"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

Tempo e memoria in “…addio del passato…”

Francesco Verona

English abstract

1 | Finale di “…addio del passato…” regia di Marco Bellocchio, 2002.

Piccolo gioiello appartato tra i grandi film di Marco Bellocchio della prima decade degli anni Duemila, “…addio del passato…” (2002) solo apparentemente si presenta come un documentario su La traviata commissionato dal Comune di Piacenza e dal Teatro Municipale della medesima città. In realtà, a ben vedere, è piuttosto un film sulla memoria, sui ricordi: dei luoghi, innanzitutto, quelli celeberrimi dell’“enorme zanzariera della valle del Po” cantati in modo insuperabile da Bruno Barilli (Barilli 2000, 13) che hanno dato i natali a Giuseppe Verdi, e Piacenza, “questa città riservata e parsimoniosa” secondo le parole dello stesso regista “che ho vissuto soprattutto guardandola dalle finestre di casa mia mentre ascoltavo Tito Gobbi scagliarsi contro i cortigiani” (Martini 2002, 8). Ma anche una memoria musicale di quelle terre così intrise di Melodramma e soprattutto di voci, come del resto tanta parte dei piccoli centri periferici italiani (Morelli 1998, 88-90); e ancora, una memoria autobiografica che, stando alle dichiarazioni di Bellocchio (Codelli 2004, 11), configura “…addio del passato…” come un “piccolo film di formazione”, una sorta di ritorno alle origini in cui viene ribadito, se mai ce ne fosse bisogno, il legame tra il regista e la tradizione operistica nazionale. E infine, una memoria che lascia trasparire il suo contrario: la perdita e l’oblio. A partire quindi da questa complessa stratificazione, Bellocchio, prediligendo il punto di vista femminile, ripercorre alcuni tra i momenti più significativi dell’opera verdiana, dai Preludi del primo e del terzo atto, alla grande scena del brindisi; dalle arie e dalle cabalette più famose di Violetta – Sempre libera degg’io e Addio del passato –, fino al grande duetto del secondo atto con Germont padre, la cui centralità viene messa in risalto dal cineasta che gli riserva un segmento notevole del documentario; e non può essere altrimenti, poiché si tratta di uno dei molteplici scontri tra la norma paterna e i figli (questi ultimi destinati per lo più a soccombere), che stanno alla base di molta drammaturgia verdiana, ma che al tempo stesso si ritrovano come nucleo tematico ben presente nella filmografia del regista. Sebbene Bellocchio segua pedissequamente le vicende del Melodramma, egli comunque lo fa alla sua maniera: il personaggio di Violetta Valery viene infatti interpretato da sette attrici-soprano molto diverse tra loro sia fisicamente che vocalmente, le quali si alternano sullo schermo facendo emergere differenti sfaccettature di Violetta; e soprattutto la messa in scena è caratterizzata da un continuo slittamento dei piani spaziali e, quello che più interessa al fine della premessa fin qui fatta, temporali.

Prima di entrare nel dettaglio del documentario è tuttavia necessario soffermarsi, seppure velocemente, sui rapporti tra Bellocchio e l’opera lirica, i quali affondano nell’infanzia-adolescenza del regista e che sono, almeno in parte, legati anche alle prime esperienze cinematografiche: da una parte, infatti, Bellocchio ha sempre dichiarato di aver accarezzato il sogno, ben presto abbandonato a causa di un precoce logoramento della voce, di diventare un cantante lirico (Manin 2016, 28); dall’altra, invece, i primi contatti del giovane regista con il Melodramma avvengono nel buio delle sale parrocchiali dove, nei primi anni Cinquanta, venivano regolarmente proiettati i filmopera allora in auge:

[le prime opere] le ho viste al cinema. Nella sala parrocchiale dove noi ragazzi si andava quasi ogni giorno, liberamente. A quei tempi, negli anni ’50, i film tratti da titoli lirici andavano molto e il prete non ne perdeva uno. Perché erano storie popolari, che tutti conoscevano e per di più innocue. Pellicole ‘per tutti’, il giudizio più rassicurante nelle liste di salvaguardia morale cinematografica esposte negli oratori. Ma il melodramma, con buona pace di quegli anonimi censori cattolici, è pericoloso. I suoi intrecci nascondono torbidi sentimenti e grandi efferatezze. Quindi mi piaceva moltissimo. E il cinema dei preti diventò il mio palco dell’opera. [Di quei titoli ricordo] le tinte forti della musica, certe ambientazioni spettacolari, il tormento e l’estasi degli amori infelici. E la bellezza di alcune protagoniste… Gina Lollobrigida nell’Elisir d’amore e in Pagliacci, Sofia Loren con la pelle e il seno color cioccolato nei panni di Aida, Antonella Lualdi sensuale Madeleine de Coigny nell’Andrea Chénier (Manin 2016, 28).

