"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

Quando le immagini ci guardano

Laudatio di Marco Bellocchio, in occasione della Laurea Magistrale ad honorem conferitagli dall’Università IULM il 9.12.2019

Gianni Canova

English abstract

Le immagini vedono con gli occhi che le vedono
(José Saramago, Cecità)

1 | Vincere, regia di Marco Bellocchio, 2009.

“Guardami! Guardami!”. Le prime parole che risuonano all’inizio di Bella addormentata (2012) sono a tutti gli effetti un’interpellazione. Maria (Alba Rohrwacher) sta guardando un monitor su cui vede (e noi vediamo con lei...) un giovane esagitato che guarda in macchina rivolgendo a un’assente (Eluana Englaro) un perentorio invito a guardarlo. In realtà, il giovane guarda Maria e guarda negli occhi noi spettatori: è un’immagine che ci chiede di essere guardata. Mai, in precedenza, Marco Bellocchio era stato così esplicito, così inequivocabile: un’immagine, dentro il suo film, chiama in tono imperativo la nostra attenzione. Ci intima di guardare. Di ‘guardarla’. Ci guarda e vuol essere guardata. Come se rivendicasse la propria centralità. La propria consapevolezza di essere protagonista.

Le immagini sono sempre protagoniste nel cinema di Marco Bellocchio. Lo sono fin dai tempi dei suoi esordi, alla metà degli anni Sessanta, ma lo sono ancora di più negli ultimi 20 anni, da un capolavoro come L’ora di religione (2002) in poi. Ed è su questo intervallo temporale che vorrei concentrare la mia riflessione, nella convinzione che Marco Bellocchio abbia, fra i tanti suoi meriti, anche quello di aver saputo esser presente al proprio tempo, e di aver saputo mordere il nostro tempo col suo sguardo, per più di mezzo secolo, e di aver raggiunto tra i 60 e gli 80 anni una maturità, una lucidità e una pienezza artistica e professionale che sono solo dei Maestri. Dei grandi Maestri. Come è stato detto: Bellocchio non fa semplicemente film, ma, facendo film, si chiede e ci chiede ogni volta che senso abbia farli.

Dove ce l’abbiamo, il cinema?

Torniamo allora alla centralità delle immagini, e partiamo proprio da Bella addormentata. Tutti i personaggi del film, non solo quello interpretato da Alba Rohrwacher, entrano in scena guardando uno schermo. Per prima cosa li vediamo guardare. Ci si mostrano nell’atto di guardare. Il senatore Uliano Beffardi (Toni Servillo) appare per la prima volta nel film mentre è intento a guardare la Tv. Anche il personaggio della Divina Madre interpretata da Isabelle Huppert entra in scena osservando in televisione una suora che dice che è assurdo intervenire clinicamente per togliere la vita a una persona. E mentre lei – ex-attrice che ha rinunciato al mestiere per assistere la figlia in coma da anni – guarda queste immagini, in un altro luogo suo figlio, che vorrebbe fare l’attore, guarda su un monitor le immagini di un vecchio film interpretato proprio da sua madre quando era giovane. In esterno notte vediamo con lui una giovane donna (la Huppert, allora ventiseienne) che cammina in un mattatoio. Nell’aria si sentono i muggiti e i versi delle bestie. Poi si sente un colpo secco e si vede un bue che si accascia al suolo. La macchina da presa stringe sul volto della donna: è pallida, emaciata, guarda per terra. Dal corpo del bovino scannato sgorga un fiotto ininterrotto di sangue rosso. Lo vediamo in semisoggettiva, quasi con gli occhi di lei. Poi dal fuoricampo due mani porgono alla donna un recipiente. Lei lo afferra, lo accosta alle labbra e beve avidamente il liquido contenuto. Probabilmente – siamo autorizzati a pensare – sta bevendo sangue. È una delle sequenze più famose del film di Mauro Bolognini La storia vera della Signora delle camelie (1981): Bellocchio include questa sequenza nel suo film non solo per spingere fino all’estremo – come è stato giustamente scritto – il “cortocircuito intensissimo di finzione e realtà”, ma anche per segnare in modo assoluto l’identificazione fra attrice e personaggio.

