"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

Panoramiche di interni: l’unità di luogo nel cinema di Marco Bellocchio

Marina Pellanda

English abstract
Alcune premesse

Nel cinema di Marco Bellocchio il teatro rappresenta un territorio da cui attingere non solo sul piano narrativo ma, anche, su quello della comprensione estetica delle immagini. Infatti, questo regista crea figure la cui tesa emozionalità dilata lo spazio e dà vita a nuove forme che, pur ibride e impure, si imprimono prepotentemente nella percezione dello spettatore anche quando si espandono verso territori altri rispetto al cinema.

L’indice di specularità che lega cinema e teatro, pur elevato, in Bellocchio funziona solo se inteso come contrapposizione che vada oltre la finzione programmatica e discorsiva del testo adattato per lo schermo e, dunque, campi, controcampi, primi piani e movimenti di macchina divengono i modi in cui l’arte del film si appropria del palcoscenico. Ad esempio, l’uso del primo piano, che torna spesso come figura del racconto, concentra l’attenzione dello spettatore sul singolo personaggio come a disegnare una sorta di ‘monologo visivo’.

Se nel lavoro di Bellocchio sono presenti film in cui il riferimento al palcoscenico appare meno esplicito, nel corso della seguente analisi, scegliendo come chiave il ricorrere del modulo teatrale del kammerspiel, si renderà tuttavia evidente come le pellicole, contrassegnate dal ricorso a questo stilema, siano esempio palese di una ricchezza di riferimenti che, attraverso ripetizioni e variazioni di questa forma di teatro, in un continuo intersecarsi di linguaggi, arricchisce il piano espressivo del cineasta. L’armonia o il conflitto tra questi diversi principi è dunque il vero punto di equilibrio o di scissione di un’arte che, sempre, apre le porte del cinema al teatro. E viceversa.

Il kammerspiel ovvero l’invenzione del luogo

1 | Gli occhi, la bocca, regia di Marco Bellocchio, 1982.

L’unità di luogo permette al cinema di confrontarsi con il teatro. Un confronto che funziona sia quando il cinema attenendosi alle unità aristoteliche raccoglie la sfida lanciata dal teatro antico secondo il quale il palcoscenico, set unico per eccellenza, ha addirittura funzione catartica, sia quando una precisa volontà autoriale – in questo caso quella di Marco Bellocchio – negando i campi lunghi, proibendo l’evoluzione spaziale e ingabbiando i personaggi mostra, da un punto di vista privilegiato, un racconto che non è né teatro filmato né cinema-teatro ma, invece, un film.

Quando Bellocchio raccoglie per la prima volta la sfida lanciata dal kammerspiel lo fa per scelta obbligata e, infatti, prodotto con un budget esiguo che ha imposto di ridurre le spese, il suo primo film, I pugni in tasca (1965), è stato ambientato a Bobbio, piccolo borgo in provincia di Piacenza, in quella villa che fu il luogo reale dell’infanzia e della giovinezza del regista. In seguito però, l’unità di luogo, determinata dalla casa e rimaneggiata attraverso la macchina da presa, diventa per Bellocchio una precisa volontà autoriale che investe il luogo chiuso – e di conseguenza ogni personaggio od oggetto che rappresenti le case in cui si svolgono le vicende – di un forte significato drammaturgico. Ed è un significato che, proprio la macchina da presa, pur non potendo controbattere o fare domande complicate, aiuta ad evidenziare. Infatti, come scrive Sidney Lumet, la macchina da presa

[…] Può compensare una prestazione scadente. Può rendere migliore un’interpretazione buona. Può creare atmosfera. Può creare bruttezza. Può creare bellezza. Può dare eccitazione. Può catturare l’essenza del momento. Può fermare il tempo. Può cambiare lo spazio. Può definire un personaggio. Può dare esposizione. Può fare uno scherzo. Può fare un miracolo. Può raccontare una storia. Se in un mio film ci sono due star, in realtà so che ce ne sono sempre tre. La terza star è la macchina da presa (S. Lumet 1995, 71).

Alla base del fascino del cinema di Bellocchio c’è dunque, soprattutto, la capacità di creare luoghi e spazi che, anche quando non inventati – la casa bobbiese de I pugni in tasca (1965) che come vedremo sarà la stessa di Sorelle (2006), Sorelle Mai (2010) e Sangue del mio sangue (2015) – si configurano come ambienti virtuali in grado di consentire allo spettatore di fare esperienza di uno spazio fisico che, pur passando attraverso il lavoro degli scenografi, diventa luogo abitabile sia per i personaggi che per il pubblico, case all’interno delle quali lo spazio diegetico diviene “costruzione concreta e simbolica dello spazio antropologico” (Augé, 2009, 59). Appartamento, villa o paesaggio aperto che sia – nel lavoro di questo regista vedremo non a caso configurarsi anche quello che Lino Micciché definiva “kammerspiel all’aria aperta”, (Miccichè 2005, 146) – il luogo chiuso bellocchiano, anche quando non è semplicemente una stanza, potenzia i valori formali del kammerspiel.

Questo può accadere perché, come scrive Silvio D’Amico, “il kammerspiel è una sistemazione a posteriori” per descrivere drammi – per esempio quelli scritti da Strindberg o Ibsen – che sono ‘da camera’, ‘intimi’, perché mettono in scena una relazione tra membri di una famiglia (o di un gruppo sociale) che si svolge all’interno di una casa (entro un numero limitato di stanze), a ritmo rallentato.

Si tratta di un ritmo che, superando il naturalismo della cruda e fotografica fedeltà alla realtà tipica per esempio di Zola, apre all’eterno dramma dell’individuo, preferendo i fatti morali alle leggi dei fenomeni fisici. E dunque, proprio perché il kammerspiel, pur caratterizzato da limiti fisici e tematici, esplora in modi diversissimi la profondità psicologica dei suoi personaggi – una diversità che nelle mani di Bellocchio rinunciando allo spazio chiuso della casa si sposterà persino all’aperto – ci pare fondamentale definirlo polifonicamente intersecando sia la definizione che ne dà il Dizionario dello spettacolo del ‘900, sia ciò che ne scrive Silvio D’Amico.

Nel dizionario alla voce “kammerspiel” troviamo queste parole:

[…] Diffuso tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, il kammerspiel, letteralmente “dramma da camera”, è un tipo di teatro che, rispetto a quello tradizionale, predilige l’analisi dei moti interni dell’anima e delle dinamiche psicologiche in un’atmosfera intima e raccolta, che trova in spazi teatrali di piccole dimensioni, con capienza limitata, senza cesure tra scena e pubblico e con acustica e visibilità ottime, il luogo ideale per accogliere e valorizzare il proprio repertorio (F. Cappa, P. Gelli, 1998, 568-569).

Ma, come scrive invece Silvio D’Amico:

[…] il kammerspiel in realtà, non costituisce un vero e proprio genere drammatico, ed anzi la sua definizione consueta può intendersi senz’altro come il frutto di una sistemazione a posteriori (S. D’Amico, 1959, 874).

Ecco allora che, se questi sono i limiti sia fisici che tematici entro i quali può essere esplorata la profondità psicologica dei personaggi secondo il kammerspiel, in molte pellicole di Bellocchio si possono riconoscere alcuni elementi tipici di questo teatro. I film del regista, infatti, – basti pensare, tra gli altri, a lavori come I pugni in tasca, Salto nel vuoto (1980) o Gli occhi, la bocca (1982) – sono spesso intimi drammi familiari che si svolgono prevalentemente in interni e con un accentuato utilizzo della mimica e delle espressioni facciali degli attori a trasmettere le tensioni che si agitano nei personaggi.

