"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

Presentazione: Resartus. Viaggi, scoperte e visioni di Aby M. Warburg, Rubbettino, 2020

Miriam Gualtieri e Salvatore Inglese

English abstract

Dall’Introduzione

Miriam Gualtieri

La scrittura esige una decisione: dinanzi all’opportunità di raccontare una storia in tanti modi possibili, se ne deve scegliere uno particolare. Gli antichi, consapevoli dell’importanza del momento, aprivano i loro poemi invocando la Musa che custodisce la memoria (Mnemosyne) perché facesse emergere il racconto dall’oblio (Lete).

Nel campo della ricerca scientifica accade qualcosa di simile. All’inizio di una qualunque indagine, lo studioso si trova davanti a una ‘montagna’ di informazioni disponibili e impiega alcuni anni per ‘scalarla’. Tuttavia, giunto in vetta, là dove finalmente dovrebbe iniziare la sua investigazione personale, si accorge che nel frattempo si sono accumulati altri libri, saggi, articoli e dati che superano ampiamente la capacità di vaglio individuale. Per superare l’impasse lo studioso deve imparare a conciliare l’ethos del sapere – che presuppone la raccolta e l’analisi di tutta la documentazione su uno specifico argomento – con l’esigenza di trascurare e rifiutare alcune informazioni, in modo che l’attività scientifica non venga paralizzata da un insidioso eccesso di materiale [1]. Ovviamente il compromesso non è privo di rischi e il ricercatore dovrà invocare il soccorso di Mnemosyne e Lete perché gli concedano i loro doni nella giusta misura.

Memoria e oblio sono parte integrante di questo libro per la ragione appena indicata e, soprattutto, per il personaggio storico al quale sono dedicate le pagine seguenti: Aby M. Warburg (1866-1929). L’intreccio ricordo-dimenticanza ha caratterizzato in modo singolare la vita di questo protagonista della cultura europea lungo la drammatica transizione dal XIX al XX secolo. Non solo egli ha indagato la trasmissione dell’eredità classica e pagana nella memoria figurativa della civiltà occidentale – paragonando l’attività del suo entourage a quella di piccoli costruttori di ponti che gettavano nuove e più ampie campate sul fiume Lete – ma ha chiamato Mnemosyne la sua ultima opera (Bilderatlas, Atlante delle immagini) e ha fatto scolpire in lettere greche il nome divino sull’ingresso dell’originale Biblioteca da lui fondata. Non è tutto: ancora in vita Warburg è scomparso dalla memoria dei contemporanei, celato dalla sua raccolta di libri in espansione sui saperi enigmatici posti alla frontiera delle scienze. Dopo la morte è diventato un “famosissimo sconosciuto” [2], “qualcuno che non si può dimenticare. Impossibile, tuttavia, da riconoscere chiaramente” [3]. La sua biografia, seppur legata indissolubilmente alla storia europea, ha assunto un aspetto leggendario e astorico: retrospettivamente le vicende della sua esistenza si sono composte “come le tappe di un destino” [4], inverando un suo celebre motto secondo cui era “fatto per creare un bel ricordo” [5].

Le persone che meglio lo hanno conosciuto non sono riuscite a disegnare un ritratto della sua personalità: il collaboratore Fritz Saxl ha rinunciato sin da subito a raccontarne la vita, preferendo piuttosto proseguirne l’opera; l’assistente Gertrud Bing, che più di altri sarebbe stata in grado di scriverne la biografia, è morta prima di realizzarla; l’allievo e amico Carl Georg Heise ha dato alle stampe i suoi ricordi, puntualizzando però che essi erano incompleti e condizionati dalla venerazione del giovane adepto verso l’anziano maestro; infine il figlio Max Adolph non è mai arrivato a concretizzare il proponimento di pubblicare una selezione delle lettere e dei diari del padre. Lo scoppio della Seconda guerra mondiale ha fatto naufragare definitivamente l’idea di raccogliere le testimonianze di coloro che lo avevano conosciuto personalmente. L’insuccesso di questi tentativi costituisce una perdita irreparabile, colmata solo in parte dalla biografia pubblicata da Ernst Gombrich nel 1970. Quest’ultimo era arrivato alla Biblioteca nel 1936, alcuni anni dopo la morte del fondatore, quando l’istituzione, ormai sradicata da Amburgo, era stata trapiantata a Londra. Gombrich si era perciò trovato a scrivere la storia di un uomo sconosciuto e lo aveva fatto con un inevitabile “distacco psicologico” [6].

Le sue pagine furono ferocemente criticate da Edgar Wind, il quale affermò che Warburg emergeva da esse come un uomo irrisolto e tormentato. Wind accusò inoltre i seguaci warburghiani di considerare le “opere letterarie del maestro una sorta di arcano, un elisir di sapienza estremamente raffinato ma troppo concentrato, che non deve essere servito al consumatore […] senza essere stato abbondantemente mescolato con acqua e orzo” [7]. L’amara accusa coglie una questione ancora aperta, quella della divulgazione e conseguente ricezione delle opere di Warburg. Il problema si era manifestato già nel 1932, poco prima che la Biblioteca fosse trasferita in Gran Bretagna per sfuggire ai roghi di libri (Bücherverbrennungen) del Partito nazionalsocialista tedesco, quando era stata pubblicata una raccolta inaugurale di scritti warburghiani. Passata quasi inosservata, la raccolta comprendeva due volumi ordinati tematicamente con cui si dava corpo a un piano editoriale complessivo strutturato in sette parti [8]. Differito per diverse ragioni (il trasferimento dell’istituzione, la guerra, le difficoltà del periodo postbellico, la frammentarietà del corpus d’opera), l’ambizioso progetto non è mai stato realizzato e solo due saggi inediti sono stati stampati: la conferenza di Kreuzlingen, pubblicata in inglese nel 1938 per iniziativa di Saxl con il titolo A Lecture on Serpent Ritual, e il saggio sull’Ingresso dello stile ideale anticheggiante nella pittura del Rinascimento, tradotto in italiano nella selezione cronologica dei testi curata da Gertrud Bing nel centenario della nascita del maestro. La sola fonte per la conoscenza degli altri inediti è rimasta la biografia scritta da Gombrich. Warburg è diventato così uno di quegli autori fantasmatici, ricordati volentieri con gli onori che hanno diritto di ricevere, tranne quello che abbia davvero un valore: leggere le loro opere.

