. The article explores the themes, motifs and stylistic features used by Kusama to accompany and complement the text. 

keywords | Yayoii Kusama, Central Park, Alice in Wonderland, nonsense, mirron, puns. 

Per citare questo articolo: Laura Leuzzi, “I, Kusama, am the modern Alice in Wonderland”. Alice e Kusama, di riflesso per infiniti specchi, “La Rivista di Engramma” n. 161, dicembre 2018, pp. 87-96. | PDF dell’articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2019.161.0003