"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

Il Discorso dell'essenza del fato di Baccio Baldini

Riflessioni a margine e testo*

Damiano Acciarino

English abstract

1 | La catena delle cause o Fato universale, da Diego Valadés, Rhetorica Christiana, Perugia: Petrucci, 1579.

Si ulla unquam celebris inter Philosophos agitata est quaestio, de Fato illa fuit, quam nemo, licet summam ei curam diligentiam attulerit, explicare penitus potuit. Quilibet, qui ingenio valet, de Providentia Divina, Fortuna et Fato sententiam proponit sibi quam sequatur; sed plerumque tot dubiis plenam, tot nodis complicatam, quot vix sapientissimus solvere potest.

Con queste parole, che sottolineano complessità e intricatezza della questione del fato (e dei suoi più stretti parenti) nella storia del pensiero occidentale, si apre il Theatrum Fati sive Notitia Scriptorum de Providentia, Fortuna et Fato pubblicato nel 1712 dal giurista tedesco Peter Friedrich Arpe (1682-1740) – rassegna bibliografica in cui figurano, con pretese di universalità, autori antichi, medievali e moderni cimentatisi nell’impresa di esplicare tali concetti (Arpe 1712). Una sostanziosa parte di quest’opera è dedicata agli studi sul fato condotti durante il Rinascimento, che, da Petrarca in poi (Tufano 2016, 109-127), si diffondono con presenza costante fino agli inizi del Seicento (Arpe 1712, 45-88): filosofi, teologi, medici, letterati, iconografi vengono giustapposti, a indicare quell’eterogeneità degli approcci ermeneutici intrinsechi alla materia ed ereditati finanche dalla critica contemporanea (Natali, Maso 2005; Maso, Masi 2013). Non è un caso, quindi, che nel regesto di Arpe si riscontri una delle rare testimonianze concernenti il trattatello tardo-cinquecentesco, Discorso dell’essenza del fato, a opera dell’erudito fiorentino Baccio Baldini (Acciarino 2017, 226-230), pubblicato per la prima volta a Firenze per i tipi di Bartolomeo Sermartelli nel 1578, a cui fece seguito una ristampa ottocentesca uscita a Ferrara presso Antonio Taddei (Baldini 1578; Baldini 1890).

Protomedico del granduca Cosimo I de’ Medici e prefetto della Biblioteca Laurenziana, Baccio Baldini (1517-1589) fu uno degli animatori del panorama culturale nella Firenze della seconda metà del Cinquecento (Negri 1722, 200; Ladvocat 1754, 54; Mazzuchelli 1758, 178; Marinozzi, Giuffra, Kieffer 2015, 354-364), prendendo parte a imprese filologiche e antiquarie di rilievo per la vita civile, su tutte la mascherata degli dei degli antichi in onore delle nozze di Francesco, figlio di Cosimo, nel 1565 (Baldini 1566; Pierguidi 2007). Nella nota stesa da Arpe, il Discorso del Baldini viene presentato in termini che, pur in sintesi, ne colgono gli aspetti principali contestualmente alla biografia (Arpe 1712, 51):

Hac tempestate Cosmus I, magnus Hetruriae Dux, literas paterno fovebat animo, earumque decus praecipue curae cordique habebat. Doctissimum igitur quemque, dignis praemiis illectum, secum habere cupiens, in eorum commodum Laurentianam Bibliothecam splendidissime instruxit, copiosissime auxit, eiusque curam. BACCIO BALDINO viro doctissimo, Archiatra suo, benigne obtulis, cuius Discursum de Essentia Fati olim extitisse, ex Notitiis literariis et Historia illustrium virorum Academiae Florentinae discimus.

Il Baldini affronta il problema del fato da un’angolazione del tutto autonoma rispetto al resto degli autori antologizzati da Arpe: Baldini, per parlare del fato, prende spunto dalla Commedia di Dante. Arpe, nella sua descrizione, finisce per tralasciare proprio questo aspetto (in realtà quello più spiccatamente originale), normalizzando il suo trattato in linea con le altre opere menzionate. Tuttavia, il fatto che Arpe, pur lungi dall’essere esaustivo, abbia chiamato in causa un solo testo che discute del fato attraverso l’esegesi dantesca diventa inaspettatamente fatto sintomatico di un movimento culturale più ampio e più diffuso di quanto quest’unica ma significativa occorrenza finisca appunto per dimostrare.

Tale movimento culturale è identificabile in base a un luogo e a un’epoca ben delineati: Firenze, e in particolare l’Accademia Fiorentina, tra gli anni ’40 e gli anni ’60 del Cinquecento. È qui che Dante diventa uno dei viatici per promuovere la nuova idea di cultura fiorentino-centrica immaginata da Cosimo (Plaisance 2004): gli studi danteschi offrivano agli eruditi l’opportunità di deviare dalla lettera e stendersi in digressioni (Barbi 1890, 193-195), attraverso cui, per usare le parole ancora attuali di Giancarlo Mazzacurati, sussisteva la “possibilità di ricondurre ad una esemplare definizione realtà intellettuali e scientifiche, problemi religiosi, etici o sentimentali altrimenti elusivi e controversi” (Mazzacurati 1967, 274-275). Pur rientrando nel più ampio spettro delle monografie rinascimentali sul tema, idealmente aperte dal De fato et fortuna di Coluccio Salutati (1396-1399), che in qualche modo all’esegesi di Dante si era pur dedicato (Bianca 1985, 195-206), i ragionamenti accademici circa fato e fortuna mostrano come “la divulgazione scientifica e filosofica trovi il suo principale centro di irradiazione, il suo più fascinoso strumento proprio nell’interpretazione dei grandi classici della poesia volgare” (Mazzacurati 1967, 270): così per esempio i lavori di Lelio Bonsi nel 1551 (Bonsi 1560, 76-94), Giambattista Adriani nel 1564 e Bernardetto Buonromei nel 1572 (Buonromei 1572).

Pertanto, anche nella prima lezione dell’Accademia Fiorentina di tema dantesco, Francesco Verino, commentando l’incipit del Paradiso (I, 1-3: “La gloria di colui che tutto move/ per l’universo penetra e risplende/ in una parte più e meno altrove”), si esprimeva pur tangenzialmente a riguardo: “et molte cose dice Plat. et Arist. esser dalla fortuna et dal caso governate; non penetra adunque per tutto questo amore, perché la fortuna regge quello che non può o non governa la prudenza” (Doni 1547, 15) – parafrasando il virgiliano Ingenium aut rerum fato prudentia maior (Georg. I, 416), poi anche celebre motto d’impresa FATO PRVDENTIA MAIOR (Pittoni, Dolce 1562, 65; Giovio 1556, 83-84).

L’opera del Baldini scaturisce da questa cornice, e rimedita in forma scritta quanto esposto oralmente in una pubblica lezione tenuta di certo prima del 22 maggio 1574 – come emerge dalla lettera prefatoria indirizzata a Bartolomeo Panciatichi:

Il ragionamento che io hebbi con la Signoria vostra pochi giorni sono delle forze che ha il Fato sopra le cose dell’universo, mi fece ricordare di un ragionamento che io hebbi gia nell’Accademia di questa materia (Baldini 1578, 3).

Michele Barbi, nel suo capitale saggio Dante nel Cinquecento (Barbi 1890, 254), ne data l’esposizione al 1564, segnalando, in accordo con gli Annali dell’Accademia (III, c. 20), che “nel consolato di M. Baccio Valori lessono i sottoscritti: M. Giovambat. Adriani della Fortuna […] Neri Neri La gloria di colui che tutto move […] Benedetto Varchi d’Amore […] Baccio Baldini del fato”. Il Baldini si proponeva di esporre i versi di Purg. XVI (vv. 67-81) ove Marco Lombardo era deputato a spiegare i meccanismi del libero arbitrio, finendo di qui per svolgere una digressione su quella forza (il fato) di cui il pensiero coevo aveva un concreto sentore proprio nei rispetti dell’attuazione della volontà, ma anche non dissimulato affanno a circoscriverne una precisa fisonomia – sugli stessi versi, con taglio differente ma complementare, rivolto piuttosto a comprendere la natura dell’anima razionale, si era cimentato anche Giambattista Gelli nel 1543 (Gelli 1551, 97-147). Il Discorso, come asserito dal Baldini, si articola secondo una tripartizione che investe un ambito lessicografico, un ambito semantico e un ambito critico (Baldini 1578, 4-5):

Primieramente dubiterò se il Fato è una finzione degl’huomini et un nome vano come la chimera o altro simigliante a questo, il che qualcuno ha creduto; ovvero se egli è qualcosa in fatto, et essendo veramente, dirò quel che egli è et la natura sua; et finalmente parlerò delle sue forze, et in questa ultima parte esporrò quei terzetti di Dante che io ho promesso poco di sopra di dichiarare […].

A uno sguardo ravvicinato, però, la struttura risulta più complessa, e finisce per toccare una serie di aspetti della questione che vanno ben oltre quelli apertamente dichiarati: [1]: Lettera dedicatoria; [2-6]: Proemio con lettura di Purg. XVI, 67-81; [7-24]: Disamina lessicografica; [25-37]: Significato filosofico di fato; [38-42]: Equivalenza fato = natura; [43-50]: Fato come ordine cosmico; [51-62]: Allegoria del fato (Plat. Resp. X); [63-92]: Fato e libero arbitrio (confutazione degli Stoici); [93-97]: Fato e giustizia (interpretazione di Galeno); [98-109]: Fato e libero arbitrio (facoltà di scegliere); [110-122]: Fato e pronostici; [123-129]: Fato e gerarchia divina; [130-138]: Fato e contingenza; [139-142]: Assenza di virtù; [143-151]: Eventi portentosi; [152-172]: Provvidenza divina; [173-175]: Fato in Dante.

Questa struttura si conforma perfettamente al paradigma ermeneutico attuato durante il Rinascimento nei confronti della materia, che, pur investendo “un groviglio di problemi”, può essere suddiviso, stando a Marian Heitzam, in due diversi approcci: uno “naturale” e uno “umanistico”. Il primo indagava il fato come causa del determinismo dei fenomeni della natura, della loro influenza sull’uomo e della loro eventuale predicibilità; il secondo ne ricercava gli influssi sulla dimensione etica, quindi sull’esercizio della libera volontà e della giustizia. Entrambi gli approcci non potevano prescindere da una riflessione sulla provvidenza, che agiva da tramite fra la dimensione fisica e quella metafisica, del cui commercio l’uomo si trovava ad essere irriducibile testimone e costantemente partecipe (Heitzam 1936, 351).

Nell’ambito di questa disamina, il Baldini sosteneva l’equivalenza tra il concetto di fato e quello di natura:

Et considerando la natura in questa guisa dico che ella è la medesima cosa che il Fato et differente da lui solamente nel nome, et che quello sia fatale a ciascheduno che gli è naturale, et che gli effetti naturali siano i medesimi che i fatali differenti solamente nel nome (Baldini 1578, 12).

Secondo tale equivalenza, il fato appariva sovrapponibile alla volontà divina, quando però attuata fuori dalla mente divina, manifesta tanto nei movimenti dei corpi celesti (fato universale), quanto nei fenomeni biologici, geologici e meteorologici del mondo sublunare (fato particolare).

Questa posizione trova una significativa coincidenza con quanto esposto, circa cinquant’anni prima, nel De fato et libero arbitrio di Juan Ginés de Sepulveda, pubblicato in occasione della disputa sul libero arbitrio che coinvolse Erasmo da Rotterdam e Martin Lutero (Ramberti 2007, 191-203; Torzini 2000). Sepulveda formulava la posizione ufficiale dei Cattolici, riscattando l’ambiguità del primo e confutando l’eresia del secondo, e affermava, in termini sovrapponibili a quelli del Baldini, la coincidenza tra i due concetti (Sepulveda 1526, p. 17a) – il che potrebbe far pensare a un’aderenza esplicita all’ortodossia, soprattutto in considerazione del fatto che l’opera del Baldini venne pubblicata con approvazione dell’inquisizione locale (“con licenzia del Reverendo Padre Fra Francesco da Pisa Generale Inquisitore del Dominio Fiorentino”):

Prorsus ut fatum nihil aliud est quam ipsa natura, et quod natura sit, id fato fieri dicatur. Neque enim homo ex homine, elephantus ex elephanto natura procreatur, fato non item, sed cum re fatum et natura consentiant, solo vocabulo distrahuntur, quae nihil aliud sunt quam primae causae generationis naturalis singulorum efficientes, hoc est, corpora coelestia, et ipsorum rata constansque vertigo.

In questa maniera, dal punto di vista teologico, si preservava la libertà dell’uomo e delle sue scelte, oltre che il fondamento del principio di giustizia, senza rinunciare al complesso sistema gerarchico di cui Dio rappresentava il motore e il fato l’attuazione nella dimensione mondana: “Neque enim animi voluntas, ullo vinculo, coelestibus corporibus, ac ipsorum motibus alligata tenetur, sed libera est et absoluta contra omnem pronitatem” (Sepulveda 1526, p. 17b).

L’esegesi dei versi del Purgatorio eseguita dal Baldini viene quindi declinata secondo questo schema (fato = natura), muovendo dalla terzina aperta con “Lo cielo i vostri movimenti inizia”. Ciò diventava possibile grazie all’interferenza con i versi di Pd. II, 121-123: “Questi organi del mondo così vanno/ come tu vedi, homai di grado in grado/ che di su prendono et di sotto fanno”, che descrivono il cielo come un meccanismo digradante, ove era possibile identificare quella catena delle cause, esemplificazione, secondo il pensiero stoico (Gell. Noct. 7.1-2; von Arnim 1967, II, 284) e la cosmologia neoplatonica (Kristeller 1943, 74-91), del fato:

Immaginiamoci adunque una catena, il primo anello della quale sia Iddio ottimo et grandissimo dal quale dipende il cielo et la natura; il secondo è l’intelligenze, le quali, havendo preso presa la vertù da Dio, muovono i corpi celesti; il terzo anello sia il Cielo che, presa la forza [//13] dalle intelligenze, muove gli elementi, che sono il quarto anello, il quale, pigliando la vertù dai corpi celesti, muovono queste cose particolari, come sono gli animali et le piante, che sono il quinto anello.