Le acque dell’oblio hanno cominciato a ritirarsi dalla sua figura soltanto negli anni ‘90 del secolo scorso, quando esponenti di aree disciplinari diverse hanno dato vita a un dibattito internazionale, noto come Iconic Turn o Pictorial Turn o Bildwissenschaft, sullo statuto dell’immagine nella cosiddetta civiltà delle immagini. L’identificazione di Warburg come rivoluzionario ante litteram della prospettiva storico-artistica ha risvegliato un interesse per la sua opera, che si è tradotto nella progressiva ripubblicazione di lavori già editi e nella stampa di alcuni inediti.

Superato, non completamente, il problema dell’accesso agli scritti warburghiani, l’oblio continua a minacciarne la memoria per una ragione di stile letterario: ogni testo dello studioso, per quanto breve, è un capolavoro di acribia storica e di stupefacente erudizione, che trascina il lettore in inesauribili digressioni e deviazioni, fino a fargli quasi perdere il filo dell’argomentazione principale; la scrittura è densa, serrata, rapsodica, suggestiva, come quella dei motti di spirito che spesso aprono i saggi; le parole del ricco vocabolario (Pathosformel, Nachleben, Denkraum, Polarität, ecc.) sono a stento traducibili nelle altre lingue.

Con estremo rigore, Warburg rimaneggiava incessantemente i suoi testi, cancellando ogni parola di troppo e riempiendo voluminosi taccuini di formulazioni abbozzate in infinite varianti di cui non era mai soddisfatto. Ad accrescere l’ineffabilità delle sue idee contribuisce, in tutte le opere, l’allusione a nuovi percorsi da tentare, a ipotesi mai svolte fino in fondo, a indagini non compiute per intero, a ricerche da intraprendere in futuro.

La Bing aveva perciò pensato di scrivere un saggio (purtroppo mai realizzato) sul linguaggio warburghiano, che lo stesso studioso paragonava ironicamente a una “zuppa d’anguilla” (Aalsuppenstil).

Warburg sembrava sottrarsi all’opera finita che, come tale, avrebbe segnato una conclusione. Il suo lavoro ha in tal modo assunto la forma incompiuta e la forza feconda di un frammento, la cui parzialità sfida a completarne il disegno originale [9]. In tal modo egli è diventato “una sorta di coperta troppo corta, di volta in volta tirata dalla parte di chi occasionalmente vi si avvolgeva dentro” [10].

Soprattutto è stato indicato come il capostipite di un metodo, quello iconologico che, pur avendo importantissime premesse nelle sue indagini, non gli appartiene [11]. L’iconologia è soltanto uno dei molti tentativi di designare una ‘scienza senza nome’, una meta-scienza della cultura occidentale, alla quale Warburg si è dedicato nello sforzo di superare gli angusti confini disciplinari della Storia dell’arte [12]. Già la Bing aveva osservato con quanta sicurezza, e altrettanta indeterminatezza, si parlasse di un metodo warburghiano per indicare indagini troppo eterogenee fra di loro per essere poste tutte sotto un denominatore comune. Molti anni dopo Gombrich ha aggiunto che il presunto ‘metodo Warburg’ non è mai esistito e che gli studi a esso ispirati condividono soltanto “la determinazione a investigare argomenti negletti di storia della cultura occidentale” [13].

In conclusione, le indagini warburghiane sono esplorazioni e scoperte singolari non generalizzabili, che funzionano come un fattore gravitazionale per i ricercatori delle discipline più diverse. Warburg stesso aveva cura di dire che gli era concesso soltanto di porre pietre miliari per indicare ad altri una via da seguire; e il figlio Max Adolph ha scritto che la Biblioteca, l’unica opera nella quale entro i limiti del tempo e dei mezzi a disposizione si erano espresse in pieno le sue aspirazioni, “ci permette di vedere Dio nel dettaglio, ciascuno nel suo proprio settore” all’interno della totalità cui appartengono tutti i saperi [14].

Anche questo suo prezioso lascito è stato recentemente minacciato dall’oblio, che tende a colpire soprattutto la cultura umanistica. A seguito di tagli di budget imposti dal Governo inglese, la University of London (di cui la Biblioteca è oggi parte) ha tentato di unificare il proprio sistema bibliotecario, mettendo in discussione l’atto giuridico che disciplina i rapporti con il Warburg Institute. Secondo i piani dell’università, gli oltre trecentomila volumi della collezione, legati tra loro dall’immutata regola originaria del ‘buon vicinato’, sarebbero stati dispersi in altre biblioteche dell’ateneo. Per fortuna, una sentenza del 2014 ha sciolto la controversia in favore dell’Istituto.

Dopo questa premessa si può riconoscere che Warburg costituisce un’autentica montagna-labirinto da scalare, la cui complessità non poteva non avere conseguenze sul tipo di narrazione da adottare. Il labirinto possiede una particolarità: è un mistero e non soltanto un problema; dunque resiste alla spiegazione e non ammette soluzione; ciononostante il ricercatore non può abdicare alla necessità di disegnarvi percorsi praticabili.

Non avendo un filo di Arianna da svolgere e riavvolgere nel dedalo, ho cominciato a inoltrarmi nel mondo warburghiano seguendo le tracce lasciate dal suo creatore, puntando nelle tre direzioni cardinali del suo movimento esistenziale e scientifico: nord, sud e ovest. In fondo perdersi è la condizione dalla quale si comincia o si ricomincia a orientarsi ed è l’obiettivo del flâneur, nella cui figura si preannuncia quella dell’investigatore: “La strada conduce il flâneur attraverso un tempo scomparso […] Lo spazio ammicca al flâneur: cosa sarà mai accaduto in me?” [15].

