"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

181 | maggio 2021

97888948401

Pittografie del Verbo

Torsioni figurative della parola, torsioni verbali dell’immagine in Italia negli anni ‘60

Luca Scarlini

English abstract

La parola era stanca dopo gli infiniti dibattiti del Neorealismo, quando il piffero della rivoluzione aveva incantato un’intera stagione letteraria, dettando slogan e manifesti e rapidamente dando alla fabbrica il ruolo di sovietica sirena dei tempi nuovi. Prima che altri messaggi venissero urlati dai megafoni del ’68, di corteo in corteo, l’immagine era ovunque sovrana nell’epoca pop, che inizia assai prima della presenza americana alla Biennale 1964. I cartelloni di film e pubblicità, usati come materiale di lavoro da Mimmo Rotella dall’inizio degli anni ’50, nella dimensione del décollage, strillavano in ogni angolo di strada le lusinghe di un’epoca nuova che di lì a poco avrebbe dato la vertigine degli effetti di superficie di cui Gilles Deleuze spiegava la grammatica nella sua capitale Logica del senso (1969). Le case editrici registrano anche nel Belpaese una serie di mutamenti grafici e cromatici. Dopo anni di copertine assai serie, i colori squillano. Colpiscono le scelte Bompiani, di cui l’amico di Pasolini Fabio Mauri, collaboratore per decenni del marchio, è in larga parte responsabile.

Negli anni ’60 il terreno per l’artista è il teatro, in cui si cimenta sia nella forma canonica della commedia (Il benessere, scritto insieme a Franco Brusati e messo in scena da Luigi Squarzina, 1959) e dell’avanguardia satirica, nell’incantevole L’isola (1960), che varrebbe la pena di recuperare, allestito come un gioco di fumetti. A lui è dato di rivisitare l’Almanacco, ideato da Umberto Fracchia in Mondadori, e diventato con Bompiani uno strepitoso laboratorio di grafica editoriale negli anni ’30 (ad esempio nella collaborazione tra Cesare Zavattini e Gabriele Mucchi). Mauri presenta il suo Luna, comparso nella mostra capitale di Achille Bonito Oliva Vitalità del negativo sulla copertina dell’Almanacco Letterario 1971, intitolato a Ciò che i vostri figli non vi dicono. Nel 1962 la pubblicazione, provocatoriamente intitolata Le applicazioni dei calcolatori elettronici alle scienze e alla letteratura, pubblica il risultato delle esperienze combinatorie di Nanni Balestrini, seguite da Umberto Eco, e realizzate con un calcolatore IBM e l’ausilio di un tecnico, a partire da varie suggestioni testuali, passando dal Tao Te Ching al Diario di Hiroshima di di Michihito Hachiya.

Nelle continue incursioni di Mauri tra mondo delle immagini e delle parole, tutte le novità estetiche del tempo giungono per tempo sulle pagine della pubblicazione, come anche sulle copertine Bompiani. Ben lo dimostrano il Frans Kline che illustra La noia di Alberto Moravia (1960), l’opera di Titina Maselli per Esterina di Libero Bigiaretti (1962) e uno strepitoso Roy Liechtenstein per L’impagliatore di sedie di Ottiero Ottieri (1964). In questo libro lo scrittore dichiara peraltro il suo desiderio del cinema, che passa per lui soprattutto dalla folgorazione di Michelangelo Antonioni, che gli regala un cameo in La notte (1961) nell’episodio del ricevimento dell’immaginario scrittore Giovanni Pontano (Marcello Mastroianni). L’anno dopo firma, con Elio Bartolini e Tonino Guerra, la sceneggiatura de L’eclisse (1962). Dal 1966 al 1970 in Bompiani approda anche Franco Maria Ricci per le magnifiche copertine della serie gotica de Il pesanervi, orchestrata da Giorgio Agamben e Ginevra Bompiani.

