"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

181 | maggio 2021

97888948401

Doppio movimento 

La lunga strada di sabbia di Pier Paolo Pasolini e Paolo Di Paolo

Arianna Agudo, Ludovica del Castillo

English abstract
“Questa pura visione”

1 | P.P. Pasolini, P. Di Paolo, La lunga strada di sabbia, in “Successo”, luglio 1959, 12-13.

Tra la fine del giugno e l’agosto del 1959 Pier Paolo Pasolini realizza un viaggio lungo le coste italiane, che inizia dal confine italo-francese e termina a Trieste, spostandosi da Nord a Sud, e poi ancora da Sud a Nord a bordo di una Fiat Millecento. Il viaggio è commissionato dal direttore dal mensile milanese “Successo”, Arturo Tofanelli, su proposta del fotografo Paolo Di Paolo. Il reportage sulle spiagge d’Italia e sul turismo, che in quel periodo subiva un’accelerazione, è pubblicato sulla rivista nei numeri del 4 luglio, del 14 agosto e del 5 settembre 1959, durante e a ridosso del viaggio [Fig. 1]. Il testo è di Pasolini e le foto di Di Paolo, che in un’intervista racconta la genesi e lo svolgimento del viaggio: i due non si allineano, tanto da decidere di separarsi dopo la tappa a Porto Maurizio.

E qui il sodalizio finì. No, non si poteva continuare a quel modo. Io feci una serie di foto genere ‘Mondo’, lui tornò a Roma. Era garbato, però, non ci fu lite”. E l’inchiesta? “Decidemmo che l’avremmo finita ognuno per conto suo. E in realtà facemmo un buon lavoro (Di Paolo 2005).

“Successo” opera dei tagli ai testi, probabilmente per ragioni di spazio e di, seppur lieve, censura. La decisione di Pasolini di accettare il lavoro potrebbe essere spinta da ragioni legate alla sua immagine pubblica, già così contrastata: a fine maggio 1959 Pasolini aveva pubblicato per Garzanti il romanzo Una vita violenta, ricevendo il favore della critica ma senza vincere né il Premio Strega né il Premio Viareggio (ottenendo il Premio Crotone e, conseguenti, numerose polemiche).

Una vita violenta è il secondo romanzo di Pasolini, che segue Ragazzi di vita, del 1955 e che aveva avuto un’accoglienza tutt’altro che positiva da gran parte della critica, in particolare da quella politicamente schierata (sia di estrema destra sia delle fila marxiste sia cattoliche), venendo scartato da importanti premi letterari. Il romanzo subisce anche un processo da parte della magistratura di Milano, che aveva accolto una denuncia per il carattere pornografico di Ragazzi di vita (cfr. De Laude 2018). Il processo si concluderà, l’anno successivo, con una piena assoluzione.

Entrambi i romanzi si concentrano sulla vita nelle borgate romane, da cui Pasolini era autenticamente affascinato, e in cui si ricalca nella scrittura la lingua parlata (con l’aiuto di Sergio Citti, fratello di Franco): l’uso di una scrittura che descrive mimeticamente le situazioni è la pietra dello scandalo – non estinto – ai danni di Pasolini [Fig. 2].

2 | P.P. Pasolini, P. Di Paolo, La lunga strada di sabbia, in “Successo”, luglio 1959, 18-19.

Per quanto riguarda la storia editoriale, La lunga strada di sabbia è pubblicato in volume nel 1988, senza le foto di Di Paolo e nella versione di “Successo”, all’interno del “Meridiano” pasoliniano Romanzi e racconti (1946-1961), a cura di Silvia De Laude e Walter Siti (Pasolini [1966, 1972] 1999); nel 1999 è pubblicato in versione francese (La longue route de sable), con traduzione di Anne Bourguignon, per l’editore Arléa (riedito nel 2004). Nel 2005 è pubblicata una nuova edizione, sempre in francese e con traduzione di Anne Bourguignon, per l’editore Xavier Barral (che ripubblica una nuova edizione nel 2014). Questa pubblicazione del 2005 è corredata dalle fotografie di Philippe Séclier, scattate nel 2001 ripercorrendo le tappe del viaggio di Pasolini, ed è arricchita da alcuni documenti inediti che il fotografo francese avrebbe ricevuto direttamente da Graziella Chiarcossi, cugina di Pasolini (si tratta, nello specifico, del dattiloscritto originale della Lunga strada di sabbia, insieme a due carte autografe, scritte a mano). Nel 2014 l’editore Contrasto pubblica nella collana “In Parole” il testo in lingua originale basandosi sull’edizione francese del 2005, integrata quindi con passi omessi nella prima edizione su rivista, con riproduzioni anastatiche delle carte originali e delle tre pubblicazioni su “Successo”, e con le fotografie di Séclier. Nel 2017 l’editore Guanda pubblica una nuova edizione, con il testo nella versione ampliata ma senza apparati, con una prefazione di Paolo Mauri [Fig. 3].

3 | P.P. Pasolini, P. Di Paolo, La lunga strada di sabbia, in “Successo”, agosto 1959, 20-21.

La storia editoriale pone in evidenza che La lunga strada di sabbia sia stato un testo a lungo dimenticato, o comunque non valorizzato, tanto che Pasolini stesso in vita non ha lavorato a una pubblicazione autonoma: il testo si può considerare una riscoperta postuma.

