"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

170 | dicembre 2019

97888948401

Un sublime e tormentoso Tardoantico

Recensione a Franco Cardini, Contro Ambrogio. Una sublime, tormentosa grandezza, Salerno Editrice, 2016

Maria Bergamo

English abstract

I sei imperatori Giuliano, Gioviano, Valente, Graziano, Valentiniano I e Teodosio approvano l’Editto di Tessalonica del 380 “Cunctos populos", con cui il cristianesimo niceno viene proclamato religione ufficiale, miniatura del XII secolo. 

Quando finalmente Baudolino con la sua improbabile armata arriva nel regno del Prete Gianni, uno dei leggendari e misteriosi Paradisi terrestri, rimane interdetto dinanzi ai suoi abitanti, usciti a pie' pari dai capitelli delle cattedrali e dalle drôlerie dei codici miniati, o forse dalle pagine del Medioevo fantastico di Baltrusaitus. Ecco gli Sciapodi da un piede solo, i Blemmi senza testa, i Panozi avvolti in grandi orecchi, i Pigmei, i Cinocefali e i Giganti: mostruosi e pacifici, sono tutti servitori del Presbyter e tutti buoni cristiani, sebbene molto in disaccordo tra loro.

“Non siete amici perché siete diversi?” chiese il Poeta. “Come dice tu diversi?” rispode lo Sciapode. “Beh, nel senso che tu sei diverso da noi e...” “Perché io diverso da voi?” “Ma Santissimo Iddio”, disse il Poeta, “tanto per cominciare hai una gamba sola, noi e il Blemma ne abbiamo due!”. “Anche voi e Blemma se alza una gamba ne ha solo una”. “Ma tu non ne hai un'altra da abbassare!”. “Perché io deve abbassare gamba che non ha? Deve tu abbassare terza gamba che non ha?” [...].
“Ma allora perché dici che non scorre buon sangue tra Blemmi e Sciapodi?”. “Loro pensa male. Loro cristiani che fa sbaglio. Loro phantasiastoi. Loro dice giusto come noi che il Figlio non è di stessa natura del Padre, perché Padre esiste da prima che esiste il tempo, mentre il Figlio è creato dal Padre, non per bisogno ma per volontà. Quindi il Figlio è figlio adottivo di Dio, no? Blemmi dice sì, Figlio non ha stessa natura del Padre, ma questo Verbo anche se solo iglio adottivo non può fare sé carne. Dunque Gesù mai diventato carne, quello che apostoli ha visto era solo phantasma. [...] Ma se Figlio non è carne, come dice questo pane è mia carne? Infatti loro non fa comunione con pane e burq”. “E i Panozi?” “Oh, a loro non importa quello che fa Figlio quando scende su terra. Loro pensa solo a Spirito Santo. Ascolta: loro dice che cristiani a occidente pensa che Spirito Santo discende da padre e da Figlio. Loro protesta e dice che questo da Figlio è stato messo dopo e procede solo sa Padre. Essi pensa contrario di Pigmei. Pigmei dice che Spirito Santo procede solo da Figlio e non da Padre. Panozi odia prima di tutto i Pigmei” (U. Eco, Baudolino, 378). 

Le dispute dei Padri conciliari del IV secolo vengono ironicamente – e magistralmente – inserite da Umberto Eco nel suo rocambolesco romanzo di ventura come paradigma dell’assurdità della visione medievale del mondo agli occhi di noi uomini postmoderni. E se in Baudolino furti, invenzioni di reliquie, credenze e leggende, simboli e storia, uniti in un indissolubile intreccio descrivono il XII secolo delle crociate, così le sottili e per noi astruse diatribe tra monofisiti e difisiti, niceni e ariani, eretici e ortodossi che scuotono l'intera epoca Tardoantica fanno da sfondo a drammatici rivolgimenti politici. 

