"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

Fortuna in Laguna. Xilografie, letterati, editori e attori

A proposito dell’Arboro di frutti della Fortuna

Silvia Urbini

English abstract

Stiamo osservando una xilografia italiana del XVI secolo [Fig. 1]. È ricavata dall’intaglio di due matrici di legno che sono sopravvissute – un’eventualità piuttosto rara – e sono conservate alla Galleria Estense di Modena: a questo indirizzo è visibile la parte inferiore e a questo la parte superiore. Si tratta di un’opera di notevoli dimensioni, 72,5 per 51 cm (come quelle di un quadro da cavalletto), che rappresenta un soggetto davvero bizzarro: la Fortuna seduta su un albero che dispensa “frutti” a un’umanità inferocita, soggetto che però difficilmente potremmo vedere raffigurato in un dipinto italiano del Rinascimento.

L’intento di questa breve indagine è quello di individuare una delle possibili fonti a cui la xilografia è ispirata, intrecciando il racconto iconografico con quello che riguarda la storia materiale di questa tipologia di opere. Sullo sfondo, lo straordinario ruolo che il medium xilografico rivestì nella produzione artistica, editoriale e, secondo una mia ipotesi, anche teatrale veneziana.

1 | Anonimo xilografo veneto, Arboro di Frutti della Fortuna, London, British Museum, inv. 1860, 0414.157.

L’Arboro di frutti della Fortuna e l’Atlante delle xilografie italiane del Rinascimento della Fondazione Giorgio Cini

2 | Matteo Pagano, Istruzioni per suonare il liuto, Stockholm, Kungliga biblioteket, Sveri­ges natio­nal­bib­li­otek.

3 | Padovano, Carta da gioco: quattro di denari, Paris, Musée du Petit Palais.

L’Arboro di frutti della Fortuna – con le altre xilografie citate in questo articolo – è una delle opere catalogate nell’Atlante delle xilografie italiane del Rinascimento, un progetto della Fondazione Giorgio Cini a cura di chi scrive, di Laura Aldovini e David Landau, che ha come obbiettivo la creazione di un database dove sono schedate le matrici lignee e le stampe xilografiche su fogli sciolti prodotte in Italia dai primi esemplari noti quattrocenteschi fino al 1550 circa*. Il database, che sarà on line nel 2019 e accessibile dal sito della Fondazione Giorgio Cini, rappresenterà un catalogo ragionato della xilografia italiana del Rinascimento, una sorta di meta-museo dove saranno schedate opere provenienti dai principali musei del mondo che possiedono questi materiali.

Questi fogli, per le motivazioni che vedremo, fino ad ora praticamente invisibili, contengono patrimoni preziosi di informazioni che arricchiscono la conoscenza dell’arte e della cultura rinascimentale. Innanzitutto dal punto di vista della storia e dell’evoluzione dello stile: è noto infatti che durante il primo Rinascimento nelle botteghe vigeva il principio di unità delle arti e i grandi maestri operavano contemporaneamente nell’ambito di differenti pratiche artistiche, fornendo disegni anche per la nuova arte dell’incisione, in tutte le sue declinazioni (di recente, ad esempio, è ricomparsa una grande xilografia di Amico Aspertini: v. Urbini 2018). Un catalogo di immagini confrontabili, inoltre, permette di costruire famiglie stilistiche, creando nuove identità artistiche o arricchendo il catalogo di maestri e di monogrammisti già noti.

La xilografia – che è spesso stampa di invenzione e non di riproduzione, e questo è uno dei fattori che la rende così significativa – è un luogo di libertà iconografica, come nel caso del nostro Arboro della Fortuna. Fornisce preziose informazioni per la conoscenza del costume religioso e laico, vi si compenetrano la cultura alta e popolare e, di frequente, è corredata e resa ibrida da testi: più in generale, i temi e le funzioni che ne motivavano la produzione sono quelli che accompagnavano nei suoi diversi aspetti – il lavoro, la spiritualità, la storie lette e raccontate, la scienza, i viaggi, la magia, il gioco – la vita dell’uomo del Rinascimento.

L’immagine dell’Arboro della Fortuna, ad esempio, doveva essere presente nei momenti di svago. Quando, non senza occasioni di riflessione e complici altre xilografie, si faceva musica, ad esempio guardando le istruzioni per suonare il liuto del tipografo veneziano Matteo Pagano (Aldovini, Landau, Urbini 2018, 15-16 [Fig. 2]); quando si giocava a carte, avendo magari fra le mani il mazzo del Padovano, il cartaio amico di Pietro Aretino con cui dialoga ne Le carte parlanti (Depaulis 2017, [Fig. 3]); quando si ascoltava la recita di un saltimbanco, come vedremo nel prossimo paragrafo.