Oltre alla pubblicazione dei due romanzi poco sopra citati, dal 1954 Pasolini lavora a sceneggiature cinematografiche, iniziando con Bassani per il film La donna del fiume di Mario Soldati. La scrittura di Pasolini, già legata in Ragazzi di vita e in Una vita violenta alla mimesi, nella pratica della sceneggiatura vede maggiormente calcata la dimensione realistica, in rapporto diretto con la realtà. Come scrive Vicenzo Cerami concentrandosi sull’aspetto linguistico dell’atteggiamento di Pasolini, riferendosi all’inchiesta Comizi d’amore, del 1963:

Pasolini non ha quasi mai preso una posizione acritica: ha sempre promosso un dibattito dopo un’analisi narrativa, se non proprio semiologica, della realtà. Fu attraverso l’osservazione degli strati linguistici della lingua letteraria che Pasolini definì le caratteristiche della cultura e della letteratura italiana e non per via sociologica. Fu guardando il modo di vestirsi, di pettinarsi e di parlare dei giovani che introdusse il concetto, oggi tanto consumato, di omologazione. Fu dopo aver studiato il deperimento dei dialetti e la perdita della memoria storica che parlò di rivoluzione antropologica (Cerami 1991, 14).

Cerami ha chiaramente sintetizzato l’atteggiamento linguistico di Pasolini, riferendosi, tra l’altro, a un’effettiva sub-inchiesta, Comizi d’amore: una serie d’interviste italiane sulle abitudini sessuali, che “serve da cartina da tornasole per far emergere in superficie e mostrare ‘drammaticamente’ una cultura, la cultura repressiva e repressa dell’Italia piccolo borghese degli anni ‘60” (Cerami 1991, 18). Se l’attrito tra la vecchia e la nuova Italia, tra la passata cultura autentica e la nuova dominazione socio-culturale borghese, si risolve nei Comizi d’amore nella messa in luce delle distorsioni pubblico-esibizionistiche e delle contraddizioni inautentiche, nel precedente La lunga strada di sabbia, che ne è probabilmente il nucleo propulsore (Leogrande 2014), le interviste sono strumento poco usato: l’obiettivo pare sia la narrazione della nuova Italia e dei suoi luoghi e il filtro primario sono esplicitamente la visione, gli occhi di Pasolini, il suo sentire e la sua persona.

Nella Lunga strada di sabbia la narrazione si concentra, così come spesso accade nella scrittura di reportage, su un particolare significante, che addensa un contenuto più ampio riguardo al luogo e all’atmosfera. Spesso l’attenzione si concentra sulle singole figure umane, che diventano simbolo di qualcosa che li include ma che non li esaurisce, o su uno specifico e denso aspetto di chi abita i luoghi, con l’uso di uno sguardo per certi versi cinematografico (non è forse un caso che la realizzazione del primo film di Pasolini come regista, Accattone, inizi proprio poco dopo questo viaggio italiano: cfr. Parigi 2008, 24). Si pensi, per esempio, alla descrizione puntuale di una donna “bella come Lana Turner”, incontrata al Casinò di San Remo (Pasolini [1959] 2014, 13) o della gente di Portofino, che si muove nella piazzetta della città, “un teatro per miliardari” (Pasolini [1959] 2014, 16), o dei teddy-boys incontrati a Rapallo sotto un monumento a Cristoforo Colombo o degli uomini e le donne di Riccione.

Quando Pasolini è particolarmente infastidito dall’atmosfera pronuncia parole taglienti, come nel caso di Lerici, in cui si legge di un’avversione – forse esagerata e con rabbia sottesa – verso l’amore e il corpo sgraziati:

sui massi, una coppia si abbraccia, senza pudori. Lui è un grassone cattivo, tosto, col berretto da idiota sulla fronte, gli occhiali neri, dei brutti peli sul petto ciccione: lei una racchia altrettanto cattiva e stupida. Poveracci, provano piacere a mettersi le mani addosso (Pasolini [1959] 2014, 20-21).

Pasolini ci pare subisca l’influsso dei luoghi, come se fosse affetto da una sorta di “luogopatia”: una meteoropatia ma per i luoghi. La scrittura e l’atteggiamento di Pasolini, infatti, subiscono dei bruschi cambi: Pasolini si fa reagente.

4 | P.P. Pasolini, P. Di Paolo, La lunga strada di sabbia, in “Successo”, agosto 1959, 22-23.

Il percorso di Pasolini lungo le coste italiane attraverso il Nord e il Sud può essere distinto in macroaree, con punti di passaggio e ognuna con una particolare atmosfera e declinazione delle forze agenti della nuova società. Il ‘primo Nord’ (da Ventimiglia fino al Circeo) ha conflitti meno marcati e l’andamento della scrittura appare ovattato, potremmo dire frenato, pacificato; i conflitti sembrano intravisti ma non ancora percepiti esplosi:

È il fiume variopinto della vita congestionata dalla voglia di essere, nel senso più immediato: non importa come, ma essere qui, in queste splendide spiagge, ognuno al massimo delle sue possibilità, a godersi l’ideale dell’estate, a impegnarsi con tutte forze per essere felici, e quindi esserlo realmente, a guardare, a mostrarsi, in una sagra d’amore (Pasolini [1959] 2014, 14-15).

Al Circeo Pasolini si separa dall’attrice e amica Elsa De Giorgi: “Solo, con la mia millecento e tutto il Sud davanti a me. L’avventura comincia” (Pasolini [1959] 2014, 31). Si entra allora nel ‘primo Sud’, dove Pasolini subisce un rapimento emotivo-sensoriale, tanto da scrivere, a Ischia: “Sono felice. Era tanto che non potevo dirlo: e cos’è che mi dà questo intimo, preciso senso di gioia, di leggerezza? Niente. O quasi. Un silenzio meraviglioso è intorno a me” (Pasolini [1959] 2014, 63).