Questo interrogativo – che mi ha condotto nei luoghi geografici in cui Warburg è stato – ha organizzato il libro in quattro capitoli. Tre di essi corrispondono alle direzioni cardinali citate, mentre un quarto è dedicato a un luogo dello spazio in cui si intersecano più traiettorie. Il suo titolo, Crocevia, evoca Kreuzlingen – la città svizzera il cui nome deriva dal monastero agostiniano Crucelin, trasformato poi in sanatorio per malattie mentali, dove Warburg rimase confinato per alcuni anni – e, per estensione, il dolore, il tormento, la tribolazione della malattia e della segregazione. La direzione est non costituisce un capitolo specifico per diverse ragioni: innanzitutto non sono noti viaggi dello studioso verso levante; inoltre l’Oriente è di fatto presente sotto forma di tradizione proveniente dalla Grecia e dall’Asia, che lo storico cercò instancabilmente di rintracciare; infine, al termine della sua vita, Warburg stesso non seppe indicare un punto in quella direzione: abbozzò in uno schizzo la propria situazione culturale e biografica collegando, con un tratto a matita, i luoghi principali del suo percorso di ricerca (Amburgo, Strasburgo, Firenze e l’Arizona) a un punto non specificato verso est.

Le direzioni e i punti cardinali verso i quali dirigersi non sono sufficienti, tuttavia, per evitare di smarrirsi in un labirinto. Occorre ridurne la complessità introducendo alcune regolarità, in modo che il dedalo prenda forma. Queste regolarità sono le questioni attorno alle quali si sono sviluppate le mie riflessioni e si sono strutturati i paragrafi: Viaggio, Enigma, Follia, Malinteso, Identità, Metodo, Oggetti, Superstizione. Coerentemente all’adozione di un’architettura combinatoria – affine a quella utilizzata da Warburg per organizzare i libri della sua Biblioteca e le immagini del suo Atlante – i paragrafi si mescolano all’interno di ogni capitolo in modo da creare connessioni inusuali, facendo emergere aspetti ignorati, trascurati o malintesi nella pur abbondante letteratura dedicata al personaggio. Solo quello dedicato al viaggio si ripete all’inizio di ogni combinazione.

Il capitolo Sud racconta l’itinerario di Warburg in Italia (Viaggio). L’amburghese era un Bildungsbürger, ossia un cittadino tedesco che intendeva sviluppare il proprio potenziale intellettuale attraverso un processo educativo continuo di autoformazione (Identità). Firenze, dove soggiornò per alcuni anni, con la sua ricchezza di testimonianze storiche ed estetiche, minacciò di sopraffarlo, come era accaduto allo scrittore francese Stendhal (Follia). In particolare Warburg fu tormentato da un’irrequieta figura femminile, la Ninfa, raffigurata negli affreschi del Ghirlandaio in Santa Maria Novella e in due capolavori del Rinascimento fiorentino, la Nascita di Venere e la Primavera di Sandro Botticelli (Enigma). Questi due dipinti divennero il tema della sua dissertazione di dottorato. Attraverso un continuo confronto tra immagini e testi, il giovane studente riuscì a dimostrare che il moto dei capelli e degli abiti delle figure, fino ad allora ritenuti un puro espediente decorativo, derivavano dall’Antichità. La sua concezione del Rinascimento mise in discussione uno sviluppo lineare dello stile e inaugurò una rivoluzione nella Storia dell’arte (Metodo). Qualche anno dopo Warburg si applicò all’interpretazione degli affreschi astrologici nel Palazzo Schifanoia a Ferrara e nel 1912 presentò i risultati della sua indagine al X Congresso internazionale degli storici dell’arte. Il suo discorso fu indicato come il momento di nascita dell’Iconologia (Malinteso). Negli ultimi anni della sua vita continuò a dedicarsi allo studio del mondo figurativo dell’astrologia nel Tempio Malatestiano di Rimini e nel Teatro anatomico di Bologna (Superstizione). I suoi interessi si concentrarono anche sulle religioni misteriche mediorientali, in particolare sul culto di Mitra, nel quale si trova la più celebre rappresentazione religiosa dello zodiaco (Oggetti).

Il capitolo Ovest narra il viaggio di Warburg negli Stati Uniti (Viaggio). Dal continente americano lo studioso riportò in Europa alcune riviste d’avanguardia artistica – sulle quali scrisse un articolo per l’emancipazione dell’arte, che divenne anche il tema di una sua commedia – e numerosi manufatti dei nativi Hopi (Oggetti). Questi ultimi sono i discendenti degli Anasazi, una misteriosa civiltà la cui grandiosità è rievocata dai miti cosmogonici delle diverse tribù pueblo (Enigma), e rappresentano l’alterità con cui Warburg interagì (Identità). La loro estraneità venne ‘addomesticata’ dallo studioso mediante un processo di falsa identificazione, generato da presunte affinità elettive tra i Tedeschi e i Nativi americani (Malinteso). Il giudizio che Warburg diede di una cultura estranea non poté che essere etnocentrico, ma ciò non impedì che la sua esperienza diventasse un mezzo euristico per analizzare la struttura spirituale dell’uomo rinascimentale (Metodo). Il Nuovo Mondo non era soltanto un luogo geografico, ma soprattutto un sogno folle, inseguito da milioni di esseri umani che lasciarono il Vecchio continente mentre divampava una curiosa epidemia di viaggiatori folli compulsivi (Follia).