Xilografie e palcoscenici

La xilografia dell’Arboro della Fortuna è una stampa molto rara, della quale sono sopravvissuti solo due esemplari integri del primo stato, che è privo di firme: sono conservati a Londra e a Cambridge (British Museum inv. 1860,0414.157; Cambridge, Harvard Art Museums/Fogg Museum, inv. 3.1989). Ispirerà un’altra grande xilografia, che a differenza di questa è caratterizzata da una fitta presenza di testi [Fig. 4]; ricopiata quasi letteralmente in un’acquaforte da Giuseppe Maria Mitelli nel 1687); qui il palazzo di Fortuna è niente meno che Castel Sant’Angelo: sulla sua sommità è conficcato l’albero presieduto da Fortuna, mentre i modelli figurativi del papa sul globo e della dea con la vela derivano dal frontespizio su disegno di Baldassarre Peruzzi e dalle illustrazioni del Triompho di Fortuna di Sigismondo Fanti (Urbini 2011), un celebre libro di sorte pubblicato a Venezia in quel 1527 del Sacco di Roma, ovvero sempre nel giro d’anni in cui le tipografie cittadine stampavano l’Arboro della Fortuna.

4 | Anonimo xilografo, Allegoria di Fortuna in Castel Sant’Angelo, London British Museum, inv. 1860,0414.156, cm. 65x50,5; firmata CFB: Nagler, Die Monogrammisten, n. 29.

Da cosa è motivata la rarità di questi fogli? Esistono due spiegazioni principali. Nella maggior parte dei casi si tratta di opere anonime, o, per meglio dire, in cerca d’autore: per questo non sono rientrate negli interessi degli amatori e dei collezionisti e ritenute abbastanza importanti per essere conservate e musealizzate. A comprovare questo fatto, solo nei casi in cui la paternità della xilografia sia nota e nobile – ad esempio quando Tiziano è inventor – ne sono giunti fino a noi un bel numero di esemplari (sebbene spesso tardi e stanchi).

5 | Anonimo xilografo veneziano, San Sebastiano, tiratura moderna dalla matrice conservata al Fogg Art Museum di Cambridge, inv. G8365.

Oltre a questo argomento, e forse prima di questo, il fatto che siano sopravvissute poche xilografie italiane del Rinascimento riguarda la loro funzione di oggetti d’uso. Temi sacri o profani che fossero – dalle Madonne col Bambino, alle carte geografiche, ai lunghi fregi storici ecc. – stampate agilmente e a basso costo in centinaia di copie, spesso finivano inchiodate alle porte delle case e delle botteghe. Il nostro Arboro della Fortuna e molte altre xilografie del genere, di grandi dimensioni, erano quasi sempre incollate ai muri, con il degrado che inevitabilmente ne è derivato.

Oppure venivano tenute in mano, in tasca, nelle bisacce e incollate dentro ai libri: si pensi alle carte da gioco che abbiamo citato, o ai ‘santini’ che le chiese e le confraternite distribuivano durante le feste dei loro patroni, come un San Sebastiano, di cui rimane la matrice al Fogg Art Museum di Cambridge [Fig. 5]. Il valente disegnatore ha derivato il santo da quello dipinto da Giovanni Bellini nel Trittico di San Sebastiano per la chiesa di Santa Maria della Carità a Venezia, ora alle Gallerie dell’Accademia. L’iscrizione che corre lungo la cornice – o qvam mira refulsit gratia Sebastianvs martir inclitvs qui militis portans insignia sed de fratrum palma solicitvs confortavit corda pallentia (“O, di quale mirabile grazia rifulse il glorioso martire Sebastiano che, portando le insegne di soldato ma preoccupato della vittoria dei fratelli, confortò i loro cuori tremanti”) – è tratta dal mottetto O Sancte Sebastiane del compositore fiammingo del Quattrocento Guillaume Du Fay.

Ed è proprio nella dimensione della situazione festiva – sebbene sul versante laico – che forse avremmo potuto vedere esposto l’Arboro della Fortuna e altre xilografie che, come questa, sono trasposizioni figurative di testi letterari che possiamo supporre destinati anche alla recitazione o al canto nelle piazze, nei mercati, nei teatri e nelle mille occasioni celebrative pubbliche e private (su questo si veda, in Engramma, Bortoletti, Gobbo, Elli, et all. 2018).