Lo stesso straniamento prende il lettore che apre le pagine di Contro Ambrogio. Una sublime tormentosa grandezza, edito nel 2016 nella collana diretta da Alessandro Barbero per Salerno Editrice. Franco Cardini entra nel vivo della materia in modo preciso e laico, da storico esperto, liberando la figura del vescovo milanese dalle infiorettature agiografiche o dalle facili retoriche di parte, e conducendo il lettore nella complessità delle vicende: dalla rimozione dell’Ara della Vittoria dal senato romano (376) all'editto “Cunctos populos” (380), dalla lotta contro l'arianesimo (386), fino alle stragi della sinagoga di Callinicum (388) e Tessalonica (390) e alla sottomissione di Teodosio (391), l'immagine di Ambrogio si staglia in tutta la sua grandezza sullo sfondo di un tormentoso contesto storico.

E come, in tutta la sua assurdità, l'episodio del romanzo Baudolino svelava il ridicolo celato nella pretesa di tolleranza e uniformità tra popoli e religioni, ideale che nemmeno nel più fantastico Utopos - il paese del Prete Gianni - è possibile realizzare, così Cardini riprende un tematica a lui molto cara e già indagata, quella del dialogo storico tra religioni, tra integralismi, inclusioni, intolleranze e relativismi. "Contro" Ambrogio infatti è il titolo con cui si valuta convenzionalmente l'operato dell'autoritario vescovo, che ha indefessamente combattuto ogni forma di alterità religiosa rispetto al cristianesimo niceno, perseguitando cristiani ariani, gentili e ebrei, e che ha imposto la supremazia del potere spirituale sul temporale, ottenendo di sottomettere l'imperatore all’obbedienza alla chiesa. Ma l'apparente caos del IV secolo è la culla della nostra civiltà, e le tensioni in esso racchiuse possono porre domande al presente, come si dice nell'epilogo al libro. In un momento storico - il nostro - in cui da un lato si dibatte sul ripieno halal dei tortellini alle mense mentre si resta impotenti davanti alle stragi in Kurdistan emerge “l'obiettiva attualità delle scelte di Ambrogio, e la legittimità di tornare a interrogarlo in merito a esse". 

Durante il periodo dell'episcopato di Aurelio Ambrogio, acclamato vescovo coram populo nel 374, quando era ancora catecumeno e rimasto sulla cattedra milanese fino alla morte nel 397, si succedono diversi imperatori e augusti, Graziano, Valente, Valentiniano II e Giustina, passando per Massimo, Stilicone e Alarico fino a Teodosio, Onorio e Arcadio: con ognuno di loro Ambrogio stabilisce un rapporto particolare, mirato però sempre a sostenere la fede nicena e a regolare la relazione tra il potere civile e quello religioso. Questa ferrea volontà non va tuttavia valutata in modo miope come smania di potere o proto-forma di cesaropapismo, e il libro di Cardini aiuta a contestualizzare l’azione del protagonista. Innanzitutto va valutata l'origine romana di Ambrogio, nato a Treviri ma trasferitosi presto a Roma, dove la gens materna, quella degli Aurelii, godeva di altissima posizione e grandi amicizie:

Arrivato giovanissimo in quello che - anche se da un quarto di secolo esisteva già una nova Roma ad Oriente, sul Bosforo - restava pur sempre l'antico e venerabile caput mundi, Ambrogio dovette vivere immerso in un clima culturale collegato con l'antica fierezza senatoria e con il culto dei prischi costumi, ispirati a memoria del passato, a sobrietà, a rispetto per la legge e per il bene comune, a diffidenza per le forme autocratiche assunte dal potere imperiale e di avita, sostanziale tiepidezza se non addirittura antipatia per il modello culturale greco e per quella che noi moderni amiamo chiamare la ‘cultura ellenistica’. Insomma, un'etica ‘catoniana’, ispirata sia pure implicitamente e indirettamente tanto al Censore quanto all'Uticense, e che, peraltro, non ostava affatto a una preparazione letteraria filosofica ed erudita ch’era quella ispirata alla Roma dell'aurea proles. La sua formazione intellettuale, dunque, era improntata a quel che modernamente si è volutamente definire ‘umanesimo cristiano’ (p. 22).

Si potrebbe dire, pertanto, che, sul piano stilistico ma per molto versi anche morale, il giovane Ambrogio si ricollegasse direttamente alla aurea aetas della letteratura e della cultura romana, e ne accettasse, assorbendola e facendola propria, la Weltanschauung virgiliana e ciceroniana, quindi profondamente quiritaria, che, sotto un certo profilo, si potrebbe definire pompeiano-augustea. È opportuno sottolineare come questa mentalità, questo gusto, questa estetica tanto profondamente gentiles, fossero ormai stati metabolizzati – sia pur non senza qualche manifestazione di disagio – dalle élites cristiane del IV secolo, avviandosi a costruire una nuova sintesi ritenuta in tutto compatibile con l'insegnamento evangelico: la lingua latina, d’altro canto, era al riguardo appunto l’elemento sintetizzatore per eccellenza (pp. 23-24).