È la vivacità di Ischia a colpirlo, in particolare, insieme alla bellezza della costa napoletana. Man mano che discende l’Italia, Pasolini incontra un ‘secondo Sud’. Scrive, viaggiando di notte lasciando la Campania: “Sono sempre più solo: la notte nel Meridione è ancora quella di molti secoli fa” (Pasolini [1959] 2014, 74). Procedendo nel viaggio, i luoghi si mostrano più incomprensibili, misteriosi, legati a un mondo antico, naturale, dimenticato: Pasolini ne è incantato, letteralmente (“E allora non so dire in cosa consista l’incanto: dovrei viverci degli anni” Pasolini [1959] 2014, 93). Inoltre, la solitudine, fattuale e interiore, aumenta man mano: “Di notte si è veramente, totalmente soli. Per più di quaranta chilometri non incontro una persona, una macchina, una luce accesa” (Pasolini [1959] 2014, 94). Ancora, a Rodi Galganico: “È appena passata la mezzanotte, e sono solo. Ma solo come può essere solo uno spettro” (Pasolini [1959] 2014, 129).

A Pescara si passa al ‘secondo Nord’, quello di “una nuova civiltà balneare” (Pasolini [1959] 2014, 130). Pasolini è assalito da contrarietà, da disappunto forse più forte perché preceduto dall’immersione in un Sud per lui autentico, tanto da scrivere, sul viaggio verso Chioggia:

Devo dire la verità: dopo Ancona la ‘bellezza naturale’ finisce (intendo dire lungo il mare). […] Il pratico la vince su tutto: la spiaggia si fa funzionale: bagni d’acqua e di sole, confortati dalla presenza di una potente organizzazione. Io che ci faccio, qui? Centinaia di migliaia di borghesi mi tolgono il respiro: sono i padroni, loro (Pasolini [1959] 2014, 150).

È nell’ultima parte del viaggio che Pasolini trova una conciliazione con i luoghi: “Ma, dopo Porto Corsini: la Bellezza ritorna. E allora, correre in macchina, su, verso Chioggia, diventa una vera, esaltante avventura, per gli occhi, per il cuore” (Pasolini [1959] 2014, 150).

A Lazzaretto, poco dopo Trieste, il Nord si accorda, specialmente nello spirito, col Sud: “È incredibile: qui l’Italia ha un ultimo guizzo, è l’Italia come da centinaia di chilometri non la vedevo. […] Ma è un fatto: la breve spiaggia di Lazzaretto potrebbe essere in Calabria” (Pasolini [1959] 2014, 165).

Il discorso, in queste zone, si concentra su aspetti esteriori; in generale, la percezione del turismo che si accentua dal ‘primo Sud’ nell’alimentare una carica polemica di Pasolini è probabilmente dovuto, oltre a motivazioni legate all’identità dei luoghi, anche al periodo in cui si svolge: il ‘primo Nord’ è visitato a fine giugno, e il viaggio che segue è a luglio e agosto, nella vivacità delle ferie estive.

In generale, nella Lunga strada di sabbia, il turismo di massa assume un valore negativo e fastidioso per Pasolini, che lo rappresenta sgraziato, contro natura, condensazione della nuova borghesia, in cui l’essere umano è sperduto:

Domenica. Il battello carico di turisti sacrileghi. Il signore inglese, con la giacca a scacchi e il berretto kaki, la sua signora, il suo amico in grigio, circondati da una banda di commercianti di Latina, affermano il loro possesso di un pezzo di panca, sulla prua, mangiando del pollo e del pane, con le mani, ungendosi tutti, e pulendosi il naso con le dita grosse come salsicce. Capri è invasa (Pasolini [1959] 2014, 69).

E ancora, su Maratea:

Maratea, però, comincia con l’essere un’oasi molto più dolce: ci sono boscaglie, e la costa finisce con maggiore dolcezza sul mare. Su un grande prato, che sembra quasi un parco inglese, sorge l’elegante, celebre albergo degli industriali. Sì, è bello: ma io mi ci annoio (Pasolini [1959] 2014, 76).

5 | P.P. Pasolini, P. Di Paolo, La lunga strada di sabbia, in “Successo”, settembre 1959, 16-17.

Questa percezione di un turismo di massa violento e la visione di un’Italia che cambia anticipano il concetto di ‘mutazione antropologica’ che Pasolini elaborerà alla metà degli anni ‘70, e la sua visione sociale (Balicco 2011). Questo turismo trova un suo archetipo in Rimini o Riccione, che per Pasolini assumono la valenza di un ritorno nei luoghi dell’infanzia:

Come sempre esiste un modello, una forma prima, un archetipo, che si riproduce in mille varianti, restando sempre identico. Suppongo che tale ‘forma principe’ siano Riccione o Rimini, la cui forza di riproduzione si è espansa fin qui, per volontà dei comuni interessati. […] Io per me, sento di rientrare nel mondo delle mie abitudini, dei miei ricordi. Ma mi sento tuttavia con un piede a un livello, e con l’altro piede a un altro livello (Pasolini [1959] 2014, 130).

Nei luoghi del passato di Pasolini è il confronto, appunto la “verifica”, ciò che esalta maggiormente la crepa:

A Riccione, andavo in villeggiatura quand’ero ginnasiale. Arrivo: non riconosco quasi più niente. La nouvelle vague dei bagnanti e degli industriali, ha dato alla spiaggia una nuova violenza, un nuovo senso, in cui trionfano i giovani di ora, del nuovo, sanno tutto (Pasolini [1959] 2014, 148).

