"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

175 | settembre 2020

97888948401

Villa Planchart a Caracas

Conservazione e de-costruzione del mito

Andrea Canziani*, Sara Di Resta**

English abstract

“Non c’è ragione perché l’architetto continui [...] a concepire il restauro come un torneo cavalleresco tra il vecchio e il nuovo, dove il restauro ‘riuscito’ è un monumento morto con l’onore delle armi.
Un affondo conoscitivo, noi sosteniamo, un nuovo punto di vista che modifica la percezione di un oggetto vuole anche dire ‘fare opera’, almeno da quando vale l’assunto che, parafrasando Duchamp, c’est le regardant qui fait le monument
(Reichlin 2011).

1 | Docomomo Venezuela ISC Technology, Villa Planchart, facciata est, 2018.

L’8 dicembre 1957 si inaugura sulla collina di San Roman a Caracas la casa di Ana Luisa Braun e Armando Planchart: El Cerrito, forse la villa più famosa progettata da Gio Ponti [Fig. 1].

Sono passati poco più di quattro anni dal 17 giugno 1953, quando per la prima volta i Planchart incontrano l’architetto nello studio di via Dezza a Milano. Il cantiere inizia il 21 febbraio 1955 e come sempre il primo grande narratore di se stesso e della sua opera è proprio Ponti, che presenta sulle pagine del numero del febbraio 1955 di “Domus” la casa che sta costruendo quando è ancora solo un modello da realizzare.

La villa è “figlia” – questa la parola esatta usata da Ponti (1955, 8) – delle esperienze legate ai viaggi del 1953 in America Latina, ed è il frutto delle ricerche sviluppate in altri progetti, che illustra largamente nell’articolo: l’Istituto di Fisica nucleare a San Paolo, la Fondazione Lerici a Stoccolma, e ancora il Centro Garzanti a Forlì e Palazzo Lancia a Torino, nonché il Grattacielo Pirelli in costruzione a Milano.

Della villa, Ponti enumera precisamente le caratteristiche e offre lo spartito secondo cui interpretare i veri caratteri dell’opera. Un primo elemento è legato all’esaltazione delle superfici portate, ossia il distacco, l’una dall’altra, delle superfici piane di pareti e coperture, che ne rivela “l’esiguo spessore e la tipica leggerezza derivata dalla tecnica moderna”. Perché

la costruzione, oggi, è posata sulla terra […] nel più palese contrasto con l’espressione di peso che caratterizzava l’architettura di un tempo. [E così] ho sognato una villa che si posasse sul terreno come una farfalla bianca, senza peso, né volume, né massa (Ponti 1955, 10).

Poi le finestre a filo esterno, per non bucare le superfici, per far sì che l’arretramento dei serramenti non generasse né ombra né spessore. In terzo luogo l’autoilluminazione notturna, ossia l’uso plastico della luce per determinare, nelle ore del buio, una precisa apparenza formale dell’edificio, che non avrebbe dovuto caratterizzarsi solo attraverso la luce degli interni ma avere una sua propria espressione. Infine, la forma aperta delle piante, linee che limitano ma non chiudono gli spazi, linee che non si incontrano ma evitano ogni parallelismo (Ponti 1955; Ponti 1957). La forma obbedisce alle vedute, ai venti e al sole, ma soprattutto alle visuali interne e alle viste verso l’esterno “perché l’architettura, senza essere scenografia, è però uno spettacolo di spazi” (Ponti 1955, 13). E perché non vi fossero dubbi, disegna nelle piante tutte queste visuali e i punti di vista da cui fruirle. Sono le sue famose planimetrie, che resteranno sempre, non solo per questo edificio, un tratto unico pontiano [Fig. 2].

2 | Gio Ponti, Villa Planchart, pianta del piano terra. “Domus” 303, 1955.