Tale scelta del Baldini venne messa in discussione dal suo amico e collega Vincenzio Borghini, il quale, in una lunga epistola datata 5 luglio 1577 (un anno prima della pubblicazione del Discorso), indicava tutte le discrepanze tra il testo dantesco e la linea esegetica proposta (Acciarino 2017). Stando al Borghini, la principale debolezza dell’opera risiedeva nel fatto che il passo esaminato non attestava mai la voce fato (Acciarino 2017, 247: “perché in vero possa parere ad alcuno che voi pigliate occasione di parlare del Fato da quel luogo di Dante, il qual la prima cosa non lo nomina mai”). Inoltre, il Borghini sottolineava come l’equivalenza fato = natura, alla base dell’intero ragionamento, finisse per contraddire il pensiero di Dante, il quale invece a natura e fato conferiva significati distinti (Acciarino 2017, 247: “[…] si vede manifesto quel che egli intenda per fato et che egli lo piglia per ogni altra cosa che per belle operationi della natura, delle quali date gli esempi nel vostro ragionamento […]. Onde si potrà sicuramente dire ch’egli lo pigli tutto diversamente da quello ove voi, secondo l’opinione de’ filosofi, formate la vostra conclusione”). In ragione di ciò, il Borghini rimarcava come il Baldini non avesse incluso nella redazione del Discorso sottopostagli i passi in cui effettivamente Dante menzionava il termine fato (Acciarino 2017, 249: “che mi sovviene hora haver lasciato i luoghi di Dante, ch’io mi havea per principali proposti, dove pare ch’egli accenni il parer suo intorno al Fato et sono essi questi”) – ovvero If. IX, 97 (“che giova ne le fata dar di cozzo”) e Pg. XXX, 142 (“alto fato di Dio sarebbe rotto”).

Bisogna segnalare che l’equivalenza fato = natura era già presente in alcuni commenti danteschi rinascimentali, come quelli di Cristoforo Landino (Pd. I, 109-111: “Adunque Platone quando considera tale inclinatione nella mente divina la chiama providentia; ma quando la considera nella creatura la chiama fato”) e di Bernardino Daniello (Inf. IX, 97-99: “Questa dispositione, ordine, et legge eletta, et instituita dalla volontà considerata nella mente divina, esser la Providenza; considerata nella mente del mondo, cioè nella Natura, che con ordine governa, si chiama Fato”) – cosa di per sé significativa, in quanto la maggior parte dei commenti danteschi coevi si riferiva al fato esclusivamente come sinonimo di provvidenza (così per esempio Ludovico Castelvetro, il Gelli e Alessandro Vellutello), mostrando maggiore aderenza proprio alla lettera di questi versi.

Le note del Borghini, acutamente critiche e non indulgenti, filtrarono (ma solo in parte) nell’opera del Baldini (Acciarino 2017, 231-238), lasciando tuttavia nell’anonimato il loro promotore (Baldini 1578, 42: “Et questo basti per risposta a questi duoi dubbii che si sarebbero potuti muovere da alcuno studioso del divin poema di Dante”).

In considerazione di ciò, non è possibile sostenere la pur interessante ipotesi per cui il Baldini si fosse servito dei manoscritti di commenti danteschi antichi, tra cui quello di Francesco da Buti, conservati presso la Biblioteca Laurenziana (di cui il Baldini fu prefetto dal 1571) e ai quali, dunque, poteva avere agile accesso (Marinozzi, Giuffra, Kieffer 2015, 353). Pur esistendo certune tangenze tra i testi, esse sembrano possedere esclusivamente una natura poligenetica, visto che il Baldini non citava nella redazione anteriore alle note borghiniane i versi dove tali tangenze, per esempio nelle chiose del Buti, risiedevano – appunto quei passi evocati dal Borghini e inclusi nel Discorso solo in una successiva fase redazionale (soprattutto la chiosa a Pg. XXX, 142-145):

L'alto fato di Dio; cioè l'ordine fatale, che depende da la provedenzia di Dio; et è fato in molte significazioni: imperò che alcuna volta si pillia per la costellazione, alcuna per la morte, alcuna volta per lo decorso de la vita, alcuna volta per la risposta de l'iddii, alcuna volta per l'evenimento ordinario de le cose, secondo la providenzia d'Iddio sì come dicono li versi de la Grammatica: Constellatio, mors, Parcae, responsa deorum, Eventus rerum signatur nomine fati; et ultimo modo si pillia qui, e però adiunge di Dio, e dice l'alto: imperò che Iddio è sopra tutte le cose create, e così la sua providenzia e l'ordine fatale e però bene si può dire alto, serebbe rotto; la quale cosa è impossibile, cioè che 'l fato si possa rompere; et ei si romprebbe se 'l peccato si dimenticasse, sensa averne avuto prima la debita contrizione.

Esistono comunque altre opere con cui il Discorso del Baldini interagiva, emergenti sempre dal medesimo contesto accademico. La prima è rappresentata dalle Lezzioni di Benedetto Varchi, presentate nel 1543 e pubblicate nel 1560, Nelle quali si tratta della Natura, della generazione del corpo humano e de’ mostri, ove si discuteva in chiave aristotelica di mostruosità e prodigi a partire dai versi sulla generazione dell’uomo di Pg. XXV (vv. 37-108). Baldini rimandava a quest’opera del Varchi (Baldini 1578, 30: “ma perché questa materia e stata altra volta trattata dal nostro dottissimo Varchi, perciò al presente me ne rimetterò a quel che egli disse”), in particolare al capitolo Influenza del Cielo ove si indagava il rapporto tra cielo (fato nell’accezione del Baldini) e psicologia umana, alludendo apparentemente a eventuali ascendenze del cielo sull’uomo:

Dicono gl’Astrologi, che l’influenze del Cielo, benché Arist niega tali influenze, sono cagione della generazione del maschio, e della femmina […] e la cagione di tutte queste cose s’attribuisce da molti alle cose dette di sopra (Varchi 1560, 37-38).

Ivi, tramite il lavoro del Varchi, si tentava di smentire le credenze per cui la vita dell’uomo fosse soggetta a inspecificate e occulte manipolazioni superne, invitando a una piena analisi e comprensione dei fenomeni naturali.

La seconda è rappresentata dalle Lezzioni di Lelio Bonsi, anch’esse pubblicate nel 1560, ma risalenti al precedente ventennio. Nella quinta lezione, tenuta nel 1551, ove si esponevano i versi sulla fortuna di If. VII (vv. 67-97), il Bonsi analizzava In che sia differente la fortuna dal fato, finendo per affermare che fato e fortuna si escludevano a vicenda, rappresentando rispettivamente necessità e casualità della contingenza (Bonsi 1560, 87b-88a):

Il fato è di due maniere, particolare, e questo non è altro, che quella costellazione sotto la quale alcuno nasce, e universale, e questo non è altro, che l’ordine immutabile delle cose, cioè il legamento delle cagioni a produrre alcuno effetto: e in somma il concorso della prima causa colla seconda, e della seconda colla terza, e così di mano in mano, tanto che si pervenga all’effetto particolare; onde chiunche pone il fato, di necessità leva la Fortuna, e però colui, che disse, et fato fortuna minor non favellò proriamente. Me bene dottissimamente disse quegli, che nella sua giudiziosissima impresa dice fato prudenzia minor. E chi crede che il Fato e la Fortuna siano una cosa medesima s’inganna di lungo: perché il Fato è ordine, o non è senza ordine; e la fortuna non ha né ordine, né regola alcuna: il Fato importa necessità, e la Fortuna è per accidente, e di rado; e in somma sono incompatibili; perché chi pone la Fortuna, leva il Fato, e così all’opposto.

In questo modo, il Bonsi sosteneva che, secondo l’opinione dei teologi, il fato non esisteva e che tutto doveva essere ricondotto alla volontà di Dio. Il Baldini non menziona mai il Bonsi, ma alcune delle posizioni enunciate nel suo trattato sembrano sviluppate in contrasto con le sue: per esempio il concetto di fortuna era definito alla stregua di un complesso di avvenimenti causati e diretti dalla provvidenza, ma di cui la mente umana non era in grado di fornire una spiegazione razionale:

Et di questi avvenimenti si dice esserne cagione la Fortuna, et questi così fatti accidenti essere casi fortuiti, dei quali noi non diremo cosa alcuna, sebbene ei son talhora dai volgari chiamati effetti fatali. [...] La Provedenza d’Iddio drizza l’opere di questi agenti naturali et fortuiti ancora al fine loro, lasciandoli pure adoperare secondo la loro propria natura, et prevedendo sì come è detto il fine al quale ei debbono pervenire senza imporgli perciò necessità alcuna di pervenirgli (Baldini 1578, 11; 34).

In ultima istanza, non si può non far menzione della traduzione latina dell’opera di Platone di Marsilio Ficino, in particolare il passo relativo alla visione di Er, tratta dal X libro della Repubblica, che viene citata nel Discorso sia in volgare che in latino (Baldini 1578, 15 e 27). Il legame tra questa e l’opera del Ficino è certificato da un errore congiuntivo, il quale però deve essere valutato nel complesso della tradizione per offrire un’idea chiara della sua natura: è trasmesso nelle parole pronunciate da una delle tre Parche, Lachesi, quando si rivolge alle anime prossime alla reincarnazione, dicendo: “O uniduanae animae” (Baldini 1578, 27). Il termine uniduanae non dà senso, tant’è che viene emendato con unidiurnae nella ristampa ottocentesca del Discorso (Baldini 1890, 40). Il testo greco originale legge Ψυχαὶ ἐφήμεροι (Resp. X, 617d), che viene tradotto dal Ficino con o a[n]i[m]e diurne (Ficino 1491, 240a), dove l’uso dell’aggettivo diurnus è volto a recuperare il senso etimologico di ἐφήμερος, sottolineando la transitorietà della vita mortale. La lezione O anime diurne è attestata anche nelle successive ristampe dell’opera, una veneziana (Ficino 1517, 273b) e due parigine (Ficino 1518, 273b; Ficino 1522, 273b). È invece a partire dall’edizione curata da Simon Grynaeus pubblicata per la prima volta a Basilea per Froben che entra nella tradizione O uniduanae animae (Ficino 1532, 672) – questo medesimo testo per esempio è utilizzato anche dal prelato spagnolo Sebastian Fox Morcillo per il suo commentario alle opere di Platone (Fox Morcillo 1556, 415). Grynaeus intendeva offrire una traduzione più precisa rispetto a quella fornita da Ficino, in ragione di un nuovo meditato confronto con il testo greco (“emendatione, et ad Graecum codicem collatione Simonis Grynaei, summa diligentia repurgata”), incrementando la sfumatura semantica della caducità di cui il termine greco ἐφήμερος era latore, là dove diurnus poteva risultare eccessivamente sintetico. Ciò fa pensare che il Baldini leggesse proprio da una di queste edizioni curate dal Grynaeus, magari tra quelle conservate presso la Biblioteca Laurenziana (Centi 2002, II, 445-446) – da un riscontro sui volumi, però, non sono emerse note marginali da cui provvedere elementi positivi a suffragio. In quest’ottica sembra chiaro che la lezione unidiurnae (Baldini 1890, 40), per quanto poziore rispetto a uniduanae, sia congettura basata sulle considerazioni del Baldini medesimo, che, pur leggendo il testo erroneo, ne comprende perfettamente il senso rispetto al greco ἐφήμεροι “O anime di un giorno, cioè o anime che in questo luogo siete in un perpetuo giorno, et la vita alla quale voi andate è brevissima et quasi di un sol giorno” (Baldini 1578, 27). Ciò è ulteriormente sostenuto dalla soluzione adottata dal precedente volgarizzamento toscano di Panfilo Fiorimbene, che opta per “O anime diurne” (Fiorimbene 1554, 445), mettendo in luce il legame con la prima tradizione a stampa delle traduzioni del Ficino.

Da questa rapida ricognizione sul testo, è possibile vedere come il Discorso del Baldini si conformi perfettamente agli usuali schemi di interpretazione dantesca condotti all’interno dell’Accademia Fiorentina dalla metà del Cinquecento in avanti. Al netto di alcuni aspetti originali, l’esegesi del Baldini, proprio in ragione del profluvio e della difformità delle informazioni date, non ebbe fortuna – se non sparuti rimandi nell’erudizione settecentesca (Zapata de Cisneros 1757, 23; Schwindel 1738, 240) e la ristampa ottocentesca di cui detto (Baldini 1890). Si è deciso, dunque, di presentare in questa sede l’edizione del Discorso dell’essenza del fato al fine di restituire visibilità a un testo che offre una singolare prospettiva sulla questione del fato tanto nel Rinascimento quanto nell’ambito di una peculiare stagione dell’esegesi della Commedia, nella speranza di arricchire il corpus di fonti sulla materia e portare avanti un dibattito che continua a destare l’interesse della comunità scientifica.

Nota all’edizione del testo

a.
Il testo è trascritto seguendo la stampa fiorentina del 1578, pubblicata con autorizzazione dell’inquisizione fiorentina e per i tipi di Bartolomeo Sermartelli. Non si tiene in considerazione la trascrizione dell’edizione, con tiratura limitata (60 esemplari) pubblicata a Ferrara da Antonio Taddei nel 1890, che adotta, pur mantenendo un alto grado di fedeltà, criteri meno conservativi;

b.
È stata imposta una paragrafatura [1-175];

c.
Si conserva sempre la h etimologica (havere, huomo, hora, herba, hoste, Plutarcho, Heraclito etc.);

d.
La nota tironiana & è sistematicamente resa con et, pur sussistendo rari casi di presenza della congiunzione e – in cui si è deciso di non normalizzare per preservare l’oscillazione grafica;

e.
La scriptio continua, dove presente, è stata sciolta o interpretata: e.g. disopradette > di sopra dette; la forma perche è stata resa alternativamente con per che (quando introduce proposizione con funzione relativa) e con perché (quando introduce proposizione con funzione causale o finale);

f.
Le forme all’hora e tal’hora vengono rese con allhora e talhora; tal volta > talvolta; per ciò > perciò;

g.
Gli accenti sono stati regolarizzati secondo l’uso moderno: e.g. verita > verità, perche > perché, pero > però, piu > più etc.; nei casi in cui gli accenti sono posti in maniera non corrispondente con l’uso moderno, la grafia viene sempre normalizzata à [preposizione] > a; è [congiunzione] > e; ò [congiunzione] > o;

h.
In alcune forme con elisione finale è riscontrabile l’apostrofo, dopo n-, r-, che è stato sistematicamente rimosso: e.g. dir’ > dir; harebbon’ > harebbon;

i.
Le lettere maiuscole sono state uniformate secondo l’uso moderno. L’unica eccezione è per il termine fato e le voci del suo campo semantico (fortuna, destino, etc.), ove si serba sempre la lettera maiuscola, in accordo con la quasi totalità delle loro occorrenze testuali;

j.
le citazioni in lingua latina sono state rese con il corsivo; il discorso diretto in lingua italiana con le virgolette alte “”; le espressioni in senso lato e il significato di vocaboli espressamente dato in contesti lessicografici viene reso con due apici ‘’ secondo l’uso dei linguisti;

k.
La punteggiatura è stata rivista in modo sostanziale. I periodi, spesso di intere pagine senza punti, sono stati ridotti in unità coerenti di senso. È stato un intervento necessario per favorire, auspicabilmente, la leggibilità del testo. I segni interpuntivi corrispondono all’uso moderno. Talvolta, la punteggiatura segue quella data nell’edizione Taddei del 1890;

l.
Interventi sul testo:
[103]: Si lascia a testo la lezione erronea uniduanae pro unidiurnae, lezione corretta, che invece viene accolta nella ristampa ferrarese del XIX secolo (Baldini 1890, 40), in quanto non errore del Baldini, ma diretta derivazione della fonte da cui citava;
[115]: “Et dirò insieme con il nostro poeta che, essendo la volontà dell’huomo libera et non potendo essere sforzata da cosa alcuna, >che< in noi è la cagione […]”.