*1| Fabio Mauri, copertina di Io non ho mani di Davide Maria Turoldo, 1948; 2| Fabio Mauri, Cio che i vostri figli non vi dicono, copertina dell’Almanacco Bompiani 1971; 3| Bruno Munari, Le applicazioni dei calcolatori elettronici alle scienze morali e alla letteratura, copertina dell’Almanacco Bompiani 1962; 4| Franz Joseph Kline, copertina di La noia di Alberto Moravia, Bompiani 1960; 5|Illustrazione di Roy Liechtenstein per la copertina di L'impagliatore di sedie di Ottiero Ottieri, Bompiani 1964; 6| Mino Maccari, copertina di Bestie del '900 di Aldo Palazzeschi, 1951; 7| Catullus di Cy Twombly, copertina di La narcisata-La controra di Alberto Arbasino, Feltrinelli, 1964; 8| Mario Schifano, L'associazione e la proiezione dei ricordi, copertina di La narcisata di Alberto Arbasino, Einaudi, 1975; 9| Giosetta Fioroni, copertina di Domani le donne di Evelyne Sullerot, Bompiani, 1966; 10| Giosetta Fioroni, copertina di Tristano di Nanni Balestrini, Feltrinelli, 1966; 11| Giosetta Fioroni, copertina di Fughe di Roberto di Marco, Feltrinelli, 1966; 12| Giosetta Fioroni, copertina di Luisa con il vestito di carta, Emme Edizioni, Milano, 1978; 13| copertina di Il supermaschio di Alfred Jarry, edizione a cura di Giorgio Agamben, Il pesanervi, Bompiani, 1967; 14| Dino Buzzati, Il circo Kroll, acrilici su tavola, 70x50 cm, 1965; 15| Dino Buzzati, Poema a fumetti, Mondadori, 1969; 16| Dino Buzzati, copertina di I miracoli della Val Morel, Garzanti, 1971; 17| Gianfranco Baruchello, Uso e manutenzione, Catalogo della mostra, 24 x 17 cm, 1965; 18| Cesare Zavattini, Non libro più disco, Bompiani 1969.

Gli anni ’60 vedono il diffondersi della pittografia musicale, celebrata dalla rivista palermitana “Collage”, che esce dal 1962 al 1970. Qui è centrale il lavoro di Sylvano Bussotti, che mette in scena nel cuore del Gruppo 63 la sua necessaria Passion selon Sade al Teatro Massimo di Palermo, in cui gli spartiti mettono in gioco dei disegni che divengono dimensione musicale. Il suo Rara dolce per flauto diritto (pour jouer en couple avec un mime), pubblicato da Ricordi nel 1966, gioca sulle due lettere che compongono il nome del suo compagno dell’epoca, Romano Degli Amidei, trasformato in un personalissimo idioma segreto. Aldo Clementi nel 1963 presenta Informel 3, per harmonium, con una partitura ridotta a grafico, come il coevo Asar di Franco Donatoni, per archi. Nel 1968 viene pubblicata l’incantevole Serenata per un satellite di Bruno Maderna e nel 1969 Daniele Lombardi, tra i massimi esperti di musica futurista, di cui ha riscoperto la centralità, propone Notazione n. 42 di un fatto sonoro che l’esecutore ricrea nella propria immaginazione.