Sei anni dopo la villa tornerà sulle pagine di “Domus”, nel numero di febbraio del 1961. Questa volta il testo di Ponti è secondario rispetto all’apparato iconografico di Paolo Gasparini e Giorgio Casali costituito da ben 76 immagini, che possono far comprendere meglio di un testo – dice Ponti – le caratteristiche della costruzione, che sono, ovviamente, quelle descritte già nel 1955.

3 | Giorgio Casali, Villa Planchart, facciata sud, veduta esterna diurna, 1953-57, negativo su vetro. Università Iuav di Venezia, Archivio Progetti, fondo Giorgio Casali, inv. 041193-1.
4 | Giorgio Casali, Villa Planchart, facciata nord, veduta esterna notturna, 1953-57, negativo su vetro. Università Iuav di Venezia, Archivio Progetti, fondo Giorgio Casali, inv. 041193-4.
5 | Giorgio Casali, Villa Planchart, il salone a doppia altezza visto dal ponte-balconata al primo piano, 1953-57, negativo su vetro. Università Iuav di Venezia, Archivio Progetti, fondo Giorgio Casali, inv. 041193-5.
6 | Giorgio Casali, Villa Planchart, stanza da letto matrimoniale, 1953-57, negativo su vetro. Università Iuav di Venezia, Archivio Progetti, fondo Giorgio Casali, inv. 041193-5.

La villa comincia a comporsi nello sguardo dei fotografi, che coincide con quello dell’architetto. Casali è il fotografo di “Domus”, è l’occhio di Ponti sulle pagine della sua rivista [Figg. 3-6]. Gasparini gli si affianca, lavorando

[...] non solo da espertissimo fotografo quale egli è, in questo difficile campo delle fotografie d’architettura, ma anche da conoscitore dell’architettura (senza di che non la si fotografa). Egli ha fotograficamente reso nel miglior modo possibile questo complesso difficilissimo da riprodurre, perché qui ogni spazio si apre per più lati sull’altro, determinando una serie di mutevoli spettacoli architettonici, composti e integrati gli uni con gli altri, con vedute incrociate, attraversanti, d’infilata, e dall’alto in basso e viceversa; e con dislivelli e trasparenze, componendo piani e spazi in un gioco senza intermittenze, dove sempre nuove prospettive appaiono e si inquadrano col muoversi del visitatore (Ponti 1961, 1).

Il testo e le immagini ribadiscono i punti fermi della composizione:

Si può osservare in queste fotografie degli esterni, come i muri di facciata, muri portati, appaiano distaccati fra loro ai margini, e non si incontrino sugli angoli a formare volume chiuso e pieno: ciò perché il muro – che non è più portante ma è solo uno schermo portato dalla struttura – non deve ‘pesare’ neanche visualmente; e ciò è espresso dalla evidenza dei suoi bordi sottili. Questi muri di facciata sono distaccati anche dalla copertura, la cui ampia, e sottile ala di gronda appare come la continuazione del soffitto del salone. Questo tetto è come una grande ala appoggiata sulla casa, a proteggerla. Le pareti esterne, e il disotto dell’ala di gronda, sono rivestiti in mosaico bianco di ceramica (Ponti 1961, 11).

Nelle parole di Ponti l’attribuzione delle immagini sembra voler riconoscere al fotografo venezuelano un ruolo di esclusività nella documentazione della villa. Paolo Gasparini ha indubbiamente potuto avere una particolare facilità nel lavoro di documentazione, in quanto fratello di Graziano Gasparini, direttore del cantiere a partire dal 1957. Gli scatti del fondo Casali conservati all’Archivio Progetti dello Iuav di Venezia fanno emergere, in realtà, un ruolo rilevante di Casali, a cui devono attribuirsi parte degli scatti pubblicati sul numero 375 di “Domus”.