Gli stessi editori che pubblicavano i testi da recitare erano anche i tipografi che stampavano le xilografie che ne erano trasposizione visiva, o a loro erano vicinissimi: e in alcuni casi speciali, come quelli veneziani di Paolo Danza e di Nicolò Zoppino, gli editori erano anche attori. Va ricordato infatti che fra gli ‘specialisti dell’intrattenimento’ c’erano anche gli editori, e non solo perché pubblicavano testi che potevano essere recitati, ma perché alcune volte ne erano loro stessi gli interpreti. Uno di questi era Nicolò di Aristotile Zoppino, dai cui torchi uscì una delle due edizioni veneziane del Dialogo di Fortuna di Antonio Fileremo Fregoso: un testo che, come si dirà più avanti, forse conosceva l’inventore dell’Arboro della Fortuna, la xilografia intorno alla quale ruotano queste riflessioni.

A qualcuno questa professione ‘parallela’ fu cagione di soddisfazioni ma anche di guai. Teofilo Folengo nel Baldus ci racconta che Zoppino guadagnava assai bene suonando la sua lira presso le colonne di San Marco (Folengo, Chiesa 1997, XI, 7-12); Aretino nel primo giorno del suo Dialogo cita “quel Zoppino che quando canta in banco tutto il mondo corre a udirlo” (Aretino, Dialogo: Procaccioli 1984, 233). Però nel 1510, l’anno dopo la Battaglia di Agnadello, lo stesso Zoppino fu incarcerato a Venezia per aver recitato a Ferrara – la sua città di origine – con il socio Vincenzo di Paolo, una frottola diffamatoria contro la Serenissima e venduto il pamphlet dove l’aveva pubblicata. Come ha scritto Massimo Rospocher, che ha scoperto i documenti relativi a quest’ultima vicenda e raccolto le fonti di Zoppino cantastorie, “in this instance of singing and selling, the interaction between orality, public performance and print is immediately evident” (Rospocher 2014, 349).

Le pubblicazioni a poco prezzo, le barzellette, le frottole, i pamphlet devono quindi essere tenuti presenti fra i testi che potevano essere recitati: “a short lyric genre that lent itself to being performed, with bodily gesture, jokes, and exclamations, to the accompaniment of a stringed instrument (usually a lira da braccio) playing a familiar and repetetive tunes” (Rospocher 2014, 351).

6 | Anonimo xilografo, L'asedio crudel fatto da sorzi coleg […] cani contra i gatti, London, British Museum, inv.1947, 0319.54..

La mia ipotesi è quindi che quando esistono corrispettivi figurativi di questi testi – e spesso si tratta di xilografie – essi fossero destinati anche a essere supporto alla parola declamata o cantata, una sorta di “protoscenografie” ad uso dei cantastorie e degli allestimenti. Vediamone qualche esempio.

Uno degli illustratori di Zoppino era Giovanni Andrea Vavassore. Egli era, oltre che xilografo, anche editore, e fra le sue pubblicazioni c’erano testi perfetti per i saltimbanchi come la Historia de le buffonarie del Gonella e La Grande battaglia delli gatti e de li sorci (unici esemplari noti alla Biblioteca Nazionale Marciana). Del secondo testo esiste anche una trasposizione visiva in una xilografia conservata al British Museum [Fig. 6].

7 | Giovanni Andrea Vavassore, Battaglia di Marignano, Zürich, Zentralbibliothek, Graphische Sammlung und Fotoarchiv, Zentralbibliothek Zürich, inv. 307 (unico esemplare).

E del resto anche l’enorme e splendida xilografia con la Battaglia di Marignano possiamo ben immaginarla raccontata da un saltimbanco, come fosse un cartellone nell’Opera dei Pupi [Fig. 7].

8 | Anonimo xilografo veneziano, Ritratto del conte Orlando, London British Museum, inv. 1876,0708.45.

Spesso in queste xilografie – che possiamo considerare paratesti, ovvero complementari ai testi a stampa – sono presenti titoli, didascalie, brevi narrazioni, come nel caso di una magnifica serie veneziana dedicata all’Orlando furioso (esemplari in varie raccolte) della quale fa parte anche un grande foglio conservato al British Museum con il fiero ‘ritratto’ di Orlando [Fig. 8].

È sempre attingendo alla produzione xilografica tra illustrazione libraria e fogli sciolti, che possiamo recuperare alcune rare immagini di maschere della commedia, da aggiungere a quella nota di Zuan Polo, rappresentato mentre dice allo sconsolato Caravia – “gioielliere di professione, poeta per diletto ed eretico per vocazione” – che gli ricorda la Melancolia di Dürer (“Voi mi parete la Melancolia/Dipinta da buon maestro dipintore”: Il sogno di Caravia, Venezia, Giovannantonio Nicolini da Sabbio, 1541; Benini Clementi 2000, 20-22; Fara 2015, 81).

9 | Tiffanio di Comacchio, Abain di Poveglia, Fiapolin Nicoloto, London British Museum: inv. 1854,1113.169; inv. 1854,1113.170; inv. 1854,1113.171.