La Huppert, che nel film di Bolognini era la “Divina Maria”, regina venerata di tutte le prostitute parigine, diventa nel film di Bellocchio la Divina Madre, aspirante santa e ex-attrice che rinnega il proprio passato. E il figlio della Divina Madre – che vuol fare a sua volta l’attore, e che intonerà per la madre la lauda di Jacopone da Todi Donna de Paradiso – mentre guarda il film di Bolognini, non sa bene – come non lo sappiamo noi – se sta guardando ciò che sua madre non è più, e non vuole più essere (un’attrice) o ciò che non ha mai smesso di essere (una vampira che vive succhiando il sangue e la vita degli altri, compresa la vita della figlia in coma...).

Le immagini ci guardano. Non siamo solo noi a guardarle. Sono loro che ci chiedono di essere guardate. Come ha acutamente sostenuto Mitchell (Mitchell 2018), vogliono qualcosa da noi, ci pongono delle richieste. Ma dove sono le immagini? da dove vengono? dove ce l’abbiamo, il cinema?

Bellocchio se lo chiede ininterrottamente, in ogni film. Ce l’abbiamo ‘dentro’, conficcato nel nostro inconscio? O siamo noi ad essere dentro il cinema, che ci sta sopra, sotto, attorno, accanto? Dov’è allocato il cinema nell’era in cui si svincola dallo schermo e si infiltra pervasivamente negli interstizi della vita? Da qualche anno a questa parte, ogni nuovo film di Marco Bellocchio pone, in maniera al contempo radicale e commovente, questa domanda. Che è insieme impossibile e imprescindibile. Perché il cinema, negli ultimi film di Bellocchio, è di volta in volta il fantasma che galleggia nell’immaginazione o nella memoria inconscia della giovane brigatista protagonista di Buongiorno, notte (2003) o la traccia mnestica che riemerge ossessiva nel processo creativo e comparativo di un regista in crisi (I promessi sposi di Mario Camerini, le cui immagini affiorano enigmatiche e interrogative nella mente del metteur en scène protagonista di Il regista di matrimoni, 2006). Ma il cinema è anche la visione che campeggia sul lenzuolo appeso al soffitto nell’ospedale militare in cui viene ricoverato il giovane Mussolini nella prima parte di Vincere (2009). Lì, sopra i corpi dei malati e dei feriti che soffrono, il cinema materializza altri tre corpi: quelli della Crocifissione messa in scena da Giulio Antamoro in Christus (1916), con echi iconografici che vengono dalla storia della grande pittura italiana. In Vincere il cinema che affiora nel film non viene più da ‘dentro’ l’inconscio dei personaggi, ma li sovrasta. Li domina. Sta su, sopra di loro. Pende dall’alto, come se Bellocchio avesse messo lo schermo sul Golgota, o nell’abside di una chiesa sconsacrata: quasi un tableau vivant al posto dei vecchi affreschi, a portare la cognizione del dolore (o la redenzione ‘dal’ dolore) nel luogo istituzionalmente delegato alla manutenzione dei corpi, e alle pratiche di cura e di ‘rimozione’ del dolore.

2 | Vincere, regia di Marco Bellocchio, 2009.

Pochi altri cineasti sarebbero capaci oggi, soprattutto in Italia, di ‘immaginare un’immagine’ così: così potente, così densa, così carica sul piano semiotico ma allo stesso tempo così intensa sul piano emozionale. Perché Bellocchio non pratica l’intertestualità nella forma postmoderna o tarantiniana del citazionismo, ma la sente come necessità ermeneutica e gnoseologica. Come se fare cinema oggi significasse prima di tutto non stancarsi di continuare a chiedersi dove sta, e cosa fa, il cinema che ci entra dentro e che ci esce fuori, e che ci sta sopra e ci attraversa, e che ci invita e ci accoglie in sé.

Lo sguardo dello sciame

Ma che cos’è il cinema? Dove si colloca? Come lo si produce?