Sullo sfondo sta ovviamente John Cage, che nel 1969 propone in Italia i suoi plexigrams in omaggio all’amico scomparso Marcel Duchamp, con il titolo categorico Not wanting to say anything about Marcel. Di lui Feltrinelli nel 1971 pubblica Silenzio, antologia dei testi, a cura di Renato Pedio. Nel 1966 la divina cantatrice Cathy Berberian, primadonna memorabile della Passion bussottiana e interprete d’elezione cageana, pubblica presso la Galleria Arco d’Alibert Stripsody, rapsodia dei fumetti orchestrata insieme a Umberto Eco, con le immagini di Eugenio Carmi. Emilio Villa dal 1954 lavora con molti artisti, a partire dalle Cinque invenzioni di Nuvolo, fino a Le Monde frotté foute con opere di Claudio Parmiggiani (Scheiwiller, 1970) nella creazione di universi di parole iconiche. In questa epoca il Futurismo, a lungo ostracizzato come manifestazione artistica di marca fascista, torna di prepotenza all’attenzione. Dal 1958 escono i completissimi Archivi del Futurismo, curati da Maria Drudi Gambillo e Teresa Fiori, fortemente voluti dal segretario della Quadriennale di Roma Fortunato Bellonzi e Enrico Crispolti realizza nel 1963 la mostra importante di Giacomo Balla alla Galleria d’arte Moderna (sempre insieme alla Drudi Gambillo). Il catalogo colpisce immediatamente l’attenzione di Mario Schifano, che di lì a poco proporrà Alla Balla e Futurismo rivisitato, nello stesso tempo in cui l’arciconcettuale Francesco Lo Savio intitolava i suoi dispositivi Dinamismo spaziale.

Le tavole parolibere sono modello occulto, ma sempre più evidente, della stagione della poesia visiva, che trova il proprio epicentro a Firenze con il Gruppo 70, con figure come Eugenio Miccini, Luciano Ori, Lucia Marcucci, Lamberto Pignotti e la mirabile Ketty La Rocca, che disegna nella sua breve esistenza un percorso luminoso tra immagine e parola.  In riva all’Arno opera anche Luciano Caruso, di origini napoletane, che molto si è occupato di temi futuristi. Alberto Arbasino è spesso in questi crocevia verbiconici, per la continua frequentazione di gallerie, per il dialogo con artisti con cui la sua parola vuole misurarsi. Il debutto, quindi, con Le piccole vacanze (1957) da Einaudi, è sotto il peggiore dei segni possibili: Donne di Mino Maccari, percepito come obsoleto, ma ancora in quel torno di tempo gettonatissimo, a cui il giovane autore si ribella. Nel 1951 l’artista di Siena aveva realizzato, peraltro il memorabile Bestie del Novecento, per Aldo Palazzeschi, suo capolavoro grafico, ma il suo stile non andava bene per lo stile di scrittura. La riproposta da Einaudi nel 1971 vide come scelta di immagine il quieto Schloss Kammer sull’Attersee di Gustav Klimt, nel frattempo riacquisito come pioniere del moderno. Guadagnata fama, e con essa potere di contrattazione editoriale, lo scrittore impose in copertina de La narcisata pubblicato con la Controra nel 1964 da Feltrinelli, che era diventato il suo editore, un magnifico Catullus di Cy Twombly, visto alla Galleria della Tartaruga, mentre nella quarta di copertina l’autore è raffigurato in uno scatto di Carlo Bavagnoli a Porta Portese, mentre acquista una tela ottocentesca. Notevole anche la scelta d’autore per la riedizione Einaudi del volume del 1975, con un bellissimo Schifano: L’associazione e la proiezione dei ricordi.