Coloro che hanno contribuito a generare questa enorme scultura astratta da guardare “non dal di fuori ma dal di dentro”, secondo le parole di Ponti (1961, 1), si affacciano in questa descrizione: sono ovviamente i due committenti, ma anche i produttori di oggetti e arredi, e i due collaboratori venezuelani a cui viene riconosciuta una “collaborazione esecutiva” – l’ingegner Mario De Giovanni a cui succederà negli ultimi mesi del cantiere l’architetto Graziano Gasparini (Ponti 1961, 2).

Il racconto nelle pubblicazioni successive si concentra sempre di più sulla personalità magnetica di Ponti, che anche attraverso la corrispondenza postale con i Planchart contribuisce a costruire il mito di questa architettura come il risultato di una volontà demiurgica potentissima. Quando la villa appare sulle pagine di “Abitare” nel 1987 è proprio il racconto accennato nelle bellissime lettere pontiane a guidare il discorso. L’articolo sorvola su quanto queste lettere in realtà rappresentino: esse sono parte integrante del processo progettuale che evolve nel tempo e non si limita agli elaborati grafici disegnati a Milano o a Caracas, e non coinvolge solo i Planchart. In lettere come quella del 28 agosto 1956 si capisce come Ponti cerchi di riconoscere, nelle immagini del cantiere che gli sono state inviate, le corrispondenze del suo progetto con quanto realizzato a Caracas. Appare qui un elemento di estrema importanza nella ricostruzione della realtà materiale dell’opera: il margine di incertezza di questa realizzazione transatlantica – una sorta di ‘anomalia’ quella di un’architettura “costruita per lettera, per telefono, per telegramma, su fogli dipinti, da sogni sognati, da modelli al vero” (Greco 2008, 9) che emerge tra le righe di una corrispondenza in cui Ponti sembra doversi accontentare di quel che le immagini gli restituiscono di certi dettagli; in cui dice di aver spiegato a De Giovanni come fare le cose, ma vorrebbe più spiegazioni e più fotografie; in cui non può che raccomandarsi che “occorre che siate rigorosissimi su tutti i punti. La Villa Planchart è il mio capolavoro” (Archivio Fondazione Planchart).

Gli archivi che conservano questi materiali – le lettere, presso l’Epistolario Gio Ponti di Milano; i disegni di progetto, al Centro Studi e Archivio della Comunicazione di Parma; le fotografie, presso il Gio Ponti Archives di Milano; i documenti in possesso della committenza, alla Fundación Anala y Armando Planchart a Caracas – sono in corso di spoglio e studio nell’ambito della ricerca in corso, proprio con la finalità di ricostruire la vicenda di edificazione della villa.

Le decisioni prese in cantiere dai due collaboratori venezuelani per risolvere molteplici aspetti di dettaglio introducono inevitabilmente discrepanze e variabili ma, alla fine della realizzazione, la villa incarna per Ponti le caratteristiche che aveva tracciato fin dal 1955. Si tratta di un modello del modello di se stessa, in cui la casa viene fatta apparire come il punto di arrivo di una lunga ricerca sull’abitazione all’italiana e sull’integrazione di architettura e arte

[...] dai quadri di Morandi a quelli di Campigli, dalle opere di Melotti e di Rui ai vetri di Venini e Seguso, alle ceramiche di Gambone, alle sete di Ferrari, alle sedie e poltrone di Cassina, agli oggetti di Danese. Il più dei mobili e delle finiture son stati eseguiti magistralmente da Giordano Chiesa, non produttore soltanto ma vero collaboratore; le lampade sono di Arredoluce; i tappeti ‘astratti’, in pelle di vacca, sono di Colombi di Milano: i marmi sono marmi italiani (Ponti 1961, 2).

E il mito della casa prosegue come un esempio di positivo coinvolgimento delle “forze migliori del made in Italy degli anni ‘50” (Irace 1987, 214).