Nelle mani del cineasta il kammerspiel diventa il portatore di sentimenti smisurati e struggenti in cui la scenica corporea presenza della vita e dell’azione dei diversi protagonisti diviene la lingua specifica del racconto filmico. Ed è un racconto che riconoscendo nella casa un dispositivo di intensificazione della vita nervosa di coloro dai quali è abitata, la rende l’unità di luogo prevalente di molte pellicole. È una casa composta da stanze che, inquadrate in modo da apparire simultaneamente esposte davanti all’obiettivo della macchina da presa, la fanno sembrare un labirinto dinamico e comunicante per descrivere il quale valgono le parole con le quali Andrea Minuz si riferisce al ‘paesaggio come oggetto teorico’:

[…] Di per sé l’esperienza filmica si colloca nell’intervallo tra l’illusione di uno spazio praticabile attraverso i movimenti della macchina da presa, e la distanza di un paesaggio osservabile da un soggetto esterno, come avviene nello spazio pittorico […] Il paesaggio può pertanto presentarsi non soltanto come sfondo dell’azione, ma come oggetto di riflessione sul cinema, anche in riferimento all’idea più ampia e complessa di territorio. Ciò avviene sia nel caso dei cosiddetti ‘panorami’ dei film delle origini, che nell’opera dei grandi autori della storia del cinema come a proposito del celebre rovesciamento di valori formali tra paesaggio e personaggio nel cinema di Michelangelo Antonioni (Minuz 2011, 14-15).

Il rovesciamento tra paesaggio e personaggio è nelle case bellocchiane determinato dall’articolazione dei movimenti di macchina. Infatti, non a caso e proprio perché si tratta di uno spazio separato dal resto del mondo, entrare o uscire da questi appartamenti significa spesso passare attraverso finestre, balconi o lucernai.

Ciò che interessa al regista è come lo spazio dell’abitare smetta di essere un semplice sfondo dell’azione e diventi invece un vero e proprio agente narrativo. Proprio per questo, come nota Sandro Bernardi sulla scia di Bachtin, gli appartamenti bellocchiani sono un cronotopo, ovvero “un luogo nel quale il tempo si condensa o si sovrappongono diversi strati dell’esistenza, compenetrandosi in una simultaneità in cui passato e presente sono la stessa cosa” (Bernardi 1998, 104) e, anche, uno spazio in cui lo svolgersi della narrazione sembra coinvolgere lo spettatore in un moto inarrestabile che è simbolo di un’eccitazione emozionale sempre crescente.

La scena chiusa bellocchiana, non permeabile a ciò che le è esterno, è dunque un microcosmo che rimanda – soprattutto in certi gesti sospesi (Giovanni Pallidissimi che in Gli occhi, la bocca scappa dopo essere stato riconosciuto dalla madre alla quale finge di apparire in sogno nei panni del fratello gemello) o in certi suoni e movenze ridondanti (la risata di Giulia in Diavolo in corpo [1986]) – sia al kammerspiel così come lo presenta Strindberg nella prefazione della Signorina Giulia, sia a quelle piccole scene di teatro da camera che, nelle mani di alcuni compositori da Mozart a Schubert, sgorgano dalla forma musicale del Lied.

Il sistema socialmente definito raccontato da Marco Bellocchio nei suoi kammerspiel è infatti una Hausmusik, una musica domestica in cui, come nei drammi di Strindberg, il dialogo, non esaurendo mai fino in fondo un argomento, vaga di qua e di là arricchendosi di un materiale che poi viene elaborato, ripetuto e sviluppato alla stregua del tema di una composizione musicale. Scrive a tal proposito Strindberg:

[…] Ho evitato la simmetria matematica del dialogo costruito alla francese e ho lasciato che i cervelli lavorassero irregolarmente, così come essi fanno nella realtà quotidiana; in un dialogo non si esaurisce mai fino in fondo un argomento, ma uno dei cervelli trova nell’altro un dente di ruota nel quale può opportunamente ingranarsi. E perciò il dialogo vaga anche di qua e di là e nelle prime scene si arricchisce di un materiale che poi viene elaborato, ripetuto, sviluppato, come il tema di una composizione musicale (Strindberg 1963, 500-501).

Come nel Lied, i segnali minacciosi lanciati dai personaggi sono suoni, note musicali che sottolineano gesti minimi eppure decisivi: si pensi ai bruschi cambiamenti di tono che caratterizzano il protagonista de I pugni in tasca, o ancora al suono che producono gli oggetti nella casa di Salto nel vuoto o di Buongiorno, notte (2003).

Se nel Lied sono musica e poesia a condividere il territorio comune del paesaggio dell’anima da cui traggono ispirazione e in cui agiscono per esempio compositori come Schubert mettendo in vibrazione immagini sonore e idee verbali, l’Hausmusik di Bellocchio, invece, combinando immagini visive e idee verbali, traduce in una figurazione, che come il Lied è anche ritmicamente pregnante, i movimenti elementari delle attività umane. In questo senso si pensi ad Alessandro ne I pugni in tasca, a Giovanni Pallidissimi in Gli occhi, la bocca, ai due fratelli Ponticelli in Salto nel vuoto o ai due giovani di Diavolo in corpo che si sforzano di rispondere a livello di dialogo razionale, interpersonale ma che, in realtà, del discorso dell’altro, colgono solo quei brandelli che, suscitando in loro un’eco decisiva, sommuovono strati sotterranei della loro coscienza: sembra che rispondano all’interlocutore ma ribattono invece a loro stessi.

I personaggi bellocchiani, muovendosi sempre sul filo del rasoio, sostengono conversazioni anodine, pronti ad accogliere quelle subitanee sollecitazioni che spaccano verticalmente il discorso e aprono all’improvviso delle brecce entro cui vengono veicolati flussi antagonistici. Il primo che, compiendo gesti eversivi, diventa l’angelo sterminatore di quella cultura che lo ha allevato e protetto è l’Alessandro de I pugni in tasca: egli vive nell’angusta dimensione della famiglia, in una casa isolata e difficilmente raggiungibile, una casa su cui tutto il film si ripiega.

Questo luogo diviene universo morboso e sfatto in cui si coaugulano tutte le tensioni latenti di un gruppo che, chiuso in modo malato nel suo microcosmo, sospende o interrompe immediatamente qualsiasi tentativo di azione o di dialogo. I rapporti tra i personaggi sono ingabbiati nelle stanze di una villa da cui si esce solo raramente e, proprio per questo, almeno nella prima parte del film, la figura stilistica privilegiata è il fuori campo. Sguardi e suoni vengono sempre da fuori, mentre i rapporti diretti tra i personaggi si riducono a occhiate scambiate di sfuggita o a momenti ascoltati di nascosto: Ale e Giulia origliano la telefonata di Augusto nascosti dietro la porta del suo studio, Ale spia il fratello dal vetro della medesima porta, e la sorella chiedendo a un bambino cui dà ripetizioni di descrivere quel che vede accadere sulla terrazza.

Se dunque il fuori campo sembra essere il segno di relazioni ambigue, di parole che si tacciono e che per questo divengono testimoni della follia, ecco che quando Ale, con una spinta quasi dolce, fa precipitare la madre in un burrone, il sistema del film sostituisce questa figura cinematografica con una macchina da presa che, più vicina, circonda i personaggi con carrellate che scavano nei primi piani. L’omicidio della madre, il rogo compiuto da Giulia e Sandro degli oggetti conservati in camera della genitrice, l’incesto suggerito, l’uccisione di Leone, la caduta di Giulia e la morte parossistica del protagonista, sono tutte energie distruttive che, accumulate fin dall’inizio, non sono riuscite ad esaurirsi con l’incidente che Ale avrebbe voluto provocare buttandosi con l’automobile in una scarpata di ritorno dal cimitero nel giorno dei morti, e che ora esplodono e bruciano nel finale, andando così a ricomporre quell’equilibrio irreale che tiene in bilico la famiglia.