Testo

Baccio Baldini

DISCORSO DELL’ESSENZA DEL FATO
E DELLE FORZE SUE SOPRA LE COSE DEL MONDO
E PARTICOLARMENTE SOPRA L’OPERAZIONI DEGL’HUOMINI

Stamperia di Bartolomeo Sermartelli

IN FIORENZA
M D L X X V I I I

[//0]

AL MOLTO MAGNIFICO BARTOLOMEO PANCIATICHI PATRIZIO FIORENTINO, COMPARE E SIGNOR MIO OSSERVANDISSIMO

[1] Il ragionamento che io hebbi con la Signoria vostra pochi giorni sono delle forze che ha il Fato sopra le cose dell’universo, mi fece ricordare di un ragionamento che io hebbi già nell’Accademia di questa materia, nel quale io, cercando di sporre il meglio che io seppi certi terzetti del nostro divino poeta Dante, che sono nel Purgatorio nel capitolo dell’ira, ragionai non solamente delle forze di esso Fato, ma dell’essenza e della natura sua: et havendolo ritrovato, diliberai di mandarglielo, percioché, qualunque egli si sia, credo potrà sciorre assai bene quei dubbij che ella haveva circa di quello, onde io la prego che si contenti d’accettarlo, e talvolta per suo diporto leggerlo, e ricordarsi che io son sempre ai piaceri suoi e che io gli desidero ogni bene e ogni felicità.

Di Fiorenza alli 22 di maggio 1574.
Di V.S.M.
Il compare
Baccio Baldini [//3]

DISCORSO DELLA ESSENZA DEL FATO

E DELLE FORZE SUE SOPRA LE COSE DEL MONDO

E PARTICOLARMENTE SOPRA L’OPERAZIONI DEGL’HUOMINI

DI M. BACCIO BALDINI

[2] Sogliono gli huomini il più delle volte per fuggire quei carichi et biasimi, i quali per gli errori che essi fanno, son dati loro, quando non se ne possono altrimenti scusare, dolersi del Fato o della Fortuna sì come di cagioni che gli habbino sforzati a fare quel che eglino per loro stessi non harebbon fatto già mai; la qual cosa, quando non facesse altro cattivo effetto che ricoprire alquanto le colpe di quegli che errano et consolare un poco gli animi loro afflitti più per i danni che essi ricevono per gli errori commessi da loro che per gli stessi errori, poco importerebbe; [3] ma perché questa malvagia et empia oppenione che il Fato et la Fortuna habbino podestà sopra le operazioni degli huomini et sforzino il libero voler loro a fare che sia, è spesse fiate cagione che eglino sien manco prudenti in quel che essi debbon fare, et usino men diligenza che non bisognerebbe loro nel guardarsi dal male adoperare, il che io non credo che possa essere senza lor grave danno. [4] Per ciò io ho diliberato meco medesimo di discorrere del Fato [//4] in questo presente ragionamento, qualunque egli si sia per essere, et per poter ciò più comodamente fare, mi son disposto di dichiarare alcuni terzetti del nostro dottissimo poeta Dante, dove egli, in persona di M. Marco gentilhuomo viniziano, ragiona, et non molto chiaramente secondo il parer mio, delle forze del Fato, senza dir cosa alcuna della natura et dell’esser suo: [5] per che io per essere più facile, più ordinato et più chiaro che io potrò, primieramente dubiterò se il Fato è una finzione degl’huomini et un nome vano come la chimera o altro simigliante a questo, il che qualcuno ha creduto, ovvero se egli è qualcosa in fatto, et essendo veramente, dirò quel che egli è et la natura sua; et finalmente parlerò delle sue forze, et in questa ultima parte esporrò quei terzetti di Dante che io ho promesso poco di sopra di dichiarare, [6] i quali son questi:

Lo mondo è ben così tutto diserto
d’ogni virtute, come tu mi sone
et di malizia gravido et coverto.
Ma prego che m’additi la cagione
sì ch’io la veggia, et ch’io la mostri altrui
che nel Ciel uno, et un qua giù la pone.
Alto sospir che ‘l duolo strinse in hui
mise fuor prima, et poi cominciò frate
lo mondo è cieco, et tu vien ben da lui.
Voi che vivete ogni cagion recate
suso nel Cielo, sì come se tutto
seco movesse di necessitate.
Se così fusse, in voi fora distrutto
libero arbitrio, et non fora giustizia
per ben letizia et per male haver lutto.
Il Cielo i vostri movimenti inizia,
non dico tutti, ma post ch’ il dica,
lume v’è dato a bene et a malizia.
Et libero voler che se fatica
nelle prime battaglie del Ciel dura
vince poi tutto, se ben si nutrica.
A maggior forza et a miglior natura [//5]
liberi soggiacete, et quella cria
la mente in voi, che l' Ciel non n’ha ‘n sua cura.
Però se ‘l mondo presente vi svia
in voi è la cagione, in voi si chieggia
et io te ne farò or vera spia.

[7] Venendo adunque alla prima parte, dico che Anaxagora Clazomenio filosofo, in vero dottissimo, diceva che il Fato è niente et è una finzione degli huomini et un nome vano che non haveva significazione alcuna, sì come noi diremo in lingua nostra l’orco o la befana o altro simigliante a questi; [8] et era sforzato a dir così per non contradire a quel che egli haveva detto dei principi delle cose naturali, percioché credette questo filosofo che tutte le cose naturali fussero in fatto insieme ma divise in piccolissime parti le quali egli chiamò similari, o vogliamo dire d’una ragione, in una grande massa che egli appellò panspermia et omiomeria, et dallo intelletto divino fussero continuamente separate l’una dall’altra et cavate l’una dall’altra le parti similari di sopra dette, et così fusse ridotto da lui l’universo et mantenuto in quella guisa che egli è al presente. [9] Ma è da avvertire che, se bene lo intelletto divino, il quale egli chiamò Mente, per questa così fatta separazione delle parti similari l’una dall’altra, faceva tutte le cose di questo universo, non perciò separava già mai le parti di sopra dette, in guisa che in ciascheduna cosa naturale non fussero le parti similari di tutte l’altre cose naturali, ma di qual più et di qual meno, et da quelle parti similari che una cosa naturale haveva più et perciò apparivono più al senso, quella era nominata pianta et quell’altra animale; onde per esempio in una mano, secondo lui, è acqua, aria, terra, fuoco, pietre, metalli, ma di ciascheduna di queste cose poche et piccolissime parti, ma di carne, ossa, nervi et pelle assai più parti che di quell’altre, et perciò ella è nominata mano; [10] et se bene le parti similari di quelle cose dette di sopra per il loro poco numero non appariscono al senso, la ragione, che secondo lui è più certa et più vera che ‘l senso, mostra che le vi sono, perché egli usava di dire quello famoso detto “ciascheduna cosa è in ciascheduna cosa”; et quel che io ho detto della mano si debbe intendere ancora di tutte l’altre cose natu[//6]rali, le quali essendo formate dallo intelletto divino, per questa così fatta separazione delle parti similari, et havendo ciascheduna delle cose naturali le sue proprie operazioni, restava il Fato una cosa oziosa e senza operazione alcuna, il che gli parve inconveniente sì come veramente egli è; [11] percioché fu comune sentenza di tutti quanti i filosofanti, et vera et accettata ancora dalla pietà cristiana, che Iddio et la natura non fanno già mai cosa alcuna indarno, per che egli, per fuggire questo inconveniente, disse come io ho detto sopra, che il Fato è niente.

[12] Questa oppenione, se bene ella è di nobilissimo filosofo, si dimostra che ella è falsa per quel medesimo fondamento che egli la volle provare, percioché se Iddio et la natura non fanno già mai cosa alcuna invano, adunque non hanno messo invano in tutti gli huomini che non si lasciano corrompere da qualche loro strana fantasia questo comune sentimento che il Fato sia qualcosa in fatto, et massimamente che noi veggiamo questi concordi consentimenti degli huomini in tutte l’altre cose esser verissimi, sì come è che il tutto è maggiore della parte et che due et due fan quattro et in altre assai: et questo percioché la natura in tutte le sue operazioni non ha del vano, ma del fermo et del sodo; [13] et perciò lasciando stare da l’un dei lati l’oppenione di Anaxagora sì come contraria alla comune sentenza di tutti gli huomini, diciamo che il Fato non è un nome vano, ma qualcosa veramente, et perciò innanzi che io dica che cosa egli è, è da vedere se questa voce Fato ha un significato o più, per sapere se io debbo ragionare di una, di più, o di tutte le sue significazioni.

[14] Et perciò dico che questo nome Fato ha molte et diverse significazioni, sì appresso i Greci, sì appresso i Latini, sì ancora appresso i Toscani. I Greci adunque hanno tre voci, una delle quali è εἰμαρμένη, che significa Fato, et è un nome il quale è formato da questo verbo greco εἴρω, che vuol dire in quella lingua ‘lego’ ovvero ‘congiungo’; onde questa parola εἰμαρμένη, nel nostro volgare significherebbe ‘legame’ ovvero ‘congiungimento’; et quegli che pose questo nome al Fato forse il fece percioché egli portò oppenione che il Fato non fusse altro che un ordine di cagioni delle quali alcune ne fussero prima et l’altre dipoi, et concorressero ordinate in que[//7]sta guisa a produrre alcuno effetto qualunque egli si fusse. [15] Hanno dipoi i Greci questa altra voce πεπρωμένον, la quale significa propriamente quello che noi diciamo ‘fatale’, ma si piglia ancora per lo stesso Fato, et è formato questo nome da duoi verbi greci cioè περατόω, che vuol dire in quella lingua tanto quanto nella nostra ‘finisco’ e ‘termino’, et da ἐρύω, che vuol dire appresso di loro quello che noi diciamo ‘trarre’, quasi che questo nome, composto di questi duoi verbi di sopra detti, voglia inferire che quello che è fatale o fatato è terminato et fermo et dalla forza del Fato tratto necessariamente al suo fine, là onde per questa medesima cagione ei chiamano il Fato πεπρωμένη, quasi che egli sia una possanza et una cagione la quale conduca necessariamente tutte le cose al fine loro.

[16] I Latini hanno questa voce Fatum, la quale significa in quella lingua molte cose: primieramente ella vuol dire un perpetuo ordine di cagioni il quale necessariamente produce gli effetti suoi, perché Marco Tullio nel primo di quei libri che egli compose Della indovinazione disse:

Fatum id appello quod Graeci εἰμαρμένην idest ordinem seriemque causarum, qum causae causa nexae rem ex se gignat, et est ex omni aeternitate causa fluens, veritas sempiterna, quod qum ita sit nihil est factum quod non futurum fuerit, eodemque modo nihil est futurum cuius non causas id ipsum efficientes natura contineat, ex quo intelligitur ut Fatum sit non id quod superstitiose sed id quod physice dicitur causa aeterna rerum cur et ea quae praeterierunt facta sint et quae instant fiant et quae sequntur futura sint.

[17] Oltre a di questo significa appresso di loro questo nome Fatum la ‘morte’, percioché niente è più certo né più necessario non solamente all’huomo, ma a tutti gli animali ancora, che la morte, onde i Latini dicono al morire Fato concede et Fato fungi. [18] Vuol dire ancora Fatum il ‘caso’, onde Nevio, antico poeta latino, volendo dimostrare che i Metelli eran fatti in Roma consoli “a caso” e non per alcuna lor vertù o alcun valore disse Fato Metelli Romae fiunt Consules, et che questo poeta usasse allhora questa voce Fato per il caso et per biasimare et schernire i Metelli, lo dimostra manifestamente l’altiera risposta che gli fecero i Metelli, sì come quegli, che si tennero per le parole di sopra dette scherniti et offesi da lui, onde dissero: Dabunt Metelli malum Naevio poetae. [19] Ultimamente significa appresso i [//8] Romani quella parola Fatum le risposte degli oracoli et gli oracoli stessi ancora, sì come si cognosce chiaramente per questo verso di Vergilio che è nel quinto libro della sua Eneide, quando ei dice:

Oblitus fatorum Italas ne capesseret oras.

[20] Ma i nostri Toscani hanno tre voci, Fata, Destino e Fato. Et per questa parola Fata significano ‘ninfa’ et ‘caso’, sì come dimostra apertamente quello che noi diciamo giornalmente “la buca delle Fate” et uno “esser fatato”, cioè che egli ha in sé alcuna vertù datagli dalle Fate di poter fare alcuna cosa maggiore di quelle che ordinariamente fanno gli altri huomini, o di non poter patire alcuna cosa di quelle le quali gli altri huomini naturalmente patiscono, sì come favoleggiarono gli antichi poeti di Acchille che egli era fatato di non poter esser fedito se non nelle piante dei piedi, et i moderni poeti dissero che Orlando non poteva in guisa alcuna esser fedito, et così quando noi vogliamo dire che una cosa sia fatta a caso et senza considerazione noi diciamo che ella è “fatta a Fata”. [21] Ma per Destino et Fato i Toscani intendono una cosa medesima, cioè una nascosta vertù qualunque ella sia, la quale ha gran forza sopra l’operazioni degli huomini et sopra gli accidenti che avvengon loro, buoni o rei che eglino si siano, quasi che per queste due voci ei significhino talhora anche la Fortuna o la ventura che noi vogliamo dire. [22] Significano ultimamente i Toscani per questa parola Fato l’assoluta e libera volontà di Dio ottimo e grandissimo e la Providenza che egli ha di tutto questo universo, per che Dante dice:

L’alto fato di Dio sarebbe rotto

et quel che segue; et in queste significazioni pigliano il Fato non solamente i Toscani, ma i Greci et i Latini ancora. [23] Plutarcho, quel gran filosofo maestro di Traiano imperadore, in quel suo dottissimo libretto che egli compose Del fato dice che questo nome significa due cose, percioché egli significa primieramente una sostanza, come è un animale o una pianta, et significa ancora l’operazioni di questa tal sostanza; et di tutte et due queste significazioni ci conviene ragionare, percioché parlando di queste due diremo ancora quanto sarà di bisogno di tutte l’altre che noi habbiamo poco di sopra raccontate; [24] ma prima ragione[//9]remo del Fato in quanto egli è una sostanza, et dipoi parleremo di esso in quanto egli è una operazione della sostanza di sopra detta, percioché circa a questa seconda significazione del Fato son molti dubbi, sì naturali et sì morali et molto malagevoli a sciorgli.

[25] Dico adunque che il Fato nella sua prima significazione non è altro che una cagione, il che si vede per quel che noi diciamo di lui tutto il giorno, cioè il Fato è stato cagione della tale et della tal cosa, et i tali effetti sono stati fatali. Ma perché le maniere delle cagioni, come prova Aristotile nel secondo libro della Filosofia naturale, son quattro, perciò è da vedere sotto qual maniera delle cagioni noi riduciamo il Fato. [26] Per maggior et migliore intelligenza adunque diciamo che di una figura, qualunque ella si sia, sono quattro cagioni: percioché egli è primieramente la materia di che ella è fatta, sì come è il bronzo o il marmo o altra; è la forma sua, come per esempio la figura di Giove o di Minerva; è lo scultore che scolpisce quella figura nella materia di sopra detta, la qual cagione noi chiameremo, insieme con gli antichi, efficiente; è il fine o causa finale, che noi vogliamo dire per che ella è fatta, sì come è l’ornamento di qualche luogo pubblico o privato, o la memoria di colui che l’ha fatta fare, o l’utile che lo artefice ne ha sperato facendola, o altra simigliante a questa.