La domanda è esplicita, forse in modo persino sfacciato, in quel grande metafilm, quasi una summa cinefila delle riflessioni bellocchiane, che è Il regista di matrimoni. L’incipit del film è emblematico: decine di videocamere cercano di riprendere a distanza ravvicinata il volto della sposa, figlia del protagonista, nella cerimonia nuziale che apre il film. Sono come uno sciame. Ronzano, si spostano e svolazzano. Sono sguardi ciechi: casuali, un po’ gratuiti, non necessari. Sguardi convinti che basti schiacciare il pulsante play/rec. della videocamera digitale per trasformare la vita in cinema e per conservare la traccia o l’impronta del vissuto. Franco Elica, padre della sposa, regista affermato, non la pensa così. Prova anche lui – spinto da un’ammiratrice – a impugnare una videocamera digitale e ad avvicinarsi alla figlia: ma sente subito che quello sguardo è – appunto – cieco, che non va oltre il velo che copre il viso della sposa, che non rivela nulla, e si illude soltanto di documentare. Non si filmano così, i matrimoni. Non si filma così la vita. Franco Elica (Sergio Castellitto) sta lavorando all’ennesima edizione filmica di I Promessi sposi. Cioè – a sua volta – alla messinscena di un altro matrimonio voluto e ostacolato. Nella sua testa affiorano di tanto in tanto le immagini del film che dal romanzo manzoniano trasse Mario Camerini nel 1941: una versione imprescindibile, intrisa di un cattolicesimo austero ma a tratti perfino punitivo, in un bianco e nero talmente contrastato da fare dell’Innominato un personaggio quasi espressionista. Non registrava la vita, quel film. La trasfigurava. Ma oggi sembra che tutti siano ossessionati solo dall’idea di registrare e documentare. Lui invece si ostina ad andare in un’altra direzione: durante il casting del film, prova con un’attrice il monologo di Lucia di fronte all’Innominato (“Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia…”), e quasi si commuove per come quella finzione assoluta si avvicini alla verità di un certo modo di sentire la vita. Ma il progetto del film manzoniano non ingrana: non si trovano gli attori, un’aspirante attrice minaccia di denunciare Elica per il modo in cui tratta le donne e a un certo punto nella sede della società di produzione arrivano perfino i carabinieri per un’ispezione. Tanto basta perché Elica decida – nomen omen – di prendere il volo e di sparire. Lo ritroviamo solo e silente su una spiaggia siciliana, sospeso in un’atmosfera che sta tra la fiaba e il mito, mentre osserva in lontananza un regista dilettante che sta facendo il filmino matrimoniale a una coppia che si sta per sposare (o che si è appena sposata).

Ancora matrimoni, ancora cinema e nozze, ancora ‘promessi sposi’. Che non sia altro che questo, la vita? Che non abbia altro da filmare, il cinema? Sulla spiaggia il regista dilettante riconosce il Maestro, gli si avvicina, gli rende omaggio e gli chiede consiglio su come girare quella scena del suo film matrimoniale. Elica è riluttante, si schernisce, ma poi il demone dell’inquadratura ha la meglio e lo spinge a proporre una sua visione: collocare la videocamera per terra, sulla sabbia, e poi far correre i due sposi, la madre di lei e lo stesso regista dilettante avanti e indietro davanti all’obiettivo, più e più volte, dal campo al fuoricampo e viceversa, come in una sorta di inseguimento ironico e giocoso. Poi lasciare solo gli sposi in scena, e chiedere alla donna di abbracciare il proprio sposo, chiederle di spogliarsi, e di entrare in intimità con il suo uomo. Poi dirle di alzarsi, di avvicinarsi al mare e di sparire. Il regista dilettante è alquanto sconcertato: così – pensa – non c’è più realtà, non c’è verità, c’è solo finzione e messinscena. E tuttavia accetta il consiglio, e lo mette in atto. Ne esce un ‘filmino’ potente e visionario, che colpisce l’immaginazione di un solitario Principe siciliano (Sami Frey), aristocratico in rovina, che chiede a Elica di filmare le imminenti nozze di sua figlia con un giovane notaio palermitano, rampollo di una famiglia sufficientemente ricca da potersi permettere di salvare anche lo stesso Principe e i suoi beni dal rischio della bancarotta. Altri ‘promessi sposi’, insomma: un altro film da fare su nozze che stanno per essere celebrate. Elica non è convinto, prende tempo e si perde per una Sicilia misteriosa e quasi magica, fatta di ville patrizie fatiscenti, di giardini gonfi di cactus e di fichi d’India, di dimore nobiliari segnate da un progressivo e inarrestabile degrado. Le atmosfere rarefatte e come sospese ricordano un po’ quelle di Antonioni in L’avventura (1960): anche qui il protagonista si perde in un suo personale viaggio in Sicilia, alla ricerca di una donna scomparsa (la figlia? La sposa che ha simulato di sparire in mare? La principessa triste che si sta per sposare controvoglia con il notaruncolo palermitano?), ma in fondo alla ricerca di se stesso, e del senso del proprio lavoro. Mentre il racconto va avanti, Bellocchio moltiplica i punti di vista e i supporti su cui si imprimono le immagini del film e quelle del/dei film nel film. Alla pellicola che segue il racconto a focalizzazione esterna, Bellocchio alterna le riprese in digitale del regista dilettante, le immagini riprese dalle telecamere di controllo a circuito chiuso poste sui muri di cinta e nei saloni delle ville e dei palazzi patrizi, perfino le soggettive senza soggetto riprese dalla nanocamera nascosta nel bavero della giacca del protagonista.