L’opera, così come il cinema, diviene dunque, secondo una felice definizione di Lorenzo Bianconi, una vera e propria “educazione sentimentale” (Bianconi 2003, 207), una palestra formativa in cui, oltre agli eccessi delle passioni e alle prime prese di posizione contro il bigottismo di un certo cattolicesimo reazionario, trapelano le adolescenziali fantasie erotiche solleticate dalla vista delle forme delle dive. La dichiarazione inoltre è particolarmente significativa poiché è la riprova di una capillare diffusione del teatro musicale che si ritroverà parzialmente in “…addio del passato…”, a cui concorre in misura determinante il cinema italiano del secondo dopoguerra: le innumerevoli trasposizioni cinematografiche dei più celebri Melodrammi – Sergio Miceli ricorda che tra il 1946 e il 1956 sono stati prodotti in Italia diciotto filmopera (Miceli 2010, 842) – hanno infatti permesso “di mantenere in vita lo spettacolo lirico” (Casadio 1995, 10) a dispetto dei numerosi teatri distrutti durante i bombardamenti, consentendo anche a vasti strati di popolazione la possibilità di fruire di voci di altissimo livello (Gino Bechi, Mario Del Monaco, Renata Tebaldi solo per citare alcuni tra i nomi più illustri).

Formazione a parte, è l’intera filmografia di Bellocchio – e negli ultimi decenni anche le regie teatrali e quella televisiva di Rigoletto a Mantova (2010) – a rimarcare questo legame pressoché indissolubile con il teatro musicale; legame che, sia detto fin da subito, ha attraversato diverse fasi, subendo, nel corso degli anni, un radicale rovesciamento: da uno sguardo derisorio e denigratorio della tradizione ottocentesca, simbolo di una classe sociale muffita, che ha caratterizzato tutti i primi lungometraggi – dal finale de I pugni in tasca (1965) fino alle deformazioni grottesche del repertorio lirico in Nel nome del padre (1971) –, a una posizione diversa e per certi versi antitetica che si è fatta strada a partire dalla fine degli anni Novanta con La balia (1999), trovando in Vincere (2009) uno dei suoi vertici. In questa nuova ottica, il Melodramma diviene un punto di riferimento inamovibile tanto per la costruzione filmica, quanto per filtrare e leggere la Storia – si veda a tal proposito, oltre a Vincere, anche Il traditore (2019) – quanto, infine, per far emergere, in una sorta di dichiarazione d’intenti, alcuni tratti della propria poetica: in questa chiave, credo, si possono leggere i riferimenti a Recitar!… mentre preso dal delirio (Pagliacci) disseminati in più film.

Il documentario “…addio del passato…” si inserisce pertanto in tale rinnovata prospettiva e già dal prologo che anticipa i titoli di testa lascia emergere, nascosto dietro a una disputa sulla presunta ‘piacentinità’ di Giuseppe Verdi, il vero tema portante, quello della memoria e dell’oblio, del ricordare e del dimenticare. Ecco allora che un gruppo di anziani melomani riuniti intorno a una tavolata e intenti a discutere sulla qualità delle voci dei cantanti, affermano la superiorità di Piacenza rispetto a Parma, chiamando a sostegno di questa tesi le tre grandi glorie locali: Gino Bonelli, Flaviano Labò e Gianni Poggi. Attraverso queste primissime inquadrature il film cerca dunque di salvare, attraverso il ricordo ma senza scivolare in un atteggiamento stucchevolmente nostalgico, il passato, una memoria collettiva da cui ramificare il proprio percorso di scavo autobiografico. Una memoria che è innanzitutto composta di voci, ovvero qualcosa di apparentemente immateriale, aereo: ecco allora che accanto ai già citati tenori – paragonati, per accrescerne l’importanza, al trio Pavarotti, Domingo, Carreras – appaiono a più riprese sullo schermo due voci storiche del Novecento: il baritono piacentino Carlo Torregiani impegnato a cantare Di Provenza il mar, il suol ed Eugenia Ratti, soprano di coloratura che ha esordito negli anni Cinquanta. La presenza della donna evoca, attraverso i suoi ricordi – “morire in teatro era una cosa stupenda per me” dirà in una delle sequenze conclusive –, un’epoca che sembra irrimediabilmente perduta, lontana; al contempo, la sua fisicità e la grana della sua voce, al pari di quella di Torregiani, diviene una traccia visibile del passato, su cui si sono inscritti i segni del tempo.