Il capitolo Crocevia racconta l’arrivo di Warburg nella clinica psichiatrica Bellevue di Kreuzlingen (Viaggio). Già in fase prepuberale lo studioso aveva manifestato una predisposizione alla fragilità psicologica (Identità). Nella clinica venne elaborata un’anamnesi del paziente, dall’infanzia fino a un episodio di tentato suicidio e omicidio in età adulta (Follia). Nel 1923, per dimostrare il superamento dei problemi che lo avevano portato al ricovero, Warburg tenne una conferenza sul rituale del serpente degli Hopi davanti ai medici (Malinteso). La produzione intellettuale dello studioso dentro il sanatorio non si limitò a questa prolusione, ma comprese la stesura di alcune riflessioni sulle forze del destino nel simbolismo antico (Metodo). Rientrato ad Amburgo nel 1924, riprese i fili delle ricerche precedenti sulla lotta dell’uomo contro le forze irrazionali. In particolare riconsiderò l’influenza dell’Antichità alla luce del rapporto tra Rinascimento e Barocco, fra cultura italiana e cultura nordica, nelle opere di Rembrandt (Enigma). L’ultimo capitolo, Nord, delinea la storia dell’arrivo della famiglia Warburg ad Amburgo e i soggiorni dello studioso nelle varie città dell’Europa settentrionale (Viaggio). In alcune di esse era divampata, nel XV secolo, una strana mania chiamata il ballo di S. Giovanni o di S. Vito. Il 28 giugno 1914, giorno del santo protettore della danzimania, due colpi di pistola innescarono una paranoia collettiva che portò allo scoppio della Prima guerra mondiale (Follia). Jacob Burckhardt e Friedrich Nietzsche avevano preavvertito i sussulti precursori dell’esplosione della modernità, funzionando come sensibilissimi “sismografi” (Oggetti). Il sismografo Warburg fu invece costretto a registrare le scosse di una guerra inedita. Lo studioso rese un servizio non richiesto alla causa marziale pubblicando una Rivista illustrata (Malinteso). Warburg decise anche di studiare la propaganda politica della Riforma tedesca (Enigma) e la superstizione in tempo di guerra (Superstizione). In Germania il conflitto e i suoi miti incoraggiarono stereotipi antisemiti dalla lunga tradizione e portarono alla distruzione del già precario rapporto tra Ebrei e Tedeschi (Identità). Nell’esperienza devastante del conflitto, la storia delle immagini era diventata parte di una più generale storia della cultura, per la quale Warburg creò le sue opere più importanti: l’Atlante e la Biblioteca (Metodo).

Ai quattro capitoli fin qui delineati seguono due appendici: la prima dedicata al profilo biografico dei personaggi e la seconda agli scritti warburghiani citati nel volume.

Per la stesura di questo libro non sono stati consultati materiali inediti. Il titolo, Resartus. Viaggi, scoperte e visioni di Aby M. Warburg, allude al tentativo di ‘ricucire’ il materiale, già pubblicato altrove e da altri, in una foggia nuova al fine di mostrare un Warburg sconosciuto. I dati, come i vestiti, possono essere impiegati in vari contesti e modellati secondo criteri differenti che, di volta in volta, enfatizzano alcuni aspetti e ne minimizzano altri. Nella Favola della botte di Jonathan Swift si dice che “ove certe pelli d’ermellino o altre pellicce siano disposte in date posizioni, noi designiamo ciò col nome di Giudice; e così, ad un appropriato accostamento di tela di batista e raso nero, noi conferiamo il titolo di Vescovo” [16]. Queste parole costituiscono l’argomento centrale di un libro molto amato da Warburg, al quale il titolo di questo volume, per l’appunto, rinvia: il Sartor Resartus di Thomas Carlyle. Il protagonista de Il sarto rattoppato o Il sarto ricucito, il professore Diogenes Teufelsdröckh, è uno dei grandi uomini “spesso sconosciuti o, peggio ancora, misconosciuti” [17], a volte chiamato l’Ebreo Eterno o Errante per il suo sconfinato sapere, simile a quello di un testimone di avvenimenti lontani. È un tedesco non dissuaso dalle barriere della speculazione teoretica che pesca “in ogni mare e con ogni specie di rete” [18]. È anche un abile conferenziere che, quando rompe il ghiaccio, parla per ore intere. La sua stanza è una “torre di osservazione” [19], “tutta ingombra di libri, di pezzi di carta e di frammenti miscellanei d’ogni sostanza immaginabile” [20]. Il suo libro è “un ‘ponderoso Volume’ dal contenuto sconfinato e pressoché informe, un vero e proprio Oceano del Pensiero; non calmo, né limpido, […] ma dove un robusto pescatore di perle può tuffarsi sino a raggiungere i fondali più profondi e risalire a galla recando non soltanto i relitti di un naufragio, ma anche autentiche perle orientali” [21]. Le verità che presenta non sono schierate in fila, ma devono essere intuite: “Si può dire perciò che nella sua Filosofia […] regna una nobile complessità, quasi simile a quella della Natura: un vasto labirinto, che, come ci sussurra la fede, non è privo di un piano” [22].

Se il Sartor Resartus non fosse stato concepito nel 1831 e pubblicato nel 1836, quindi trent’anni prima della nascita di Warburg, si potrebbe pensare che il professor Diogenes Teufelsdröckh sia ispirato a lui. Certo le analogie sono stupefacenti, ma la straordinarietà maggiore non risiede nella somiglianza quanto nella differenza: Warburg fu una persona reale e non un personaggio fittizio.

Dalla Postfazione. Dinamogrammi mentali di Aby M. Warburg*

Salvatore Inglese**

1. Inizio e fine, o viceversa

Da molti anni esito a scrivere un profilo (pato)biografico di Aby Moritz Warburg dove rimescolare l’avventura e le disavventure esistenziali di un uomo-opera capitale (uomo-impresa): singolare, furente e tragico eroe culturale dell’Europa contemporanea. Leggende e miti descrivono l’eroe culturale come colui che abbraccia i problemi di una società, culturalmente determinata, in un intervallo storico dato e, tanto più, nel corso di una contingenza critica specifica. Questi racconti, provenienti dal fondo del tempo, illustrano in modo cifrato le tribolazioni di un soggetto organico al proprio mondo che cerca di compiere un’impresa, svolgere una missione o perpetrare un misfatto [1].