[27] Il Fato adunque si riduce a quella maniera di cagione che noi chiamiamo efficiente et ha quella medesima proporzione alle cose fatali che ha lo scultore alla statua, sì come manifestamente apparisce per quel che noi diciamo giornalmente di quello, cioè il Fato è stato cagione d’una cosa o d’altra, ma non diciamo già mai la tal cosa è fatta del Fato, percioché egli non è materia di cosa alcuna, sì come il bronzo o il marmo è materia della figura. [28] Non è fine di cosa alcuna, percioché non è huomo alcuno che ordini o indirizzi l’operazioni sue al Fato, percioché chi è quello che dica io fo tal cosa per amor del Fato? [29] Non è forma di cosa alcuna, percioché noi non possiamo dire quello è fuoco percioché egli ha per forma il Fato, come noi diciamo egli è fuoco percioché egli è caldo et secco, et questa è la sua forma.

[30] Essendo adunque il Fato cagione efficiente delle cose fatali, et essendo le cagioni efficienti di più maniere, è da vedere sotto qual maniera di cagioni efficienti [//10] noi riponghiamo il Fato. [31] Dico adunque che tutte le cagioni efficienti adoperano o senza fine alcuno o a qualche fine. Senza fine alcuno adoperan coloro i quali come per esempio si lisciano la barba o si mordono l’unghie senza proposito alcuno: et questi tali che così adoperano non meritano quasi nome di cagioni efficienti, et non si dividono in maniera alcuna. [32] Ma quelle cagioni efficienti che adoperano a qualche fine o le conseguitano il fine inteso da loro se le non sono impedite, come et quando un capitano d’un esercito conduce l’hoste sua sopra una città per pigliarla e la piglia; o veramente le conseguitano un fine non inteso da loro, sì come quando uno fa diverre il terreno per porre una vigna et facendo zappare trova un tesoro del quale egli non cercava. [33] Et di questi avvenimenti si dice esserne cagione la Fortuna, et questi così fatti accidenti essere casi fortuiti, dei quali noi non diremo cosa alcuna, se bene ei son talhora dai volgari chiamati effetti fatali, onde ei dicono che di quegli ne è stato cagione il Fato, percioché ei confondono spesse fiate insieme queste due cose, cioè il Fato et la Fortuna, et non distinguono l’una dall’altra.

[34] Ma quelle cagioni che conseguono lo intendimento loro, se le non sono impedite, sono o la natura o la ragione, percioché queste due cagioni adoperano sempre a qualche fine et a qualche proposito; sotto la ragione, la quale altro non è che un movimento come appetito a quella cosa che è stata prima giudicata buona dalla ragione et dal consiglio, si contiene l’arte et la elezione; [35] et convengono queste due cagioni in questo, che tutte et due sono in nostra podestà, percioché in poter nostro è il fare una statua o un letto o altro, et così lo non fare, et eleggere questa cosa o quell’altra secondo che più ne piace, sì come noi vedreno di sotto. [36] Ma sono poi differenti in questo, percioché quelle cose che son fatte dall’arte hanno il principio della loro generazione fuora di loro, percioché lo artefice non è mai dentro a quella opera che egli fa, là dove quelle che son fatte dalla elezione, come sono le operazioni virtuose et viziose, hanno il principio della loro generazione dentro a loro stesse, sì come hanno ancora quelle cose che son fatte dalla natura, sì come noi veggiamo essere l’operazioni degli animali et delle piante che sentono, si muovono, si [//11] nutriscono et generano ciascheduno di essi una cosa simigliante a loro per quelle potenze che esse hanno dentro a loro stesse.

[37] Niuno adunque dirà già mai che il Fato sia una di quelle cagioni efficienti che adoperano senza fine, percioché noi tutti chiamiamo cose fatali quelle che son fatte a qualche fine, et Fato diciamo a uno agente il quale adoperi a qualche proposito. Neanche lo possiamo porre sotto la ragione, percioché quelle cose che son fatte dalla ragione sono in poter nostro et le cose fatali no; et poi chi sarebbe quello che dicesse già mai che il Fato ha fatto un letto o una statua? [38] Resta adunque che il Fato et la natura sieno una medesima cosa, et differenti solamente in questo, che la natura si può considerare in duoi modi, cioè come forma che dia l’essere alle cose naturali, come son gli animali et le piante, et puossi considerare come delle loro operazioni. Et considerando la natura in questa guisa dico che ella è la medesima cosa che il Fato et differente da lui solamente nel nome, et che quello sia fatale a ciascheduno che gli è naturale, et che gli effetti naturali siano i medesimi che i fatali differenti solamente nel nome. [39] Et siccome la natura è di due maniere, universale et particolare, così il Fato è ancora egli di due sorti, universale et particolare: il Fato universale fa gli effetti universali, sì come sono le conversion dei tempi, il fiorir le piante, il maturare i frutti, il generare gl’animali et molti altri simiglianti a questi; il particolare fa gli effetti particolari, sì come sono il fiorire et il produrre i frutti una particolar pianta et le proprie operazioni che ciaschedun huomo fa, là onde Eraclito diceva che il costume, cioè la natura era il demone di ciascheduno huomo, percioché ella è la cagione delle opere sue.

[40] Ma potrebbe dimandare qualcuno, sia che il Fato et la natura siano una medesima cosa del modo dette, che cosa è natura? A questi si può rispondere secondo Aristotile nel secondo libro della Filosofia naturale, che la natura non è altro che un proprio principio di movimento et di riposo di quella cosa in che ella è, sì come noi veggiamo quel principio et quella forza per la quale la terra va allo in giù et si riposa quando ella è nel centro, et il fuoco va allo in su, et si riposa quando egli è nella concavità della spera della Luna. [41] È [//12] adunque il Fato, sì come la natura, un proprio principio di moto et di quiete et dell’operazioni di quella cosa in che egli è; et questa oppenione che il Fato et la natura, considerata nel modo detto, sieno una medesima cosa parve che portassero Heraclito e Chrisippo, dei quali l’uno disse che il Fato è una ragione che penetra per la sostanza dell’universo, la quale non è altro che il corpo celeste seme della generazione del tutto, et l’altro disse che il Fato è una ragione per la quale tutte le cose dell’universo che erano state fatte eran sute fatte, et quelle che continuamente si fanno son fatte da lei, et quelle che saranno saran medesimamente prodotte da quella; [42] per le quali parole si vede che cischedun di loro volle significare la natura, percioché ell’è quella che ha fatto, fa et farà sempremai le cose dell’universo con ordine meraviglioso; et la natura ancora è quella che penetra per la sostanza dei corpi celesti et per lei i cieli son seme et origine di tutte le cose del mondo. Et questo quanto alla prima significazione del Fato.

[43] Quanto alla seconda, dico che il Fato non significa altro che un ordine di queste due nature universale et particolare dette di sopra, quando convengono insieme et si uniscono a produrre qualche effetto, percioché allhora si producono gli effetti naturali che sono i medesimi che i fatali, quando queste due cagioni si uniscono insieme; [44] onde noi veggiamo la primavera mutarsi la stagione del tempo da quel che ell’era prima, generare gli animali, fiorire gli alberi et l’herbe, la state o l’autunno farsi medesimamente altra stagione di tempi che non era prima, mutarsi le biade et i frutti, il verno per il contrario cader le foglie degli alberi, seccarsi la maggior parte delle herbe et molte maniere di animali nascondersi per le caverne della terra, il che non nasce da altro che da i diversi aspetti che hanno i corpi celesti, che sono il Fato universale a queste cose particolari che son sotto la Luna, le quali sono i Fati particolari.

[45] Ma perché la cosa è alquanto oscura, io m’ingegnerò con duoi esempi di facilitarla. Immaginiamoci adunque una catena, il primo anello della quale sia Iddio ottimo et grandissimo dal quale dipende il cielo et la natura; il secondo è l’intelligenze, le quali, havendo preso presa la vertù da Dio, muovono i corpi celesti; il terzo anello sia il Cielo che, presa la forza [//13] dalle intelligenze, muove gli elementi, che sono il quarto anello, il quale, pigliando la vertù dai corpi celesti, muovono queste cose particolari, come sono gli animali et le piante, che sono il quinto anello. [46] Questo ordine adunque di cagioni efficienti, delle quali ciascheduna piglia la forza da quel di sopra et adopera in quel di sotto, è il Fato in atto, et in quanto egli significa le operazioni delle sostanze di sopra dette, onde ben diceva Dante nel secondo capitolo del Paradiso:

Questi organi del mondo così vanno
come tu vedi, homai di grado in grado
che di su prendono et di sotto fanno.

[47] Ma diamo un esempio di questa medesima significazione del Fato un poco più particolare. Iddio ottimo et grandissimo muove le intelligenze, le quali, essendo mosse da lui, muovono i corpi celesti di maniera che quegli, sendo mossi da loro muovono l’aria, la quale alterata muove i venti; questi muovono il mare et fanno una tempesta; [48] ritrovansi allhora in mare due navi, una delle quali è governata da un pratico et prudente nocchiere, l’altra da un poco perito; ciascheduno di loro travaglia per la forza del mare, ma il prudente cessa molti pericoli che il mare gli apporta et lo ignorante v’incorre dentro; et in questo travaglio si veggiono molti strani avvenimenti et massimamente in quella nave che è governata dal nocchiere poco perito, percioché dei casi fortuiti ne è madre il più delle volte la ignoranza; et dura tanto questo travaglio che o la tempesta vince la prudenza del nocchiere perito et affondasi la nave, o che la prudenza del perito nocchiere vince la forza del mare et salvasi, là dove il più delle volte il poco perito si perde, havendo aiutato con la ignoranza sua la forza della tempesta et del mare.

[49] Ma è da avvertire che il comune uso del parlare, sì appresso ai Greci sì appresso ai Latini et sì ancora appresso ai Toscani, chiama la conversion dei tempi, il fiorire delle piante et il fare i lor frutti, et il generare degli animali effetti naturali et non effetti fatali; et dice più presto effetti fatali a quegli ai quali concorrono le volontarie operazioni degli huomini in alcuna guisa. Onde si dice comunemente che il Fato di Troia fu che ella fusse presa et disfatta dai Greci, [//14] Veio dai Romani et Fiesole dai Fiorentini, in un tal tempo, per i tali mezzi et con i tali segni delle rovine loro. [50] Et dicono ancora che egli è cosa naturale a uno morire, ma il morire di ferro o d’alcuna malattia dicono che è cosa fatale a quegli che muore, et che di questo effetto ne è cagione il Fato et il Destino et di quello la natura, onde ei pare che il Fato et la natura siano due diverse cose, per che Marco Tullio nella prima Filippica dice: Sed ut si quid mihi humanitus accidisset (multa autem impendere videbantur praeter naturam etiam praeterque Fatum). Ma di questo ne ragioneremo poco di sotto et mostrerremo apertamente come questi effetti sono anch’eglino naturali.

[51] Questa oppenione, che il Fato in quanto egli significa l’operazione delle sostanze di sopra dette fusse un ordine di cause come noi habbiamo detto, fu portata da Platone Atheniese, filosofo di tanta riverenza appresso agli antichi che egli fu da loro et meritatamente nominato divino, quando nel decimo libro della sua Republica egli dice che l’anime degli huomini, le quali doppo mille anni che si sono partite dal corpo debbono di nuovo ritornagli, arrivano primieramente nella regione dell’aria et quivi veggiono un lume grandissimo in forma di colonna di vari colori come la Iride, che penetra per tutta la profondità dell’universo et poi si allarga per tutto et da lei pendono i legamenti dei corpi celesti. [52] Et in questa colonna veggion l’anime essere il fuso fatale di diamante che pende dalle ginocchia della dea Necessità, la quale siede in cima delle colonna di sopra detta, et ha il fuso et il suo fusaiuolo distinto in otto cerchi pure di diamante et d’altre pietre preziose, il quale è volto dalle tre parche Clotho, Atropos et Lachesis figliuole della Necessità, le quali, essendo vestite di bianco et coronate, seggono con la madre nella medesima sedia; delle quali Clotho con la man destra volge il maggior cerchio del fusaiuolo, che è quel di fuori, Atropos con la man manca volge el minor cerchio, che è quel di dentro, Lachesis hor con una mano et hor con l’altra volge quando il cerchio di fuori et quando quel di dentro. [53] Ha ciascheduno cerchio del fusaiuolo una sirena che canta dolcissimamente et con esse si accordano le tre Parche, delle quali Lachesis canta le cose passate, Clotho le presenti, Atropos quelle che debbono avveni[//15]re.

[54] Per questa finzione adunque volle Platone significare teologicamente per la colonna la natura che è isparta per tutto l’universo et penetra per tutta la materia di quello et lega et unisce insieme tutto l’universo, et la chiama lume percioché ella dà vita a tutte le cose corporali; significò per la varietà dei colori i varii semi con i quali la natura produce tante et sì diverse cose; per il fuso fatale di diamante mostrò la natura in quanto ella reca in atto gli effetti naturali, et è di diamante percioché l’ordine della natura è stabile et fermo et dura sempremai in un medesimo modo; il fusaiuolo distinto in otto cerchi è l’ottava spera et le sette spere dei pianeti; la diversità delle pietre preziose di che son fatti i cerchi del fusaiuolo significa la diversa natura et i diversi movimenti dei corpi celesti; le Sirene significano l’armonia che con i diversi movimenti loro secondo Platone fanno i corpi celesti; la dea Necessità dalle cui ginocchia pende il fuso fatale è l’anima del mondo, perché è da sapere che Platone volse che tutto l’universo havesse un’anima, la quale stesse nel centro di quello per distribuire le forze sue ugualmente per tutto il mondo, come dal centro d’un cerchio si distribuiscono le linee alla circonferenza di quello et multiplicasi la detta anima prima per i corpi celesti, et da quelli poi per questi corpi mortali. [55] Et di questa anima parlò dottamente Vergilio nel sesto libro della sua Eneide, quando ei disse:

Principio caelum ac terras camposque liquentis
lucentemque globum Lunae titaniaque astra
spiritus intus alit totamque infusa per artus
mens agitat molem et magno se corpore miscet.