Laddove Pasolini racconta di luoghi già conosciuti la narrazione subisce uno scarto: la descrizione, attraverso brevi passaggi, è più efficace e condensata rispetto ai nuovi luoghi (Belpoliti 2014); si pensi a Ostia, probabilmente molto nota a Pasolini nel 1950, descritta come: “Il Grande Formicaio s’è mosso” (Pasolini [1959] 2014, 25).

6 | P.P. Pasolini, P. Di Paolo, La lunga strada di sabbia, in “Successo”, settembre 1959, 18-19.

Il narratore-Pasolini è una presenza fortissima nella Lunga strada di sabbia (Ricorda 2019, 48-49): tutto è filtrato attraverso l’esplicitazione della propria percezione e dei propri sensi. Uno dei verbi più utilizzati è ‘sentire’, sia nell’accezione fisico-percettiva sia come presentimento: al Casinò di San Remo Pasolini sente che le persone “pensano in sanremese, mentre in francese, con anonima crudeltà, annunciano le fasi del giuoco” (Pasolini [1959] 2014, 12), e a Ravello scrive: “Sento puzza di novità” (Pasolini [1959] 2014, 72).

O, ancora, molti sono i personaggi, intellettuali, scrittori e registi di cui Pasolini parla o che incontra nel viaggio, interferendo con i luoghi e presentandosi al lettore come narratore-soggettivo, nella condivisione della propria intimità.

L’interazione con il lettore è spesso esplicitata, tanto che quest’ultimo è chiamato in causa come parte attiva: “Vorrei scriverne, se ne fossi capace, solo per quel lettore che non si è mai mosso dal suo paese, dalla sua cittadina, se non per brevi viaggi nella sua provincia, e sogna Capri, sogna Ischia, come li ho sognati io, ragazzo” (Pasolini [1959] 2014, 63). O, ancora: “Il lettore che mi è simpatico, vorrà sapere tutto. Lo accontento” (Pasolini [1959] 2014, 69), esplicitando il valore positivo del patto di fiducia che dovrebbe intercorrere tra reporter e lettore.

Pasolini, inoltre, è viaggiatore frenetico, frettoloso, impaziente, come spesso accade ai reporter; il tempo è percepito limitato rispetto alla curiosità e alla vastità della novità da esplorare: “Giro mezza città, tutta vuota, miracolosamente nuda, nuova. Mi sistemo al Jolly: come un ragazzo, non vedo l’ora che venga domani. Notte, passa presto!” (Pasolini [1959] 2014, 95).

Sul tragitto da Taranto a Santa Maria di Leuca, si legge: “Volo per la costa meno nota d’Italia: mi trascina una gioia tale di vedere che quasi son cieco. […] Tutto è come bevuto, frastornato dalla luce. Riafferro la vita a Gallipoli” (Pasolini [1959] 2014, 115).

Si nota un’alternanza tra l’estremo buio, la notte, e l’estrema luce percepiti come limitazione simbolica del tempo o della visione. Nella Lunga strada di sabbia è forte per Pasolini la volontà di rendere chiara la propria visione, esplicitando il rapporto con il lettore e la tensione all’esattezza. Ed è così che, attraverso la scrittura, “assetato di notizie, mi angoscio all’idea di rendere distinta, chiara e pensabile questa pura visione” (Pasolini [1959] 2014, 11).

“Come in un film sfileranno”, La lunga strada di sabbia di Paolo Di Paolo

Dal 17 aprile all’1 settembre 2019, il museo MAXXI di Roma (Museo nazionale delle arti del XXI secolo), ha ospitato la grande mostra antologica, Paolo Di Paolo. Mondo perduto, dedicata al fotografo molisano (classe 1925), contenente – oltra alla sezione relativa alle fotografie edite e inedite della Lunga strada di sabbia – circa trecento dei quasi 250 mila scatti ritrovati fortuitamente dalla figlia Silvia dopo più di cinquant’anni di oblio (cfr. Calvenzi 2018). Circostanza misteriosa – già sostanza mitopoietica – che sembra doppiare tautologicamente il tempo ‘archeologico’ della fotografia, il suo essere istante ritagliato – o congelato – dal flusso continuo della vita, riconsegnando così la storia alla sua intrinseca discontinuità per poi restituirla come frammento (o shock), “conferendo a ogni momento il carattere di un mistero” (Sontag [1973] 2004, 21).

Dal 1966, dopo la chiusura de “Il Mondo” diretto da Mario Pannunzio – di cui era stato il fotografo più prolifico pubblicandovi 573 fotografie – Di Paolo infatti interrompe bruscamente l’attività: una sottrazione melvilliana che accresce e raddoppia la distanza temporale e il carattere inesorabilmente passato della fotografia e, attraverso “tutta la potenza [di] ciò che viene tenuto in riserbo” (Celati 1991, XXVI), la restituisce al suo scopo primario: quello di “scoprire una realtà nascosta, conservare un passato che sta scomparendo” (Sontag [1973] 2004, 50).