Per raccontare lo spazio chiuso rappresentato dalla villa de I pugni in tasca, Bellocchio sembra chiedere ai suoi attori la stasi piuttosto che il movimento: i corpi, costretti in interni asfissianti, reprimono la pulsione al moto, basti pensare ad Ale che durante il pranzo si dondola aggrappato all’equilibrio instabile della propria sedia e al gesto con cui, per due volte, allunga la mano appoggiandola sul tavolino che ha dietro le spalle.

2 | I pugni in tasca, regia di Marco Bellocchio, 1965.

I personaggi camminano poco, non sfruttano a pieno l’estensione della villa in cui vivono e, anche se è vero che all’inizio del film un lungo carrello segue Augusto in casa e lo accompagna dal bagno in corridoio e infine alla sala da pranzo, le linee sincopate degli scatti – Ale che si presenta per la prima volta arrivando dall’alto, saltando già da un albero e quasi cadendo all’interno dell’inquadratura – sono preferiti alla fluidità.

Alla casa de I pugni in tasca sembra rispondano, nel primo caso con l’intenzione di creare un rapporto intertestuale col film d’esordio del regista e nel secondo perché parafrasando Sciascia le sole cose sicure in questo mondo sono le coincidenze, le dimore di Gli occhi, la bocca e di Fai bei sogni (2016). Scrive Antonio Costa a proposito di Gli occhi, la bocca:

[…] Da una parte ci sono i personaggi che date le circostanze, fanno quello che devono fare: tra questi la madre (Emanuelle Riva), lo zio Nigi (Michel Piccoli) e il padre di Vanda (Antonio Piovanelli) circondati da pochi personaggi, in realtà piuttosto scoloriti. […] Alla gestualità di chi più o meno bene fa quello che deve fare, si contrappone quella di chi non lo fa o, meglio, fa quello che non dovrebbe fare: Giovanni e Vanda. Angela Molina presta a Vanda una bellezza altera e selvaggia, una gestualità che riesce ad apparire sconveniente perfino quando è controllata. Parlare con la sua stessa voce, in una lingua che non è la sua, caratterizza Vanda come un personaggio di un altro mondo. E se ciò va spesso a scapito della drammaturgia convenzionale, produce un effetto straniante che mette in valore la drammaturgia dei corpi e dei gesti al centro della quale è posta la presenza necessariamente invasiva di Lou Castel/Giovanni (Costa 2005, 171-172).

Se si segue la “drammaturgia dei corpi” così come viene messa in evidenza da queste parole, ci si accorge subito che, lungi dal conformismo e dalla rinuncia alla ribellione, in Gli occhi, la bocca il rifiuto di Giovanni, se forse si addolcisce rispetto a quello di Ale, certo non cambia di segno. Infatti, sia Giovanni che Ale guardano la propria zona oscura, quella impaziente e furiosa dell’adolescenza, e la mettono in scena l’uno con la crudeltà che precipita la madre giù dal burrone e l’altro con la debolezza e la fragilità che lo farà arrivare al punto di inventarsi di essere il gemello morto. Il segno positivo di questo spettro si comprende sia perché è messo in scena per essere di consolazione a una donna che dice: “In fondo credo che i fantasmi siano delle brave persone: tranquilli, bene educati” (Bellocchio 1982), sia perché a osservare la rappresentazione si raccolgono in corridoio i due fratelli del protagonista, silenziosi e commossi.

La casa e il rapporto con la madre tornano anche in Fai bei sogni stabilendo così una analogia sia con Gli occhi, la bocca, sia con I pugni in tasca. Si tratta di un’alfa-omega, un opposto simmetrico che in modo evidente interseca soprattutto Ale e Massimo. Tuttavia, mentre Ale uccide una mamma anaffettiva da cui vorrebbe essere amato e lei non è in grado di farlo per una serie di disgrazie che l’hanno colpita, il Massimo di Fai bei sogni è, al contrario, un bambino troppo amato che improvvisamente perde sua madre. Entrambi i casi aprono la strada alla nevrosi che evolve però in maniera diversa anche perché tra i due film ci sono per Bellocchio cinquant’anni di vita e di cinema: una padronanza del mezzo che allora non aveva e anche, forse, un diverso rapporto con la morte. A questo proposito il regista, rispondendo ad Alessandra Mammì su “L’Espresso” del 4 novembre 2016, dichiara:

In un momento della mia vita che nel suo complesso comincia a prevedere la sua conclusione, il tema della morte mi porta a riflessioni più approfondite, diventa parte integrante della materia di ispirazione. Forse gli artisti più di altri sentono il bisogno di dar forma a un appuntamento cui nessuno può sfuggire, anche per esorcizzare la paura di questo evento inevitabile che mi sottrarrà l’unica cosa che ho: la vita. In quanto laico io vivo solo della mia vita terrena e invidio coloro che credono in quella ultraterrena.

Fai bei sogni è crudele come la spinta con cui Ale, ne I pugni in tasca, scaraventava la madre giù nel burrone. E però, questa volta, nel burrone ci finisce chi guarda se non riconosce il monito di cui è portatrice la casa, che è ancora una volta cronotopo del film. In questo luogo tipicamente bellocchiano – l’inquadratura prospettica del corridoio che sa di vuoto e desolazione e non di calore e rifugio, è una risonanza d’autore che ricorre da I pugni in tasca a Sorelle Mai, nel racconto di molte altre dimore quasi analoghe – ancora una volta, il tempo si condensa sovrapponendo diversi strati dell’esistenza. Ed è un esistere in cui le cose la fanno da padrone: silenziose (sedie, tappeti, scatoloni), inesorabili (la bara della madre morta, tutte le porte che si chiudono isolando), inutilmente belle (la televisione accesa nel buio e tutti quegli oggetti – letti, porte, divani, coperte, cuscini – che sono passaggio nel tempo), riempiono l'immagine. Nessuno riesce a scaraventarle giù dalla finestra con la forza apotropaica che era di Ale e Giulia ne I pugni in tasca e così, giù dalla finestra, occhio sempre presente nell'immagine, ci finisce la madre del protagonista.

Il Massimo raccontato da Bellocchio, che da bambino ha “i pugni in tasca” e da adulto ha lo sguardo perso nel fuori campo, consapevole di quanto sia difficile il superamento del “Male di vivere” – così lo chiamerebbe Eugenio Montale – muovendosi in direzione ostinata e contraria rispetto al personaggio del romanzo che non riesce a scendere a patti con la mancanza dell'affetto materno negatogli da piccolo, ha un atteggiamento etico rigoroso ed è proprio seguendo questo battito nascosto, rivelatore del vuoto inquietante del quotidiano, che forse si salverà.

Ci riuscirà se sarà in grado di capire l'importanza di riconoscere se stessi al di là del simulacro mentre respira davanti a uno specchio cercando di ritrovare, dopo un attacco di panico, i battiti giusti del cuore, ci riuscirà se l'amore, che sembra sbocciare tra lui e la dottoressa che lo libera dall'improvvisa crisi, arriverà a regalargli lo sguardo giustamente distaccato con cui lei guarda la famiglia – non sarà un caso che il film la sorprenda tra loro nel momento più finto: quello di una foto di gruppo. E ci riuscirà se sarà in grado sia di ricordare le parole che da bambino gli ha regalato il prete di Herlitzka: “Il se è il marchio dei falliti, in questa vita si diventa grandi nonostante” (Bellocchio 2016), sia se capirà l'ironia liberatoria, e che non concede sconti alla zuccherosa retorica dei sentimenti, del collega della «Stampa» al posto del quale si ritrova a rispondere alla lettera di un lettore che denuncia apertamente l'odio provato per l'inopportuna madre. E lo spettatore, per salvarsi dal precipitare nel burrone, dovrebbe riconoscersi in queste parole, in questi sguardi – anche quello di Piera degli Esposti madre anaffettiva e inflessibile proprio di quel lettore che scrivendo la sua lettera ha consentito a Massimo, nel rispondergli, di guadagnarsi il commosso plauso quasi di tutti. Sono sguardi, sono parole che, grimaldello tutto bellocchiano, scardinano, ed è una fortuna, il libro da cui il film è liberamente tratto.