Troppe immagini, ancora una volta? Forse sì: deflagrazione di punti di vista, ancora sciame di visioni. Non necessarie, spesso gratuite. Di nuovo: non basta guardare e registrare, per trasformare il mondo in cinema. “Il cinema è montaggio”, proclama un po’ godardianamente il Principe Gravina. E per dimostrarlo porge a Elica la videocassetta con la ripresa delle nozze della coppia che avevamo già visto sulla spiaggia. “Ho aggiunto alla scena dell’ingresso in chiesa degli sposi – dichiara il Principe - la musica composta da Eric Satie per Entr’acte di René Clair”. L’effetto è spiazzante e dissacrante: con quella musica, il corteo nuziale perde ogni solennità e festosità, e si trasforma in pantomima funerea, ridicola e grottesca. E tuttavia questo è il cinema: non lo sciame di sguardi, ma un punto di vista sul mondo. Elica lo sa, ma sa anche quanto sia difficile e doloroso assumersi la responsabilità di questo punto di vista. Soprattutto sa che la verità può essere raggiunta con l’immaginazione, non con il resoconto cronachistico dell’accaduto. Anche perché il cinema fa accadere le cose, non si limita mai a prenderne atto. E allora Elica comincia a pensare di mettere in scena il matrimonio della principessa triste che il Principe gli aveva chiesto di filmare.

Non una messinscena ‘viscontiana’ e sfarzosa, nello stile de Il Gattopardo (1963), come gli viene richiesto dalla madre del promesso sposo. Piuttosto una messinscena ‘antonioniana’, un’avventura dello sguardo che diventi percezione della vita, dei sentimenti e dell’amore. Conversando con il collega Smamma (un anziano regista che – convinto che in Italia comandino i morti – ha messo in scena la propria morte mediatica), Elica si è persuaso che è necessario fingere, alterare, prefigurare. Che a volte è necessario perfino simulare la realtà per interrogarla meglio, invece di porsi di fronte ad essa in un atteggiamento ancillare e servile. Così, un po’ invaghito della Principessa triste che – a differenza di Lucia Mondella, che voleva sposarsi ma non poteva – non vuole sposarsi ma è costretta a farlo, comincia a immaginare per lei esiti alternativi a quelli già stabiliti nel copione scritto dal padre e dalla famiglia. Così in una scena vediamo ad esempio il Principe Padre che spara allo sposo subito dopo che il sacerdote ha pronunciato la formula del sacramento matrimoniale, in un’altra scena vediamo invece la sposa silenziosa all’altare, riluttante a pronunciare il fatidico “sì”. È successo davvero quello che vediamo, o è Elica che sta solo immaginando che sia successo? Poco importa: Bellocchio celebra il potere dell’immaginazione come antidoto salutare rispetto alla tragica mediocrità del reale.