Finalmente, in occasione della campagna fotografica del 1988 per il numero 60 della rivista “Lotus International” e poi per la monografia firmata da Gomez (2009), il lavoro di Chiaramonte introduce, attraverso la sua modalità di lettura dello spazio, uno spostamento dai coni ottici pontiani, offrendo un nuovo sguardo attraverso viste inedite che interpretano l’oggetto (Chiaramonte 1988, 106-111). Spostarsi dai coni ottici prestabiliti è anche quello che si richiede a chi voglia raccontare il presente di un’architettura e non solo calarsi in una storia già scritta. Fornire un nuovo sguardo è metaforicamente uno degli scopi della ricerca finalizzata alla conservazione; il suo racconto deve contenere sia la conoscenza degli eventi che portano alla realizzazione, sia lo studio e la documentazione della vita successiva dell’opera: non può risolversi nel punto di vista e nel tempo del suo progettista.

Nel caso di Villa Planchart questo sguardo deve anche orientarsi al futuro, perché si devono considerare le condizioni di rischio generate dall’emergenza del quadro politico, economico e sociale in cui versa il Venezuela, condizioni che rivendicano anche un ampliamento sostanziale nelle competenze del restauro architettonico contemporaneo. Se nel ventesimo secolo il dibattito si è concentrato sulla dimensione ermeneutica del progetto e sulla conseguente definizione di metodologie e tecniche di intervento per il contrasto al decadimento della materia, la situazione attuale richiede alla tutela un’estensione della dimensione metodologica e operativa verso la realtà socio-economica dei beni culturali e verso la gestione delle condizioni estreme cui il patrimonio mondiale è progressivamente sempre più esposto.

In quest’ottica, nel dicembre 2019 l’Università Iuav di Venezia ha avviato il progetto “Heritage in danger. Conservation Plans between protection and emergency in Villa Planchart case” con il co-finanziamento di Docomomo Venezuela e la collaborazione di Fundación Anala y Armando Planchart e di Docomomo International ISC Education + Training. Lo scenario in cui si sviluppa la ricerca è quello della mitigazione delle situazioni di rischio per indirizzare e governare, nel tempo, gli interventi di progetto e le azioni di conservazione connesse alla salvaguardia del patrimonio architettonico moderno e contemporaneo.

L’inasprirsi della crisi economica e umanitaria del Venezuela coincide nel 2018 con il contestato reinsediamento alla presidenza di Nicolás Maduro. Per Villa Planchart e per il patrimonio moderno del paese questo quadro rappresenta un primo aspetto di criticità, che si traduce nella difficoltà di definire e di rendere esecutive le necessarie azioni di salvaguardia: la notizia dei gravi crolli avvenuti nel giugno 2020 nella Ciudad Universitaria di Caracas, opera di Carlos Raúl Villanueva (1940-60), patrimonio Unesco dal 2016, costituisce purtroppo un ulteriore esempio di questa emergenza.

Conseguenza della precarietà del quadro politico e dell’assenza di dialogo con la comunità internazionale è inoltre la sostanziale impossibilità di accedere ai bacini di finanziamento e ai grant necessari a garantire i fondi da destinare agli interventi di conservazione dell’edificio, dei suoi elementi d’arredo, delle opere d’arte e del parco. Se l’assenza di manutenzione – e di expertise per attuarla – mettono in pericolo la permanenza fisica del monumento come opera d’arte totale, l’incertezza nell’erogazione di luce e acqua rappresentano una minaccia anche per la sopravvivenza delle più di mille e trecento specie autoctone di orchidee della straordinaria collezione di Anala Planchart, e delle altre specie che compongono il parco tropicale progettato da Ponti per El Cerrito (Gomez 2007; Gomez 2009).