Anche le figure cardine di Salto nel vuoto vivono immerse nella penombra ostile e silenziosa di una casa che conoscono così bene da potervisi orientare a occhi chiusi. In essa, a mobili in radica e a pareti già oppressive rispondono in sottofondo trasmissioni televisive – per esempio quella sulle situazioni coniugali irregolari – di matrice prevalentemente cattolica. I due fratelli Ponticelli coabitano prodigandosi in continue attenzioni l’uno per l’altra ma anche facendosi continui dispetti: si osservano a distanza, si tengono reciprocamente sotto controllo con gesti ambivalenti che ostentano affetto e sottendono invece invidie e rimproveri insinuanti. È soprattutto il giudice però che trasforma l’affetto fraterno in gelosia morbosa (spia la sorella, le controlla la biancheria, le fruga nella borsa) e crea così un condizionamento reciproco che esclude il mondo esterno tramutando lo spazio del loro appartamento – ancora una volta un lungo corridoio su cui si affacciano, oscure, le stanze – in un luogo della mente.

Questa casa imprigiona i suoi abitanti in un microcosmo malato ma autosufficiente almeno fino a quando ad alterarne l’equilibrio arriva l’attore girovago Sciabola che rappresenta una libertà di vita negata al giudice da una morale borghese e tradizionalista. Accade così che, mentre l’arrivo dell’attore mette a soqquadro l’esistenza del giudice, Marta, invece, attraverso l’amore di Sciabola si emanciperà dalla sottomissione al fratello. Tuttavia, ben prima che Marta conosca Sciabola, a interrompere il buio e lo stagnante silenzio del rapporto morboso che la lega al giudice, sono lo spazio di Anna e quello del figlio di lei: per questo, nel momento in cui il magistrato, a conclusione di uno straordinario pianosequenza di lotta estenuante con la macchina da presa, salta nel vuoto – non prima di aver bisbigliato “In casa mia faccio quello che voglio” e di aver chiuso le porte di tutte le stanze a evitare d’esservi sorpreso dall’occhio indiscreto dell’obbiettivo. Marta si risveglia di soprassalto nella stanza luminosa del figlio di Anna, da cui si vede il mare, ed è il risveglio che può anche mettere tutto ciò che fino a ora abbiamo visto accadere in Salto nel vuoto nel regime del sogno.

Ai corpi dei protagonisti di Salto nel vuoto sembrano rispondere quelli di Andrea e Giulia che in Diavolo in corpo si abbandonano con gioia e senza remore alla propria energia positiva. In questo film ancora una volta è la casa a diventare l’emblema della terra desolata del conformismo e della miseria che ci circonda. Come tutti gli altri personaggi bellocchiani fino ad ora incontrati, anche Giulia e Andrea vogliono rileggere il legame con la loro famiglia: con il padre magistrato ucciso dai terroristi lei, con il genitore psichiatra lui. Per farlo scardinano tali legami, trasformando la gabbia borghese di un appartamento acquistato in attesa di un matrimonio, in una chiave che li porterà verso la libertà.

Probabilmente la casa di Diavolo in corpo in cui Giulia e suo marito avrebbero dato vita a una famiglia, assai simile a quella de I pugni in tasca o di Gli occhi, la bocca, avrebbe potuto diventare un analogo sia della dimora funerea raccontata in Salto nel vuoto, sia dell’appartamento-prigione di Buongiorno, notte. Invece accade che in questo spazio l’individuo viene a conciliarsi con la propria libertà. E non si tratta della semplice e banale licenza che pure Giulia e Andrea si prendono sia quando fanno a pezzi gli oggetti e i piatti presenti nella casa, sia quando spostando mobili e arredi costruiscono la scenografia del loro amore clandestino; si tratta invece di una libertà assai più profonda, che essi conquistano rinunciando alla maschera del conformismo. Il pianosequenza che chiude il film è forse il più destabilizzante sogno di libertà che la pellicola ci racconta:

Andrea è a bordo dell’inquadratura sfuocato e appena visibile, sta sostenendo l’esame di maturità, legge e commenta un passo dell’Antigone di Sofocle mentre la macchina da presa fermandosi sul volto di Giulia giunta ad assistere all’esame, mostra un lunghissimo piano contemplativo del suo volto che ride e piange allo stesso tempo al suono della voce di Andrea che legge il greco antico.

È così che Bellocchio ci dice come Giulia la pazza, Giulia la sovversiva sia forse una lontana discendente ancora in vita di Antigone, la donna della tragedia greca che oppose la forza del suo desiderio alla barriera inesorabile della legge.

3 | Diavolo in corpo, regia di Marco Bellocchio, 1986.

Il tribunale come kammerspiel

4 | Il traditore, regia di Marco Bellocchio, 2019.

In un saggio, che ha per tema Salto nel vuoto, Orio Caldiron osserva come il ruolo dell’attore girovago Sciabola, pur se almeno in parte sembra liberare Marta dalla coazione a ripetere che definisce il rapporto tra questa donna e il fratello – il quale nella vita, e forse non è un caso, fa il giudice – in realtà non sia via di salvezza ma, piuttosto, evidenzi come la casa in cui vivono i due fratelli Ponticelli somigli a un tribunale:

[…] Nello spiraglio aperto dall’illusionismo scenico si definisce il ruolo di Sciabola, l’estroversa sgradevolezza del commediante, la sua sgangherata capacità di rottura e insieme di coaugulo delle tensioni. Nella coazione a ripetere del rapporto tra Mauro e Marta […] l’attore non rappresenta una via d’uscita, un’alternativa di salvezza, ma una sorta di palcoscenico dell’oltre, in cui le intenzioni di Mauro, i suoi insinuanti suggerimenti, si capovolgono in un ghignante gioco del doppio, nella derisoria e paradossale distruzione dei rituali di un processo la cui sentenza è data per scontata. Il tribunale è “il vero teatro” (Caldiron 2005, 169).

Dunque in Salto nel vuoto “il tribunale è il vero teatro” ed è un palcoscenico che tornerà nel lavoro di Bellocchio almeno altre quattro volte: nel 1988 con La visione del sabba, nel 1991 con La condanna, nel 2003 con Buongiorno, notte e nel 2019 con Il traditore.

Questi palazzi di giustizia, latori di sentenze tanto scontate quanto irreversibili, danno vita a un binomio che, ancora una volta, chiama in causa il kammerspiel: tutte le sequenze ambientate in tribunale (in Buongiorno, notte è addirittura un intero appartamento dal quale non si esce quasi mai a diventare un sedicente ‘tribunale del popolo’) contrappongono il ‘dramma da camera’ che si svolge tra le loro mura agli spazi aperti che per il regista sono la libertà dell’inconscio e dei sentimenti non vincolati dalla legge degli uomini. Il tribunale che ricorre in alcuni lavori di Bellocchio è però lontano dalle regole che attengono al filone cinematografico del legal thriller. Il regista, infatti, nei film in cui ciò accade, coinvolge lo spettatore visivamente, con un linguaggio dei sensi che è universale e non solo descrittivo, obbligando a discorrere intorno alle azioni umane che non sono accadute ma è come se lo fossero. Infatti, per esempio, mentre Chiara in Buongiorno, notte sogna ad occhi aperti Moro libero per le vie di Roma, ne Il traditore Buscetta, che tradendo la mafia si è isolato, solo nello spazio del sonno, ha parentesi oniriche ora angosciose, ora orizzonti di speranze impossibili.