L’immaginazione intermediale

Nell’epoca in cui il found footage sembra diventare l’ultima frontiera possibile di un cinema che non sa più cosa mostrare se non rivisitare ininterrottamente se stesso, il proprio repertorio e la propria memoria, Bellocchio ci offre invece – con i suoi ultimi film – un’idea di cinema inteso come forma specifica di “immaginazione intermediale”: come sostiene Pietro Montani nell’imprescindibile saggio che porta questo titolo, il cinema dell’ultimo Bellocchio mostra cioè – in modo emblematico e paradigmatico – come il cinema stesso possa essere il dispositivo che attua l’indispensabile riorganizzazione dell’archivio mediale, rendendolo disponibile alla configurazione di un’esperienza effettiva. È grazie al ‘repertorio’ filmico finzionale inserito nei suoi ultimi film, in altre parole, che Bellocchio rende il cinema (il ‘suo’ cinema, i ‘suoi’ film) capace di intervenire sul “carattere confusivo di molte immagini mediali” procedendo innanzitutto a “disimpastare il con-fuso” e “sottoponendone le parti a una verifica di realtà” (Montani 2010, XI). Pieni all’inverosimile di schermi televisivi sempre accesi su cui scorrono le immagini della cronaca, i film di Bellocchio provvedono a autenticare la cronaca (e a trasformarla in Storia) grazie al ricorso al repertorio filmico finzionale.

Così, ad esempio, in Fai bei sogni (2016), la scena della morte della madre del protagonista che Bellocchio sceglie di relegare nel non visibile, di lasciare volutamente nel fuoricampo, viene evocata proletticamente, anticipata e in qualche modo visualizzata proprio grazie alle immagini di repertorio che Bellocchio ha incistato nel film: bisogna allora guardare (e Fai bei sogni questo ce lo fa vedere…) cosa fa la protagonista di Cat People (1942) di Jacques Tourneur e soprattutto cosa fa Juliette Greco nel finale di Belfagor, il fantasma del Louvre (1965) (la serie-culto che il protagonista guardava con la madre in Tv) per trovare la ‘chiave’, e per cercare di capire cosa è successo davvero quella notte, e cosa si è spezzato nel cuore di una madre in un grigio appartamento borghese della Torino degli anni Sessanta. Ancora più radicale e magistrale l’operazione compiuta in Buongiorno, notte: le immagini di film preesistenti che irrompono nel film, spesso senza motivazioni diegetiche specifiche (sono spezzoni cinematografici provenienti dagli archivi, ma anche immagini di film come i Tre canti su Lenin di Dziga Vertov o Paisà di Roberto Rossellini) non sono espressione di un regime allucinatorio e visionario riconducibile al personaggio di Chiara, la brigatista che si dissocerebbe dalle scelte omicide dei compagni, bensì il risultato di un attraversamento del trauma dell’omicidio di Moro che – come ha dimostrato Montani nella sua inappuntabile lettura - consente al film di Bellocchio di costruirsi all’incrocio tra racconto storico e racconto di finzione, insediandosi “sul piano della massima visionarietà e, insieme, della massima forza testimoniale” (Montani 2006, 92). Come se solo la forza del cinema di finzione riuscisse a inverare e autenticare la cronaca, come se solo le immagini ‘finte’ rendessero davvero leggibili le immagini ‘vere’ recuperate dall’archivio inerte della cronaca.