Il ritrovamento dell’archivio, oltre al valore estetico-artistico delle fotografie stesse e il loro regalarci un ritratto vivido dell’Italia di quegli anni, costituisce un tassello fondamentale per la ricostruzione delle vicende del giornalismo e fotogiornalismo coevi ma, soprattutto, aiuta a riempire quell’altrettanto misterioso vuoto inerente il rapporto tra Pier Paolo Pasolini (protagonista indiscusso tanto della mostra al MAXXI quanto delle ‘memorie fotografiche’ dello stesso Paolo Di Paolo) e la fotografia. Rispetto a quest’ultimo, a parte le laconiche dichiarazioni dello scrittore e le analisi più o meno congetturali sulle fotografie scattate da Dino Pedriali (che verosimilmente avrebbero dovuto accompagnare il testo dell’incompiuto Petrolio), va segnalato il pioneristico lavoro di Corinne Pontillo, Di luce e morte. Pier Paolo Pasolini e la fotografia, dedicato appunto al tentativo di colmare questa assenza; proseguendo su questa scia di raddoppi e assenze si potrebbe aggiungere anche quella sottrazione – o “intervallo che [pure] ha del misterioso” (Cortellessa 2017, 179) – di Pasolini dalla pittura e dal disegno che si protrae per tutti gli anni ’50 e l’inizio dei ’60. Un periodo in cui lo scrittore “più indulge a scritture dal forte tasso mimetico, e diciamo pure ecfrastico” (Cortellessa 2017, 179) e che pur coincide – e probabilmente proprio di coincidenza si tratta – con i lavori realizzati insieme a Di Paolo. A partire dalla costatazione della quasi totale assenza di riferimenti espliciti alla fotografia da parte dello scrittore, Pontillo sostiene che “l’opera pasoliniana svela, inaspettatamente, un rapporto con la fotografia piuttosto articolato” (Pontillo 2015, 13). Rapporto che sembra intensificarsi dopo il “biennio 1960-1961, ovvero seguente all’apertura all’attività registica dopo l’esordio con Accattone” (Pontillo 2015, 15) e dunque, si potrebbe aggiungere – forse ancora per pura coincidenza – contemporaneo all’incontro con Di Paolo. Tuttavia, nel testo della studiosa non vi è alcun riferimento al fotografo: una lacuna che in buona parte trova giustificazione nel fatto che all’epoca della pubblicazione del suo testo mancavano ancora quasi cinque anni alla mostra del MAXXI che ha permesso l’emergere della figura ancora in ombra del fotografo e favorito l’incremento della documentazione e la relativa problematizzazione del rapporto tra Pasolini e la fotografia.

Alla mancanza di riferimenti dello scrittore alla fotografia, all’assenza di notizie riguardanti il viaggio con Di Paolo in quello che forse è l’unico lavoro dedicato integralmente a questo fantasmagorico rapporto, si aggiunge anche l’inevitabile esiguità bibliografica relativa al fotografo che, oltre al catalogo della mostra, può contare su pochi altri contributi: un territorio vergine ancora da esplorare, incubo e/o sogno di libertà di ogni studioso, di cui la mostra antologica del 2019 rappresenta un primo germoglio.

Arrivato a Roma per studiare filosofia, tra gli anni ’40 e ’50 Paolo Di Paolo frequenta gli ambienti aristocratici della capitale. Sono questi anni sospesi, come afferma Marco Belpoliti (Belpoliti 2018, 206), tra il ‘già’ e il ‘non ancora’: anni di transizione, ricostruzione, speranze e contrasti che vedono un’Italia uscita dalla guerra, alle soglie del boom economico, che si lascia confortare e cullare dalla ‘dolce vita’, dove al desiderio di progresso e al sogno di una realtà patinata si contrappongono realtà periferiche, arretratezze, povertà, donne con il capo velato e i primi, sotterranei, fermenti ideologico-politici.

7-8 | P. Di Paolo, Foto di moda. Tor di Nona, Roma, 1957-1958; P. Di Paolo, Sosta del pellegrino, Passo delle Tre Croci, tra Molise e Campania, a sud di Cassino, 1957.

9 | P. Di Paolo, Giuseppe Ungaretti, Roma, 1963.

La Capitale è attraversata da un vivace fremito culturale e torna, almeno per un po’, ad essere meta e crocevia di vari artisti (da ricordare il passaggio di Mark Rothko, Robert Rauschenberg, Cy Twombly e, a metà degli anni ’40, il ritorno di Alberto Burri). Centro del cinema e della letteratura neorealisti, nel 1947 Roma vede anche la nascita del gruppo Forma al quale si avvicina Di Paolo assimilandone la tendenza verso una “nuova astrazione materialista, pragmatica, antieroica e laica” (Ranzi 2018, 46). Tanti sono gli artisti e intellettuali fotografati da Di Paolo, non ultimo lo stesso Pasolini che, dopo l’avvicinamento al fotografo a seguito della collaborazione per La lunga strada di sabbia, chiede a quest’ultimo di immortalarlo in altre occasioni. Tra queste i famosi scatti nel 1960 sul Monte dei Cocci a Roma “con la città ‘stupenda e misera’ ai suoi piedi”, in un tempo – scrive Emanuele Trevi – in cui “tutto deve ancora accadere” (Trevi 2018, 237), dove il fotografo riesce a catturare l’istante di transizione e definizione della personalità artistica di un Pasolini in procinto di avvicinarsi al mondo del cinema, prima che si trasformasse in quella macchina mitologica, quando “solo ciò che deve ancora accadere conta qualcosa” (Trevi 2018, 237).

Ancora, nel 1964, è sempre Di Paolo ad essere chiamato dall’ormai regista Pasolini per scattare le uniche foto esistenti sul set de Il Vangelo secondo Matteo, a testimoniare ancora la fiducia riposta nei confronti del fotografo.

10 | P. Di Paolo, Pier Paolo Pasolini sul Monte dei Cocci, Roma, 1960.
11-12 | P. Di Paolo, Pier Paolo Pasolini sul set de ‘Il vangelo secondo Matteo’, Basilicata, 1964.