Freud per illustrare le sue teorie sull’inconscio analizzava anche quei sogni che, non sognati da alcuno, erano invece frutto dell’immaginazione di poeti e scrittori e poi da questi attribuiti ai loro personaggi; Bellocchio, dunque, quasi a condividere con il padre della psicanalisi l’idea dell’importanza di un laboratorio virtuale ove mettere alla prova il fondamento di ogni personale opinione, in La visione del sabba, La condanna, Buongiorno, notte e Il traditore, mette in scena tribunali in cui, con la più ampia libertà, si scandagliano singoli temi etici. Ed è uno scandagliare che, sempre, arricchisce la sensibilità e la capacità di penetrazione da parte dello spettatore.

Le azioni, le affezioni, le percezioni, tutto è interpretazione dall’inizio alla fine. […] La relazione non si accontenta di circondare l’azione, ma la penetra in anticipo e da ogni parte, e la trasforma in atto necessariamente simbolico (Deleuze 1984, 229).

Queste parole, con cui Gilles Deleuze descrive il cinema di Hitchcock, a nostro avviso dipingono perfettamente non solo le pellicole del regista inglese ma, altresì, quelle opere di Bellocchio nelle quali il kammerspiel, intersecandosi con il tribunale, ci mostra un palazzo di giustizia che può essere vera e propria corte (La condanna, Il traditore), ma anche un ospedale che si fa tribunale (La visione del sabba), e persino un appartamento che diventa ‘tribunale del popolo’ (Buongiorno, notte). In tutti questi film, infatti, il regista italiano rendendo evidente lo scarto che intercorre tra la legge di Creonte e quella di Antigone, esattamente come Hitchcock secondo Deleuze, origina un atto che si fa decisamente simbolico.

Nei suoi racconti di diritti violati, di delitti commessi, della difesa degli indagati e della fragilità delle azioni umane, Marco Bellocchio mette in luce il fatto che, quando la legge non è sufficiente per giudicare un comportamento o non è adeguata per farlo, allora si parla di etica. Ciò accade da sempre, e da quando Antigone chiede una sepoltura a dispetto di ogni editto, assolviamo allora i protagonisti di Salto nel vuoto, come anche Maddalena e Davide in La visione del sabba, l’architetto Colaianni in La condanna e Chiara in Buongiorno, notte. Questo avviene in virtù dei principi morali che invochiamo per porre rimedio all’incapacità della legge di realizzare integralmente la giustizia. Così scrive Remo Danovi proprio a proposito dell’etica:

[…] Ha una grande funzione, poiché introduce un correttivo al formalismo della legge, permettendo di giudicare più esattamente i fatti compiuti in conseguenza della forza che le è propria. […] Non si tratta di un diritto minore né di un diritto affievolito, ma di un diritto che attende di essere riconosciuto dalla legge formale. È importante affermarlo, poiché la valutazione di un comportamento etico permette di raggiungere un punto più avanzato e concorre alla formulazione del giudizio dato dalla legge per arricchirla e condurla alla equità nel caso concreto. Dovremmo farcene carico in ogni circostanza (Danovi 2009, 216).

Farsi carico di una morale per Bellocchio significa rinunciare agli avvocati. In questi film il tribunale, avvolto nella dimensione del kammerspiel, oggettiva il sentire della coscienza rendendo evidente come ciò che preme sia ragionare sul concetto di giustizia come virtù cardinale e non come frutto di schemi formali. È un sentire che il regista, in La visione del sabba e in La condanna, rende addirittura teatro vero e proprio sia quando Davide assiste allo spettacolo che si sta rappresentando nella piazza medioevale di Massa Marittima, sia all’interno del tribunale in cui avviene il processo a Colaianni. In quest’ultima sequenza, infatti, la combinazione delle immagini realistiche del processo con immagini più oniriche (la carrellata dei volti femminili che accoglie lo ‘stupratore’ o il gesto della moglie del magistrato che gli regala le rose) fa entrare, anche in questo spazio, momenti di rappresentazione teatrale.

Anche Il traditore, con l’aula di tribunale dove si svolge il Maxiprocesso di Palermo che diventa ribalta, è teatro. Su questo palcoscenico accade di tutto: si vedono mafiosi che si spogliano o che si cuciono la bocca, ma si vede anche lo Stato che, rappresentato da un giudice del Nord, sembra incapace di tenere sotto controllo la situazione. È un teatro degli orrori che tiene insieme, disponendoli l’uno accanto all’altro e non l’uno di fronte all’altro, Buscetta e Pippo Calò ex compagno e ora nemico del ‘traditore’: essi, infatti, pur in guerra l’uno contro l’altro, hanno in comune il campo di battaglia ovvero l’aula bunker del tribunale. I dialoghi tra Buscetta e Falcone, invece, girati in campo e controcampo, pur raccontando il confronto tra due opposte idee di Stato, sono momento di scambio. Inoltre, come scrive Federico Gironi:

[…] se prima Buscetta andava e veniva tra due mondi, col suo “tradimento” è poi diventato uno che andava e veniva [sia] tra due muri, in bicicletta nel corridoio della questura dove era detenuto per i colloqui con Falcone, [sia] tra la verità e la menzogna delle sue dichiarazioni (Gironi 2019).

Ed ecco allora che il Buscetta raccontato da Bellocchio, proprio perché aspetta rinchiuso tra due muri di vedere chi fra lui e il giudice Falcone morirà per primo, è parente stretto sia di Moro in Buongiorno, notte, sia di quei Pagliacci messi in scena dal regista al Teatro Petruzzelli di Bari nel 2014. Infatti, tanto Aldo Moro prigioniero nell’appartamento ‘tribunale del popolo’, quanto i “pagliacci in carcere” (Mancino 2019 12) che il cineasta racconta con la sua regia al Petruzzelli dell’opera di Leoncavallo, sembrano anticipare Il traditore. Ad accomunarli la prigionia che sussume una serie di intenzioni, tensioni, ragioni e significati rendendo collettivo il turbamento del ‘Pagliaccio’, sia esso Moro ostaggio delle Brigate Rosse, Buscetta testimone chiave del Maxiprocesso oppure Canio vittima della cupa depressione che gli procura la gelosia nei Pagliacci di Leoncavallo.

Tutti i personaggi di questi ‘drammi’, osservati giorno e notte chi da invadenti telecamere a circuito chiuso (Pagliacci, Il traditore), chi spiato dai suoi carcerieri (il presidente della Democrazia Cristiana in Buongiorno, notte), vengono lasciati soli. Tuttavia, se in Buongiorno, notte e Pagliacci Bellocchio usa la prigione per rappresentare il limite che la società impone a se stessa, il limite che l’uomo si costruisce addosso nell’amore e nella vita optando per quegli atti di violenza che lo condannano a rappresentare la propria irrazionalità e incapacità di amare prima di tutto sé medesimo, ne Il traditore, invece, l’impressione è di assistere a una commedia che si limita a riproporre la realtà senza rappresentarla e ripensarla.

Bellocchio, nel raccontare Cosa Nostra, rende evidente come l’arte non riesca a sublimare l’essenza drammatica dell’uomo destinata a precipitare sempre più in basso imprigionata in se stessa – basti pensare sia a Totò Riina mostrato mentre in solitudine stappa dello champagne appena apprende della morte di Falcone, sia al pentito Totuccio Contorno tra le labbra del quale il siciliano stretto suona lingua aliena e incomprensibile per lo Stato.