Il tempo non basta mai

Ma non è solo all’archivio filmico e visivo che attinge Bellocchio. Spesso attinge anche all’archivio sonoro. Prendiamo ad esempio un film denso enigmatico sfuggente e bellissimo come Sangue del mio sangue (2015), un rompicapo in quel grande labirintico irresistibile rompicapo che è il cinema di Bellocchio. A Bobbio vive una colonia di vampiri. Nel Seicento hanno assistito e collaborato al processo contro una monaca accusata di aver stretto un patto con Satana, oggi sopravvivono stancamente sotto maschere consunte, afflitti dal mal di denti e dal lento esaurimento del loro slancio vitale. Due i leader della comunità: il conte Basta e il cavalier Mai. Basta è un vampiro stanziale, Mai è un vampiro nomade e ramingo. Uno sta fermo, l’altro non si ferma ‘mai’ (appunto!). Uno resta lì, l‘altro ritorna. Uno è l’incarnazione di un tempo che cerca un arresto, l’altro di un tempo che non cessa di fluire. Ma tutti e due sono attesi dalla stessa fine: l’incontro con l’apparizione folgorante della bellezza femminile. È il femminile che spezza e scardina le figure maschili del tempo. Mai diventa Basta. Basta fa la fine di Mai. Di fronte al desiderio, il tempo non basta mai. Non ne ha mai ‘abbastanza’. Perché è il tempo il vero protagonista del film: sospeso com’è fra l’eterno ritorno del cavaliere Federico Mai (Mai: il tempo che non può cessare di scorrere, che non ha fine) e la stanca presenza del conte Basta (Basta: l’interruzione brusca, la frattura agognata, la promessa di una fine), Sangue del mio sangue è un’irridente elegia di morti viventi. Una danza macabra di sopravvissuti. Un carnevale di immortali mascherati. Che si danno appuntamento a Bobbio, perché “Bobbio è il mondo”. Che maschera ha oggi l’Inquisitore del ‘600 che voleva murare viva una donna solo perché colpevole di aver amato? È forse il cieco che brancola tra le vie del borgo, uno dei ciechi che ci vedono perfettamente, dei sordi che ci sentono perfettamente, dei morti dati per vivi e dei vivi dati per morti che popolano il villaggio, secondo la rivelazione del fool interpretato da Filippo Timi?

Per Marco Bellocchio Sangue del mio sangue è il film dell’eterno ritorno: ritorno ai luoghi e ai fantasmi di I pugni in tasca (1965), ritorno ai nomi già usati (Sorelle Mai, 2010), ritorno a storie e ferite e ossessioni personali già narrate e messe in scena (Gli occhi, la bocca, 1982, sul suicidio del suo gemello). Ma qui, per la prima volta da L’ora di religione, Bellocchio non usa il repertorio filmico. Ed è strano, se si pensa al fatto che tra tutti i suoi film questo è davvero uno di quelli più ossessionati dal tema del vedere. Vedere da vicino, vedere da lontano, vedere dal buco di una serratura, vedere quasi nel buio, vedere dal piccolo rettangolo lasciato nel muro dietro cui una donna viene sepolta viva. Quasi sempre nel film c’è qualcuno che spia qualcun altro. Qualcuno che osserva, che scruta, che guarda. C’era da aspettarsi, con una così forte tematizzazione del guardare, che Bellocchio enfatizzasse anche quell’uso dell’archivio che è diventato quasi una costante del suo cinema. Invece no. Per la prima volta, dopo tanti anni, non ci sono citazioni filmiche, non ci sono immagini prese da altri film e incastonate dentro la narrazione. In compenso, un po’ a sorpresa, c’è un uso molto forte e intenso di repertorio sonoro. C’è un brano dei Metallica ripetuto due volte, e c’è l’impiego di brani della tradizione popolare come Tapum, Torna a Sorrento e Il ponte di Perati (che a sua volta, peraltro, evoca spettri e fantasmi: “Un coro di fantasmi/vien zo dai monti/l’è il coro de li alpini/che son morti”). Ancora una volta è l’archivio a riarticolare il senso.

Tra sepolti vivi e fantasmi insepolti, Sangue del mio sangue alla fine svela come la clausura sia l’ossessione centrale di tutto il cinema dell’ultimo Bellocchio. Benedetta viene rinchiusa dietro un muro e costretta a vivere in cattività proprio come il personaggio di Aldo Moro nella cella delle BR in Buongiorno, notte, come Ida Dalser nella clinica psichiatrica in Vincere, come Eluana Englaro nel suo letto d’ospedale in Bella addormentata, come Tommaso Buscetta nell’aula bunker del tribunale di Palermo in Il traditore (2019). Questa volta però, a differenza delle altre volte, la prigioniera riesce ad uscire, si libera dalle sue catene e torna a vivere e a incedere nel mondo. Come solo Aldo Moro faceva, nell’immaginazione di Chiara, nel finale di Buongiorno, notte. Dalla clausura, insomma, si può anche uscire, ci dice Marco Bellocchio con il suo cinema: e mentre ce ne rendiamo conto, dobbiamo anche riconoscere che è un cinema, il suo, che davvero non ci basta mai.