[56] Ma qui è posta a sedere in cima della colonna, percioché, secondo questo filosofo, la natura è una forza che l’anima dà alla materia et uno instrumento mosso da lei; et chiama Platone questa universale anima del mondo Necessità, et la fa sedere in sur una sedia non perché ella faccia violenza alcuna al mondo, ma perché ella mantiene fermo e stabile l’ordine dell’universo instituito da Dio; [57] le tre Parche vestite di bianco sono i primi gradi nei quali è distinta l’anima del mondo, cioè quella ottava spera, quella dei sette pianeti et quella di questi animali che sono sotto [//16] la Luna; son coronate per la podestà che elle hanno sopra le cose dell’universo; son vestite di bianco percioché le sono inviolabili et innocenti, conciosia cosa che niuna cosa, la quale senza mezzo alcuno viene da Dio, può nuocere in modo niuno all’universo; [58] pende il fuso fatale che elle volgono dalle ginocchia della dea Necessità percioché l’anima del mondo con la sua potenza men nobile risguarda queste cose inferiori, onde ella non tratta le sorti delle cose del mondo con le mani, ma le lascia trattare alle tre Parche sue figliuole; et con la sua più nobile parte risguarda Iddio, onde Plotino, quel gran platonico, disse che l’anima non si parte già mai da Dio come le saette dall’arco, ma come i raggi dal corpo del sole che sempre stanno uniti seco; [59] cantono le tre Parche con le Sirene percioché si manifestano le operazioni loro con i movimenti dei corpi celesti; cantano dico le tre parti del tempo, cioè il passato, il presente et quello che debbe venire, percioché elle recano in atto separatamente et con tempo quello che tutto insieme è innanzi alla eternità et prudenza di Dio; [60] perciò Lachesis canta il passato mostrando la brevità del tempo che durano queste cose che sono sotto la Luna, le quali presto debbono passare; Clotho et Atropos cantano quel che è et quel che debbe avvenire, sì come prime cagioni di tutte le cose che sono et che continuamente si generano in questo universo; [61] volge Lachesis il fuso fatale con tutte et due le mani percioché nel principio della vita et d’ogni cosa si contiene il tutto; Clotho con la man destra volge il maggior cerchio del fuso che è di fuori mostrando che il principio della vita di queste cose viene di fuori, cioè dalla grandezza di Dio et dei corpi celesti; Atropos con la sinistra volge il cerchio minore che è di dentro, mostrando che queste cose mortali finiscono quasi in niente, et che il principio della corrozzione di quelle è dentro a loro et adopera nascostamente a poco a poco. [62] Et questo quanto alla seconda significazione del Fato in quanto egli significa la natura che attualmente adopera in queste cose del mondo.

[63] Se adunque il Fato et la natura sono una medesima cosa, che forza et che podestà hanno eglino sopra le cose dell’universo et massimamente sopra l’operazioni degli huomini, le quali noi poco di sotto proverremo che son libere et in lor podestà? [64] Dico che questa è [//17] quella domanda che fa il nostro poeta Dante a M. Marco gentil huomo viniziano nel primo di quei terzetti che io raccontai poco di sopra, percioché, essendo arrivato il nostro poeta in quel cerchio del Purgatorio dove si punisce il peccato dell’ira, et havendolo domandato chi egli era, egli rispondendo gli dice:

Lombardo fui et fui chiamato Marco
del mondo seppi et quel valore amai
al quale ha hoggi ogni huom disteso l’arco.

[65] Et Dante doppo pochi terzetti soggiugne:

Lo mondo è ben così tutto diserto.

et quel che segue, cioè il mondo è privo d’ogni vertù et pieno d’ogni vizio, sì come tu mi favelli, ma prego che mi dimostri la cagione di questo chiaramente, sì come noi mostriamo per più certezza una cosa a dito, il che noi diciamo additare, et me la mostri in guisa che io la possi mostrare ad altri, percioché è gran segno che uno cognosca una cosa et bene quando egli la può mostrare a un altro.

[66] Alto sospir che ‘l duolo strinse in hui
mise fuor prima, et poi cominciò frate
lo mondo è cieco, et tu vien ben da lui.

Induce il nostro poeta M. Marco che si rattristi della cieca domanda la quale gli fa Dante, il che ei gli fa dimostrare con un gran sospiro il quale finì in questa voce ‘hui’, con la quale noi significhiamo dolore et tristizia, ma è da avvertire il bel modo di parlare di questo poeta:

Alto sospir che ‘l duolo strinse in hui.

[67] Per che è da sapere che, come ben prova quel dottissimo filosofo et peritissimo medico Galeno nel secondo libro Delle cagioni dei symptomi, il dolore è una passione dell’animo che ritira il sangue et gli spiriti al cuore et lo preme, aggrava et stringe et così stringendolo ne fa mandar fuori i pianti, le lagrime et i sospiri et l’altre voci con le quali noi dimostriamo il dolore, non altrimenti che premendo una spugna piena d’acqua noi facciamo schizzar fuori quell’acqua che gli è dentro. Il che sapendo benissimo il nostro poeta, sì come gran filosofo che egli era, disse: [//18]

Alto sospir che ‘l duolo strinse in hui

et quel che segue.

[68] Voi che vivete ogni cagion recate
suso nel Cielo, sì come se tutto
seco movesse di necessitate.

Voi che vivete la vita caduca et mortale, dice M. Marco, recate la cagione di tutti gli effetti che voi vedete in questo universo nel Fato, il quale Dante chiama cielo, come se il Fato movesse seco di necessità ogni cosa et facesse necessariamente tutti gli effetti del mondo. [69] Per che è da sapere che Zenone Cittieo, prencipe di quella setta di filosofi i quali furono chiamati Stoici, et Eraclito Efesio, quel gran filosofo che continuamente piangeva le miserie degli huomini, dissero che tutti gli effetti che si veggiono in questo universo dipendono dal Fato et son fatti tutti da lui necessariamente, et che innanzi che eglino fussero fatti dovevano di necessità essere fatti, et che ogni cosa, se bene ei pareva a noi che ella avvenisse a caso, avveniva nondimeno necessariamente.

[70] Et questa loro oppenione provavano con tre ragioni, delle quali la prima era questa. Il mondo è uno et contiene in sé ogni cosa et è governato da Dio con ordine grandissimo in guisa che, posta la prima cagione di necessità, dipende da lei la seconda come suo effetto, et così dalla seconda la terza, et procede questo ordine et rivolgesi in infinito, di maniera che gli effetti necessariamente son legati alle lor cagioni. [71] Et non è cosa alcuna in questo mondo che non dipenda necessariamente dalla sua causa percioché, se ei fusse effetto alcuno che non dipendesse necessariamente dalla sua cagione, sarebbe rotto quest’ordine meraviglioso di cause con le quali Iddio governa questo universo, et il mondo non sarebbe uno, la cui unità noi veggiamo esser tanto amata dalla natura che, per mantenerla intera, impedisce il natural moto degli elementi, sì come noi veggiamo avvenire nella clepsydra con la quale si innaffiano gli orti, che quando egli è riturato quel buco che ella ha nella sua più alta parte onde ella s’empie, l’acqua, la quale gli è dentro, non esce per quei buchi che ella ha nel suo fondo, percioché non gli potendo entrare dentro aria da lato niuno, quel vaso rimarrebbe voto, il che la natura abborisce in guisa che ella vuol più tosto [//19] fermare senza impedimento alcuno il natural movimento dell’acqua, che permettere che questo vaso rimango voto. [72] Sono adunque tutti gli effetti di questo mondo sottoposti al Fato et ogni cosa avviene necessariamente.

[73] La seconda ragione era questa. Quando un parla, è di necessità che egli dica il vero o il falso. Dica adunque hora uno che domani sarà una battaglia navale, il che può essere stato detto anche ha già mille anni; se costui adunque, il quale dice questa proposizione, dice il vero, sarà adunque domani una guerra navale; se egli dice il falso, la non sarà; ma necessariamente sarà o non sarà, se costui debbe parlando necessariamente dire il vero o il falso. Et questo perché quella medesima cagione che è il Fato, il quale necessariamente produce ogni cosa, et per conseguente quella battaglia navale sforza anche colui a dire che domani sarà una battaglia di mare. [74] Et di qui nacque che gli antichi gentili tenevono tanto conto di quella sorte di augurii che eglino chiamavano omina, i quali non erano altro che la pronunziazione fatta di qualche cosa avvenire per la bocca di qualcuno senza pensare a quello che egli si dicesse, ma per ispirazione et furor divino, sì come essi credevono, dei quali uno fu quello che la figliuola di Paulo Emilio disse a suo padre quando, essendo stato fatto consolo per andare alla guerra di Macedonia contro a Perseo re di quella provincia, tornando egli dal senato a casa et essendo morto alla figliuola quella stessa mattina un cagniuolo che ella haveva tra le sue delicatezze et era chiamato Perseo, ella piangendo si fece incontro al padre et gli disse: “Padre, Perseo è morto”, Paulo se ne rallegrò assai et risposegli: Accipio omen. [75] Et tanto furono stimate queste maniere di augurii dagli antichi Romani che, sì come Marco Tullio nel primo libro Della indovinazione, in ogni diliberazione del senato o del popolo che eglino raccontavano, ei cominciavano sempremai in questa guisa: Quod foelix faustum fortunatumque sit!

[76] La terza et ultima ragione di questi filosofi si pigliava dalle risposte degli oracoli, delle sibille et degli augurii, percioché essi dicevano gli dei che predicono le cose avvenire per queste vie, o le cognoscono o no. [77] Non è da dire che eglino non le cognoschino, perché empia cosa et pazza insiememente sarebbe a dire che gli dei predicessero quello che [//20] eglino non sanno et non cognoscono, et privargli ancora della cognizione di così gran parte delle cose dell’universo, quanta è quella della quale si domandava allhora consiglio agli oracoli et se ne pigliavano gli augurii, adunque le cognoscono. [78] Non è da dire che eglino le cognoschino indeterminatamente come noi, i quali conosciamo che domani sarà una guerra navale o non sarà, perché questa è una cognizione debole et imperfetta; adunque cognoscono quello che eglino predicono determinatamente et certamente, et non si possono ingannare; adunque quelle cose che eglino predicono, saranno determinatamente et certamente e per conseguenza di necessità. [79] Per la qual cosa eglino consideravano il volare degli uccelli, le viscere delle vittime che eglino sacrificavano percioché essi credevano che dal Fato, il quale necessariamente produceva quegli effetti per lo avvenir dei quali eglino sacrificavano, era anche variato il volare degli uccegli et il sito et la qualità et il numero delle viscere delle hostie delle quali eglino facevan sacrificio ai loro iddei falsi et bugiardi, in guisa che elleno dimostravano o lieto o tristo fine di quelle imprese per le quali si sacrificava.

[80] Questa oppenione si cognosce apertamente che fu portata da uno antico poeta greco, il quale alcuni hanno creduto che sia stato Cleanthe, in alcuni bellissimi senarii che egli compose, i quali son raccontati dallo Epicteto filosofo morale nel fine del suo Enchiridione, et furon fatti dipoi latini da uno antico poeta latino, i quali io metterò qui, percioché mi son paruti così i greci come i latini bellissimi:

Ἂγε δὴμε ὦ Ζεῦ ϰαὶ σύ ἡ πεπρωμένη
ὅπος ποθ’ ὑμῖν εἰμὶ διατεταγμένος
ὡς ἕψομαί γ’ ἄοϰνος· ἢν δέ γε μὴ θέλω
ϰαϰὸς γενόμενος, οὐδὲν ἧττον ἕψομαι.

I latini son questi:

Ducor parens celsique dominator poli
quocunque placuit, nulla parendi mora est,
adsum impiger, fac nolle, comitabor gemens
malusque patiar, quod litui bono
ducunt volentem fata, nolentem trahunt.

[81] Questa oppenione, ancor che ella sia stata di nobilissimi filosofi, è del tutto falsa, il che si dimostra per manifestissime ragion, [//21] delle quali la prima è questa. Se ogni cosa fusse contenuta dal Fato et da lui fusse necessariamente prodotta in quella maniera che domattina di necessità si leverà il sole et stasera tramonterà, invano sarebbe stato dato da Dio il consiglio all’huomo, percioché niuno si consiglia di quelle cose che non sono in poter suo et che debbono essere necessariamente, ma solamente di quelle cose che gli huomini possono fare per loro stessi et che facendole più in un modo che in altro ne segua loro più utile o più honore, o il conseguire più agevolmente quel fine che eglino si sono proposto; et è pure inconveniente che Iddio et la natura, i quali, secondo che è veramente piaciuto a tutti i filosofanti, non fanno già mai cosa niuna indarno, non habbino dato invano all’huomo il consiglio per il quale egli è differente dalle bestie.

[82] La seconda ragione è questa. Questa oppenione è contro a quel che noi veggiamo giornalmente et, come noi volgarmente diciamo, contro a quel che si tocca con mano, percioché chi negherà che egli non sia possibile che questo mantello che io ho in dosso non si stracci? Ma chi negherà ancora che egli non sia possibile che innanzi che egli si stracci io non lo logori? E così non seguirà di necessità che io lo stracci o che lo logori, ma potrà essere et l’una et l’altra di queste due cose. [83] Ma la più gagliarda et la più forte ragione che si possa fare contro a questa oppenione è quella che fa il nostro poeta in questo luogo quando ei dice:

Se così fusse, in voi fora distrutto
libero arbitrio et non fora giustizia,
per ben letizia et per male haver lutto.

[84] Per che è da sapere che le potenze dell’anima son divise in cognoscitive et desiderative o appetitive che noi le voglian dire, cioè in quelle che cognoscono et in quelle che desiderano. Cognoscitive sono lo ‘ntelletto, la memoria, la fantasia et il senso; le appetitive sono come è quello appetito che si chiama concupiscibile, per il quale noi desideriamo il magiare, il bere et altre cose che appartengono et sono cogniosciute; e lo appetito irascibile, con il quale noi difendiamo queste congniosciute dal senso et desideriamo ricchezze et honori et altre così fatte cose; et è la volontà. Et sì come quei duoi appetiti seguitono il sen[//22]so, percioché gli appetiti non cognoscendo di loro natura et non si potendo disiderare quello che non si cognosce, perciò ogni appetito seguita et è congiunto alle parti cognoscitive dell’anima, così la volontà seguita et è congiunta allo intelletto et alla ragione. [85] Et è questa differenza tra la volontà et quei duoi primi appetiti, che quegli, quando è loro mostro una cosa dai sensi, bisogna che eglino la desiderino et che eglino la voglino se pare loro buona, o la fugghino se pare loro trista, là onde noi veggiamo gli animali bruti esser tirati per forza dalle cose che paian loro buone et scacciati dalle cose che paiano lor triste. Ma la volontà no percioché, se il senso gli mostra una cosa che non gli paia conforme a quel che detta la ragione, può non la volere et non la seguitare; et quando l’huomo si consiglia et che la ragione gli mostra diverse cose, può la volontà, sì come libera che ella è, seguitare di quelle cose che gli son dimostrate qual più gli piace; [86] onde quei duoi primi appetiti l’huomo gli ha comuni con le bestie sì come ancora i sensi, ma la volontà sì come libera è propria dell’huomo et è una forma et una perfezzione che l’huomo ha da Dio et dalla natura percioché egli è huomo, et è questo quel dono per il quale nelle sacre lettere si legge che Dio, volendo creare l’huomo, disse: “Facciamo l’huomo a immagine et simigliaza nostra”, percioché, sì come Iddio è libero et non può essere violentato né sforzato da cosa alcuna, così la volontà et il libero voler dell’huomo non può essere sforzato da cosa alcuna; onde il nostro poeta, nel quarto canto del Paradiso, dice:

Lo maggior don che Dio per sua larghezza
fesse creando, et alla sua bontate
più conformato, et quel ch’ei più apprezza

fu della volontà la libertate
di che le creature intelligenti
tutte et sole furo et son dotate.

