"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

181 | maggio 2021

97888948401

Nota a un libro fatto anche di note

La Divina Mimesis e la sua “iconografia ingiallita”*

Walter Siti

English abstract

Come testimonia una lettera a Luciano Serra del settembre 1945, Pasolini da giovane provava verso Dante l’insofferenza e la diffidenza che provava per i padri. Ma a Roma nel 1950 chiede aiuto a Dante per scendere nell’inferno delle borgate. Ne resta traccia in Alì dagli occhi azzurri, nel centone dantesco che precede Dal vero fino all’epigrafe di Accattone. Nel frammento intitolato La Mortaccia una prostituta si appresta al viaggio ultraterreno, guidata da Dante nel ruolo di Virgilio. Anticipando il plot della Mortaccia a Massimo Massara (su “Nuova Generazione”, nel 1960) Pasolini nomina se stesso come viaggiatore e la prostituta come guida; accenna a un antinferno in cui incontrerà Moravia, Gadda, Thomas Mann e promette un Farinata/Stalin torreggiante all’ingresso di Dite.

Sono gli incunaboli della Divina Mimesis. Di un’opera con questo titolo (o con più titoli in alternativa) Pasolini comincia a parlare nel 1963: in una intervista a Sennuccio Benelli (“Il punto”, settembre 1963) racconta di un Gramsci/Virgilio e di Marilyn trasformata in pianta di mimosa. Nel Progetto di opere future, del novembre-dicembre 1963, sono elencati i gironi infernali; nella zona prima i troppo continenti, divisi in conformisti (salotto Bellonci), volgari (un ricevimento al Quirinale), cinici (un convegno di giornalisti), e gli incontinenti divisi in colpevoli per eccesso di rigore (socialisti borghesi, piccoli benpensanti che si credono eroi), per eccesso di rimorso (Soldati, Piovene), per eccesso di servilismo (le masse); nella zona seconda i raziocinanti (Landolfi), gli irrazionali (l’avanguardia), i razionali (Moravia), ecc. L’accento si è spostato, l’inferno da attraversare non è più quello vitale delle borgate ma quello deprimente della piccola-borghesia neocapitalistica (“Ah, non stare in piedi nel sapore di sale / del mondo altrui ... / col bicchiere di whisky in mano e il viso di merda”).

Quando dall’euforia del progetto passa alla scrittura, Pasolini rinuncia a Gramsci e sceglie come Virgilio il se stesso degli anni ’50; l’introversione prevale sull’estroversione. Pasolini ha compiuto quarant’anni, politicamente deluso sconta con la rabbia l’aridità, soffrendo di “quell’esclusione dalla vita degli altri che è la ripetizione della propria”. Attraversare l’inferno significa ormai stilare un bilancio. L’impulso aggressivo a vendicarsi dei nemici addebitandone i vizi non è che la crosta superficiale di un compito più poetico: guardare in faccia il proprio destino d’opposizione, pesare la propria vita in confronto con quella degli altri, rimisurare la portata e la liceità del proprio desiderio infinito: “è tutta la vita che tento / di esprimere questo sgomento da Recherche”. Non un’opera satirica lo aspetta ma una gigantesca opera di riappropriazione di sé, tirando dentro cielo e terra, follemente allegorizzando e contaminando ogni stile: “ne comporrò un’opera mostruosa, coeva / alle Anti-opere, per lettera 22, della nuova moda, / vecchia figuratività nel fianco della giovane leva”.

Un Dante preso terribilmente sul serio e incrinato dal senso di colpa; Dante “che può dire tutto” autorizza all’impresa onnivora, mimetica dell’intera latitudine della realtà (Divina Mimesis sta per “imitazione della Commedia” ma anche per “imitazione della sublime mimesis dantesca”). L’idea si condanna da sola mediante la propria enormità e oltranza; la non-nevroticità di Dante, la sua “ideologia di ferro” e la geniale unicità della sua posizione socio-linguistica, su cui Pasolini riflette nel 1965 in due intelligentissimi saggi, sono i numi tutelari del naufragare dell’opera. L’idea regredisce dal contenuto alla forma, l’ambizione titanica e autopunitiva di “rifare Dante” si riduce (nel Proposito di scrivere una poesia intitolata “I primi sei canti del Purgatorio”, del 1969) a rivendicazione di una tecnica da “poeta-parassita”, oscillante “tra falsetto e poesia didattica”.