Nessuno capisce l’altro; sia in Pagliacci che ne Il traditore e in Buongiorno, notte lo spettatore, assistendo alla messa in scena di diverse solitudini rinchiuse nel medesimo spazio, non sfugge al desiderio diffuso con cui ogni personaggio vorrebbe allontanare da sé gli obblighi in cui il suo ruolo lo imprigiona. Bellocchio, in questi film e sul palcoscenico del Petruzzelli, ci propone l’esperienza dello spazio fisico e però, se nel cinema il cammino in questo mondo possibile è raccontato da una macchina da presa che intrappola i personaggi negli spazi creati e ricreati dagli scenografi come profilmico, a teatro, invece, il cinema si tramuta in struggente desiderio di libertà da tutte le prigioni. E, infatti, i quattro incarcerati pagliacci la cui immagine è accessibile al pubblico perché proiettata sul fondo della scena da telecamere a circuito chiuso che spiano i loro unici momenti sinceri, sono indimenticabile riscrittura filmica del cuore poetico dei Pagliacci di Leoncavallo secondo Bellocchio.

Il cielo azzurro, che proiettato alle sue spalle accompagna l’aria in cui Nedda canta di quando era bambina e ricorda il libero volo delle rondini, fondendo le soluzioni specifiche del teatro con l’esperienza cinematografica, apre a un’idea scenografica in cui l’emancipazione del pensiero risponde a ciò che accade sullo schermo quando invece il kammerspiel diventa tribunale. A tal proposito, Bellocchio dichiara a “Detenzioni press” il 21 maggio 2014:

[…] Questo tipo di idea scenografica mi ha permesso di fondere le soluzioni specifiche del teatro con l’esperienza cinematografica che ha giocato un ruolo importante. Sul palcoscenico ci sono immagini in movimento e le telecamere di controllo sono da intendersi come dei ‘fuori scena’. Nel cinema le telecamere, invece, sono ‘addosso ai personaggi’.

Prendendo in considerazione le sbarre che rinchiudono i protagonisti di Pagliacci, non si può non notare come esse dominino sia tutto Il traditore – dividono la vita di Buscetta in un davanti e un dietro le sbarre al di là delle quali c’è sempre Cosa Nostra che aspetta di annientarlo nel suo momento di maggiore debolezza quando la protezione dello Stato cadrà –, sia Buongiorno, notte in cui solo la brigatista Chiara ha la capacità di vedere Moro libero al di là delle sbarre, pur metaforiche, dell’appartamento in cui lo statista è recluso.

In Buongiorno, notte, Aldo Moro rapito e ucciso dalle Brigate Rosse nel 1978, dopo una prigionia di cinquantacinque giorni e un processo nel ‘carcere del popolo’, quando è mosso dagli occhi di Chiara, emana una luce opaca che lo distingue dai suoi carcerieri sempre immersi nel buio o nella penombra. La giovane brigatista, che si ispira alla figura di Anna Laura Braghetti che partecipò al rapimento del presidente della Democrazia Cristiana, ha gli occhi di Emily Dickinson (il titolo del film riecheggia un verso della sua poesia Buongiorno mezzanotte del 1862) e la sensibilità di Antigone: pur facendo di giorno “l’apprendistato alla corte di Creonte” (Ravasi Bellocchio 2004, 219) e pur vivendo il buio della scelta di militare tra i brigatisti, gli occhi di Chiara hanno la capacità di inventare la vita proprio nel momento in cui la morte sembra farla da padrona. Sognando Chiara dà infatti una possibilità alla pietas e così Aldo Moro, nell’ultima sequenza, scivola fuori dalla sua prigione nell’aria chiara e insonnolita dell’alba. Abbracciando la pietas di questa tragica eroina greca, Chiara – nomen numen rispetto al buio che avvolge gli altri suoi compagni di lotta – riscatta un’utopia mancata, rispondendo al desiderio di far accadere ciò che sarebbe potuto essere: Moro che passeggia per le strade di Roma avvolto nella luce dell’alba.

Il binomio dentro/fuori è allora, in questo kammerspiel di Bellocchio, una contrapposizione tra momenti domestici in cui tutto sembra più piccolo e umano (la quotidianità dei carcerieri attraversata dal sonno, dal cibo, da Raffaella Carrà alla televisione), e momenti invece in cui a prevalere sono i toni claustrali legati ai terroristi che, ‘soldati della rivoluzione’, celebrano un sacrificio tanto oscuro quanto sanguinoso.

5 | Buongiorno, notte, regia di Marco Bellocchio, 2003.

Rispondendo alle domande di Luca Bandirali, il regista, rispetto a un’organizzazione dello spazio che richiama le forme di palcoscenici diversi presenti nel film, afferma:

[…] Il punto di vista o palcoscenico che forse ricorre più frequentemente nel film è quello dalla finestra dello studio verso la porta d’ingresso. Ce ne è un altro dalla cucina che è pure molto importante in alcune scene quando arriva il prete, quando mangiano. In questo film ci si muove su un piano di apparente realismo e di comprensione di primo livello – dando per altro piena libertà di accesso agli altri livelli – e si raggiunge un grado di rappresentazione oggettiva, come se nell’appartamento vi fossero delle telecamere a circuito chiuso. Così abbiamo anche un altro punto di vista dalla camera da letto, e un altro, più raro, dal corridoio, da cui vediamo la scena in cui un brigatista rompe la cassa e poi la scena in cui il prete benedice la casa. […] Se io mi fossi limitato rigidamente a un tipo di inquadratura fissa, avrei rischiato per quello che volevo fare io una perdita di sentimento, una perdita di emozione. Per questo ho avvertito il bisogno di vari palcoscenici, vari sipari (Bandirali, D’Amadio 2004, 34).

6 | Buongiorno, notte, regia di Marco Bellocchio, 2003.

Lo sguardo di Chiara, all’inizio prigioniero dell’ideologia – lo sottolineano le veneziane chiuse che nella prima sequenza, formando sul muro e sul pavimento delle righe orizzontali di luce e ombra, accomunano gli occhi della ragazza a quelli di Ernesto raccontandoli ciechi – nel sogno, concedendo a Moro la libertà, si affranca e trasforma l’appartamento in cui si svolge questo cupo kammerspiel in un tribunale che mette sotto processo la Storia.

È la cifra stilistica del suono ad avvicinare maggiormente la casa, in cui vivono i brigatisti con il loro ostaggio, a una corte d’assise. Le voci delle persone all’interno dell’appartamento sono sempre di un tono più basso rispetto ai suoni delle ‘cose’: la sveglia di Chiara, la porta della cella di Moro che si apre e che si chiude, il campanello che suona annunciando la vicina o il prete che giunge per benedire la casa, il rumore delle scarpe sul pavimento, il volume del televisore.

Tutti questi suoni ‘forti’, rimbalzando su pareti e superfici che non li smorzano per nulla, sottolineano uno scontro con gli oggetti. Questo urto, producendo una nota che riverbera nello spazio come i suoni prodotti dagli strumenti che sono il corredo del giudice (il martello con cui batte sul tavolo per chiudere e aprire le udienze o silenziare gli astanti), è ciò che per primo accomuna l’appartamento di Buongiorno, notte a un tribunale.

La differenza di volume tra le voci delle persone e quella delle ‘cose’ sottolinea la fragilità dei brigatisti; ma anche, l’invasione degli oggetti nello spazio, come accade in un palazzo di giustizia (si pensi appunto al martello delle aggiudicazioni, al rumore delle prove che si mostrano e al suono delle testimonianze che si ascoltano nelle aule tribunizie), diventa il metro che intacca la presunta ‘etica’ delle Brigate Rosse.