[87] Questo dono secondo gli Stoici, i quali credettero che il Fato di necessità facesse tutte le cose, sarebbe tolto all’huomo percioché, se l’huomo non è padrone dell’operazioni sue et il Fato lo sforza a fare quel che egli vuole, non è più libero, et convenendo la libertà della volontà all’huomo in quanto egli è huomo, et to[//23]gliendogniene questa oppenione, è tanto quanto dire che ella gli tolga l’essere huomo et distrugga la natura sua, non altrimenti che distruggendo il caldo, che per propria natura si conviene al fuoco, è distruggere il fuoco et la natura sua. [88] Et da questo segue che, non essendo l’huomo signore delle sue azzioni et facendo quelle sforzato dal Fato, non può con giustizia Iddio ottimo et grandissimo, né i prencipi, né i magistrati, né le leggi punire i malfattori né premiare quegli che fanno bene, sì come noi con giustiza non possiamo gastigare una vipera perché ella è naturalmente velenosa. Il che non è altro che lasciar libera la via agli huomini malvagi di poter senza ritegnio alcuno male adoperare, il che distrugge del tutto la società humana.

[89] Zenone il quale fu prencipe degli Stoici et primo autore di questa oppenione, veggendo la gagliardia di questa ragione che gli era contro, cercava di svilupparsene et diceva: “il Fato è cagione di ogni cose et sforza il voler nostro a operare le cose che egli adopera; ma con tutto questo l’huomo è libero percioché il Fato non isforzerà mai l’huomo a fare le operazioni di un lione o di un tigre, ma solamente quelle che si convengono alla natura sua. [90] Onde, non lo sforzando a fare se non quelle cose che gli si convengono, quelle operazioni vengono a essere in poter suo, percioché elleno son convenevoli alla natura sua, et egli per conseguente è libero; oltre a di questo, a voler che il Fato sforzi il volere dell’huomo a fare che che sia, bisogna ch’ei convenghino insieme molte circostanze che tutte dipendono dal Fato, le quali l’huomo non cognosce, et non le cognoscendo, pensa che quelle operazioni che egli fa venghino interamente da lui, et per questo si debbe dir libero”.

[91] Questa risposta lascia la ragion del poeta nella forza sua, percioché sì come il Fato non isforza l’huomo a fare l’operazioni di un tigre o d’un lione, così non isforza un lione a far quelle d’un lupo; e perciò non dà questa risposta all’huomo che egli habbi il voler libero altrimenti che s’habbino gli animali senza ragione, il che era quello che la ragione del poeta provava. [92] Et il dire che l’huomo è libero, perché ei gli pare che le operazioni sue siano in suo potere percioché egli non conosce le circostanze fatali che lo sforzano a fare quelle operazioni che egli fa, è come dire che io fussi [//24] imperatore percioché egli mi paressi essere: può ben essere una cosa et parermi, ma perché ella mi pare che perciò ella sia questa, è una cosa fievole et da meravigliarsi che un tanto huomo quanto fu Zenone si lasciasse in guisa acciecare dall’affezzione che egli hebbe a questa sua oppenione, che egli la dicesse.

[93] Galeno, quel gran filosofo et peritissimo medico, in quel suo libro il quale è intitolato Che i costumi dell’animo seguono le complessioni del corpo, dopo lo haver provato questa sua sentenza con bonissime ragioni, muove questo dubio contra se medesimo et dice: “Se i costumi dell’animo dell’huomo seguitano la complessione del corpo humano, non si facendo gli huomini la complessione del lor proprio corpo da loro stessi, ma facendola lor la natura, et per conseguente non havendo anche i costumi dell’animo loro in lor potere, perché dunque punire gli huomini cattivi non havendo eglino i lor cattivi costumi da loro istessi, ma da quella complessione del corpo che la natura ha dato loro?”. [94] Risponde Galeno a questa domanda et dice: “L’huomo di sua natura è ordinato a amare il bene et a odiare il male. Se adunque quell’huomo è malvagio per sua natura, gli altri huomini lo debbono odiare sì come eglino odiano una vipera o altro animale velenoso et cattivo, qualunque si sia la cagione della cattività sua; et debbonsi ancor punire gli huomini malvagi, accioché ei lascin vivere gli altri et non nuochin loro”. [95] Ultimamente dice che ei si debbon gastigare perché agli huomini malvagi et rei è molto meglio il morire che il vivere, quasi alludendo a quel detto di Seneca che se l’huomo potesse vedere l’animo d’uno scellerato, quanto egli è tormentato et lacerato dalla propria coscienza di quei mali che egli ha fatti et fa, lo vedrebbe molto più afflitto da quello che non è tormentato un corpo tutto piagato et infermo dalle sue malattie.

[96] Questo che dice Galeno è verissimo, ma non toglie perciò la forza alla ragione del nostro poeta, percioché altra cosa è far male a uno per odio che tu gli porti, o perché egli faccia male a te, o perché così sia meglio a lui, et altra cosa è punirlo perché egli lo ha meritato. [97] Et Dante dice che per giustizia e proprio merito non si potrebbe punire o premiare alcuno se il Fato sforzasse il voler nostro a far le operazion sue buone o ree ch’elle siano. Et poi rimane in piè quell’altro inconveniente che l’huomo, toltigli il libero voler suo, non sarebbe più huomo. [//25] Et perciò diremo che il Fato di necessità non muove seco ogni cosa e non isforza gl’animi nostri a fare cosa alcuna contro al voler loro.

[98] Ma che forze sono adunque quelle del Fato et che podestà ha egli sopra le cose dell’universo? Dico che il Fato è cagione et signore di tutti gli effetti naturali, come sono le conversion dei tempi, et che altra stagione sia nella primavera che nella state, et altra nell’autunno che nel verno; è cagione della generazione delle piante et degli animali; è cagione che le piante produchino le foglie, i fiori et i frutti loro; è cagione ancora di quelle cose che avvengano di rado, sì come sono i tremuoti, le comete et altre cotali apparenze; [99] et finalmente è cagione di tutti gli effetti naturali che si veggiono nel mondo, percioché questi son tutti effetti naturali i quali sono i medesimi che i fatali, et non son fatti da altra cagione che dal concorso et dall’unione di queste due natura universale et particolare a fare questi effetti. Et perché questo concorso è di più maniere, perciò noi vediamo tanti et sì diversi effetti in questo universo.

[100] Ma che forza ha egli sopra le azioni et le operazioni dell’huomo? Il nostro poeta risponde a questa domanda che si potrebbe fare in questo terzetto et dice:

Il Cielo i vostri movimenti inizia,
non dico tutti, ma posto ch’il dica,
lume v’è dato a bene et a malizia.

Il Fato, il quale Dante significa per questa voce il cielo, essendo cagione della complessione dei corpi nostri, è cagione ancora che noi desideriamo più una cosa che un’altra, et che noi siamo più inchinati a questa che a quella cosa. [101] Et perciò dice il nostro poeta che i corpi celesti incominciano le inclinazioni nostre, ma non tutte, percioché eglino non hanno forza alcuna sopra lo intelletto se non in tanto in quanto uno intelletto, havendo un corpo buono, non è impedito da quello a fare le operazion sue come egli è da un cattivo, sì come noi veggiamo un buono scrittore essere impedito talhora da una cattiva penna che egli non possa scrivere così bene come egli farebbe con una buona. [102] Et per queste parole del poeta si cognosce apertamente che egli ha creduto che il Fato sia il medesimo che la natura dandogli podestà sopra le inclinazioni naturali degli huomini et sopra le operazioni [//26] che nascon da quelle, le quali dipendono tutte dalla natura sì come da lor cagione.

[103] Ma posto ancora che il Fato fusse signore et cagione dell’operazioni le quali dipendono dalla ragione et dal consiglio nostro, ancora sarebbe la volontà et lo arbitrio nostro libero et signore delle sue azzioni, percioché l’huomo ha lume di cognioscere il bene et il male che gli è posto innanzi, et ha potere di seguitarlo et fuggirlo secondo che egli vuole. [104] Ma qual sia questo lume con che egli cognosce il bene et il male è dubbio tra i filosofi et i christiani, percioché Platone et Aristotile direbbero che questo lume non è altro che lo intelletto, il quale di sua natura è sempre vero et bastevole a conoscere il bene dal male, onde Platone nel luogo di sopra allegato dice che le anime giunte nella regione dell’aria per dovere ritornare di nuovo nei corpi, si rappresentano innanzi a Lachesis, dove un profeta le mette per ordine, et poi che dalle ginocchia di Lachesis ha preso le sorti et gli esempi delle vite, saglie sopra in tribunale et dice:

Sic haec Lachesis, o uniduanae animae Necessitatis filia dicit, circuitus alterius initium mortalis ac laetiferi generis, non vos demon sortietur, sed vos demonem eligetis, qui prior sortem caeperit, prior eligat vitam cui necessario inhaerebit, virtus inviolabili ac libera, quam prout honorabit quis aut negliget ita plus aut minus ex ea possidebit. Eligentis quidem culpa est omnis, deus autem extra culpam.

[105] Dove per il profeta egli intende la occasione del tempo nel quale le anime debbono ritornare nel corpo et la Provedenza di Dio universale et il primo influsso delle anime, et questo, le dispone ordinatamente a ritornare nei corpi; questo piglia le sorti delle anime et gli esempi delle vite dalle ginocchia di Lachesis, percioché la complessione del corpo et le inclinazioni dell’animo si hanno dal Fato, ma il seguitarle o no è in nostra podestà. Et perciò dice il profeta “o anime d’un giorno”, cioè “o anime che in questo luogo siete in un perpetuo giorno”, et “la vita alla quale voi andate è brevissima et quasi di un sol giorno et oscuro”. [106] Il demone che appresso a Platone è un ministro di Dio a governare le vite degli huomini non eleggerà le anime, ma le anime il demone percioché elleno eleggono la vita che vogliono tenere, la quale poi il demone governa. Et perciò dice che la virtù è libera et inviolabile et che la colpa è di colui che elegge et Iddio fuori d’ogni [//27] colpa. [107] Ma la pietà christiana più veramente dice che questo lume è la grazia di Dio, la quale egli dà a ogni huomo che nasce in questo mondo, et la volontà, siccome libera, veggendo il bene et il male che gli è mostro da questo lume, può fuggire le cattive inclinazioni che egli ha dalla natura sua et seguitare il bene, il che, se da principio sarà duro et male agevole a fare, poco dipoi diventerà facile et piacevole. [108] Et perciò dice Dante:

Et libero voler che se fatica
nelle prime battaglie del Ciel dura,
vince poi tutto se ben si nutrica.

[109] Per le quali parole del poeta di nuovo si vede manifestamente che egli vuole che il Fato et la natura siano una cosa medesima, et che il Fato non habbia possanza tale sopra l’operazioni degli huomini, che ei possa sforzargli a far cosa alcuna contro al voler loro, dicendo egli che il libero voler dell’huomo può contrastare al Cielo, cioè alle nostre cattive inclinazioni, le quali sono in noi per la complessione che noi habbiamo dai corpi celesti, per la vertù et possanza della natura loro, et che noi possiamo contrastare et vincerele.

[110] Ancora lo dimostra Socrate atheniese quel gran filosofo, il quale fu il primo che tolse i filosofanti dalla speculazione delle cose naturali et gli ridusse a regolare et moderare i costumi degli huomini, percioché, essendo egli un giorno con molti altri cittadini atheniesi a un convito, fu veduto da un certo Zopiro fisiognomo, il quale disse che egli era il maggior ladro et il maggior ubbriaco che fusse al mondo. Et riprendendolo quei gentilhuomini che erano con Socrate et dicendogli che egli s’ingannava percioché egli era il più santo et il miglior huomo d’Athene, Socrate disse loro: “Zopiro dice il vero, percioché io sarei stato tale e quale egli dice, se io avessi seguitato le mie inclinazione naturali et non havessi con la libertà della volontà mia contrastato a quelle”. [111] Onde gli astrologi et i fisiognomi et altri indovini simiglianti a questi, malvolentieri predicano agli altri huomini assolutamente quel che debbe loro avvenire, percioché essi conoscono troppo bene che gli huomini possono con il loro libero volero cessare quei mali et quei pericoli che le loro inclinazioni naturali, le quali si posson [//28] cognoscere dai corpi celesti et dalla figura delle membra loro, mostrano che debbono a quegli avvenire, percioché, se alcuno sarà inclinato a rubare o a alcun altro vizio, può con l’aiuto degli amici, dei filosofi, con il legger libri, i quali gli mostrino la bruttezza di quel vizio al quale egli è inclinato et i pericoli che egli corre seguitando quella sua cattiva inclinazione, et da sé stesso ancora contrastandogli, lasciar quel vizio a che egli è inclinato, et per conseguente cessar tutti quei fieri accidenti i quali per quel vizio gli dovevano avvenire. [112] Et così se alcuno porta pericolo d’havere alcuna infermità, il che per l’astrologia o per alcuna altra arte a questa simigliante si può cognoscere, può lasciando la golosità et la lussuria, per che egli porta pericolo d’infermarsi, sfuggire quella infermità con il buono ordine della vita, con l’aiuto dei medici et con il raccomandarsi a Dio ancora.

[113] L’animo dell’huomo adunque è contenuto da il Fato, percioché egli è congiunto col corpo del quale il Fato è signore, sì come di tutti gli altri corpi; ma se egli con la libertà della volontà sua vince le sue cattive inclinazioni naturali, è sopra il Fato et del tutto padrone di sé stesso et simigliante a Dio. Ma se egli si lascia vincere alle sue cattive inclinazioni naturali et ubbidisce a quelle, diviene servo del Fato et perde da se stesso la libertà della volontà sua et si riduce da sé stesso nel medesimo grado nel quale sono gli animali senza ragione, percioché l’huomo, quanto allo intelletto, non è sottoposto se non a Dio ottimo et grandissimo. [114] Per che Dante dice:

A maggior forza et a miglior natura
liberi soggiate, et quella cria
la mente in voi che ‘l Ciel non ha in sua cura.