Memoria di voci e di cantanti illustri, dunque, ma anche memoria di luoghi profondamente innervati dalla tradizione e dal ‘verbo’ verdiano: non può mancare ovviamente la casa del compositore nel comune di Villanova d’Arda la cui messa in scena è spogliata di tutta quella vieta mitografia che così frequentemente accompagna la figura di Verdi e, anzi, in alcune scelte registiche sembrano fare capolino spazi cari al cinema bellocchiano: i corridoi su tutti, ritratti in penombra. Ma sono soprattutto i luoghi anonimi, sconosciuti, a interessare Bellocchio, siano quelli di cooperative locali o le stanze di ritrovo degli ‘Amici della Lirica’. Non è affatto un caso, quindi, che tanta parte di “…addio del passato…” sia ambientata proprio tra le tavolate dove si ritrovano i melomani del posto: un ritratto carico di partecipazione e affetto di un mondo di provincia non più così attuale, e forse a ben vedere in via d’estinzione (e oggi, a quasi vent’anni di distanza dal documentario, probabilmente e irrevocabilmente ancora di più). Un universo ‘marginale’ fatto certamente di cattive esecuzioni tanto amate da Montale come il coro di Libiam ne’ lieti calici non propriamente aggraziato e neppure così a tempo; e soprattutto un mondo intimamente legato a una terra permeata di musica e di Melodramma, in cui “Giuseppe Verdi sta come un padre benigno e severo, insostituibile”, secondo la mirabile descrizione di Attilio Bertolucci racchiusa in quel piccolo scrigno che è Capriccio verdiano (Bertolucci 1997, 961); ed è lo stesso Bellocchio, quando dichiara di “aver sempre ‘respirato’ Verdi” (Codelli 2004, 11), a non fare mistero della presenza costante di questo genius loci. Luoghi, si diceva, solcati, al pari di molte province italiane, da una capillare diffusione della tradizione operistica, la quale tuttavia è chiamata a fare i conti con i tempi che cambiano, con la possibilità che tutto un bagaglio culturale vada perduto: il Melodramma, insomma, è veramente intramontabile come afferma uno degli intervistati a inizio film? A più riprese Bellocchio si interroga e interroga i suoi interlocutori su questo aspetto e, senza abbandonarsi a facili e inutili catastrofismi, sulla possibilità di salvare il passato dalla caducità del tempo; non a caso le parole ‘dimenticare’ e ‘ricordare’ fanno da leitmotiv fin dalle prime sequenze del film: Parma non ha mai dimenticato Verdi, afferma uno degli uomini, Piacenza invece sì, e si è ricordata per la prima volta in modo serio del compositore solo nel centenario della sua scomparsa. Serpeggia inoltre, neppure così velatamente, un altro interrogativo: cosa rimane oggi di tutta questa enorme e nobile eredità? Con disincanto Edoardo Sanguineti rifletteva, proprio in occasione delle celebrazioni verdiane del 2001:

comunque, checché si dica, […] è difficile, e forse impossibile, non dirci, storicamente parlando, sempre, tutti quanti, in un modo o in un altro, verdiani. È stato impossibile, l’ho detto, fino a ieri, forse fino a oggi. Quanto però al secolo, al millennio che nasce, francamente non so, e credo che non possiamo sapere, e credo che abbiamo discrete ragioni per dubitarne, e per dubitarne fortemente (Sanguineti 2001, 36).

Il dubbio di Sanguineti – che invero sembra quasi una certezza – è simile a quello di Bellocchio, il quale tuttavia mantiene una posizione ambivalente: da una parte, a margine di una delle interviste, si lascia andare a un commento fuori campo, un “eh, sì” tra lo sconsolato e il sarcastico sulla possibilità che i giovani possano conoscere il repertorio operistico; dall’altra, invece, è proprio una giovane, o meglio, una giovanissima a interpretare il personaggio di Violetta in alcune sequenze del documentario. Di più, è proprio questa ragazza – Eleonora Alberici – a intonare tra le mura della propria cameretta di adolescente l’aria Addio del passato seguendo la linea vocale di Maria Callas, quasi a voler rinsaldare una linea di continuità tra il passato e il presente, che parzialmente sconfessa, o quantomeno rivede, la presa di posizione pessimistica.