7 | Docomomo Venezuela ISC Technology, Villa Planchart, giardino interno sud o ‘de la Melancolía’, fenomeni di colonizzazione biologica, 2020.
8 | Docomomo Venezuela ISC Technology, Villa Planchart, facciata ovest, fenomeni di degrado. Si noti il sistema di autoilluminazione notturna nascosto dietro ai ‘muri portati’, 2020.
9 | Docomomo Venezuela ISC Technology, Villa Planchart, degrado delle superfici in tessere musive, 2020.
10 | Docomomo Venezuela ISC Technology, Villa Planchart, il patio con la parete in ceramica smaltata realizzata da Fausto Melotti, 2019.
11 | Docomomo Venezuela ISC Technology, Villa Planchart, fenomeni di degrado della parete in ceramica smaltata realizzata da Fausto Melotti, 2019.
12 | Docomomo Venezuela ISC Technology, Villa Planchart, pannelli ‘a ventola’ dalla balconata degli ospiti, 2019.
13 | Docomomo Venezuela ISC Technology, Villa Planchart, degrado dei materiali lapidei, 2020.

La vicenda di questa icona del Moderno pone questioni centrali legate tanto all’eredità culturale dell’opera quanto all’elaborazione di strategie in grado di rispondere a problemi di conservazione di natura intrinseca ed estrinseca. A quest’ultima categoria va ricondotto il secondo aspetto di rischio generato dalle condizioni d’uso del bene, oggi aperto alla fruizione pubblica come indispensabile mezzo di sostentamento economico della Fondazione Planchart. Accanto a fenomeni di obsolescenza materiale e tecnologica che evidenziano fragilità connesse alla costruzione [Figg. 7-13], si sta infatti assistendo al progressivo mutare delle esigenze contemporanee (esigenze d’uso, di comfort, di sicurezza) che mettono a rischio l’architettura nella sua integrità materiale. Come ben evidenzia de Jonge, infatti, “l’introduzione di stringenti requisiti tecnico-funzionali ha reso obsoleti molti edifici del Moderno sebbene essi garantiscano ancora le loro prestazioni originarie” (de Jonge 2017, 62-105).

Un terzo livello di rischio identifica un altro aspetto della condizione più generale del patrimonio del ventesimo secolo, della sua ricezione da parte della contemporaneità e dell’idea di restauro che, su di esso, tende a esprimersi. Il Moderno subisce da almeno trent’anni un processo di banalizzazione che riduce il restauro a operazione di ripristino e che persegue i concetti ormai superati – quantomeno in sede teorica – della ricerca di unità e integrità dell’immagine originaria; un atteggiamento diffuso in ambito internazionale che sposta il concetto di identità dell’architettura dalla costruzione ai contenuti del progetto originario.

Villa Planchart, in quanto espressione di una identità non riconducibile a un’unica origine, rappresenta un caso particolarmente significativo anche perché in grado di mettere in crisi tali atteggiamenti: quale sarebbe ‘l’originale della villa’ stante le numerose varianti di progetto, i ripensamenti, le modifiche in corso d’opera, le contingenze del cantiere? Il rischio più diffuso per il Moderno risiede dunque nell’allontanamento dall’impostazione teorico-metodologica del restauro tradizionale, inteso come processo di interpretazione dell’esistente e come riconoscimento di distanza storico-critica dal passato. Questa deviazione ha portato ad assumere automatismi che tendono a spostare l’intervento al di fuori del restauro, perché dentro al ripristino, e a ridurre la conoscenza a strumento finalizzato alla riproduzione delle forme.

Già a partire dagli anni Ottanta del Novecento le architetture moderne, diverse dall’antico in primis per la novità della loro condizione materiale, sembravano porre problemi conservativi insolubili perché inediti rispetto alla prassi consolidata del restauro. Dal punto di vista metodologico l’apparente necessità di nuove strategie d’intervento ha provocato una battuta d’arresto – se non una regressione – nel dibattito. Questo percorso continua a causare perdite consistenti nel patrimonio culturale e si basa su un fraintendimento che identifica tali operazioni come una sorta di ‘restauro a parte’:

Oggetto del dibattito è [...] il presunto carattere autonomo del restauro dell’architettura e, in generale, dell’arte della modernità. A parte la difficoltà concettuale di creare un taglio così netto in un flusso temporale che probabilmente in futuro mostrerà più fattori di continuità di quel che oggi possiamo osservare, resta infatti tutta da definire la diversità dell’opera d’arte moderna rispetto alla produzione precedente (Varagnoli 1998, 111).