Questa educazione sembrerebbe entrare in conflitto con l’aperta ostilità di Amborgio verso i culti tradizionali della gentilitas latina come espressione della religio publica dell'impero, resa nota dalla famosa disputa con Simmaco per la rimozione dell’Ara della Vittoria dal Senato romano del 384. La deposizione dell’altare da parte dell'imperatore Graziano (già attuata da Costanzo nel 357) ha un fortissimo valore simbolico, e la pacata richiesta di tolleranza avanzata dal senatore Simmaco cozza violentemente contro il rigido muro integralista del vescovo milanese. Ma il racconto di Cardini apre ad alcune interessanti osservazioni. La posta in gioco è davvero molto alta, e supera di molto le mura della decadente Roma: l'editto di Tessalonica del 380 coinvolge l'intero e nascente impero romano cristiano, dalla Britannia all'Egitto, dalla Spagna al Ponto. Se in Occidente si combatte per la riduzione del forte partito partito filoariano e ci si interroga sulla conversione dei popoli barbari, in Oriente si distruggono templi e si arriva al sangue, e i martiri cristiani sono trasformati in persecutori (per la bibliografia si rimanda alle ampie e esaustive note del saggio di Cardini).

L’episodio dell’Altare della vittoria è inoltre la conseguenza di un altro, fondamentale atto (da alcuni fissato al 379, da altri al 383): la rinuncia dell'imperatore alla carica di pontifex maximum, cioè di capo di tutti i gruppi e i collegi religiosi di qualunque tipo attivi nell’impero, e la deposizione delle relative insegne. L’imperatore, quindi non è più super ecclesiam, giudice delle diatribe religiose e diretto e unico garante della relazione con il divino potere, di cui è espressione temporale:

Il sovrano [Teodosio] era abituato al fasto e alle tradizioni cerimoniali della Chiesa e della società orientali, dove il potere era considerato alla luce della regalità sacra d'ascendenza egizio-persiano-alessandrina, sul modello del dominus ac deus di severiana memoria. Il vescovo si sentiva invece come erede della tradizione quiritaria e senatoria della sua gens Aurelia, d’una concezione civica e aristocratica del rapporto con gli Augusti, quella che in loro vedeva essenzialmente dei magistrati della res publica responsabile del rapporto tra gli ottimati, il popolo e l'esercito. E, dal momento che, con l'editto di Tessalonica, la res publica s'identificava con la societas christiana, quindi, con la Chiesa del Cristo, l'imperatore stava in essa come suo membro, non al di sopra di essa. Questo principio era espresso in una formula limpida e lapidaria, destinata a divenire proverbiale: Imperator intra Ecclesiam, non supra Ecclesiam (p. 74).

Si potrebbe dire che la religio publica era completamente trasformata, eppure, paradossalmente, allo stesso tempo, preservata. È la società intera, dal suo capo all’ultimo dei suoi membri, che si trova ad assumere il compito di rispecchiare l’ordine celeste. Ma Ambrogio va oltre, non si ferma al mero controllo sulla vita morale e alle scelte comportamentali da imporre all’imperatore, ma entra pesantemente nel campo politico e decisionale, fino a contrastare l’autorità imperiale in materia di modifica o fondazione delle leggi:

Veniva toccato il principio della capacità giuridica e quindi della volontà sovrana dell'Augusto quale fons iuris, che conditur legum, era ovviamente superiore a esse e non soggetto a loro, legibus solutus: nell’impero cristiano che stava allora movendo i suoi primi passi equivaleva a negare il ruolo del sovrano quale figura del Cristo sulla terra. Se Dio, in quanto Creatore, aveva sul cosmo e sulla natura una potentia absoluta che non lo legava – salvo la Sua volontà – alle leggi da lui stabilite all'atto della Creazione, per analogia l’imperatore non poteva trovar eche in se stesso e nel suo volere i limiti alla sua volontà e capacità di governare. Ma il vescovo di Milano riteneva di potersi mettere di traverso tra l’imperatore e le sue decisioni, condizionandole in modo da ridurne la libertà (p. 75).