E tuttavia, stando ai resoconti del fotografo relativi al viaggio del ’59, si è trattato di un avvicinamento lento, a tratti faticoso: un avvicinamento che porta alla paradossale separazione dei due che percorrono la lunga strada “ognuno per conto proprio” (Di Paolo 2018, 270) – ci dice il fotografo – “lui a rincorrere e a riconoscere i tratti identitari della nostra società attraverso la corrispondenza dei luoghi con le testimonianze letterarie e culturali; io a celebrare col mio obiettivo la perdita e la trasformazione dei valori che avevano generato quelle testimonianze” (Di Paolo 2018, 270). I racconti di Di Paolo restituiscono infatti un’immagine austera e diffidente dell’intellettuale (“sa anche sorridere”, pensa stupito Di Paolo davanti al suo monosillabico interlocutore; “Tu conosci Rilke? Lo trovo sorprendente”, dice l’intellettuale prevenuto e guardingo, Di Paolo 2018, 268) e lasciano trapelare un certo disagio tra i due che si traduce nella ricerca forzosa e fallimentare di punti di contatto (a cena “provai a parlare di vino”, racconta il fotografo, “senza successo. La cena durò poco più di mezz’ora” Di Paolo 2018, 268). Quello tra i due sembra uno di quegli Incontri impossibili (così si intitolava la serie realizzata per “Tempo” alla fine degli anni ’50, poco prima dell’incontro con Pasolini, che raccoglieva, tra gli altri, quello tra Gina Lollobrigida e Giorgio de Chirico), nato dalla spinta visionaria di Arturo Tofanelli che all’epoca dirigeva sia il settimanale “Tempo” che il neonato mensile “Successo” con i quali Di Paolo – a differenza del neofita Pasolini – già collaborava.

13 | P. Di Paolo, Gina Lollobrigida e Giorgio de Chirico, dalla serie Gli incontri impossibili, progettata dal giornalista Sennuccio Benelli, pubblicata da “Tempo”, 1961-1962.

Sono anni cruciali per il fotogiornalismo: anni in cui la RAI stava compiendo quel miracoloso processo di unificazione linguistica nazionale, ovviando – almeno in parte – all’analfabetismo e, allo stesso tempo, bruciando le notizie con velocità inusitata; “Il Mondo” adottava fotografie di grande formato e qualità (in buona parte per far fronte al persistente analfabetismo avvalendosi dell’immediatezza del linguaggio visivo) che godevano di una straordinaria autonomia rispetto al testo scritto, mentre i paparazzi infestavano le strade alla ricerca di scoop. Nel settimanale “Tempo”, sotto la guida di Tofanelli, in quegli anni “verrà portata alla massima espressione l’idea di un documentario stampato su carta” (Andreani 2018, 119). Proprio a partire dal 1950, viene pubblicata la serie dei Documentari di Tempo caratterizzati dal prevalere dell’immagine fotografica sul testo scritto, a testimoniare la grande importanza datane dal direttore.

“Tempo” è anche uno dei pionieri di quelli che si possono definire ‘fotodocumentari’ – dove il termine ‘documentario’ rinvia al cinema di non-fiction e “l’idea di fondo [è] quella di una trasposizione su carta stampata dei fotogrammi di una pellicola cinematografica, con le didascalie a sostituzione del sonoro” (Andreani 2018, 316) – e del loro prototipo: il cinegiornale degli anni ‘20 e ‘30. È stato infatti l’allora direttore Alberto Mondadori a dettarne le linee guida e il primo a usare la formula del “fototesto” che, stando alle dichiarazioni di Bruno Munari (all’epoca incaricato dell’impaginazione), nacque “dall’intenzione di fare quasi dei film, realizzare dei documentari con quelle immagini fotografiche” (Munari 1977, s.i.p.). Idea filmica che anima anche l’edizione delle tre puntate della Lunga strada di sabbia dove, come si legge nel sommario, “come in un film sfileranno, nel racconto di Pasolini e nelle foto di Di Paolo, quei volti e quei fatti che soltanto un’inchiesta così lunga può documentare” (“Successo” 1959, 12); un’inchiesta sulle vacanze degli italiani realizzata prima della rivoluzione turistica, quando il turismo non era ancora un ‘truismo’ e il percorso dei due si pone come ‘asserzione primigenia’ delle future ri-percorrenze della lunga strada, quando ormai lo sguardo predatorio del turista, con impeto menardiano, ricercherà il già visto e la realtà verrà “esaminata e valutata secondo la sua fedeltà alle fotografie” (Sontag [1973] 2004, 76).