In questi anni Arbasino sviluppa una relazione continuativa con l’artista più riferita alla letteratura del periodo, Giosetta Fioroni, da poco riproposta in questa sua fisionomia dalla mostra Roma Anni 60, a cura di Marco Meneguzzo, Marco Mascitti e Elettra Bottazzi (catalogo Silvana) al museo Marca di Catanzaro.  L’artista pubblica i suoi disegni a china nel numero dell’agosto 1963 de “Il Verri”, in cui compare Per un nuovo teatro musicale di Luigi Nono. Nel 1965 crea con Nanni Balestrini, che scrive per lei in una mostra a La Tartaruga, l’incantevole fumetto Tutt’a un tratto una ragazza, pubblicato su “La botte e il violino” del 2 marzo di quell’anno. Nel 1966 immagini della pittrice, ormai gettonatissima, compaiono sulle copertine di Domani le donne di Evelyne Sullerot (Bompiani), Tristano di Nanni Balestrini, Fughe di Roberto Di Marco e Il grande angolo di Giulia Niccolai (Feltrinelli). Il 31 gennaio 1967 va in scena al Teatro Comunale di Bologna, la contestatissima Carmen messa in scena da Alberto Arbasino, melomane per eccellenza, che rifiuta di seguire la linea filologica di allestimento lanciata da Luchino Visconti e imposta dai suoi seguaci, con scene di Vittorio Gregotti e costumi iperpop di Giosetta Fioroni (che poi nel 1978 illustrò l’unica fiaba dello scrittore di Voghera, Luisa con il vestito di carta), esperienza scenica a cui l’artista si ispirò per il suo mirabile La spia otticache del 1968, performance di durata con interprete Giuliana Calandra, raffigurante una ragazza nella sua stanza, mentre il tempo scorre, che trionfò ne Il teatro delle mostre alla Galleria La Tartaruga. Ispiratore della messinscena di Bizet, decisamente strutturalista, fu Roland Barthes, che ignorato dalla intellighentsija bolognese, trascorse due settimane in città.  Supereliogabalo (1969) allarga il gioco, stabilendo una creazione in pubblico che è sempre tentata dalla scena e dal cinema.

L’opera, nella nota alla ristampa Einaudi del 1978: “ha approfittato di parecchi consigli”. Assai presente Carmelo Bene, che aveva sognato di essere l’imperatore dei Parioli in una pellicola che non si realizzò (come il seguente Principe costante, 1972 che avrebbe dovuto furoreggiare a Marrakech tra le vasche puteolenti dei classici tintori). Egli insisteva sulla dimensione del “sur”, discettando del Supermaschio di Alfred Jarry, fortemente riproposto all’attenzione dall’edizione curata nella serie del Pesanervi da Giorgio Agamben nel 1967. Altrettanto rilevante l’intervento di Sylvano Bussotti, che in tempo reale da Parigi giungeva ad annunciare la presentazione al mondo del perduto Eliogabalo artaudiano, anarchico incoronato nel tripudio dei corpi trionfanti. Il romanzo arbasiniano si inaugura ex abrupto con “un nero volo di uccellacci frenetici”, che dà l’avvio a una serie di calligrammi di parole in forma avicola, tra stormi che si inseguono fino al drammatico finale: “giravoltano!? Non torneranno indietro, a sinistra? No! A destra? No! Noooo! Non la fatale conversione a u!”. I calligrammi, secondo l’aureo modello di Guillaume Apollinaire, giravano in quegli anni nelle strepitose litografie che Giorgio de Chirico aveva realizzato per Gallimard nel 1930, che comparivano da Jolas insieme alla mirabile Settimana di bontà di Max Ernst. Un calligramma di uccelli, assai simile a quello arbasiniano, compare, curiosamente, al centro della raccolta di liriche Il capitano Pic e altre poesie, di Dino Buzzati, uscita da Neri Pozza nel 1965 e destinata a una limitata circolazione.