I corpi, gli sguardi, le immagini

Ma torniamo, per concludere, alle immagini e allo sguardo. In una scena di Il traditore Bellocchio mette in bocca a uno degli imputati del Maxiprocesso di Palermo questa frase: “Lo sguardo è l’espressione della realtà”. È una frase di Michel Butor, romanziere e teorico del nouveau roman. Che ci fa in bocca a uno degli affiliati di Cosa Nostra?

In un film così rigorosamente attento al rispetto delle fonti documentali come Il traditore, questa frase è forse l’unica anomalia. L’unica zona di apparente inverosimiglianza. E allora forse è qui, è su questo esplicito alert testuale, che è bene soffermarsi. Perché Bellocchio ci dice che anche in questo suo film – come in tutti i suoi precedenti – è prima di tutto allo sguardo che bisogna guardare. Alla sua capacità di strutturare il mondo e di rivelarlo. E allora c’è ancora una forma di protagonismo delle immagini che Bellocchio offre al nostro sguardo e che ci resta da indagare: è quella che si verifica quando le immagini colonizzano i corpi dei personaggi e li iconizzano.

Lo si vede molto bene – ancora in Bella addormentata – in alcune delle scene in cui il film mette in scena i politici e i loro rituali di potere. Sembrano “un’accozzaglia di zombie” i parlamentari e i senatori che vediamo sullo schermo. Infelici, disperati, disorientati, vagolano fra l’etere e il nulla, si fanno somministrare farmaci contro la depressione e si conformano agli ordini che vengono loro impartiti da chi – di fatto – li ha ‘nominati’ nel loro ruolo. Lo psichiatra che li cura li descrive con icastica precisione: “Si devono nascondere, ma dove? Non hanno un collegio, non hanno un rifugio. Sembrano dei ricercati, o vagano per il centro…”. Così privi di un luogo, così drasticamente delocalizzati, solo in una sequenza ritrovano un senso e una ragione: quella in cui si mettono in posa per la foto istituzionale, facendosi fotografare davanti a uno schermo su cui scorrono immagini di manifestazioni del loro partito e del loro leader. Solo sovrapponendosi a quelle immagini essi sentono in qualche modo di inverarsi, di uscire dall’indeterminatezza, dalla mancanza di ruolo e di identità. Ma nello stesso tempo, così facendo, trasformano i loro corpi in schermo, e fanno di sé il luogo in cui le immagini si manifestano e si inverano. Vero esempio grottesco di transustanziazione mediatica, quella sequenza – una delle più pregnanti di tutto il cinema di Bellocchio – ci dice di come i corpi ‘veri’ non siano che il supporto su cui far vivere le immagini. Non sono più – come nel Novecento – il profilmico che lascia traccia e impronta di sé nell’immagine filmica, ma – molto più radicalmente – il supporto senza cui le immagini non sarebbero visibili. Detto altrimenti: i corpi non generano le immagini, le accolgono; non le ingravidano di sé, si fanno ingravidare dalla loro sostanza fantasmatica.