Dopo solo due giorni dal primo contatto telefonico, sotto la spinta di Tofanelli, i due corsari partono insieme, a bordo di una MG coupé Bertone, sfilando (da intendersi nel senso etimologico che evoca l’immagine di una rapida successione e si riconnette così all’etimo del currere corsaro e all’idea di un movimento incessante) lungo le coste italiane quasi a disegnarne i contorni, per poi separarsi alla fine della prima tappa e proseguire ciascuno per conto proprio. Un’autonomia che si riversa nel risultato finale con l’evidente e più volte ribadita indipendenza tra immagini e testo. Eppure, tra i due testi ci sono delle concordanze date non solo dall’inevitabile osmosi semantica prodotta dall’accostamento visivo degli elementi; come infatti afferma Guy Debord, “quando due oggetti vengono accostati si crea sempre una relazione, non importa quanto i loro contesti di provenienza siano lontani” (Debord 1956, s.i.p.). Le concordanze non sono nemmeno date dal fatto che si tratti di un iconotesto che, attenendoci alla definizione di Michele Cometa, pur prevedendo la separazione formale di immagine e testo trae il suo senso dalla loro copresenza, ma soprattutto per il loro appartenere a un’altra tipologia di relazione: quella delle omologie che, stando sempre alla sistemazione di Cometa, si ha quando tra testo e immagine esiste un’analogia genetico/tematica. Analogia data tanto dall’oggetto osservato (seppur in modo diverso) quanto dal tempo accelerato e quasi senza posa della visione: se infatti Pasolini raramente indugia sul primo piano, quest’ultimo è del tutto assente in Di Paolo (assenza dovuta in gran parte dalle scelte editoriali che, come ricorda Giovanna Calvenzi, si limitano a una “selezione ridotta di immagini privilegiando a volte momenti che sfiorano l’aneddoto”, Calvenzi 2018, 290, escludendo così volti e intensità ravvicinate ed estirpando ogni forma di asprezza), privilegiando il punto di vista esterno e lontano di chi è in transito. Una distanza – forse dolorosa per Pasolini – accolta con delicatezza ironica e leggera dal fotografo che fa sfilare davanti ai nostri occhi moltitudini spensierate, spesso riprese dall’alto e/o di scorcio, dove affoga qualsiasi possibilità di individuazione particolare a favore di quella tipologica e spersonalizzata in cui le figure di schiena – grandi protagoniste – svolgono una funzione escludente.

14-15 | P. Di Paolo, Tra Rimini e Bellaria, 1959 (foto scattata per il reportage La lunga strada di sabbia esclusa da quelle pubblicate su “Tempo”, 1959); Lido di Corollo (Napoli), 1959 (foto scattata per il reportage La lunga strada di sabbia esclusa da quelle pubblicate su “Tempo”, 1959).

L’ultima omologia in questo gioco differenziale, viene dalla lettura di Marco Belpoliti che, nel bel saggio dedicato a Di Paolo, individua due matrici nella fotografia del molisano: una è quella bressoniana che va alla ricerca dell’istante perfetto; l’altra è quella derivante dal linguaggio teatrale squisitamente italiano dove tutti i personaggi “sono parte del gran teatro del mondo” (Belpoliti 2018, 217). Un teatro in cui gli individui “non solo recitano, sono anche spettatori della medesima scena [dove] si mostrano e insieme guardano”, costruendo così uno spazio circolare o, piuttosto, uno spazio fatto di specchi rovesciati e diaframmi bifronti. Lettura che sembra doppiare l’idea concettuale pasoliniana – alla base di Empirismo eretico – della vita come “rappresentazione doppia, in cui siamo attori e insieme spettatori” (Pasolini [1966] 1999, 1514) e raggiunge il parossismo nel servizio fotografico realizzato da Pedriali nel ’75 che, seguendo le istruzioni di Pasolini, lo fotografa attraverso le finestre della casa dove, afferma Belpoliti ricongiungendosi involontariamente allo spazio attribuito al fotografo, “le grandi lastre trasparenti fungono […] da quinta teatrale” (Belpoliti 2010, 72) e, contemporaneamente, funzionano come specchio che ingloba e rovescia la realtà.

Ad aprire il catalogo della mostra fotografica del MAXXI con cui si è aperto e adesso si chiude il sottocapitolo, è una foto nel risguardo della copertina, che già nella dicitura evoca l’essenza di uno sguardo doppio. È una foto di Di Paolo scattata da Pasolini sulla costa ligure quando il poeta ruba la macchina al fotografo e gli restituisce “il tipo di sguardo che poco prima l’altro aveva posato sul suo corpo” (scrive Cortellessa 2017, 213 a proposito di una fotografia scattata da Prediali di cui la Nostra sembra ancipite) e ci ricorda che “l’intera vita, nel complesso delle sue azioni, è un cinema naturale e vivente” (Pasolini [1966] 1999, 1514) dove scrittura, fotografia e corpo sono i diaframmi su cui la realtà – come ‘continuo visivo’ – sfila, si specchia e viene raddoppiata.