I problemi posti dalla conservazione delle architetture del passato recente nascono in effetti da una condizione nota. L’ingresso di un oggetto nel patrimonio culturale presuppone la consapevolezza della sua storicità, e questo riconoscimento, che è sempre un atto contemporaneo, identifica un passaggio fondamentale: l’accettazione che quella ‘modernità’ non sia più moderna, ma appartenga al passato. Potremmo dire con Varagnoli:

Noi restauriamo le opere moderne probabilmente proprio perché non sono più tali; se fossero veramente dell’oggi, attuali (il tardo-latino modernus deriva da modo, adesso) non percepiremmo neppure il problema. Come è sempre successo nella cultura occidentale, l’interesse conservativo si accompagna alla coscienza della caducità e dello stacco tra presente e passato. Senza stacco, senza morte, non può esserci desiderio di rinascita o trasmissione di memoria (Varagnoli 1998, 114).

Per le architetture del ‘secolo breve’ questa soluzione di continuità è spesso di difficile percezione proprio a causa del concitato sovrapporsi degli avvenimenti che prevarica la cognizione del tempo trascorso.

In un contesto come quello delineato, il carattere più adatto a cogliere la condizione attuale del patrimonio culturale del Novecento è quello della fragilità, una mancata resilienza del Moderno non tanto verso la prova del tempo, quanto piuttosto verso le ragioni di carattere ideologico che hanno guidato i troppi restauri errati, tesi alla conservazione dell’immagine di questi “miti della modernità” (Dal Co 1996, 12-16) così come richiesto dai sempre più numerosi visitatori. Queste opere presentano problemi tecnicamente inediti che richiedono, come tali, competenze e studi specifici, ma che non mutano il quadro teorico di riferimento e che, certamente, non tracciano le basi per la costituzione di una disciplina autonoma.

Un primo strumento di contrasto a queste fragilità risiede nella definizione delle modalità di lettura dell’opera a partire dalla scelta degli strumenti di indagine. Fare ricerca finalizzata alla conservazione di Villa Planchart significa infatti recuperare, in prima battuta “il potenziale di progettualità inerente all’indagine storico-critica, nelle sue diverse specificità; in una formula: il progetto comincia facendo storia” (Reichlin 2011, 12). Questo processo riconosce all’oggetto un incremento del potenziale conoscitivo che si traduce nella materia del progetto di conservazione.

Avviene allora un sensibile cambiamento nello sguardo dedicato finora al racconto della villa. L’obiettivo della ricerca è dunque quello di documentare la materialità dell’opera percorrendo a ritroso il processo creativo che parte dal ricco epistolario e che arriva fino alla chiusura del cantiere. Si tratta di fatto di uno studio monografico dell’opera, che diviene strumento di conservazione solo se finalizzato alla documentazione dell’essenza concreta dell’architettura: un’analisi che va oltre l’inquadramento storico usuale ma che unisce la raccolta di dati sulla committenza, sull’incarico, le maestranze e il cantiere, al rilievo costruttivo e dello stato di conservazione. Come ben evidenziato da Reichlin,

[...] un’analisi architettonica che tragga partito da tutte le risorse, trascorse e attuali, della critica architettonica. Il che vuol dire rivisitare e rielaborare criticamente, lo strumento ermeneutico della Kunstwissenschaft, rimettendo all’ordine del giorno la nozione di Tettonica [...], di Stile, [...] di Funzione (Reichlin 2011, 16).

L’indagine in corso privilegia dunque il cantiere come avvenimento costruttivo, e tutte le vicende successive come stratificazione irripetibile del tempo, pagine di un racconto in cui ogni contributo ha un valore di testimonianza e sostanzia l’idea che quella ‘modernità’ non sia più costretta a essere “oggetto immutabile” (Graf 2011, 39), ma appartenga alla storia.