19| Mimmo Rotella, Enigma, 1996, Décollage su tela, 300x290 cm, Fondazione Mimmo Rotella; 20| Sylvano Bussotti, Solo da La Passion selon Sade, Teatro Massimo, Palermo 1966; 21| Sylvano Bussotti, Rara dolce per flauto diritto (pour jouer en couple avec un mime), Ricordi, 1966; 22| Bruno Maderna, partitura musicale per Serenata per un satellite, Milano, Ricordi, 1969; 23| Daniele Lombardi, Notazione n. 42 di un fatto sonoro che l'esecutore ricrea nella propria immaginazione, 1969; 24| John Cage, Not Wanting To Say Anything About Marcel, 1969, serigrafia su plexiglass su base in legno e litografia, Norton Simon Museum, donazione di Judith Thomas; 25| Cathy Barberian, spartito di Stripsody, immagini di Eugenio Carmi, 1966; 26|Mario Schifano, A la Balla, 1965, firmato e intitolato, smalto e grafite su tela, dittico, 152,5 x 203,5 cm; 27| Mario Schifano, Futurismo rivisitato, 1965, smalto e spray su tela e perspex, 174x336 cm, collezione privata, Fondazione Marconi; 28| Francesco Lo Savio, Dinamismo spaziale, 1960-61, Collezione privata; 29| Giosetta Fioroni e Nanni Balestrini, Tutt'a un tratto una ragazza, "La botte e il violino", 2 marzo 1965; 30| Alberto Arbasino, calligrammi per Supereliogabalo, Feltrinelli, 1969, frontespizio; 31| Giorgio De Chirico, Apollinaire, Guiallaume, Calligrammes, Gallimard, 1930; 32| Dino Buzzati, calligrammi per Il capitano Pic e altre poesie, Neri Pozza, 1965; 33| Dino Buzzati, Piazza del Duomo di Milano, 1957, olio su tela; 34| Dino Buzzati, Una fine del mondo, olio su tela, 80x100cm, 1967; 35| Dino Buzzati, bozzetto di scena per Ferrovia Sopraelevata, Teatro Donizetti di Bergamo, 1955; 36| Dino Buzzati, La vampira, acrilici su cartone, 73x102 cm, 1964; 37| Dino Buzzati, Il visitatore del mattino, tempera su tela, 99x69 cm, 1963; 38| Cesare Zavattini, Crocifissione con microfoni, tecnica mista su compensato, 90x69 cm, 1977, Musei civici di Reggio Emilia, controcopertina di Non libro più disco (a cura di Stefania Parigi), Le Lettere, 2009.

Fin troppo ovvio, a proposito di calligrammi (ma quanto diverso il clima), il riferimento agli esperimenti pasoliniani verbovisivi di Poesia in forma di rosa (1964), il cui frontespizio è polemicamente contrapposto nell’“iconografia ingiallita” della Divina Mimesis alla foto di una riunione del Gruppo 63 (“Alcuni del ‘Gruppo 63” la laconica didascalia): solo poesie in forma di petali, dunque, a partire dalla seconda edizione del libro, in giugno, ma nella prima era presente anche un Libro delle croci con poesie, appunto, in forma di croce, recuperate nell’edizione dei “Meridiani” insieme ai virtuosistici calligrammi in forma di figa dell’immeritatamente noto poemetto F., che Pasolini avrebbe voluto pubblicare in torma autonoma nella collana bianca di poesia Einaudi nel 1965.