Per che è da sapere che Iddio ottimo et grandissimo dà l’essere alle cose et lo mantiene loro, et quelle vuole che sien necessariamente, et che quell’altre sien libere et possino essere et non essere; et tra queste son l’azioni dell’anima humana, le quali egli vuole che siano in poter suo et libere, ancor che egli conosca che fine elleno debbono sortire. [115] Et perciò dice Dante che noi siamo sottoposti a maggior forza et a miglior natura che non è il Fato, et questa è Iddio ottimo et grandissimo, et che Iddio crea lo ’ntelletto [//29] dell’huomo, che è il medesimo che la mente, della quale sarebbe qui da dire in che modo Iddio crea l’animo dell’huomo et in qual guisa egli lo infonde nei corpi humani; ma perché questa materia è stata altra volta trattata dal nostro dottissimo Varchi, perciò al presente me ne rimetterò a quel che egli disse. [116] Et dirò insieme con il nostro poeta che, essendo la volontà dell’huomo libera et non potendo essere sforzata da cosa alcuna, in noi è la cagione di tutti i nostri errori, sì come dice il nostro poeta nell’ultimo di questi terzetti che io raccontai di sopra, quando egli dice:

Però se ’l mondo presente vi svia,
in voi è la cagione, in voi si chieggia
et io te ne farò or vera spia.

[117] Ma perché egli non basta solamente provare con le proprie ragioni, ma bisogna anche rispondere a quelle che provano il contrario, però noi rispondendo alla prima ragione di Zenone diremo che il mondo è uno et che egli è governato da Dio con ordine meraviglioso, sì come egli dice, ma non per questo è necessario che tutti gli esseri dipendino necessariamente dalle lor cagioni, percioché son di quelli che indeterminatamente son prodotti dalle cause loro et senza necessità alcuna, sì come son quegli dell’anima humana. [118] Et non è necessario ancora che ogni effetto sia causa di un altro effetto, percioché molti son quelli effetti che non son cagione di cosa alcuna, sì come sono per esempio quegli animali che muoiono subitamente che eglino son nati. Et questo appartiene alla perfezzione dell’universo, accioché in lui non manchi cosa alcuna et ci sieno di quelle cose che necessariamente avvengono et di quelle che possono essere et non essere.

[119] Alla seconda ragione diciamo che egli è vero che quando l’huomo parla di necessità dice il vero o il falso, ma la vertù non viene dalle parole ma dalle cose, et perciò ei son certe cose che di loro natura posson essere et non essere, sì come è una battaglia di mare che per sua natura domani può essere et non essere indeterminatamente: di qui è che uno dice domani sarà una guerra navale, indeterminatamente dice il vero o il falso. Et perciò non essendo le parole cagioni delle cose, ma essendo le cose cause della verità, [//30] male voleva provare Zenone dalle parole lo esser delle cose.

[120] Alla terza diciamo che, essendo allhora il mondo in poter del diavolo, egli per conghietture prediceva per via degli oracoli e dei suoi falsi et bugiardi sacerdoti le cose avvenire, in quel modo che un huomo prudente, veggendo uno di complessione collerica, et perciò ardito, giudicherà che egli habbia a morir giovane et di morte violenta; et veggendone un altro dedito a disonesti piaceri giudicherà che egli habbia a morir giovane, ma di tisico o d’altro male simiglante a questo. [121] Onde ei si vede chiaramente che la natura è cagione non solamente della morte, ma ancora che un huomo muoia più d’una morte che d’altra, percioché ella è cagione di quelle inclinazioni le quali conducono l’huomo più a una morte che ad altra. Et seppur tal fiata morrà alcuno di una morte alla quale non lo trahe la sua naturale inclinazione, sì come quando un a caso è ucciso da un cane arrabbiato che lo morda, o da un sasso il quale caggia da alto, o che fia gettato da alcuno non per ucciderlo ma per altra cagione, dico che di questa così fatta morte ne è stata cagione la Fortuna, et i volgari dicono che di essa ne è stata causa il Fato, percioché eglino spesse fiate pigliano il Fato per la Fortuna et confondono l’uno et l’altro insieme come di sopra è detto.

[122] Là onde quelle profezie degli oracoli et dei sacerdoti di sopra detti erano il più delle volte dubie et si potevon pigliare in più sensi come fu quella: “la tua testa sarà più alta di tutte le teste Toscane”, perché combattendo quel re con i Toscani, fu nella battaglia morto et fu messa la testa sua in cima di una picca dritta et portata per tutto l’esercito nemico et vettorioso. Et in questa guisa fu la testa più alta che tutte le teste toscane, là dove egli aveva inteso di dover essere in quella guerra vittorioso et più glorioso che tutti i Toscani. Et quell’altra ancora: “Tu andrai, ritornerai, non morrai nella guerra”, ma l’oracolo haveva detta quella parola in guisa che la si poteva intendere anche così: “tu andrai tornerai no, morrai nella guerra”.

[123] Ma poi che lo imperio del mondo fu dal nostro Dio tolto dalle mani [//31] del diavolo, non si odono più queste così fatte risposte, et chi domandasse se Iddio cognosce queste cose che dipendono dalla libera volontà dell’huomo, dico che sì, ma che egli le lascia libere et in quello essere che gli ha dato. Et però diceva il nostro poeta:

La contingenza che fuor del quaderno
della vostra materia non si stende,
tutta è dipinta nel cospetto eterno.

Necessità però quindi non prende
se non come da viso in cui si specchia
nave che per torrente giù discende.

[124] Et questo è percioché Iddio è eterno et ha innanzi al conspetto suo ogni cosa senza essere sottoposto al tempo, là dove quelle, dovendosi recare in atto, hanno bisogno di tempo. Di qui è che Iddio prevede a che fine elleno debbono capitare, ancor che le siano di lor natura libere et indeterminate.

[125] Ma è d’avvertire che Iddio è uno semplicissimo atto puro, stabile et eterno, da quale dipendono il Cielo et la natura. Onde quanto le cose di questo universo più si discostano da lui, tanto meno son valorose nell’adoperare, men semplici, meno stabili et più vanno verso la moltitudine et verso la diversità di grado in grado pure, perché le intelligenze, le quali son senza mezzo alcuno dopo Iddio ottimo et grandissimo, son men valorose nell’adoperare che non è egli, ma sono semplici e stabili sì come egli è, ma meno semplici di lui, conciosia cosa che egli non intende altro che sé medesimo et intendendo sé intende ogni cosa. [126] Ma le intelligenze intendono Iddio et la intelligenza inferiore intende la superiore, il che è quasi un modo di composizione o almeno minor grado si semplicità che non è quello di Iddio ottimo et grandissimo. L’anime dipoi son di minor vertù nell’adoperare che non sono le intelligenze et meno stabili, percioché le intendono discorrendo, il qual modo d’intendere è un movimento spiritale che si fa con tempo, il che non avvinene all’intelligenze, le quali intendono in un momento senza tempo alcuno. [127] Dopo l’anime sono i corpi celesti i quali veramente si muovono et in fatto, ma sempre in un medesimo luogo, il quale eglino già mai non mutano, et sono [//32] le opere loro proprie con tempo, se ben necessarie, percioché eglino necessariamente si muovono, per che di necessità l’ottava spera fa il corso suo in ventiquattro hore, il Sole in un anno, la Luna in un mese, e così ciascheduno degli altri corpi celesti fa necessariamente in un certo tempo il corso suo: ma non son già necessarie l’operazioni che essi fanno in queste cose che son sotto la Luna, percioché, essendo eglino di minor forza nell’adoperare che non son l’intelligenze et l’anime, ancora possono essere in molti modi impedite l’opere loro. [128] Le cose poi che son sotto la Luna sono assai et differenti tra loro et hanno molti movimenti non solamente diversi l’uno dall’altro, ma ancora l’uno all’altro contrari, percioché il movimento delle cose leggieri è contrario a quel delle cose gravi, et possono essere l’opere di queste cose di sopra dette in molti modi dalla violenza et da molte altre cose impedite. [129] Da questa varia et diversa moltitudine di cose et di movimenti nasce la contingenza, percioché diminuendosi continuamente per questi gradi d’agenti le forza dell’adoperare, et ritrovandosi sotto la Luna una moltitudine grande di forme diverse tra loro et contrarie l’una all’altra, agevolmente avviene che contrastando l’una di queste forme l’altra, o per diffalta della materia, la quale è richiesta a tutte l’operazion loro, ciascheduna natura manca talhora dell’ufizio et non può condurre gli effetti suoi al dovuto fine.

[130] Et questo può accadere in tre modi, percioché o uno agente naturale fa perfettamente l’opere sue quasi sempre et rade volte è impedito: et questo è chiamato contingente il più delle volte, percioché egli il più delle volte avviene; et di questo contingente ne son signori la natura et l’arte, onde il più delle volte la natura fa la mano dell’huomo con cinque dita dritte et così il piede; nondimeno ella gli fa anche talhora con sei et tal fiata con quattro, et alcuna volta gli fa torti et non dritti, il che avviene per la troppa o poca materia che gl’è data o mal disposta. [131] La cui mala disposizione non nasce da altro che dalla diversità et moltitudine delle forme che allhora sono in lei, le quali la rendono male atta a ricevere quella stampa che la natura farebbe in essa, et per conseguente impediscono l’opera sua, là onde disse il nostro poeta: [//34]

La contingenza che fuor del quaderno
della vostra materia non si stende,
tutta è dipinta nel concetto eterno.

et quel che segue.

[132] L’arte ancora fa l’opere sue quasi sempre perfettamente, se ella ha la materia ben disposta et a bastanza. Pure avviene anche talhora, se ben rade volte, che ella non conduce a perfezione l’opere sue per diffalta della materia, come sarebbe se a uno sculture fusse dato poco o troppo bronzo cattivo, allhora non potrebbe far perfette le figure sue. [133] Il secondo modo è quando uno agente naturale fa l’opere sue ugualmente sì come fa l’huomo, il quale siede o non siede, va o non va, come più gli piace: et questo così fatto avvenimento si chiama contingente ugualmente, et ne è signore il voler nostro. [134] Il terzo modo è quando un agente fa l’operazion sue rade volte, sì come avviene quando uno, zappando per coltivare una sua villa, ritrova un tesoro: et a questo così fatto avvenimento si dice contingente di rado.

[135] Et se bene la prima maniera di contingente è senza alcun mezzo dal Fato, perciò che noi abbiamo detto di sopra che il Fato et la natura sono una cosa medesima, in quanto che la natura è causa efficiente degli effetti suoi, non dimeno ella non fa l’opere sue necessariamente, percioché ella può essere impedita in molti modi, sì come di sopra è detto. [136] La seconda maniera di contingenza ancora è dal Fato, percioché egli può inclinare ma non isforzare il voler nostro a muoversi et a non muovere, et a muoversi più in una guisa che in altra. [137] Della terza maniera di contingente ne è signora la Fortuna, et ella si dice di esser cagione di questo terzo contingente. [138] La Provedenza d’Iddio drizza l’opere di questi agenti naturali et fortuiti ancora al fine loro, lasciandoli pure adoperare secondo la loro propria natura, et prevedendo sì come è detto il fine al quale ei debbono pervenire senza imporgli perciò necessità alcuna di pervenirgli.

[139] Ma perché ei si vede in molte province in diversi secoli et in diversi tempi grandi esempi di vertù et di vizii, di qui è che alla domanda che fa il nostro poeta a M. Marco di sopra detto non pare ancor risposto a bastanza, percioché noi veggiamo quanti esempi di vertù fu nei Persi sotto Ciro, quanti negli Assiri sotto Nino, quanti negli Spartani mentre [//34] che gli osservarono le leggi di Licurgo, quanti in quella prima antichità romana. [140] Dante, poco di sotto, risponde a questa domanda et dice che il male esempio che danno i maggiori ai minori è cagione che gli huomini, lasciando le vertù, si diano al vizio, onde egli dice:

Ben puoi veder che la mala condotta
è la cagion che il mondo ha fatto reo
et non natura che in voi fia corrotta.

[141] Ma chi domandasse per che cagione si veggiono in certi tempi molti huomini vertuosi che danno buono esempio ai minori, sì come si vide in quella prima antichità romana et altra volta se ne vede pochi o niuno, dico che questo avviene percioché ogni costituzione di regno, di republica o di religione è fondata sempremai sopra alcuno ordine buono et sopra qualche regola vertuosa, la quale, mentre che è osservata, fa gli huomini simiglianti a sé. [142] Ma poi che ella è tralasciata, partendosi gli huomini da quel buono, divengano malvagi et viziosi, percioché è natura delle cose del mondo non poter mai star ferme in un essere, ma dal bene cadere nel male et quindi rilevarsi poi al bene. Ma questo non toglie che in tutto questo corso l’azioni degli huomini non siano libere et non sottoposte al Fato sì come detto.

[143] Ma perché si veggiano tal volta et leggendosi ancora molti avvenimenti i quali non pare che possino in guisa alcuna procedere dalla natura, percioché, prima che eglino intervenghino, ei sono assai chiaramente predetti, non solamente che eglino debbono avvenire, ma ancora in che modo ei debbono intervenire, et poscia intervengono ordinatamente sì come è stato predetto, ancor che spesse fiate da alcuni sia stato dato a questi così fatti accidenti tutti quegli impedimenti che sia stato possibile dar loro accioché egli non avvinghino. [144] Di qui è che alcuno potrebbe ragionevolmente dubitare che questi tali effetti fusser fatti da una cagione la quale necessariamente adoperi in queste cose che appartengono agli huomini, nelle quali è richiesta l’opera loro, et che questa cagione che io dico fusse il Fato, percioché questi tali avvenimenti sono stati da molti chiamati fatali, et che per conseguente il Fato et la natura non fussero solamente differenti nel [//35] nome, ma in fatto ancora.

[145] Et di questi effetti di sopra detti, uno è quel di Romolo et di Remo, primi fondatori della gran Città di Roma, la cui madre fu primieramente sagrata da Amulio a Vesta, la dea, accioché ella non partorisse. Et egli, poscia che ei fu nato insieme col fratello, fu esposto lungo il fiume Tevere, là dove egli dovea esser gittato per comandamento pur d’Amulio, se quegli che gli portavano a annegare fusser potuti pervenire al dritto corso del fiume. Furon di poi, così esposti, nutriti da una lupa, et da Faustolo prencipe dei pastori d’Amulio ritrovati che quella lupa amorevolmente gli leccava. Furon di poi segretamente nutriti da Faustolo di sopra detto et da Laurenzia sua moglie, insino a tanto che Romolo uccise Amulio per soccor Remo suo fratello che Amulio riteneva in prigione. [146] Onde finalmente eglino fondaron là, sì come detto di sopra, la Città di Roma, la cui edificazione era stata tanti anni innanzi predetta da Carmenta a Evandro suo figliuolo, cioè che nel monte Palatino, là dove Romolo et Remo furono allevati et dove furono di poi i primi principii di Roma, si drizzerebbe uno altare a Hercole, che una gente potentissima, la quale, quando che fusse, dovea essere, chiamerebbe altare grandissima et farebbe sopra di quella sacrifizio a Hercole figliuol di Giove.