Proprio quest’ultima porzione filmica racchiude alcuni tra gli elementi più originali di tutto il documentario, ovvero l’alterazione dei piani temporali attraverso l’inserimento di immagini di repertorio, che è una delle caratteristiche, non solo di “…addio del passato…”, ma anche di molti film del regista (tra i tanti Buongiorno, notte e Vincere). Tale processo stilistico si ravvisa già nel prologo, in cui risuonano le prime quattordici battute del Preludio del primo atto, il cui tratto etereo donato dai violini divisi è pari soltanto alla “lacerante tristezza” (Budden 1988, 140) del disegno musicale ascendente; e su questa melodia degli archi punteggiata solo nel finale dall’ingresso del clarinetto e del corno, scorrono delle immagini di repertorio in bianco e nero accompagnate dalla lettura in dialetto della struggente e nostalgica poesia Piacenza di Valente Faustini: “Io sono nato sul sasso della mia Piacenza / e sono cresciuto / come un fiore dei nostri prati / sono salito dove il Trebbia nasce / poi l’acqua mi ha portato fino al Po./ Ma dopo Monticelli / mi sono attaccato alla riva / se andavo un po’ più in là… ohimè! Morivo!”. La musica, unitamente al testo della poesia, diviene quindi parte attiva del processo di costruzione della memoria, si potrebbe dire che i frammenti strappati dal passato principino proprio a partire dalle note verdiane; e le immagini salvate da Bellocchio, inserite come schegge di un tempo remoto, sono tanto quotidiane, quanto cariche di significati simbolici: la ferrovia, Piazza Cavalli a Piacenza, e soprattutto il fiume, “luogo mitico di una origine generatrice di immagini e storie” (Salvatore 2012, 52), come già in Vacanze in Valtrebbia (1980) e più tardi in Sorelle Mai (2010).

2 | Fotogramma di “…addio del passato…” regia di Marco Bellocchio 2002 (Preludio del primo atto di La traviata).

Accanto alle interviste, alle esecuzioni canore e alla spiegazione di alcuni snodi drammaturgici e musicali di La traviata, l’intero documentario è costantemente puntellato da immagini di repertorio che affiorano all’improvviso, proprio come un ricordo involontario attivato a partire dalla musica; queste tracce sono ravvisabili sia nel finale del film, ma soprattutto nella sequenza già citata in cui viene messa in scena l’aria Addio del passato, momento in cui Violetta si congeda dai sogni di felicità poco prima di morire. Al di là della sovrapposizione di diverse interpreti, ancora una volta irrompono tali immagini che sembrano prendere vita e consistenza dai versi intonati e dal timbro doloroso dell’oboe: è infatti tra la prima e la seconda strofa, proprio nel momento dell’assolo dello strumento, che esse si infittiscono sullo schermo: un padre che tiene per mano il figlio e quest’ultimo che gioca con un altro bambino, le quali vanno ad aggiungersi a una giostra che si era vista qualche secondo prima.

3 | Fotogramma di “…addio del passato…” regia di Marco Bellocchio, 2002.

Si tratta di pochissimi secondi che alterano la scansione ritmica e temporale della sequenza e possono essere letti come dei veri e propri lacerti del passato che si traducono in immagini a partire dalla melodia: è dalla musica infatti che vengono generati i ricordi – un’infanzia? una giovinezza? – che paiono ‘zampillare’ in modo incontrollato dalla rievocazione autobiografica del regista e che successivamente prendono forma e si concretizzano in filmati di repertorio, anch’essi quindi ‘rubati’, ‘strappati’ dal passato.