Warburg mi appare energico e scattante anche da collezionista filatelico, accumulatore numismatico, acquirente insaziabile di libri. Lo vedo non limitarsi a possedere e a studiare i volumi, si accanisce a tormentarli in una Biblioteca fortezza, panottico di avanguardia tecnica ma dal nome insinuante: Mnemosyne. Li sposta di continuo in meandri bibliofilici, costringendoli a conoscersi se accostati tra loro e a rimpiangersi quando trascinati ad allacciare rapporti imprevedibili con altri vicini tematici e a cui non potersi rifiutare [2]. Il visitatore di un simile labirinto deve scoprirne il tesauro con modalità sensoriali dirette (visive, tattili), lasciando scivolare la piroga del pensiero lungo un fiume categoriale sinuoso, diviso in bracci irruenti o paludosi che portano sempre altrove. La navigazione tende a durare perché bordeggia migliaia di tomi (ventimila titoli a stampa, trasferiti in nave a Londra, nel 1933; oggi trecentocinquantamila) contenenti saperi vasti e profondi. I libri costituiscono i mattoni granitici della barriera difensiva eretta da Warburg contro intensi e scarsamente conciliabili conflitti interiori, contrapposta a influenze esterne disturbanti e per alleviare la fatica di scriverne a sua volta mentre ne gode l’accumulazione smodata [3]. Dal 1889, a Firenze, nutre l’idea di affiancare alla Biblioteca una fototeca, dove catalogare esemplari di immagini per stringere tra loro concatenazioni sorprendenti, come fossero spirali di rame che sprizzano crepitanti cariche elettriche. Il suo obiettivo è di catturare, spiegare e influenzare la realtà generando un dispositivo bipolare che raccoglie a un estremo la parola e l’immagine all’altro. Per questo le sue opere maggiori sono due oggetti attivi particolari, due oggetti mondo: una Biblioteca di scienza di storia della cultura (KBW - Kulturwissenschaftliche Bibliothek Warburg) e un Atlante di immagini (Bilderatlas).

Incontro il nome di Aby Warburg nel 1984 e mi riprometto di ripercorrerne i passaggi vitali tra mondi culturali prossimi e remoti, conosciuti o dilemmatici. Da quell’anno mi avvio lungo un’esplorazione interminabile a cui oggi pongo una sospensione provvisoria [4]. Interesse per l’uomo che si interroga sulle forme patematiche emergenti come marcatori culturali; attrazione per l’avventura che lo spinge a partecipare a riti nativi; compassione clinica per la sua catabasi psicotica; interrogativi sulla metanoia che trasforma le fiamme inestinguibili di un inferno psicopatologico in sorgenti di creazione culturale e scientifica: questi elementi costituiscono altrettante forze di legame che mi spingono ad abbracciare l’uomo, lo studioso e il paziente, altrettante incarnazioni di una persona collocata al principio di una peculiare evoluzione psicostorica del nostro mondo materiale e ideologico. Le impronte di Warburg sono state seguite con costanza e concentrazione, attrezzandosi con bagagli non proprio confortevoli per seguirne la traiettoria esistenziale e disciplinare nei territori più aspri. Insieme alla laboriosa e risoluta Miriam Gualtieri abbiamo viaggiato dalle accademie europee al Far West americano, ritornando al Nord anseatico, poi al Sud italiano rinascimentale e mitraico. In queste dimensioni diverse abbiamo cercato di orientarci leggendo insieme le mappe astronomiche e astrologiche, razionali e magiche dispiegate dall’argonauta d’Amburgo. Con spirito di ricerca e consapevoli dei nostri limiti di fronte a un personaggio smisurato, abbiamo unito le forze nel tentativo di ricostruirne il profilo personale (storico-esistenziale) e il disegno progettuale (genealogico-teoretico). Abbiamo cercato di ricollegare il primo al secondo polo problematico, ricollocandoli sulla matrice della sensibilità psicoculturale (psicostorica) dei popoli europei, in modo da ottenere un certo grado di comprensione transculturale di uno studioso a lungo rimosso poiché perturbante. Nell’azzardare un passo in questa direzione, non ci siamo limitati a ripercorrere alcune stazioni polverose, silenziose e assolate del suo itinerario tra i Pueblos (Acoma, Hopi, Tewa, Zuñi) dell’Arizona e del New Mexico. Qui abbiamo cercato di afferrarne l’ombra fuggitiva e i demoni meridiani proponendo ai discendenti hopi alcuni enigmi warburghiani che ancora oggi si infrangono contro la barriera a difesa del loro sapere esoterico. Da quasi un secolo (1929) gli Hopi-tu hanno precluso l’accesso ai segreti della Danza del Serpente, diventata sfortunatamente famosa e minacciata dalle generazioni successive di invasori scientifici e turistici. Il profilo narrativo qui proposto tiene insieme il viaggio geografico e lo studio in archivio, cercando di offrire un contributo alla questione patobiografica affinché essa possa allacciare una relazione di comprensibilità con la ‘scienza senza nome’ preconizzata da Warburg e nelle cui voragini, ogni tanto, si inabissa.

Il mio tentativo di eseguire una prova clinica siffatta rinvia ai capitoli principali del volume in cui sono adesso ospitato, godendo della fortuna di aver seguito ogni fase della sua ideazione e scrittura [5]. Questo mi permette di fare economia di un apparato di note e di un corredo bibliografico minuziosi per sviluppare queste prime riflessioni.