Il suono in questo film irrompe anche come musica e, forse, proprio perché la colonna sonora della pellicola non voleva essere la colonna sonora delle Br (se così fosse stato avremmo sentito cori russi o canti della resistenza), Bellocchio ricorre a Shine on You Crazy Diamond un brano di repertorio molto noto dei Pink Floyd: sempre presente, la melodia è finalmente a pieno suono quando sembra voler annullare, quasi distruggendone la grana, l’autenticità delle immagini dei funerali di Moro trasmessi in televisione. Shine on You Crazy Diamond, dall’album Wish You Were Here (1975), diventa allora una ferita che lacera la coscienza di Chiara e stringe lo spettatore nella temporalità di un film che, nella passeggiata di Moro libero per le vie di Roma, diventa ‘esistenza’.

Il film di famiglia come kammerspiel

7 | Vacanze in Valtrebbia, regia di Marco Bellocchio, 1980.

Secondo Lino Miccichè il “kammerspiel all’aria aperta”, pur diretto verso l’esterno, conserva lo sguardo sull’intimo che rispetta la concezione delle forme espressive del kammerspiel propriamente detto. Non sorprende allora che alcuni film di Bellocchio – per esempio Vacanze in Valtrebbia (1980) o “...addio del passato…” (2002), in cui l’autore dialoga sì con il medium ma anche, contemporaneamente, con se stesso e con il mondo – siano ascrivibili alla categoria del teatro da camera. Il regista recupera il valore di quello che Bill Nichols definisce “the human gaze, lo sguardo umano” (Perniola 2003, 217), uno sguardo non lontano da quello che Rosalind Krauss, analizzando nei primi anni di ricerca video realizzati dagli artisti, identifica come un guardare in macchina che diventa automaticamente e simultaneamente, grazie al meccanismo della diretta e del circuito chiuso, sguardo su di sé. E se Rosalind Krauss configura “un corpo centrato tra le due parentesi della videocamera e dello schermo” (Krauss 1998, 52), un regista come Bellocchio – il corpo centrato tra le due parentesi della cinepresa e dello schermo –, lavorando con unità minime come se si trattasse di fotografie di un album di famiglia, apre al kammerspiel anche il film domestico. In questa scelta, ciò che più conta è che il tracciato biografico bellocchiano arriva a riguardarci tutti: certamente ciò accade sia perché la narrazione che nella sua opera il regista fa della propria vita – o di parte di essa – è arricchita da una serie di associazioni man mano palesi dei diversi travestimenti che la definizione tradizionale di autobiografia assume nelle sue pellicole, sia perché, davanti ai film di questo regista, guardare è un’ipnosi ovvero il suo cinema è talmente bello da riuscire a illuderti che, in ogni momento, tutto ciò che accade, stia per riguardare te.

Nel cinema bellocchiano, dunque, il criterio che definisce il film di famiglia non è legato tanto al formato, quanto piuttosto al carattere delle sequenze che lo costituiscono: soggetti e tematiche simili ritornano in tempi, luoghi, situazioni e storie familiari del tutto differenti. Da questo punto di vista si pensi ad “...addio del passato...” , a Gli occhi, la bocca ma anche a quel piccolo film di famiglia che, certamente non per caso, nel 1980 diventa la sequenza di Salto nel vuoto in cui si narra il legame tra Anna, la governante di casa Ponticelli, e il suo piccolo figlio (a interpretare i due personaggio sono rispettivamente Gisella Burinato, che allora era la compagna del regista, e il piccolo Piergiorgio nato dal loro legame).

Quella di Bellocchio è una poetica che, rinunciando alla memoria figurale di sé e scegliendo per registrare il divenire della propria vita, il movimento e il flusso delle immagini da cui si origina ogni suo lavoro, salda la stretta associazione che caratterizza l’autorappresentazione e la biografia. Lo fa decidendo di raccontarsi attraverso quelli che Alice Cati definisce “oggetti di affezione” (Cati 2009, 110), ovvero ambienti (per esempio le case in cui spesso si svolgono i film), oggetti e figure che – pur alludendo a una sfera privata e dunque familiare soprattutto a Bellocchio e alle persone a lui prossime – si fanno anche segno oggettivo della storia degli occhi e della vita di tutti coloro che, guardando, si lasceranno guidare da questo artista.

E così film come Vacanze in Valtrebbia (1980), “...addio del passato…” (2002), Sorelle (2006), Sorelle Mai (2010) o Sangue del mio sangue (2015) acquistano fascino e valore proprio per il loro intrico di menzogna calcolata e di verità casuali: in questi lavori, che sono tenero metacinema, Bellocchio ci mostra figure remote ma nello stesso tempo ci fa assistere ai palpiti di chi le ha guardate (e amate) prima di noi. Il destino pericolante e labile di ogni famiglia, il tragitto impervio di ogni immagine, la sorte dei kammerspiel racchiusi in ogni film di famiglia, tutto ciò si trova forse in questo sottile cortocircuito.

Molti anni dopo Vacanze in Valtrebbia – che tra l’altro sembra racchiudere in sé, esplicitato tutte le volte che il regista dice nel film di voler vendere la casa di Bobbio, il desiderio di prendere distanza da certi luoghi – Bellocchio torna in quelle zone, precisamente a Piacenza, trasformandola, con “...addio del passato...” , in un grande palcoscenico senza tempo per melomani verdiani d’ogni tipo. L’idea di partenza di questo mediometraggio, nato come lavoro su commissione da parte del comune piacentino, è molto semplice: presentare le arie più famose della Traviata di Verdi, facendole cantare dai personaggi più svariati. Il film è un omaggio al compositore e una riflessione sulla piacentinità del musicista. Infatti, come dice il regista:

[…] Piacenza, la mia città, è sempre rimasta un passo indietro a Parma nonostante una sua precisa identità. E rivendica una sua “paternità” verdiana in quanto la Villa Sant’Agata dove è stata composta la Trilogia (Rigoletto, Trovatore, Traviata) si trova in territorio piacentino. Dunque la città ha proposto a me la realizzazione di questo documentario con il quale, sia pure in ritardo, Piacenza ha voluto partecipare alle celebrazioni del centenario (D’Agostini 2002).

Parallelamente alle vicende di Violetta scorrono le immagini della città, nel presente e nel passato, quelle di Piazza Cavalli inquadrata al mattino e film amatoriali in cui si vede una gita al Trebbia o un carnevale di molti anni fa in Lambretta. Bellocchio riesce a far coesistere in modo mirabile, creando un insieme di grande fascino, sia le vicende dell’opera con gli interventi ora ironici ora malinconici degli amanti della lirica, sia la sua vicenda personale. Ed è lo stesso cineasta a dire che “...addio del passato...” è stato per lui un’occasione da cogliere la volo:

[…] Ho colto quest’occasione per rimettere insieme le mie impressioni su Piacenza, per rifare un percorso che, tra Bobbio – il paese dove da bambino trascorrevo le vacanze – e Roma dove mi sono trasferito ancora giovane, aveva un po' dimenticato Piacenza. Ho ritrovato il belcanto che aveva fatto parte della mia educazione: del resto I pugni in tasca finiva con “Follie” da Traviata. È stata questa la mia musica di formazione, assieme ai canti di chiesa. Non Beethoven o Mozart, e neanche le canzonette di Sanremo, ma le più famose opere di Verdi. E, rivisitando questo patrimonio, ho provato a pormi la domanda: tutto questo, quei gesti e quelle parole, sono soltanto glorie del passato, è qualcosa di artificiale, o invece conservano la vitalità di una sorgente di emozioni vere, forti, presenti? (Ibidem)

Alle spalle di Violetta che dà l’addio alla vita si nasconde dunque un regista che, ancora una volta, ripensa il suo passato tornando alle origini del proprio cinema e al principio di sé: non lontano dalla terra in cui era nato l’Ale de I pugni in tasca, Bellocchio si racconta ‘riconciliato’. Infatti il ‘territorio’ verdiano trasforma sia “...addio del passato...” che la regia del Rigoletto, messo in scena al Teatro Municipale di Piacenza nel marzo 2004, in momenti per scavare nella memoria personale ma anche in quella collettiva, nel tentativo di allontanare le vicende dalla lirica per affrontare piuttosto e soprattutto un altrove che coinvolge da vicino il regista. Con Rigoletto Marco Bellocchio affronta un lavoro che, come il mediometraggio su Traviata, gli consente di ripensare sé stesso:

[…] È un lavoro che mi ha consentito di riprendere i fili con la mia città, dove non sarei mai tornato solo per passeggiare sul corso o sedermi in un bar. È un’esperienza nuova, una rinascita (Aspesi 2004).