Si tratta di tre personaggi protagonisti di chissà quale commedia: Tiffanio di Comacchio, Abain di Poveglia, Fiapolin Nicoloto, ovvero della parrocchia di san Nicolò a Venezia [Fig. 9]: in un’epoca in cui erano assai permeabili i confini tra cultura alta e popolare, poteva capitare di incontrare sui palcoscenici veneziani, nelle vesti di commedianti, anche delle maschere grottesche alla maniera di Leonardo da Vinci (di due xilografie esiste la versione a bulino attribuita al milanese Ambrogio Brambilla, Firenze, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi, cat. 252).

Una precoce fonte per l’iconografia dell’Arboro di frutti della Fortuna

La Fortuna bendata, vestita solo di un drappo, svolazzante come i suoi capelli, siede su un globo conficcato nella cima di un albero rigoglioso [Fig. 1]. Nelle mani stringe un bastone e un rastrello con i quali fa cadere i “frutti” dolci e amari del destino, dei quali l’albero è carico: corone, zappe, elmi, falci, sacchi pieni di denaro, libri, spade, strumenti musicali, cappi e catene e fruste e gioghi, coppe e zucche, tiare papali e cappelli cardinalizi. Ai piedi dell’albero una variegata umanità fa i conti con la sorte che ha avuto in dono: c’è chi prende al volo ciò che cade dall’albero, chi se ne va col suo bottino, chi si accapiglia per sottrarre ad un altro qualcosa di più interessante. Una specie di discendente del buffone Gonnella (le cui storie, come detto, furono ripubblicate a Venezia da Giovanni Andrea Vavassore proprio in questi anni) ci guarda e ride, mentre poco più in là un giullare ‘fa le fiche’ alla Fortuna. Un tipo, non pago del sacco già assicurato alla cintura, sale sull’albero come fosse quello di Cuccagna, il paese fantastico che visitò il celebre commediografo e attore veneziano – contemporaneo di questa xilografia – Andrea Calmo, e di cui racconta in una celebre lettera (n. 34, libro II, edizione a cura di Vittorio Rossi – Calmo Lettere, II.34 138-143: Rossi 1888, 138-143).

L’anonimo inventor di quest’opera a ben vedere ha voluto rendere l’aspetto bestiale dell’umanità che confida in Fortuna. Non solo mettendo in scena figuri dai modi sguaiati e poco dignitosi, ma soprattutto (ed è una delle chiavi di lettura per individuare una possibile fonte dell’opera), rappresentando uomini che si stanno trasformando in animali o che già lo sono diventati: a quello in secondo piano sulla destra, curvo sotto un grande sacco, sono spuntate due lunghe orecchie asinine; alcuni, come quello a sinistra dell’albero, sono ancora in uno stato precedente, con sembianze umane ma gestualità scimmiesche; altri, già completamente trasformati, se ne vanno inconsapevoli della mostruosa metamorfosi, come il cane in primo piano che esce di scena con una corona in bocca o l’asino sulla sinistra con un sacco al collo.

Oltre al tema della metamorfosi, la particolarità di questa rappresentazione di Fortuna è la sua associazione a un albero che, nella stampa popolare, veniva rappresentato in molteplici declinazioni allegoriche (ad esempio Hind 1978 [1938-1948], 76-77; Milano 2014, Figg. 25-33), ma raramente associato alla dea bendata (come, alla fine del Cinquecento, un bulino attribuito ad Ambrogio Brambilla, British Museum, inv.1868,0612.1160). Fosse magari l’albero di una nave, allora rientreremmo fra le iconografie di Fortuna note, come quella con la vela, una delle varianti presenti nella Tavola 48 del Mnemosyne Atlas (Warburg, Mnemosyne Atlas 48, studiata in Engramma: Seminario Mnemosyne 2011; Seminario Mnemosyne 2016, con ampia trattazione e bibliografia specifica; inoltre Albani Liberali 1981). Nella xilografia in questione, gli unici attributi canonici dei quali Fortuna è dotata sono la benda sugli occhi e il globo sul quale è in equilibrio instabile: per le altre stranezze è necessario rintracciare una sua particolare declinazione, magari in ambito lagunare, che abbia ispirato l’anonimo inventor della xilografia.