Ma non dimentichiamo il filo delle invenzioni grafiche di Buzzati, che corre vivido anch’esso al di fuori delle neoavanguardie. Figura centrale del giornalismo nazionale, Buzzati da sempre aveva creato racconti per immagini e parole, tenuti segreti per molto tempo. Il debutto in questo ambito era avvenuto, infatti, nel teatro d’opera, realizzando al Maggio Musicale Fiorentino del 1954 le scene de Il diavolo nel campanile di Adriano Lualdi (da Poe), con i costumi di Colette Rosselli. Il 1 dicembre 1958 si era inaugurata la sua prima mostra alla scomparsa Galleria dei Re Magi di Milano, con una serie di quadri (talvolta assai usati poi per illustrazioni delle sue opere narrative e teatrali, come Piazza del Duomo di Milano, 1952 e La fine del mondo, 1957), accompagnati da storie intese come didascalie, spesso assai ironiche. Negli anni seguenti Buzzati aveva lavorato molto in teatro (come ben analizza la bella monografia di Vittoria Crespi Morbio, Buzzati alla Scala, 2006), a fianco dell’amico Luciano Chailly, per cui aveva scritto il libretto di numerose opere (a partire da Ferrovia sopralevata, Bergamo, 1955), firmando nel 1959 una strepitosa partitura grafica per il balletto Jeu des cartes di Igor Stravinskij, di cui aveva rivisto il libretto insieme alla coreografa Luciana Novaro. Esaminando Le storie dipinte (questo il titolo della prima esposizione dello scrittore) da poco riproposte da Mondadori per le cure di Lorenzo Viganò emerge una tensione alla pittografia che va verso il fumetto e che desume immagini dalla produzione popolare di ex-voto. Ne Il visitatore del mattino una ragazza, nuda, compie le pulizie di casa, finché una creatura mostruosa, la aggredisce, la stupra ed entra dentro di lei sfigurandola. Questa mostruosa creatura geometrica potentemente  sessuata, assume poi l’identità dell’onorevole (ovviamente democristiano) Rongo Rongo che stupra una fanciulla ne L’invadente parlamentare (1964) e torna poi come proprietario di una dimora con un carcere sotterraneo in cui avvenenti damigelle sono prigioniere, legate in angusti spazi e sottoposte a una violenta e sadica “rieducazione”, come la bella Maddalena, studentessa di liceo: “arrabbiata contestatrice (pur nello strazio del castigo ella infatti continua a stringere nella destra il libretto rosso di Mao”. L’immaginario masochista dell’autore, nutrito di Diabolik e Satanik, inanella una catena di domine mirabili: tra la sexyssima Vampira (1964), la bellissima senza cuore che illustra la copertina di Un amore (1965), con il professore innamorato trasformato in una floscia giacca vuota e Il circo Kroll (1965) con una signora mascherata dotata di regolamentare frustino. L’approdo di questa ricerca segreta furono due opere memorabili: il fortunatissimo Poema a fumetti (1969), versione beat del mito di Orfeo e Euridice e I miracoli della Val Morel (1971), collezione di moderni miracoli con relativi ex-voto che ora sono riprodotti come murale nel paesino di Giaon presso Limana (Belluno) che ispirò il lavoro.

Giorgio Manganelli trova una profonda rispondenza in artisti del suo tempo che creano alfabeti di immagini e parole. Gianfranco Baruchello per cui firma nel 1965 alla Galleria Schwarz di Milano il testo narrativo che presenta la mostra Uso e manutenzione. Gastone Novelli crea un incantevole Reale gioco dell’oca, dedicato a Hilarotragoedia di Giorgio Manganelli (1964), ventiquattro disegni esposti l’anno seguente con un testo dello scrittore alla galleria Il segno di Angelica Savinio, con una prefazione dello scrittore. L’artista in una intervista con Enrico Crispolti sul “Marcatre” (ora ripubblicata nel bel libro degli scritti curato da Paola Bonani con il titolo Guerra alla guerra, Edizioni Nero) afferma: “lo scrittore ha firmato un meraviglioso libro, dirompente, con una lingua perfettamente necessaria e nuova. […] Fino a oggi siamo rimasti sempre un po’ isolati e a me il dialogo tra letteratura, pittura e musica sembra necessario”.