Una cosa analoga – a ben pensare – accade anche al personaggio di Ida Dalser in Vincere, nella sequenza in cui – prima di essere internata ed annientata dalla cieca ferocia del potere – la donna si siede in un cinema e guarda l’immagine dell’uomo che ama – ormai così diverso, anche fisicamente, da come lei l’aveva conosciuto – intento a parlare dallo schermo. A un certo punto i fascisti in sala si alzano in piedi e rivolgono all’icona del Duce il tributo del saluto romano. Lei, rimasta seduta, si accorge che quei corpi gonfi e ringhianti le ostruiscono la visione, e quindi si alza a sua volta e va a sedersi in primissima fila, davanti a tutti. Ma poi ci ripensa, si alza di nuovo, si avvicina allo schermo e si gira verso la platea. Il fascio di luce del proiettore colpisce il suo corpo, le disegna addosso le immagini, la ingravida di nuovo con l’iconizzazione del Duce. Ida è un corpo di carne che vive tra le ombre del cinema, e al tempo stesso è uno sguardo che dallo schermo ci riguarda, e che guarda i fascisti in platea, i quali – pur guardando lo schermo di cui anche lei è parte – nemmeno la vedono, accecati come sono dall’invadenza pervasiva dell’immagine del Capo. Lì, in quell’immagine, in quel farsi cinema di un corpo invisibile che guarda, Bellocchio lascia intravedere quello che forse è l’obiettivo primario del film e anche di tutto il suo cinema: mostrarci la nostra cecità di spettatori, incapaci di intuire la vita vera, la nuda vita, nel turbinio di immagini con cui il potere celebra sé stesso e prende possesso delle nostre teste e dei nostri cuori. Spesso nel film Ida Dalser ci guarda. Guarda in macchina con i suoi occhi imploranti e divoranti, e – ancora – ci interpella. E in quello sguardo, molto più che nelle migliaia di lettere, suppliche e parole che Ida ha inviato invano ai potenti della Terra, c’è il senso ultimo della sua sfida. Dallo schermo, qualcosa ci riguarda: e quello sguardo è un atto d’accusa – o una chiamata di correo – contro il nostro continuare a essere complici – negli anni Trenta come oggi – di chi ha di fronte a sé tutto l’orrore del potere, tutta la sua narcisistica tracotanza e la sua annichilente prepotenza, e continua a far finta che non ci sia nulla da vedere.

Riferimenti bibliografici
  • Mitchell 2018
    W.J.T. Mitchell, Scienza delle immagini. Iconologia, cultura visuale ed estetica dei media, Monza 2018.
  • Montani 2010
    P. Montani, L’immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile, Bari 2010.
  • Montani 2006
    P. Montani, Senso della storia e debito della finzione, in C. Tatasciore (a cura di), Cinema e filosofia, Milano 2006, 86-95.
  • Saramago 1996
    J. Saramago, Cecità, Torino 1996.
Filmografia
  • Entr’acte, di R. Clair, 1924.
  • Tre canti su Lenin di TD. Vertov, 1934.
  • I promessi sposi di M. Camerini, 1941.
  • Cat People di J. Tourneur, 1942.
  • Paisà di R. Rossellini, 1946.
  • L’avventura di R. Rossellini, 1960.
  • Il Gattopardo di L. Visconti, 1963.
  • Belfagor, il fantasma del Louvre, miniserie TV, 1965.
  • La storia vera della signora delle camelie di M. Bolognini, 1981.
  • L'ora di religione, di M. Bellocchio, 2002.
  • Buongiorno, notte, di M. Bellocchio, 2003.
  • Il regista di matrimoni, di M. Bellocchio, 2006.
  • Sorelle, di M. Bellocchio, 2006.
  • Vincere, di M. Bellocchio, 2009.
  • Sorelle Mai, di M. Bellocchio, 2010.
  • Sangue del mio sangue, di M. Bellocchio, 2015.
  • Fai bei sogni, di M. Bellocchio, 2016.
  • Il traditore, di M. Bellocchio, 2019.
English abstract

The power of the gaze. The nightmare of cages. Marco Bellocchio’s cinema lives between these two extremes. At the beginning of Bella addormentata a character, looking straight into the camera: his interest is to involve the audience. This scene is an example of Bellocchio’s ability to generate space for both confrontation and interaction with the viewer and represent the way and the focal point of Bellocchio’s filmaking. The gaze that the characters of Bellocchio’s films turn to the audience is an exhortation: let’s not be complicit in any power.

keywords | look; screen; archive; imagine; imagination

Per citare questo articolo / To cite this article: G. Canova, Quando le immagini ci guardano. Laudatio di Marco Bellocchio, in occasione della Laurea Magistrale ad honorem conferitagli dall’Università IULM il 9.12.2019, “La Rivista di Engramma” n. 172, marzo/aprile 2020, pp. 11-24 | PDF di questo articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2020.172.0000