Il culmine di questa diatriba si ha con l’umiliazione di Teodosio che, in seguito alla ‘strage di stato’ avvenuta nel circo di Tessalonica, fu costretto ad accettare una dura e pubblica penitenza: lo spoglio delle insegne imperiali durante tutto l’Avvento dell’anno 391; poi, nella notte di Natale, avrebbe ricevuto di nuovo solennemente i sacramenti. L’episodio, nel reale svolgimento dei fatti e nel suo successivo sviluppo e significato ultimo, è stato ampiamente studiato e a lungo discusso, ma resta “lo scalpore uscitato in tutta l’ecumene romana: era la prima volta che l'Augusto, da principe aureolato di autorità sacrale qual era sempre stato, da vicario del Cristo in terra, era sceso al livello di un semplice fedele, pronto per umiliarsi e ricevere il perdono”. Nelle parole di saluto solenne a Teodosio, il De obitu Theodosii del 395si percepisce la consapevolezza di Ambrogio nel tracciare “il canone interpretativo fondante della concezione romana e cristiana delle potestà e della funzione imperiali in quella res publica Christianorum che egli aveva energicamente, diuturnamente lavorato affinché coincidesse con la Chiesa” (p. 94). Nella cornice interpretativa che il saggio di Cardini propone, le discussioni che sarebbero poi scaturite su questo argomento – dal De civitate Dei di Agostino fin oltre l'ancien régime – si possono analizzare da un altro, importante, punto di vista. 

Estremamente significativa dunque diviene la reliquia più importante che da quel periodo, e lungo tutto il Medioevo, ha rappresentato il legame tra potere divino e temporale, tra chiesa e stato: la corona ferrea. I chiodi della Vera Croce del Cristo, fusi secondo la leggenda da Sant’Elena nell'elmo di Costantino, sono riconosciuti da Ambrogio nel diadema che diventa la corona-simbolo degli imperatori romani cristiani. Investito di un onore che comunque implica il massimo sacrificio – corona de cruce come giogo dell'umiliazione e della mortalità – l’imperatore si pone da un lato in un’esplicita imitatio Christi, dall'altro, secondo la concezione ambrosiana, indossa l’insegna imperiale a cui prestare la proskynesis: sarà la corona di tutti i legittimi successori di Costantino e quindi dell'impero cristiano stesso.

E non è un caso, sottolinea Franco Cardini, che da allora in poi non sia più il diagramma costantiniano del Chrismon a campeggiare su tutte le fonti iconiche come mosaici e sarcofagi, bensì propriamente la croce: riscattato dal suo primitivo significato di tortura, abiezione e morte, diviene, gemmato e incoronato di lauro, oggetto non solo di venerazione ma addirittura, al pari del Cristo stesso, di adorazione. La rivoluzione cristiana, ambrosiana, era compiuta.

La vicenda di cui Ambrogio è protagonista, grazie alla lettura preziosa che Franco Cardini ci offre, apre interrogativi non solo sul passato ma sulla nostra attualità: davanti a slogan facili e media inquinati, la lezione dello storico aiuta a comprendere che è nella complessità che si trova la ricchezza, e che la soluzione non è mai unica né data a priori.

Corona ferrea o reliquia della Santa Croce, IV-XVIII secolo, Monza, Museo del Duomo.
English abstract

An interesting point of view on the complex Late Antiquity period in Milan under the bishop Ambrosius. The historian Franco Cardini enters with great clarity into the problems of the end of the Roman Empire, the spread of Christianity, the struggles between heresies and orthodoxy and the role between temporal and spiritual power.

key words | Ambrosius, Late antiquity, Theodosius

Per citare questo articolo: Un sublime e tormentoso Tardoantico. Recensione a Franco Cardini, Contro Ambrogio. Una sublime, tormentosa grandezza, Salerno Editrice, 2016, a cura di M. Bergamo, “La Rivista di Engramma” n. 170, dicembre 2019, pp. 123-130 | PDF dell’articolo 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2019.170.0005