Cesare Zavattini dal 1967 affronta di petto la realtà con i Cinegiornali liberi, realizzando quel sogno di passare dietro la macchina da presa, che si compirà solo assai tardi con il paradossale La veritaaaà (1982). Nel 1968 è tra i protagonisti, con registi assai più giovani di lui, della contestazione alla Mostra del Cinema di Venezia. Bompiani, suo sodale di antica data, lo insegue da anni perché tenga fede alle sue promesse editoriali. Proprio nell’anno della rivoluzione, esce un volume che colpisce le neoavanguardie assai critiche verso i loro maggiori. In quella compagine di testi diversissimi, colpiva Lettera da Cuba a una donna che lo ha tradito, un montaggio da cinema per una prosa secca, scattante. Nel 1967 presso il debuttante editore Franco Maria Ricci era uscito Toni, appassionato poema in prosa per Ligabue, da poco scomparso a Gualtieri nel 1965. Nel 1969 arriva quindi il turno dell’iper-avaguardistico Non libro più disco (riproposto, per le cure di Stefania Parigi, da Le Lettere nel 2009), che molto sconcerta i tradizionali lettori de I poveri sono matti, appassionando invece le novelle generazioni di strutturalisti. La copertina vede lo scrittore di fronte a un microfono in uno studio, con le parole che futuristicamente gli escono dalla bocca. Il libro è un’orgia di invenzioni grafiche, di font e caratteri, a partire dall’apertura in lode della fica (“onorarla con il carattere bodoniano a pagina piena”), acrostici, correzioni a mano, calligrafie periclitanti, disegnini con la mano sinistra si riassumono nella definizione principale del lavoro, per cui siamo “tutti ug”, come afferma in Garamond chiaro tondo corpo 54. Siamo dalle parti delle tavole parolibere futuriste, con inferenze dalla performance, come nella pagina in cui descrive la sua “invasione” di Roma, macchiata di un vivo color rosso sangue. Nel retro della copertina della recente riedizione da Le Lettere compare una Crocifissione con microfoni dello scrittore del 1977, in cui una evidente suggestione da Bacon si anima di un riferimento sociologico a uno studio televisivo in cui la dolente identità ritratta è crocifissa dall’ossessione mediatica. Il verbo, sempre sospeso tra diverse identità e seduzioni, si è quindi spesso fatta immagine, come l’icona ha cercato di diventare alfabeto, grammatica (non per caso titolo programmatico della rivista-cardine del Gruppo 63), catalogo di segni ambigui, disegnando la pittografia di un’epoca di ricerche complesse, indomite, indefesse che tutto univano sotto il segno di una volontà di sperimentare i limiti degli idiomi e farli deflagrare.

Tengo per chiudere (porta nei suoi esiti più sconvolgenti, soprattutto in rapporto a Pasolini) un siparietto su un personaggio che si è già incontrato in queste pagine varie volte, dico Fabio Mauri, che attraversò in gioventù una fase di intenso misticismo, di cui dà conto, tra l’altro, l’edizione delle poesie di Davide Maria Turoldo Io non ho mani (Bompiani, 1948) illustrate da incisioni scabre, non lontane da certe suggestioni di Georges Rouault. Un sentire che è evidente anche nella copertina di Gesù e il suo tempo di Daniel Rops (Sansoni, 1950) e che attraversa, con forza, anche il suo operato all’interno della Corsia dei Servi (coordinato da Turoldo e De Piaz) e al Villaggio del Fanciullo, vicino a Roma, dove negli anni ’50 sviluppa percorsi di ricerca estetica simili. Il lavoro sull’icona dell’artista inaugura con Pasolini un profondo dialogo, evocato autobiograficamente in Che cosa è il fascismo (1972), pietra miliare della performance in Italia, nel racconto, ambiguo e minaccioso, dei Littoriali della Cultura a cui i due avevano insieme partecipato da ragazzi, con atmosfere cupe e frenetiche che sembrano preludere a certi risvolti filosofici di Salò o le 120 giornate di Sodoma, la summa pasoliniana. I lugubri rituali degli studenti fascisti risultano a una lettura retrospettiva preludio alla rappresentazione delle sfrenate violenze tiranniche, che trasformano i corpi in oggetto votato alla distruzione, senza alcuna possibilità di riscatto.