[147] La rovina di Veio ancora, antichissima et potentissima città di Toscana et una delle dodici città di quella provincia, pare che fusse uno di questi effetti che molti hanno chiamati fatali, percioché da quello indovino toscano et da Apollo Delfico ancora fu predetto che insino a tanto che l’acqua del lago Albano, quando ella gli ricresceva, non fusse sconvenevolmente cavata di quel lago, gli dei difenderebbero sempremai le mura di Veio. Ma se l’acqua di sopra detta fusse sconvenevolmente tratta di quel lago, quando ella gli fusse riscresciuta, allhora i Romani vincerebbero certamente i Veienti. [148] Et quello anno medesimo che ai Romani, et dall’oracolo et dall’indovino di sopra detti, fu manifestata la fatal rovina di Veio, l’acqua del lago Albano senza alcuna pioggia fusse venuta et senza alcun’altra manifesta cagione ricrebbe meravigliosamente; et poi che l’acqua di quel lago ne fu tratta in quella guisa che l’oracolo di Delpho havea comandato che la ne si trahesse, Veio fu presa dai Romani.

[149] Il giovane, ancora, di molto maggiore et [//36] di molto più bella statura che non sono gli altri huomini, il quale Annibale vide in Ispagna mentre che egli dormiva et che egli si apparecchiava per venire in Italia, il quale gli disse che era mandato da Giove accioché lo guidasse et conducesse in Italia, et che perciò egli lo seguitasse senza volgersi mai indietro. [150] Et pensando Annibale fra sé stesso che cosa potesse esser quella la quale gli era vietata che egli non vedesse, non si potendo tenere riguardò indietro et vide un grandissimo serpente che lo seguitava et guastava tutte le piante che egli ritrovava. Et dopo quel serpente seguiva una tempesta grandissima, per che egli domandò il giovine di sopra detto che portento quel fusse; per che egli rispose quello esser la rovina d’Italia, et perciò badasse a ire et non cercasse più oltre, ma lasciasse stare i Fati segreti. [151] Questo giovine, dico, pare che predicesse a Annibale uno di questi effetti i quali paiono necessariamente fatti dal Fato, conciosia cosa che Annibale passasse felicemente i monti Pirenei et l’Alpi che dividono l’Italia et la Francia, le quali in quel luogo dove egli passò furon dagli antichi chiamate dal nome della patria d’Annibale, Poeniae Alpes, et havesse dipoi tre volte vettoria sopra i Romani, disfacesse molte città et uccidesse molti capitani romani, et facesse infiniti altri mali et danni a questa provincia.

[152] Sciogliendo adunque questi dubbi, dico che questi cotali avvenimenti sono effetti particolarmente fatti dalla Provedenza di Dio, la quale alcuni hanno chiamato Fato, in quella guisa che io poco di sotto dirò. [153] La qual Provedenza vede, cognosce et provvede a tutte le cose dell’universo, sì come apertamente dimostra il meraviglioso ordine non solamente delle prime cose et principali di quello, ma ancora delle minime, sì come sono la gran varietà di molti piccoli animali et la grande arte et il grande ordine che noi veggiamo nelle parti dei corpi loro, nelle operazioni et nei movimenti loro, la grande arte et il bello ordine che noi veggiamo nelle piante, nel nascere, nel fiorire et nel fare i frutti loro, la cui moltitudine et diversità non si può altrimenti mantenere così unita et così bene ordinata per la conservazione et per la perfezione dell’universo, se ella non fusse retta et governata da una intelligenza che tutte le conoscesse perfettamente et per conse[//37]guente a tutte provedesse. [154] Per che Dante nel primo canto del Paradiso dice:

La gloria di colui che tutto move
per l’universo penetra et risplende
in una parte più et meno altrove.

Et Vergilio nelle sue Egloghe disse:

Ab Iove principium Musae: Iovi somnia plena
Ille colit terras: illi mea carmina curae.

Et Arato, nei suoi Fenomeni, favellando di Giove, il quale era riputato dagli antichi gentili re di tutti gli altri dei, dice:

Hic statio, hic sedes primi patris, iste paterni,
principium motus, vis fulminis iste corusci,
vita elementorum, mundi calor, aetherius ignis,
astrorum quae vigor, perpes substantia lucis,
et numerus celsi modulaminis: hic tener aer,
materiaeque gravis concretio, succus ab alto
corporibus caelo, cunctarum alimonia rerum,
flos et flamma animae, qui discorrente meatus,
mentis primigeniae penetralia dura resolvens,
implevit largo venas operatus amore,
ordinis ut proprij foedus daret diste calorem:
quo digesta capax solidaret semina mundus,
inservit rite hunc primum, medium atque secundum.

Et quell che segue.

[155] Et Heraclito Ephesio quel gran filosofo, essendo entrato in bottega d’un fornaio forse per iscaldarsi, et vergognandosi d’entrare in quel luogo così vile, certi amici suoi che lo andavano cercando, egli disse loro: “Entrate ancor voi qua dentro, percioché in questo così fatto luogo sono ancora gli dei”. [156] Né mi farà mutar questa oppenione l’autorità d’Aristotile né di Averrois, nel dodicesimo libro della Metafisica, dove quegli dice che sì come molte cose è meglio non vedere che vederle, così è meglio dire che Iddio non cognosca molte cose che dire che egli le cognosca. Et questi dice che la divina maestà s’avvilirebbe se ella cognoscesse o havesse cura di queste cose che son sotto la Luna, percioché il sole illumina et riscalda le terrene brutture et penetra con i raggi suoi per le caverne et per le profondità della [//38] terra, et per ciò non s’avvilisce, anzi genera nelle caverne et nelle profondità di sopra dette le pietre preziose, l’oro et l’argento. [157] Et il vedere ogni cosa quantunque minima è segno di buona vista et non di mala, né nuoce in guisa alcuna a l’occhio, onde Aristotile medesimo nel decimo libro Dei costumi dice che se Iddio ha cura alcuna di queste cose inferiori, sì come ei pare che egli habbia, che egli ha grandissima cura degli huomini savi et di gran senno, percioché questi sono molto più degli altri huomini simiglianti a lui, [158] dico adunque che la Provedenza di Dio ottimo et grandissimo, se bene ella ha cura di tutte le cose dell’universo, pure provede molto più et molto più manifestamente alle cose principali di quello, che a quelle che meno importano. Per che Dante dice pur nel primo canto del Paradiso:

Nel Ciel che più dalla sua luce prende.

Et quel che segue.

[159] Là onde, essendo questi avvenimenti di sopra detti et gli altri simiglianti a questi molto principali tra le cose del mondo, non è meraviglia se in quegli si scorge più la Provedenza di Dio che negli altri accidenti, né per questo trahe la Provedenza di Dio le cose della natura loro o sforza in guisa alcuna il libero volere dell’huomo; ma usando le naturali inclinazioni degli huomini a condurre al fine loro questi predetti avvenimenti, non isforza gli huomini, ma permette che eglino volontariamente adoperino a quel fine che egli ha preveduto et che è stato predetto che questi così fatti accidenti debbono pervenire. [160] Onde ei si vede chiaramente che questi cotali avvenimenti procedon dal Fato, in quanto il Fato è il medesimo che la natura, sì come sopra detto, conciosia cosa che tutti questi effetti sian condotti al fine loro dalla propria natura degli huomini, in quanto ella è dritta ma non forzata dalla divina Provedenza. Ma per esser questi tali effeti nel mondo molto principali, ei sono da portenti, prodigii et profeti, per la benignità di Dio significati agli huomini.

[161] Et così fu drizzata et incitata ai danni d’Italia la naturale inclinazione di Annibale al far male a quella provincia da quella apparenza che io dissi di sopra che egli vidde dormendo; et così usò la mala voglia di Amulio contro a Numitore et contro ai suoi nipoti a condurgli alla grandezza alla quale ei pervennero, et [//39] accrebbe, incitando la natura loro, lo ardire ai Romani ad assalire con maggior forza et con maggior valore la città di Veio, che eglino non havea fatto per l’addietro, onde eglino la presero.

[162] È ben vero che, essendo i giudizii della Provedenza di Dio molto nascosti et segreti agli huomini, perciò avviene spesse fiate che eglino adoperano a un fine, et la Provedenza di Dio driza le lor libere operazioni a un altro fine, il quale è del tutto contrario a quello al quale eglino adoperavano, sì come avvenne a Amulio, il quale tutto quel che faceva adoperava a fine di abbassare, anzi spegnere, la grandezza di Numitore, et la Provedenza di Dio drizò l’opere sue a fine contrario a quello a che egli adoperava, cioè alla grandezza di Numitore et della stirpe sua.

[163] Il medesimo si legge nelle Sacre Lettere essere avvenuta a Giuseppo, percioché i suoi frategli non lo venderono ai mercanti d’Egitto per altra cagione se non per impedirgli quella grandezza alla quale visioni che egli haveva vedute mostravano che egli doveva quando che sia pervenire; et nondimeno la Provedenza di Dio usò questa loro opera per mezzo, per il quale egli a quella pervenisse.

[164] Ma sia che per divina Provedenza seguisse la rovina della città di Veio, perché ne dovea esser cagione et in qual guisa il ricrescer dell’acqua del lago Albano et lo esserne allhora tratta in quella maniera che ella ne fu tratta dai Romani? [165] A questo io rispondo che il ricrescere dell’acqua del lago Albano non fu in guisa alcuna cagione della rovina di Veio, ma fu un segno di quella rovina la quale doveva seguitare dopo il ricresce di quell’acqua et dopo esserne allhora tratta dai Romani in quella guisa che ella ne fu tratta, percioché, sì come le cose di questo mondo inferiore hanno grandissima diversità tra loro et son molto contrarie l’una all’altra, così convengono ancora in molte cose l’una con l’altra, onde gli avvenimenti dell’una posson precedere, accompagniare et seguitare tal fiata gli avvenimenti dell’altra, et essere segni et non cagioni di quegli, sì come noi diciamo il passaggio d’alcuni uccegli esser segno et non cagione del verno o della primavera, et il tardi o presto fiorire d’alcune piante esser segno altresì et non cagione di una stagione o d’altra. [166] Et in questa stessa guisa dico che il ricrescer l’acqua del lago Albano et lo es[//40]serne allhora tratta dai Romani fu segno della rovina dei Veienti et non cagione.

[167] Ma potrebbe dire alcuno, essendo Dio somma bontà et essendo l’esser suo et l’esser buono il medesimo, come avvengono le rovine delle città et delle provincie et molti altri mali che accaggion nell’universo, se egli ha Provedenza di tutte le cose di quello et di tutte è cagione? [168] Dico che di questi mali che avvengono nel mondo la Provedenza di Dio non gli fa né è cagione di quegli in guisa alcuna, ma son fatti o dal libero voler dell’huomo o dalla natura degli animali et di quelle sostanze che gli fanno sì come sono le guerre che gli huomini fanno l’uno all’altro, l’uccidersi et il divorarsi gli animali senza ragion l’un l’altro, le rovine delle città et delle provincie che son fatte dai tremuoti et dalle saette et altri simiglianti a questi.

[169] Ma la Provedenza di Dio gli usa et gli drizza al bene, primieramente alla perfezione dell’universo, nel quale dovendo egli esser perfetto, non dovea mancar cosa alcuna, anzi doveano esser molte et diverse maniere di cose contrarie l’una all’altra, et per conseguente continui mutamenti et distruzzioni di cose. [170] Ma la Provedenza di Dio usa dipoi la corrozzione di una cosa alla generazione dell’altra, sì come egli usò la rovina di Veio ad accrescer la grandezza di Roma, et in questa guisa mantiene il mondo nell’essere et nell’ordine suo, et mantiene la legge incommutabile, che essendo egli infinito diede alle cose mondane. Et questa è l’haver, quando che sia, fine. [171] Per che Dante nel tredicesimo canto del Paradiso dice:

Le cose vostre tutte hanno lor morte,
sì come voi, ma celasi in alcuna
che duran molto et le vite son corte.

Et talhora sono usati dalla Provedenza di Dio questi fieri accidenti et mali di sopra detti a gastigare l’inique opere dei mortali a lor correzzione per dimostrare in quella guisa la sua giustizia.

[172] Ha adunque la divina Provedenza cura di tutte le cose dell’universo et contiene in sé il Fato, il quale è il medesimo che è la natura, in quanto ella è cagione efficiente dell’opere delle cose naturali, né sforza il Fato il libero voler dell’huomo et avvengono i mali in questo universo senza che Iddio ne sia cagione, an[//41]zi gli usa alla conservazione et al ben esser dell’universo.

[173] Ma se Dante crede che l’operazioni del Fato non son necessarie, per che dic’egli nel nono canto dello ’nferno:

Che giova nelle Fata dar di cozo?
Cerbero vostro se ben vi ricorda
ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo.

Et nel trentesimo canto del Purgatorio:

L’alto fato di Dio sarebbe rotto
se Lethe si passasse, et tal vivanda
fusse gustata senz’alcuno scotto
di pentimento le lagrime spanda.

[174] A questa domanda si può agevolmente rispondere in questa guisa, che Dante in tutti et duoi questi luoghi intende per questa voce Fato, non la natura sì come intendiamo noi, ma l’assoluta et libera volontà d’Iddio. Onde nel primo luogo ei fa parlare a un angelo mandato da Dio a far aprir la porta della città di Dite a Dante, et fa poco prima dire al medesimo angelo alle furie infernali:

Perché ricalcitrate a quella voglia
a cui non puote ’l fin mai esser mozo
et che più volte v’ha cresciuta doglia?

[175] Et nel trentesimo canto del Purgatorio è manifesto che per questo nome Fato egli intende la volontà d’Iddio, percioché egli non dice semplicemente Fato, ma l’alto Fato d’Iddio. Et questo basti per risposta a questi duoi dubbii che si sarebbero potuti muovere da alcuno studioso del divin poema di Dante.

I L F I N E
[//42]

Con licenzia del Reverendo Padre Fra Francesco
da Pisa Generale Inquisitore del Dominio Fiorentino
come apparisce nell’originale sotto di
XXVI. di Novembre MDLXXVII

Bibliografia
Fonti
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    M. Ficino, [Plato] Opera, Venezia 1491.
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    B. Pittoni, L. Dolce, Imprese di diuersi prencipi, duchi, signori, e d'altri personaggi et huomini letterati et illustri, Venezia 1562.
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    G.J. Schwindel, Thesaurus bibliothecalis, das ist, Versuch einer allgemeinen und auserlesenen Bibliothec, Norimberga 1738.
  • Sepulveda 1526
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  • Varchi 1560
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  • Zapata de Cisneros 1757-1758
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English abstract

This contribution describes specific aspects of the dispute on the concept of fate developed during the Renaissance, starting from the publication and commentary of the Discorso dell’essenza del fato published by Baccio Baldini in 1578. This text emerged from the cultural context of the Florentine Academy and reacted to an array of philosophical and philological works circulating during the same period. The genesis, methodology and literary fortune of Baldini’s work will be analysed in relation to explicit and implicit models.

*La mia gratitudine va a Marco Faini, che si è preso il tempo di rileggere il testo, limando così quelle insicurezze che a volte ci accompagnano in questo mestiere.

keywords | Reinassance, Fate, Baccio Baldini, Florentine Academy. 

Per citare questo articolo: Damiano Acciarino, Il Discorso dell'essenza del fato di Baccio Baldini. Riflessioni a margine e testo, “La Rivista di Engramma” n. 162, gennaio/febbraio, pp. 11-65. | PDF dell’articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2019.162.0004