Proprio per questo, l’unica licenza che il cineasta si prende è quello spostamento che, passando dall’Ottocento ai primi del Novecento, sostituisce Mantova con Piacenza:

[…] Non è una bizzarria né una provocazione, ho ricordi adolescenti di una Piacenza molto provinciale e chiusa, con vari tipi di vitelloni appostati in diversi bar. Io ci passavo davanti e sentivo i loro discorsi, parlavano di conquiste femminili e di verginità, allora fondamentale virtù delle donne e roccaforte da espugnare. C’era sempre il più ricco e il più bello, e quello che per entrare nel gruppo si faceva servo, buffone (Ibidem).

E così, come nell’opera ambientata nel XVI secolo, anche in quella Piacenza del dopoguerra, che Bellocchio mette in scena, c’erano le Gilde, i duchi di Mantova e i Rigoletti. Questa rilettura verdiana, che il regista si ‘cuce addosso’ come fosse un film di famiglia, diventa, e così già “...addio del passato...” , una storia totale – quella della lirica – che si trasforma in un teatro da camera più vicino e comprensibile perché popolato dei ricordi di un’infanzia piacentina imbevuta di melodramma e avvolta dalla nebbia del Po che, nella versione bellocchiana di Rigoletto, lambisce Piacenza come il Mincio la Mantova del buffone.

Immagini ‘sorelle’

8 | Sorelle Mai, regia di Marco Bellocchio, 2010.

Bellocchio, come il protagonista di Il regista di matrimoni (2006) Franco Elica, si sottrae al gioco della visione imposta; per farlo, spesso sfrutta gli appartamenti labirintici in cui si svolgono molti dei suoi film: li rende specchio della messa in forma di una memoria che si impone nelle stanze della casa e che, proprio per questo, ci riguarda tutti.

La casa, infatti, nella sua forma primaria di esperienza vissuta dello spazio, è probabilmente il luogo migliore per affrontare, anche in termini emozionali e affettivi, il concetto di ‘abitare’ da intendersi, quando nelle mani di Bellocchio il film diventa kammerspiel, come il tentativo di gettare un ponte tra le immagini.

Attraverso un nuovo modo di vedere le cose apparentemente familiari, il regista crea un gioco affascinante grazie al quale Vacanze in Valtrebbia, “...addio del passato…” , Sorelle, Sorelle Mai, Sangue del mio sangue e persino la regia teatrale del Rigoletto pulsano di echi, inserti e segni autoreferenziali che sono la dimostrazione di come nel cinema le immagini siano sempre, proprio in quanto tali e anche se diversissime l’una dall’altra, ‘sorelle’. L’idea narrativa sottesa a questi film di Bellocchio è concepita in funzione di un itinerario che, in quanto tale, diventa Odissea: se chi guarda sarà disponibile a mettersi in viaggio con il regista, novello Odisseo, ecco che le immagini, risultando la somma delle emozioni del passato e del presente, rientreranno a pieno titolo nell’universo del nostos, del ritorno alle proprie origini geografiche e cinematografiche.

Intersecando rimandi autobiografici con autocitazioni, Bellocchio trova una precisa quadratura del cerchio disegnando la sua personalissima Carte du pays de Tendre che popola di persone e, soprattutto, di immagini. Per farlo, in particolare in Sangue del mio sangue, riunisce non solo la sua famiglia ‘reale’ – attori, parenti, amici intercambiabili – ma anche quella ‘in pellicola’, che chiama a raccolta da molti dei suoi film – Vacanze in Valtrebbia, Enrico IV (1984), La visione del sabba, L'ora di religione (2002), Buongiorno, notte, Il regista di matrimoni, Sorelle e Sorelle Mai, Vincere (2009).

Nella consapevolezza che il cinema, pur non mancando di ‘scene madri’, è soprattutto costituito da ‘scene sorelle’, Marco Bellocchio con quest’arte naturalmente esprime un’eccedenza di senso che, aderendo alla realtà secondo il principio barthesiano della “distanza amorosa” (Barthes 1997, 148-150), consente a ognuno di noi di cogliersi nell’atto di guardare.

Fondendo intelligenza e sensualità, le pellicole bellocchiane, che in questo caso abbiamo declinato alla luce del kammerspiel, rinviando a una relazione tra il soggetto che guarda e il mondo visibile, sono particolarmente adatte a far apparire (e quindi a mostrare anche al di là del racconto autobiografico e diaristico) il lento apprendistato dello sguardo: ciò avviene quando chi guarda, cogliendo il valore della ricezione delle immagini sul destinatario, riesce a trasformarsi in un congegno ottico in grado di mettere a fuoco un’altra verità, una sorta di immaginaria via di fuga che, come scrive Enrico Ghezzi riferendosi a Buongiorno, notte, “solo alcuni film sanno sognare” (Ghezzi 2003, 21).

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  • Vacanze in Valtrebbia, di M. Bellocchio, 1980.
  • Salto nel vuoto, di M. Bellocchio, 1980.
  • Gli occhi, la bocca, di M. Bellocchio, 1982.
  • Enrico IV, di M. Bellocchio, 1984.
  • Diavolo in corpo, di M. Bellocchio, 1986.
  • La visione del sabba, di M. Bellocchio, 1988.
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  • Buongiorno, notte, di M. Bellocchio, 2003.
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  • Il regista di matrimoni, di M. Bellocchio, 2006.
  • Sorelle, di M. Bellocchio, 2006.
  • Vincere, di M. Bellocchio, 2009.
  • Sorelle Mai, di M. Bellocchio, 2010.
  • Pagliacci di Ruggero Leoncavallo, Opera messa in scena al Teatro Petruzzelli di Bari, regia di M. Bellocchio, 2014.
  • Sangue del mio sangue, di M. Bellocchio, 2015.
  • Fai bei sogni, di M. Bellocchio, 2016.
  • Il traditore, di M. Bellocchio, 2019.
English abstract

Leaving the representative norms which in the theatre tie the text to its staging, we have analyzed and studied, in the context of the work of Marco Bellocchio, that fusion of signs which, crossing over between the stage and the cinema, gives life to the poetic world of the director. In particular, this analysis, choosing kammerspiel as a key, studying the theatre norms present in Bellocchio’s work. In fact, in his movies, the recurrence of the theatrical form of the kammerspiel is the basis, through repetitions and variations of this form of theatre, of an intersection of languages. This intersection is the balance between an art that always opens the doors of cinema to the theatre. And viceversa.

keywords | home; kammerspiel; courtroom; home movies.

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma).

Per citare questo articolo / To cite this article: M. Pellanda, Panoramiche di interni: l'unità di luogo nel cinema di Marco Bellocchio, “La Rivista di Engramma” n. 172, marzo/aprile 2020, pp. 65-95 | PDF di questo articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2020.172.0002