Venezia nel Cinquecento doveva essere particolarmente sensibile nei confronti di questo tema – studiato in alcune sue varianti da Augusto Gentili (ad esempio Gentili 2005, 57) – anche a cagione dei rovesci di fortuna patiti dalla città lungo quasi un decennio per le conseguenze della Lega di Cambrai. Nel 1517 finalmente, con l’ingresso delle truppe veneziane a Verona, la guerra si conclude, gli imperiali sono sconfitti, ma Venezia è stremata. L’anno dopo gli eredi di Manuzio pubblicarono l’opera omnia di Giovanni Pontano. Fra i testi è presente il suo De Fortuna, che fu giudicato trasgressivo perché afferma che Fortuna “opera [... ] con assoluta indifferenza rispetto alle nostre attese, al nostro impegno, alla nostra capacità e soprattutto alla ragione morale e alla giustizia”. Viene tolto spazio alla Provvidenza “la cui certezza era pur sempre assimilabile alla volontà divina [...] la Fortuna tornava ad essere un mito, nel senso di una figura, di una entità reale come nella cultura pagana” (Pontano, Fortuna: Tateo 2012, 42). Le sue azioni, secondo Pontano, dipendono raramente e solo per caso dal comportamento retto degli uomini o dalla Provvidenza, con il conseguente capovolgimento della visione cristiana del mondo (Pontano, Fortuna: Tateo 2012, 50-51).

La scrittura di questo trattato da parte dell’umanista partenopeo coincide con gli anni della caduta del Regno aragonese e dell’insediamento degli spagnoli a Napoli, tra il 1500 e il 1501. Anche un altro umanista – sebbene di diversa caratura – Antonio Fileremo Fregoso, in quegli stessi anni e a causa della stessa guerra, doveva fare i conti con i passaggi di potere che segnano anche il destino di un poeta di corte. Nel 1499 il re di Francia Luigi XII entra a Milano mettendo in fuga Ludovico il Moro. Il mite Fregoso riesce a non essere inviso a nessuno ma, defilato e amareggiato, si ritira nella campagna di Lodi. Durante quel primo decennio del Cinquecento scrisse alcuni poemi visionari: il Riso di Democrito e pianto di Eraclito e – anche lui – un trattatello sulla Fortuna (Santoro 1978, 187-233).

Il Dialogo de Fortuna fu pubblicato per la prima volta a Milano ma sembra che sia divenuto un best seller a Venezia, con due edizioni nel 1521 (Zoppino e Bindoni), e altre nel 1523, nel 1525, nel 1531 (Zoppino) e nel 1547 (Bindoni). Fra le molte teorizzazioni del tema di Fortuna da parte degli umanisti rinascimentali, questa, come quella di Pontano, si segnala per il tono di sostanziale pessimismo.

Vediamone brevemente i contenuti, perché potrebbe darsi che leggendo o sentendo recitare, magari dal suo editore Zoppino, il Dialogo di Fortuna di Fregoso, un artista veneto o veneziano del terzo decennio del Cinquecento abbia ricavato alcuni elementi e bizzarrie iconografiche per la xilografia oggetto di queste pagine. Come vedremo nel paragrafo conclusivo, dopo gli anni Trenta del Cinquecento alcuni pittori e amici letterati ci hanno lasciato pagine che testimoniano la conoscenza e l’interesse nei confronti di questo tema.

10 | “Verità mostra a Fregoso, Simonetta e Curti la città di Fortuna”, Dialogo De Fortuna Del Magnifico Cavalliero Antonio Phileremo Fregoso, Venezia, Alessandro e Benedetto Bindoni 1521.

In apertura del Dialogo di Fortuna di Fregoso, all’ombra di un olmo – albero dei luoghi profetici secondo Virgilio, che lo pone all’ingresso dell’antro della Sibilla Cumana – Fregoso racconta sconsolato le sue pene mentre gli amici Cicco Simonetta e Lancino Curti espongono le loro divergenti concezioni del mondo e di Fortuna; il primo, neostoico, ritiene che l’uomo abbia il potere di esercitare il libero arbitrio vivendo nella moderazione e nel distacco dai beni mondani; il secondo, neoplatonico, crede invece in un totale determinismo astrologico.

Ed ecco che i tre amici hanno la prima visione: da una fonte emerge una donna nuda, che si presenta come Verità. Inizieranno, condotti da lei, un viaggio che li porterà sulla cima di un monte, nella città-fortezza di Fortuna (si veda, nel frontespizio dell’edizione Bindoni, la Verità che mostra la città di Fortuna ai tre protagonisti, [Fig. 10]), un luogo all’apparenza magnifico ma che i tre uomini, grazie alla guida virtuosa, saranno in grado di vedere nella sua orribile realtà.

E accio vediate come la Fortuna
Trastulla di noi miseri mortali
Et quanto sia fallace, e importuna
Darovi puoi duoi miei lucidi occhiali
Che ingannati non restan gli occhi vostri.

La dimora di Fortuna “è un gran palagio di materia e arte”, la cui corte è dominata da un maestoso albero carico di frutti, il centro focale dell’azione.