3. Anamnesi di malati e malattie

Bisogna solo attendere quando il giovane Warburg diventerà malato ma senza dubitare se il suo dramma predestinato infine si consumerà. Ogni tratto del suo sviluppo infantile, adolescenziale e giovanile, insieme ai segni incombenti sulla famiglia, profilano la forma compiuta della psicopatologia matura. Aby le concede la possibilità di svolgersi come reazione acuta e transitoria, forse innestata a complicare l’esito degenerativo di una senilità precoce. Quasi si predispone alla tortura psicosica, coltivata rivolgendo presto lo sguardo alle figure demoniche che aleggeranno intorno alle sue ricerche e senza mai più riuscire a distoglierlo da esse. Non ne viene dissuaso nemmeno dai tratti psicopatologici riconosciuti nel nucleo familiare: il figlio sensibilissimo Max Adolf, dopo una visione ‘mistica’, coabiterà a Bellevue insieme al padre; il fratello di Aby, Fritz, viene curato a Jena da Otto Binswanger; una sorella sarà suicida. Una cugina diventa paziente e poi amica di Freud, mentre James Loeb, parente acquisito per alleanza matrimoniale, viene curato prima da O. Binswanger e poi, a Monaco, da Emil Kraepelin. Loeb può infine chiedere a quest’ultimo, senza temerne il rifiuto, di recarsi a Kreuzlingen per esprimersi sulla natura del disturbo di Aby. In grande anticipo su questo, diventa significativa la decisione del giovane Warburg di passare a Max, il fratello cadetto, il dovere di gestire la banca di famiglia. In tal modo, Aby rivendica per sé una primogenitura diversa, unilaterale e idiosincrasica, che lo proietta in una sfera idealizzata e sbarrata alle ambasce del dovere sociale. Ciò avviene quando l’atmosfera nella fratria è illuminata a giorno da un istrionismo condiviso e felice.

Anche per Warburg esiste un punto primo della patobiografia (infanzia e prima giovinezza), così come un dopo (età presenile), purtroppo breve. Molto più importante quel durante, lungo il quale la radice patologica personale resta infissa in un sostrato psicoculturale problematico, fatto di paure multiformi, angosce ineffabili, timori puntuali, panico sovrano. In quel periodo emerge anche una smisurata volontà personale di sapere e potere sul mondo, separando la quota materiale e triviale dell’eredità di famiglia (accumulazione, circolazione, investimento nel denaro, equivalente generale in grado di rappresentare l’astrazione valoriale) da quella immateriale (accumulazione, circolazione e investimento nei libri in molte lingue) capace di catturare la permutazione dei valori significati (ricondotti a segno) e significativi (riportati al loro senso instabile). Una patobiografia deve procedere necessariamente a salti quando prende contatto con una predestinazione [12].

Un primo salto atterra sulla descrizione delle sue caratteristiche infantili che lo rappresentano come un puer regale, viziato a dismisura dalla famiglia, soprattutto dopo essere sopravvissuto a una forma di tifo. Nel 1873 giace in condizioni preoccupanti che lo risucchiano in un deliroide febbrile con alterazioni dello stato di coscienza, popolato da ‘immagini fantastiche’ associate a sinestesie visuo-olfattorie, impresse nella sua memoria in modo indelebile. La mente piretica si lascia impressionare da illustrazioni a corredo delle narrazioni incomprensibili di novelle di Balzac o dalle descrizioni di un mondo satanico e grottesco dove i bambini soffrono punizioni e violenze fisiche o morali [13]. Nel 1875, una febbre tifoide si abbatte sulla madre durante una vacanza in Austria dove viene ricoverata e curata da medici importanti. Aby resta traumatizzato dall’esperienza perché la donna non gli appare più la stessa. Da lei non irradia l’alone festoso generato dalle scene buffe interpretate dai suoi bambini che le ruotano intorno come a un sole malfermo e opacizzato – corpo malato in decomposizione a causa del miasma contagioso (trasformato nelle ‘ossessioni olfattorie’ di Aby). La situazione critica è gravata da ansia intensa e diffusa controbilanciata dallo sprofondamento del figlio nella lettura di romanzi eccitanti e crudeli, presi in prestito dalla biblioteca pubblica, sugli Apache. Tali letture contengono punte di sadismo, disegnate nelle scene di caccia, nelle imboscate e nei solenni giuramenti indiani. Le fantasticherie non attenuano il suo tratto tirannico e furioso, sempre sul punto di scaricarsi sui malcapitati fratelli. Quando si vede obbligato a pregare meccanicamente per la salute materna, evade dal sincizio della devozione familiare e si dedica a trasgressioni alimentari pericolose per lo spirito, ma soddisfacenti per l’appetito (succulenti salsicce di maiale). In tal modo organizza e soddisfa un fondo psicologico in movimento perenne tra interdetto e trasgressione, tra soddisfazione libidica e inibizione, tra godimento e colpa, tra identità predefinita e desiderio di modificarla [14]. Senza saperlo, incomincia così a interpretare il ruolo oppositivo esercitato da ‘personaggi all’inverso’ che sfregiano il luogo della solennità. I clown hopi (Koyemshi; Tsukskut) che incontrerà in futuro, sono figure dell’universo invertito pronte a violare vari tabù sociali con le loro risate rabbrividenti. Essi non sono sanzionati neanche quando provocano sconcerto nei villaggi con movimenti e gesti che alludono a una sessualità ironica o grottesca (motteggi di spirito, innocenti e grevi; parole proibite e oltraggiose; deformazione di posture corporee e fisionomie) [15]. Le infezioni contagiose intonano un peculiare ritornello durante le crisi storico-sociali e biologiche della sua esistenza. Esse sibilano come le lame di falci oscillanti che recidono i legami con il padre mentre annodano quelli indissolubili con la madre. Il movimento pendolare del morbo fende un’atmosfera libidica adolescenziale satura di un’ossessività sessuale che rimarrà velata fino a quando il diario intimo non ne mostrerà le forme, i temi, la natura e la soddisfazione anche solo parziale. Questa ossessività si riverserà anche nelle fobie che condizionano la sua vita matrimoniale (anticipate dalle visioni grottesche delle Piccole miserie della vita coniugale di Balzac). Non si può disgiungere la prima dalle seconde, riattivate in occasione di decessi di conoscenti o delle epidemie frequenti nella cinta anseatica aperta al mondo dei commerci e delle migrazioni internazionali. L’evitamento angoscioso, il richiamo all’ordine, all’igiene e alla pulizia verranno rovesciati da Warburg in audacia romantica e azzardo passionale quando diventa un giovane uomo attratto dal fascino delle donne (intimità licenziosa con il personale femminile, in famiglia o in ufficio), rispetto alle quali resterà sempre prigioniero della sua trista ambivalenza tra l’idealizzazione erotica e il disprezzo carnale (“madonna o prostituta”) [16]. Bisognerà attendere il termine delle sue peripezie perché riesca a esprimere liberamente i suoi affetti, infine elevando la sua assistente Gertrud Bing “a compagna”. Il dongiovannismo e il dandismo di Aby sembrano peraltro inclinazioni presenti anche negli altri fratelli (es. Felix).