La conoscenza diretta della materialità della costruzione e dei fenomeni di degrado a essa collegati, insieme con la reinterpretazione delle fonti, comporterà l’emergere progressivo di un dualismo tra la storia e il racconto che della villa è stato fatto: ricomporre la dimensione costruttiva dell’edificio permette infatti di decostruire e smascherare il mito di quest’oggetto inteso come materializzazione del solo pensiero pontiano, e non come opera corale.

Un aspetto centrale nelle strategie di conservazione della villa riguarda infine la capacità di tenere insieme il concetto di conservazione con quello di mutamento, possibilità garantita da uno strumento di cui il restauro si è dotato in anni recenti grazie alla consapevolezza dell’importanza della gestione del processo conservativo nel tempo: il Piano di Conservazione (Della Torre 2003, Canziani 2009, Della Torre 2014).

La sfida nella tutela di un’icona del ventesimo secolo coincide allora con la capacità di ammetterne e governarne il cambiamento senza tradirne l’orizzonte conoscitivo:

L’obiettivo dev’essere quello di elaborare una griglia di criteri che tenga conto dello stato di conoscenza del manufatto, attraverso i quali valutare quelli che sono i caratteri significativi di un’architettura (Casciato 2009, 16-17).

In questa direzione vanno alcuni casi virtuosi del panorama internazionale rappresentati da recenti Piani di Conservazione, che assumono i fondamenti della ricerca italiana sui temi dell’autenticità materiale, tradotti in raccomandazioni che prevedono differenti gradi di intervento esecutivo.

Nelle specificità del contesto venezuelano, oltre che progetto di conservazione programmata, il Piano è anche strumento di governo del rischio, perché nega l’idea del grande intervento di restauro – peraltro impossibile da attuare in questo momento critico – come sola risposta possibile agli effetti del decadimento della materia, ma punta alla definizione di pratiche di long-term care per ciascuno dei componenti dell’architettura e del suo contesto.

Riferimenti bibliografici
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Riferimenti archivistici
  • Archivio Fundación Anala y Armando Planchart, Caracas
  • CSAC Centro Studi e Archivio della Comunicazione, Parma
  • Gio Ponti Archives, Milano
  • Epistolario Gio Ponti, Milano
  • Iuav Archivio Progetti, Fondo Giorgio Casali, Venezia
     
English abstract

Villa Planchart was designed by Gio Ponti and built between 1953 and 1957 on the San Roman hill in Caracas. It is a special “anomaly”: an architecture built by letter, by telephone, by telegram. The Villa is still considerably intact, but today it is undeniably at risk because of the Venezuelan political situation, a contingence that is poignantly representative of many other risks that heritage faces throughout the world.
In December 2019, Iuav University of Venice started the research project “Heritage in danger. Conservation Plans between protection and emergency in Villa Planchart case” with DOCOMOMO Venezuela, Planchart Foundation and DOCOMOMO International ISC E+T. Its aim is primarily to provide a proper methodological approach to the knowledge of this architecture, to obtain an accurate understanding of the characteristics of its built reality and its elements of fragility.
The paper presents a way of looking at heritage conservation belonging to the most recent evolution of preservation theories applied to modern heritage. The aim is the elaboration of a Conservation Plan used as a tool for managing risks and for planned conservation interventions, shifting the focus from a large, single restoration project to a long-term conservation and management program.

keywords | Villa Planchart; Caracas; Gio Ponti; heritage in danger; modern heritage; conservation plan.


* Paragrafi da 1 a 15
** Paragrafi da 16 a 29

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo / To cite this article: Andrea Canziani, Sara Di Resta, Villa Planchart a Caracas. Conservazione e de-costruzione del mito, “La Rivista di Engramma” n. 175, settembre 2020, pp. 195-210 | PDF dell’articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2020.175.0012