Così tutti e tre noi aparo aparo
Intenti stando a l’edificio grande
Che agli occhi humani par tanto preclaro
Vedemmo una arbor che i bei rami spande
Sopra il castel piantata ne la corte
Che frondi de smeraldo havea ammirande
[...]
Et sono i pomi di bellezza tanta,
De l’arbore superba, e tale in vista
Come quei che restar ferno Atalanta.
A questa la mortal gente egra e trista
Per coglierne con tanto desio viene
Che par che in quelli ogni suo ben consista.
Et nondimeno assai più grave pene
Che volupta nei frutti dolci e amari,
Certo si trovan ch’il considera bene (capitolo XIII).

Grazie agli occhiali – veri o simbolici – di Verità, i tre uomini esterrefatti sono in grado di vedere la trasformazione del palazzo di Fortuna in fango e dei suoi adepti, accorsi a cogliere i doni dall’albero, in animali.

L’aurea rocca…
Il cui splendor vincea de gli occhi il senso
… di terra e di fango era
Et di fumo e di nebbie gli ornamenti (capitolo XVI).

Un’altra Metamorphose fu mai
Maggior di questa, ….alcun havea capo asinino,
Alcuno di leon superbo, e fiero,
Chi di lupo rapace, e chi di porcino… (capitolo XVII).

E dopo la fine del libro, in un “capitolo di Fortuna aggionto” che compare nell’edizione di Zoppino del 1523, vengono evocate, come sullo sfondo della xilografia, navi “in ciel” e navi “in fondo”

Come una nave in mar spenta dal vento
Che per favor de l’onde e di tempesta
In ciel si trova in fondo in un momento.

Al motto dell’emblema di Andrea Alciato che ispira il titolo di questo numero di Engramma – Fortuna Virtutis Comes – Antonio Fileremo Fregoso e l’anonimo xilografo rispondono che no, la condotta virtuosa non è un sufficiente viatico per una vita felice. A monte è necessario che gli uomini, guidati da Verità, non distolgano lo sguardo dalla realtà, ovvero dai palazzi di fango e dagli incantamenti di Fortuna-Circe che trasforma gli uomini in avide bestie.

Altre citazioni cinquecentesche dell’Albero della Fortuna

Il poema di Fregoso contiene quindi una precoce narrazione del nostro tema: la prima edizione certa, come si è detto, fu stampata nel 1519, ma ne è segnalata una addirittura del 1507 (Dilemmi 1976, XLIII). È possibile poi rintracciare, a partire dal quarto decennio del Cinquecento, altre citazioni dell’Albero della Fortuna. Esse però appartengono a una altro ordine testuale: si tratta di descrizioni di opere d’arte e di istruzioni iconografiche.

Nel 1532 Giorgio Vasari, convalescente da una lunga malattia, scrive una lettera all’amico Paolo Giovio a cui allega un disegno – perduto – da consegnare al cardinale Ippolito de’ Medici. Descrive sia per parole che per immagini, “Il capriccio della invenzione è d’un gentilomo, amico mio”, amico di cui non menziona il nome. Si tratta di una particolare versione dell’Albero della Fortuna in cui i frutti sono rappresentati esclusivamente da copricapi:

mitrie di papi, corone imperiali e reali, cappelli da cardinali, mitrie da vescovi, berrette ducali e marchesali e di conti…quelle da preti, così i cappucci da frati, cuffie e veli da monache, come anche celate di soldati e portature diverse per il capo di persone seculari, maschi come femmine.

e ai piedi dell’albero non ci sono uomini ma solo animali

lupi, serpenti, orsi, asini, buoi, pecore, volpe, muli, porci, gatte, civette, allocchi, barbagianni, pappagalli, picchi, cuculi, frusoni, cutrettole, gazzuole, cornacchie, merle, cicale, grilli, farfalle [...].
(Barocchi 1973, III, 2415-2417; il testo completo in memofonte.it. A proposito di alcune perplessità dei critici sulla redazione della lettera: Minozio 2013, 511).

Ritorniamo ora a Venezia, nel 1551, quando, presso un editore assai compromesso con le arti visive come Francesco Marcolini, viene pubblicata La Zucca di Anton Francesco Doni. Nel capitolo intitolato Chiachiera ultima, l’autore descrive l’Albero della Fortuna così come si vede dipinta in un ‘tondo’ che fu donato ‘Vivente il Cardinale de Medici’, quindi verosimilmente a Ippolito de’ Medici, che morì nel 1535. Ci aspetteremmo quindi di trovare una trasposizione in pittura del disegno che gli donò Vasari e invece, nella sua descrizione, Doni, sembra avere davanti agli occhi un’opera più simile alla nostra xilografia:

Vivente il Cardinale de Medici, gli fu donato un tondo, nel quale era dipinto un'arbore, le foglie sue erano grandissime & diverse & i frutti variati et nuovi al vedere: percioche produceva (in cambio di pere, o pesche) libri, mitere, spade, funi, capucci da frati, berrettoni da Duchi, Corone da Re, Capegli da Reverendissimi, Bastoni, sacchi di Ducati, forche, & di tutte le sorte di frutti che l’huomo gusta in queflo mondo: così di dolore come d'allegrezza. Sotto a quest’arbore d'ogni qualità di bestie & di persone. Nella Vetta di questo frutto era una femina cieca, la quale con una lunga pertica batteva questi frutti, così nel cadere voi vedevi una berretta adosso a un porco, un libro in capo a un villano, una spada da sopra d’un Principe, una macine adosso a un povero, un sacco di ducati a traverso alla schiena d’un Cane, vn paio di forche in cima della capellina d'vno sgratiato, & va discorrendo. Anchora sopra molti huomini virtuosi vi cadevon capelli da Cardinali, mitre, corone & altre cose degne. Così dicevano essere questa Pittura l'Ignoranza, la quale non sapeva quello che la si facesse, perché dispensava male i doni di questo mondo, ma io l’havrei piu tosto battezzata la Fortuna: perche l’ignoranza non fa questi effetti boni.

Riproponendo la descrizione dell’Albero della Fortuna nelle Pitture del 1564 – testo per la prima volta messo in relazione con la xilografia da Maria Goldoni (Goldoni 2001, 61-62) – Doni eliminerà il riferimento all’opera posseduta dal cardinale fiorentino (le Pitture saranno inserite l’anno dopo in una nuova edizione veneziana della Zucca).

È ora necessario introdurre in questo segmento della storia quello che potremmo considerare il ‘convitato di pietra’, un autorevole personaggio conosciuto da Vasari e da Doni che sicuramente ebbe un ruolo nell’elaborazione dell’iconografia in questione: Giulio Camillo Delminio. Ripercorriamo brevemente i passaggi salienti di una vicenda complicata e affascinante a partire dalla questione che ci riguarda: come ha rivelato Lina Bolzoni, l’Albero della Fortuna del Doni è un plagio da un manoscritto perduto di Giulio Camillo (Bolzoni 1984, 57-76). Camillo dettò l’Idea del Theatro all’amico Muzio in pochi giorni, alla fine della sua vita: è solo una breve summa di quel ‘megatesto’ che, dalle notizie disponibili sui suoi scritti inediti, avrebbe dovuto essere. Del resto nel 1544, alla morte di Camillo, le sue opere giacevano in gran parte manoscritte (Stabile, 1974).

In che cosa consisteva questo libro di ‘inventioni’? Era una “costruzione di immagini (compiuta attraverso la descrizione di pitture, sculture, imprese, e la citazione di motti, iscrizioni, passi poetici) che tende a rappresentare in modo esaustivo il campo tematico di volta in volta individuato [...] una galleria ideale di tutte le invenzioni possibili, egualmente disponibili e utilizzabili per il poeta, l’oratore e l’‘inventore’ di quadri, statue, imprese, emblemi, apparati, scenografie teatrali” (Bolzoni 1978, 64-65).

Una fonte fondamentale che ha permesso di rintracciare alcuni suoi materiali perduti è un libro di Orazio Toscanella intitolato le Bellezze del Furioso, stampato a Venezia da Pietro dei Franceschi nel 1574, dove sono riportati vari brani da un testo di Giulio Camillo che risulta più ampio e articolato rispetto a quello pubblicato nell’Idea del Theatro.

Toscanella era un precettore e maestro di scuola che per arrotondare i magri compensi lavorava su commissione per gli editori veneziani scrivendo libri di grammatica italiana e latina, dizionari ecc. Legato all’Accademia della Fama di Federico Badoer, nelle Bellezze del Furioso, il commento al poema è il pretesto per sviscerare, in nota ai versi, gli argomenti più vari, intrecciando esegesi e divulgazione enciclopedica. A proposito delle possibili iconografie di Fortuna il Toscanella scrive:

Fa fede Giulio Camillo di haver veduto in mano del Re Francesco la fortuna diligentemente scolpita in questo modo. Una femina senz’occhi in cima d’un albero, la qual con una lunga pertica batteva i suoi frutti, come si fanno le noci; i quali non erano peri, ò pomi: ma libri, corone gioghi, lacci, scarselle traboccanti d’oro, e borse piene di danari, e gioie; pietre di gran valuta in anelli, e di quelle da pochi soldi. Sotto all’albero stavano all’ombra un branco di bestie, e di persone, a cui davano adosso tali frutti; e bene spesso a un villano cadeva un libro in capo; a un letterato un giogo su le spalle, à un nobile una mannaia sul collo, a un porco una ricca gioia in gola, e auna simo, Scettro Signorile. Lo stesso autore nel primo luoco del suo teatro, ò per dirlo più chiaramente nel libro delle sue nuove inventioni, diviso in dieci trattati; dove parla DELLA CAMERA DELLA FORTUNA (in maiuscolo nel testo n.d.a.) così lasciò scritto
(Orazio Toscanella, Bellezze del Furioso, Venezia 1574, Canto Ottavo, 89).