Aby si sente disadattato rispetto ai coetanei e agli adolescenti anche a causa di emozioni rapprese in un impasto polimorfo di motivi ipocondriaci (rabbia), fobici (diventare idrofobo), ossessivi (ruminazione iterativa e incoercibile), dismorfofobici (teriomorfismo: convinzione di essere stato morso da un cane rabide che ne indurrebbe una metamorfosi somatica reale) particolarmente evidenti in momenti problematici personali (cambiamenti ambientali, perdite relazionali, umiliazioni su base etnica: antisemitismo). Tutto questo, per l’epoca e le fasi del suo sviluppo ontopsicogenetico, fotografa una tendenza personologica di confine (nevrosi polimorfa borderline[17] e se ne potrebbe riconoscere l’apparentamento con il circolo maniaco-depressivo o con l’odierno spettro bipolare.

Salti ulteriori possono essere eseguiti in almeno altre due occasioni. Nella prima, Warburg si sottrae con la fuga alla diffusione di un’epidemia di colera ad Amburgo (1892) e, grazie a questo evitamento mobile, si ripara dall’ansia massiva che potrebbe procurargli una prima frattura psicosica. La seconda, lo ritrova arroccato, frenetico ma confinato, nel proprio quartier generale domestico dove nulla può contro il crollo delle mura perimetrali dell’Impero che provoca, quasi in simultanea, lo sfondamento della barriera difensiva assicuratagli dal proprio sistema di pensiero. Si vergogna di essere fuggito dall’epidemia senza assicurare protezione ai familiari, ma il sentimento di viltà, rimasto incistato, ne accresce la sensibilità spinta fino alla sensitività, che intercetta sotto pelle e scrive sotto traccia il grafico pauroso del mondo [18]. Warburg si identifica spesso con Nietzsche, un altro “sismografo rotto” nel precipizio della storia mondiale. La sconfitta della Grande guerra impone l’inutilità di una ragione dissipata a difendere le ragioni del perdente e trascina con sé la derelizione del suo mondo ideologico e spirituale. Lo scacco bellico funziona come l’“evento vitale”, massimale ed epocale, che innesca una deriva morbosa irresistibile in cui il senso di colpa individuale si impasta con quello di nocumento e di rovina senza risparmiarsi l’ideazione persecutoria (paranoidia) di essere stato spiato e tradito fin dentro casa.

Nell’affaccendamento frenetico che accompagna i giorni campali precedenti la disfatta e la resa generale della nazione, viene tormentato dall’idea che una governante inglese, amica di famiglia e rimasta ad Amburgo durante i primi mesi di guerra, sia a capo delle spie infiltrate da “Lloyd George”. A causa di questo verrebbe considerato responsabile dell’esito catastrofico della guerra e meritevole del plotone d’esecuzione dopo un processo ignominioso, che avrebbe trascinato nel fango l’intera dinastia Warburg (lettera anamnestica di Embden) [19]. Questa volta (1918) la rottura interviene al culmine di un vissuto di umiliazione, di irragionevolezza, di emarginazione causato da un evento catastrofico che abbraccia e coinvolge l’universo civilizzato in ogni ordine e grado delle sue istituzioni culturali. Si tratta di un’umiliazione frammentante che si proietta all’esterno come un torrente di fuoco e con l’aspetto terribile di una fuga travolgente di idee [20]. Al punto di massima verticalità, le idee ricadono a pioggia come gesti distruttivi da eseguire a colpi di pistola: strage sacrificale della famiglia e suicidio [21]. Al culmine della sua crisi psicosica, la furia pantoclastica, cieca, goffa, clamorosa e ineffettuale rimpiazza la torrenzialità inarrestabile dei suoi teoremi generali, la forza investigativa e destrattiva di segni e significati, l’abilità a risolvere enigmi storico-estetici. Proprio a questo punto deve intervenire il medico per bloccarne l’esito fatale e determinare la natura della sintomatologia, infine affidandola a un trattamento psichiatrico dall’esito incerto.

* Queste riflessioni si avvalgono degli scambi e dei suggerimenti preziosi di: G. Bibeau, G. Bocchi, M. Cacciari, V. Cappelli, P. Coppo, D.L. Duhigg, E. Fredricks, Ph. Karshis, J. Kraye, E. Landmann, F. Laplantine, D. Le Breton, L. Lupo, T. Martorelli, M. Pandolfi, P. Perez, R. Siebert, G. Sole, V. Teti, C. Wedepohl.

** Salvatore Inglese, psichiatra, esperto in Antropologia medica, Etnopsichiatria e salute mentale delle popolazioni migranti. Docente della Scuola di specializzazione in Psicoterapia – Centro studi Sagara, Pisa. Autore di volumi, saggi e articoli sulle relazioni tra psicopatologia e cultura. Ha tradotto e curato opere di G. Devereux, T. Nathan, L.K. Suryani, A. Zempléni e la recente edizione italiana di Cultural Consultation.