Il lavoro sul tempo portato avanti per tutto il corso del documentario si condensa nel finale, in cui Bellocchio mette in scena l’incessante movimento oscillatorio della memoria autobiografica, secondo un’inestricabile alternanza di ritorno nei luoghi intrisi dei propri ricordi e ineluttabile separazione: sui titoli di coda, infatti, la macchina da presa, posta all’interno di un’automobile, inquadra in primo piano Valeria Ferri, una delle Violette presenti all’interno del film, mentre intona per l’ultima volta Addio del passato. La donna sta lasciando Piacenza di notte, in un susseguirsi di luci e immagini fuori fuoco colte dal finestrino – splendida è la fotografia firmata da Pasquale Mari –, che restituiscono una visione della città per frammenti, e, mentre delle lacrime le rigano il volto, con voce rotta dalla commozione, canta: “Ah della Traviata sorridi al desio / A lei, deh perdona, tu accoglila, o Dio / Or tutto finì”. Esattamente come recitano gli ultimi versi dell’aria, ora tutto è finito: lo scavo nella memoria personale del regista e quello nella sua terra d’origine si è compiuto e non resta che il momento dell’inevitabile separazione. Un camera-car inquadra, tra i ‘singhiozzi’ dei violini del Preludio del terzo atto che acuiscono il senso di dolore e di nostalgia, deserte e silenziose strade di provincia, mentre l’automobile abbandona il centro cittadino dirigendosi verso un luogo oscuro e sconosciuto; una densa coltre di nebbia, solcata dalla luce abbacinante dei fari, si posa sulla pianura circostante e sfalda i contorni, immergendo le immagini in una sorta di stato onirico, cifra espressiva che caratterizza molto cinema di Bellocchio. L’illusione momentanea di un passato che riaffiora e il senso di perdita intimamente legato a esso, cedono il passo alla presa di coscienza del necessario distacco.

Riferimenti bibliografici
  • Barilli 2000
    B. Barilli, Il paese del melodramma, Milano 2000.
  • Bertolucci 1997
    A. Bertolucci, Opere, a cura di P. Lagazzi e G. Palli Baroni, Milano 1997.
  • Bianconi 2003
    L. Bianconi, Risposta a Giuliano Procacci, in F. Della Seta, R. Montemorra Marvin, M. Marica (a cura di), Verdi 2001 , atti del convegno internazionale, vol. I, Firenze 2003.
  • Budden 1986
    J. Budden, Le opere di Verdi. Dal Trovatore alla Forza del destino, vol.2, [The Operas of Verdi, London 1978] traduzioni di A. Conte, C. Dapino, F. Della Seta, J. Douthwaite, L. Fontana, C. Vitali, Torino 1986.
  • Casadio 1995
    G. Casadio, Opera e cinema, Ravenna 1995.
  • Codelli 2004
    L. Codelli, Entretien avec Marco Bellocchio. Un rite quasi funèbre, “Positif”, 516, février 2004.
  • Manin 2016
    G. Manin, Voci da film, “Classic Voice”, 204, maggio 2016.
  • Martini 2002
    E. Martini, Addio del passato, “Cineforum”, 9/419, novembre 2002.
  • Miceli 2010
    S. Miceli, Musica per film. Storia, Estetica-Analisi, Milano 2010.
  • Morelli 1998
    G. Morelli, L’opera, in M. Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia unita, Roma-Bari 1998.
  • Salvatore 2012
    R. Salvatore, “Vedere con l’inconscio”, Sorelle Mai tra autofinzione e autoritratto, in Lo stato delle cose. Cinema e altre derive. Duemila12, Torino 2012.
  • Sanguineti 2001
    E. Sanguineti, Verdi in technicolor, Genova 2001.
Filmografia
  • I pugni in tasca, di M. Bellocchio, 1965
  • Nel nome del padre, di M. Bellocchio, 1971
  • Vacanze in Valtrebbia, di M. Bellocchio, 1980
  • La balia, di M. Bellocchio, 1999
  • Buongiorno, notte, di M. Bellocchio, 2001
  • “…addio del passato…”, di M. Bellocchio, 2002
  • Vincere, di M. Bellocchio, 2009
  • Rigoletto a Mantova, di M. Bellocchio, 2010
  • Sorelle Mai, di M. Bellocchio, 2010
  • Il traditore, di M. Bellocchio, 2019
English abstract

At first sight “…addio del passato…”, a brief film by Marco Bellocchio released in 2002, seems to be just a documentary about Verdi’s La traviata from the point of view of the main character, Violetta. Actually, it is a reflection about the past, the memory and the memory building process which is related to the music. Starting from a collective memory of Verdian and operatic tradition and the places where this tradition has developed, Bellocchio, through famous moments of La traviata and archive images, digs into his own authobiographical memory.

keywords | Marco Bellocchio; Opera; La traviata; Memory

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma).

Per citare questo articolo / To cite this article: F. Verona, Tempo e memoria in “...addio del passato...”, “La Rivista di Engramma” n. 172, marzo/aprile 2020, pp. 145-154 | PDF di questo articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2020.172.0003