Riferimenti bibliografici
  • Andreani 2018
    M. Andreani, Foto-documentari: propaganda, divulgazione e attualità nei supplementi illustrati italiani del dopoguerra, in E. Menduini, L. Marmo (a cura di), Fotografia e culture visuali del XXI secolo, Roma 2018, 305-323.
  • Balicco 2011
    D. Balicco, Qui finisce l’Italia, “il manifesto” (“Alias”), 04 giugno 2011.
  • Belpoliti 2010
    M. Belpoliti, Pasolini in salsa piccante, Milano 2010.
  • Belpoliti 2014
    M. Belpoliti, Pasolini, “La Stampa”, 5 novembre 2014, disponibile anche online, con titolo Pasolini, la lunga strada, “doppiozero”, 3 gennaio 2017 (https://www.doppiozero.com/rubriche/3/201412/pasolini-la-lunga-strada, consultato il 22 dicembre 2020).
  • Belpoliti 2018
    M. Belpoliti, La fotografia porosa di Paolo di Paolo in G. Calvenzi (a cura di), Paolo Di Paolo. Mondo perduto. Fotografie 1954-1968, Venezia 2018, 206-236.
  • Calvenzi 2018
    G. Calvenzi, Un mondo perduto o un mondo ritrovato? in Id. (a cura di), Paolo Di Paolo. Mondo perduto. Fotografie 1954-1968, Venezia 2018, 285-295.
  • Celati 1991
    G. Celati, Introduzione a Bartleby lo scrivano, in H. Melville, Bartleby lo scrivano [Bartleby, the scrivener: a story of Wall Street, New York 1853], traduzione e cura di G. Celati, Milano 1991.
  • Cerami 1991
    V. Cerami, Il linguaggio della realtà [1991], in P.P. Pasolini, Comizi d’amore, G. Chiarcossi, M. D’Agostini (a cura di), Roma 2015, 12-20.
  • Cortellessa 2017
    A. Cortellessa, L’assenza, la paura, la macchina. Pasolini e l’arte contemporanea, in A. Felice, A. Tricomi (a cura di), Lo scrittore al tempo di Pasolini e oggi. Tra società delle lettere e solitudine, Venezia 2017, 171-225.
  • Debord 1956
    G. Debord, G.J. Wolman, Mode d’emploi du détournement, “Les levres nues”, 8, maggio 1956 (traduzione a cura delle autrici).
  • De Laude, 2018
    S. De Laude, I due Pasolini. “Ragazzi di vita” prima della censura, Roma 2018.
  • Di Paolo, 2005
    Intervista a P. di Paolo a cura di L. Lilli, Con me stava in silenzio niente appunti, osservava, “la Repubblica”, 25 settembre 2005.
  • Di Paolo 2018
    P. Di Paolo, Il mio incontro con Pasolini, in G. Calvenzi (a cura di), Paolo Di Paolo. Mondo perduto, cit., 267-285.
  • Leogrande 2014
    A. Leogrande, Pier Paolo Pasolini e la lunga strada di sabbia, “Corriere del Mezzogiorno”, 17 novembre 2014; pubblicato anche sul blog minima&moralia, 17 novembre 2014 (https://www.minimaetmoralia.it/wp/reportage/pier-paolo-pasolini-e-la-lunga-strada-di-sabbia/, consultato il 22 dicembre 2020).
  • Munari 1977
    B. Munari in F. Patellani, A. Schwarz, Documenti e notizie raccolti in trent’anni di viaggio nel sud, Milano 1977, s.i.p.
  • Parigi 2008
    S. Parigi, Pier Paolo Pasolini. Accattone, Torino 2008.
  • Pasolini [1966, 1972] 1999
    P.P. Pasolini, La lingua scritta della realtà [1966], poi in Empirismo eretico, Milano 1972, ora in Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano 1999, vol. 1, 1502-1540.
  • Pasolini [1959] 2014
    P.P. Pasolini, La lunga strada di sabbia, Roma 2014.
  • Pontillo 2015
    C. Pontillo, Di luce e morte. Pier Paolo Pasolini e la fotografia, Lentini 2015.
  • Ricorda 2019
    R. Ricorda, La lunga strada di sabbia, “un piccolissimo, stenografo “Reisebilder”, in L. De Giusti, A. Felice (a cura di), Gettiamo il nostro corpo nella lotta. Il giornalismo di Pier Paolo Pasolini, Venezia 2019, 45-58.
  • Ranzi 2018
    G. Ranzi, Turi Simeti. Geometria e finesse, in N. Balestrini, M.T. Carbone, A. Cortellessa (a cura di), Almanacco alfabeta 2. Cronaca di un anno. La rivoluzione turistica, Milano 2017, 46-47.
  • Sontag [1973] 2004
    S. Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società [On Photography, New York 1973] traduzione di Ettore Capriolo, Torino 2004.
  • “Successo” 1959
    N.D.R., La lunga strada di sabbia, “Successo”, 4 luglio 1959, 12.
  • Trevi 2018
    E. Trevi, Un pomeriggio sul monte dei cocci, in Paolo Di Paolo. Mondo perduto. Fotografie 1954-1968 a cura di G. Calvenzi, Venezia 2018, 236-251.
English abstract

The article Doppio movimento: “La lunga strada di sabbia” by Pier Paolo Pasolini and photographer Paolo Di Paolo is about a 1959 reportage commissioned of Pasolini by Arturo Tofanelli, editor of the monthly magazine “Successo”. The original proposal was suggested by the Di Paolo who took care of its photographic side. As indicated in the title, the reportage is structured on a double track. It explores the relationship between the writer and the photographer during the composition of the reportage: the two traveled their routes independently of each other most of the time. The first part of the essay focuses on Pasolini’s written reportage, La lunga strada di sabbia – The long road of sand, discussing its genesis and editorial history,f as well as the itinerary that Pasolini followed during his journey. La lunga strada di sabbia is contextualised according to Pasolini’s production of that period and to his public profile. The article aims to highlight Pasolini’s perception of mass tourism, which had developed strongly in those years, and how this vision is reflected in his writing. The second part of the essay is dedicated to the analysis of Di Paolo’s photographs included in the first publication of La lunga strada di sabbia. The exhibition Paolo Di Paolo. Mondo perduto (held at MAXXI from 17 April to 7 September 2019) allowed the photographer’s archive to re-emerge. It was possible not only to rediscover Di Paolo’s work, and collaboration with Pasolini, for the realization of the reportage in question, but to also deepen and problematize the poet’s complex relationship with photography. More generally, this collaboration strongly contributed to strengthen both photojournalism in those years and the relationship between images and words.

keywords | Pier Paolo Pasolini; Paolo Di Paolo; reportage; tourism; journey; journals; landscape; photography; photo-reportage.

Per citare questo articolo/ To cite this article: Arianna Agudo, Ludovica del Castillo, Doppio movimento. La lunga strada di sabbia di Pier Paolo Pasolini e Paolo Di Paolo, “La Rivista di Engramma” n. 181, maggio 2021, pp. 45-66. | PDF dell’articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2021.181.0006