Il brano dimostra innanzitutto che Doni, nella Zucca, plagiò Camillo. Veniamo poi a sapere che anche il re di Francia, oltre a Ippolito de’ Medici, possedeva una rappresentazione dell’Albero della Fortuna. Potrebbe essere stato proprio Camillo l’inventor del tema.
Egli infatti soggiornò alla corte di Parigi varie volte nel quarto decennio; sappiamo da Giorgio Vasari che tra un viaggio in Francia e l’altro Delminio dovette commissionare a Francesco Salviati l’illustrazione di un manoscritto ‘di sue composizioni’ destinato a Francesco I:

Avendo ne’ medesimi tempi Giulio Camillo, che allora si trovava in Roma, fatto un libro di sue composizioni per mandarlo al re Francesco di Francia, lo fece tutto storiare a Francesco Salviati, che vi mise quanta più diligenza è possibile mettere in simile opera (Vasari, Vite, V).

Lo stesso Salviati, che a sua volta si recò in Francia nel 1555 al servizio del Cardinale di Lorena, si trovò a dover dipingere una Fortuna. Cercando nuovi spunti iconografici, in quell’anno chiese consiglio a Remigio Nannini, priore dei san Giovanni e Paolo a Venezia e autore molto attivo per l’editore Giolito: egli scrisse una lunga lettera elencando fra le possibili rappresentazioni di Fortuna anche quella sull’albero. Il testo è in gran parte derivato da Doni, e cioè quindi da Camillo, ma il dato interessante è che questa volta chi scrive dice aver visto il soggetto stampato su carta, riferendosi quindi sicuramente a una incisione (Nannini 1582, 119). Salviati dovette rimanere deluso perché questa ‘inventione’ probabilmente già la conosceva e magari l’aveva in prima persona illustrata nel manoscritto di Camillo per Francesco I.

Queste notizie, saldate fra loro, formano un mosaico del quale però ci manca il tassello fondamentale per la comprensione della storia. Il manoscritto, o meglio i manoscritti, di Giulio Camillo: quello illustrato da Salviati portato in Francia da Giulio Camillo; quello che lesse e copiò Doni senza citare la fonte; quello che copiò l’onesto Toscanella, che forse faceva parte della sua biblioteca veneziana, e grazie al quale conosciamo il contributo di Giulio Camillo all’iconografia dell’Albero della Fortuna.

Bibliografia
Fonti
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English abstract

The Arboro di frutti della Fortuna (Tree of Fortune) is a large and rare woodcut, probably made in Venice between 1520 and 1530. It is described in the Census of Italian Renaissance Woodcuts, a database currently being prepared by the Fondazione Giorgio Cini and briefly mentioned in this article. The author focusses on the extraordinary role played by woodcuts in Venetian artistic and publishing production, and puts forward original connections between some of these woodcuts with the world of theatre and acting. In particular, she identifies a possible literary source for the bizarre subject of the Arboro – Fortuna seated above the canopy, beneath which men are engaged in grasping the goods hanging from it, and depicted as they are transformed into animals - as the Dialogo de Fortuna by Antonio Filermo Fregoso, a book that since 1521 enjoyed several publications in Venice.

*Al progetto lavorano inoltre Maria Ludovica Piazzi (schedatura), Matteo Giro (archivio iconografico) e hanno collaborato, nell’ambito dell’attività sostitutiva di tirocinio, Andrea Meggiato e Laura Fiore dell’Università Ca’ Foscari. I musei che hanno sposato la politica di condivisione in rete di immagini in regime di Creative Commons, il British Museum in primis, hanno contribuito in modo decisivo alla realizzazione del database. In riferimento a questo articolo, desidero ringraziare in particolar modo Elisa Bastianello, David Landau e Maria Ludovica Piazzi.

keywords | Tree of Fortune, woodcut, Fondazione Giorgio Cini, Venice, Arboro, Fregoso. 

Per citare questo articolo: Silvia Urbini, Fortuna in Laguna. Xilografie, letterati, editori e attori. A proposito dell’Arboro di frutti della Fortuna, “La Rivista di Engramma” n. 162, gennaio/febbraio 2019, pp. 113-135. | PDF dell’articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2019.162.0005