Note all’Introduzione

[1] Per un’analisi del cosiddetto oblivionismo si veda H. Weinrich, Lete. Arte e critica dell’oblio, Bologna 2010.
[2] K.W. Forster, Aby Warburg cartografo delle passioni, in Id., K. Mazzucco, Introduzione ad Aby Warburg e all’Atlante della Memoria, a cura di M. Centanni, Milano 2002, 3.
[3] G. Didi-Huberman, L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte, Torino 2006, 31.
[4] C. Ginzburg, Da Aby Warburg a Ernst Gombrich. Note su un problema di metodo, in Id., Miti emblemi spie. Morfologia e storia, Torino 1986, 31.
[5] G. Bing, Aby M. Warburg, “Rivista storica italiana” 72 (1960), 100.
[6] E.H. Gombrich, Warburg Centenary Lecture, in R. Woodfield (ed.), Art History as Cultural History. Warburg’s Projects, Amsterdam 2001, 34.
[7] E. Wind, L’eloquenza dei simboli, Milano 2004, 173.
[8] Oltre alle prime due: l’Atlante Mnemosyne; le conferenze inedite e i saggi minori; i frammenti di una teoria dell’espressione; le lettere, gli aforismi e le annotazioni; il catalogo della Biblioteca.
[9] G. Bing, Introduzione, in A. Warburg, La rinascita del paganesimo antico. Contributi alla storia della cultura, a cura di G. Bing, Firenze 1966, VII-XXXI.
[10] O. Calabrese, La geografia di Aby Warburg. Note su linguistica e iconologia, in “Aut aut”, 199-200 (gennaio-aprile 1984), 109-110.
[11] C. Ginzburg, Miti emblemi spie, cit.
[12] G. Agamben, Aby Warburg e la scienza senza nome, “Aut aut” 199-200 (gennaio-aprile 1984), 51-66.
[13] E.H. Gombrich, Dal mio tempo. Città, maestri, incontri, Torino 1999, 126.
[14] M.A. Warburg, Per il centenario della nascita di Aby Warburg, “Aut aut” 321-322 (maggio-agosto 2004), 183.
[15] W. Benjamin, I “passages” di Parigi, Torino 2010, 465-468.
[16] J. Swift, Favola della botte, Torino 1990, 59.
[17] T. Carlyle, Sartor Resartus, Macerata 2008, 40.
[18] Ivi, 29.
[19] Ivi, 52.
[20] Ivi, 48.
[21] Ivi, 32
[22] Ivi,181.

Note alla Postfazione

[1] E. Canetti, Massa e potere, Milano 1972; G. Dumézil, Le sorti del guerriero. Aspetti della funzione guerriera presso gli Indoeuropei, Milano 1990; O. Rank, Il mito della nascita dell’eroe, Milano 1987.
[2] S. Inglese, M. Gualtieri, Il Banco senza nome della memoria. Il caso Aby Warburg tra antropologia e psicopatologia culturale, “Rivista sperimentale di Freniatria” 136/2 (2012), 17-38.
[3] K. Königseder, Aby Warburg im “Bellevue”, in R. Galitz, B. Reimers (Hg.), Aby M. Warburg: “ekstatische Nymphe... trauernder Flussgott”. Portrait eines Gelehrten, Hamburg 1995, 74-98.
[4] S. Inglese, M. Gualtieri, M. Bonifati, Attraverso la soglia dei mondi. Promesse e minacce dello scambio multiculturale, in I. Zanotti, M. Zanzi, L. Ballanti (a cura di), Oltre la maschera oltre il confine, Ravenna 2009, 293-296.
[5] M. Gualtieri, Warburg Resartus. Cartografie orientate di un buon europeo, tesi di dottorato in Antropologia ed Epistemologia della complessità, ciclo XXVII, a.a. 2013-2014.
[...]
[12] C.F. Muscatello, P. Scudellari, Prognosi e destino. Comprensione narrativa e predittività negli eventi psicopatologici, “Comprendre” 8 (1998), 115-124.
[13] L. Binswanger, A. Warburg, La guarigione infinita. Storia clinica di Aby Warburg, Vicenza 2005.
[14] F. Kafka, Desiderio di diventare indiani, in Id., La metamorfosi e tutti i racconti pubblicati in vita, Milano 2005.
[15] H. Courlander, The Fourth World of the Hopis. The Epic Story of the Hopi Indians as Preserved in their Legends and Traditions, Albuquerque 1987; F. Waters, The Book of the Hopi, London 1977.
[16] D. Stimilli, La tintura di Warburg, in Ludwig Binswanger, A. Warburg, cit.
[17] C.F. Muscatello, S. Inglese, P. Scudellari, La generazione “border- line”. Modalità apocalittiche di esistenza nei nuovi contesti sociali, “Rivista sperimentale di Freniatria” 108 (1984), 3-14.
[18] E. Kretschmer, Il delirio di riferimento sensitivo, Roma 2016.
[19] L. Binswanger, A. Warburg, op. cit.
[20] L. Binswanger, Sulla fuga delle idee, Torino 2003; C.F. Muscatello, P. Scudellari, S. Inglese. C. Ravani, G. Pardi, Note per una fenomenologia delle personalità paranoicali. Le strategie controfobiche del narcisimo perverso, parte I, vol. 109, 1985, 841-850.
[21] E. Bleuler, Trattato di psichiatria, Milano 1967.
[22]C.G. Heise, Persönliche Erinnerungen an Aby Warburg, s.e., New York 1947.

English abstract

Rubbettino has recently published, in the Nottole di Minerva series, the book Resartus. Travels, discoveries and visions of Aby M. Warburg by Miriam Gualtieri. The book “weaves” the many aspects of the character as well as the different perspectives of the many disciplines studied by Warburg, in order to bring out elements of his biographical story so far ignored, neglected or misunderstood. In doing so, the author has chosen a similar framework for presenting the narrative used by Warburg to organize the books in his library (Mnemosyne) and the images in his atlas (Bilderatlas).

keywords | Warburg; biography; library; atlas; madness.

Per citare questo articolo / To cite this article: M. Gualtueri, S. Inglese, Presentazione: Resartus. Viaggi, scoperte e visioni di Aby M. Warburg, Rubbettino, 2020, “La Rivista di Engramma” n. 180, marzo/aprile 2021, pp. 141-159 | PDF 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2021.180.0006