Se Aurelio Roncaglia ha ragione nel riconoscere in alcune righe di una lettera pasoliniana a Livio Garzanti, datata gennaio 1967, il primo accenno a Petrolio, allora il romanzo autobiografico vien quasi a saldarsi con l’abbandono del poema allegorico; inutile ricordare che in Petrolio la presenza dantesca è massiccia. Ma quel che unisce i due testi è soprattutto il comune carattere di opera-coacervo o opera-conglomerato, non finita per propria stessa definizione formale, perché sfida la realtà sul piano dell’accumulazione. Un’opera posta di traverso sul sentiero della creatività come una “superba ruina”, scandaloso parto di un cadavere e cadavere essa stessa perché gonfia di inconscio (personale e politico) rimosso. La sola via per un Dante novecentesco era forse (e Contini l’aveva intuito) proprio quella di Proust: recuperare il punto di vista assoluto per via di pazienza psicologica, ripiegare analiticamente la vita come un lenzuolo fin che la seconda metà non ricopra la scrittura della prima, e giustificare nel tempo il proprio trionfo sul tempo. È curioso che Pasolini, prima della fuga a Roma e del suo incontro con Dante, avesse lungamente indugiato sull’ipotesi-Proust (ne restano indizi vistosi in un abbozzo inedito intitolato Per una Recherche sacilese e nei Parlanti, intessuti allusivamente su un brano famoso della terza parte di Du côté de chez Swann).

Licenziando per la stampa la Divina Mimesis, nel 1975, Pasolini la presentava come un “documento”: documento della crisi che lo aveva attanagliato verso la metà degli anni ’60, certamente, ma anche allegato da aggiungere agli altri per quell’eterogeneo monumento autobiografico che ormai si era rassegnato a lasciare di sé. Monumento composto di materiale scritto, visivo, sonoro: greve (sotto le spoglie della leggerezza) e affascinante scacco di un romanzo impossibile.

L’Iconografia ingiallita, poema fotografico destinato nel 1975 a incrementare il composito spessore documentario, necessita forse di qualche precisazione per poter essere ancora leggibile come Pasolini la supponeva. Julián Grimau, oppositore del regime franchista, fu giustiziato il 20 aprile 1963; per lui è l’“altarino di rose” in cui il protagonista si imbatte all’inizio del Canto I. Grigori Lambrakis, deputato della sinistra nel parlamento greco, fu ferito durante una manifestazione (Salonicco, 22 maggio 1963) e ucciso nell’automobile della polizia che avrebbe dovuto trasportarlo in ospedale. A Reggio Emilia, il 7 luglio 1970, ci furono cinque morti e diciannove feriti durante una manifestazione contro il governo Tambroni. Il nesso Gramsci-Contini è spiegato nel Piccolo allegato stravagante. Il Gruppo ’63 fu avversario di Pasolini in quegli anni, e alla riunione del gruppo avvenuta a Palermo nel 1965 allude Pasolini dicendo di essere stato “ucciso a colpi di bastone, a Palermo” – linciaggio puramente letterario quindi, nessuna tragica profezia. Il Ninfeo di Valle Giulia è sede ogni anno del Premio Strega: nel 1968, a Teorema fu preferito L’occhio del gatto di Bevilacqua. La presenza nel premio di Gadda e Penna non richiede spiegazioni, un poco più sorprendente quella di Cecchi: una recente rilettura pasoliniana è congetturabile dal fatto che il titolo Tetro entusiasmo di una sezione della Nuova gioventù deriva da un passo del grande libro di Cecchi sui romantici inglesi. La chiesa di Casarsa e l’Africa cercano di chiudere in circolare unità il dissidio insanabile tra anni ’40-’50 e anni ’60, vissuto in tutto il poema come dissidio tra speranza e smarrimento. “Visita all’Inferno” è chiamata nell’Uomo di Bandung la conoscenza dell’atemporalità affamata del Terzo Mondo. Nella prefazione a Letteratura negra di Mario De Andrade, Pasolini scriveva: “in Africa, è chiaro, non è avvenuta la scissione di resistenza e Resistenza… lo ‘sguardo al futuro’ che era tipico in noi in quei famosi anni ’40, lo ritroviamo qui con la stessa quasi impudica freschezza”.

*Il testo di questa Nota è uscito in tedesco in P.P. Pasolini, Barbarische Erinnerungen, aus dem Italianische von M. Pflug, Berlin 1983; poi in Id., La Divina Mimesis, Massa 2011. 

Apparato iconografico della Divina Mimesis

Qui di seguito ripubblichiamo le 24 immagini nell’impaginazione originale della Divina Mimesis uscita nel 1975. 

L’indice qui di seguito nella Divina Mimesis è separato dal poema fotografico precedente da un Piccolo allegato stravagante estratto dalla recensione di Pasolini a Letteratura italiana Otto-Novecento di Gianfranco Contini, pubblicata su "Tempo" il 3 gennaio 1975, poi inclusa in forma integrale in Descrizioni di descrizioni.

English abstract

This contribution republishes the commentary written by Walter Siti about the Divina Mimesis by P.P. Pasolini. The critic describes how the masterpiece took form over years and how the social and political context influenced it: the Divina Mimesis is part of the autobiographical monument that Pasolini left us and thus is related to the inner crisis that affected the author during the ’60s. The text is accompanied by the collection of photographs published in the original layout.

keywords | Pasolini; Divina Mimesis; Dante; Iconografia Ingiallita.

Per citare questo articolo/ To cite this article: Walter Siti, Nota a un libro fatto anche di note. La Divina Mimesis e la sua “iconografia ingiallita”, “La Rivista di Engramma” n. 181, maggio 2021, pp. 281-290. | PDF dell’articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2021.181.0016