Pasolini assiste come spettatore (una foto lo testimonia agli studi di Cinecittà in cui si svolse la performance) all’evocazione delle sinistre e coreografiche memorie littoriali, affermando una relazione stretta con l’artista che già nel 1959 era balzata alla ribalta al momento dell’affaire di “Officina”, che Bompiani aveva distribuito per un solo numero, per via dell’impatto dell’epigramma furente intitolato A un papa, rinunciando poi dopo alla idea di una collana pasoliniana di Poeti tradotti da poeti. Il lavoro sull’artista-icona culmina per Mauri nell’idea profetica di Intellettuale, per l’inaugurazione della Galleria d’arte Moderna di Bologna nel 1975, in cui il corpo dello scrittore, vestito di una camicia bianca, era usato come schermo per proiettare frammenti del Vangelo secondo Matteo. Le fotografie della performance, scattate da Antonio Masotti, fissano il volto della madre dello scrittore, proiettata sul suo petto mentre il volto del poeta è in ombra, come una profezia. Nel luogo della loro adolescenza, testimoniata nel pubblico dagli amici di un tempo, lo scrittore astraeva se stesso dal contesto, dialogando nella visione dell’amico artista con l’effetto della sua opera sul pubblico. Il colloquio Mauri-Pasolini, segreto eppure costante, è un filo che è da indagare ulteriormente. Lo scrittore, da parte sua, aveva dedicato all’amico un profilo romanzesco, quello di Aspreno, nel romanzo incompiuto Aspreno e Marcellina che fa parte del cantiere complesso della saga friulana de Il sogno di una cosa. Questo nodo acuto della riflessione su autore e opera negli anni ’70, rimanda a una serie di avventure spericolate del senso nel decennio precedente, ancora in buona parte da studiare.

39| Fabio Mauri e Pier Paolo Pasolini alle prove di Che cosa è il fascismo, 1971, Stabilimenti Safa Palatino, Roma, ©Fotografia Elisabetta Catalano © Eredi Fabio Mauri Courtesy the Estate of Fabio Mauri and Hauser & Wirth; 40| still da Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini, 1975; 41-42| Fabio Mauri, Intellettuale, 1975, proiezione di Il Vangelo secondo Matteo di/su Pier Paolo Pasolini, Galleria Comunale d'Arte Moderna, Bologna, Fotografia di Antonio Masotti © Eredi Fabio Mauri Courtesy the Estate of Fabio Mauri and Hauser &Wirth; 43| Il benessere, scritto da Fabio Mauri e Franco Brusati, regia di Luigi Squarzina, scene di Gianni Polidori, Teatro Valle, 7 marzo 1959, Archivio Luigi Squarzina; 44| L’isola, regia di Fabio Mauri, musiche di Gino Negri, Teatro Stabile di Roma, 1966, © Eredi Fabio Mauri Courtesy the Estate of Fabio Mauri and Hauser & Wirth; 45| Carmen, regia di Alberto Arbasino con la consulenza di Roland Barthes, scene di Vittorio Gregotti, costumi di Giosetta Fioroni, Teatro Comunale di Bologna, 1967; 46| Giuliana Calandra all’interno della Spia ottica, performance di Giosetta Fioroni, fotografia di Giuseppe Schiavinotto, Galleria La Tartaruga, Roma 1968, Archivio privato; 47| Jeu De Cartes, regia di Luciano Rosada, coreografia di Luciana Novaro, Leonida Massine, Margherita Wallmann, scene di Mario Vellani Marchi, Georges Wakhevitch, Dino Buzzati, Teatro alla Scala, stagione 1958-1959, fotografia di Erio Piccagliani; 48| Fabio Mauri, Luna, Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, Prato, 2008.

*L’apparato iconografico di questo articolo è a cura di Vito Ancona.

English abstract

A journey – a stream of consciousness – in the intersectional space between word and image, in the period from the 1950s to the 1970s. A text that, like a flow, goes freely from one reference to another and one topic to another, like the words on the calligrams by Buzzati and Arbasino, or the scores by Sylvano Bussotti and Bruno Maderna. The investigation opens and closes several parentheses but focuses specifically on artist book covers, experimentations of musical writing and illustrations by artist-writers like Buzzati and Zavattini while also crossing theatrical sketches, performance and cinema, which push the contamination between narration and image to the extreme. The text ends with the artistic experiments of/on Pier Paolo Pasolini, the result of the happy artistic union of the artist with Fabio Mauri. Pasolini, with Intellectual “undergoes” the projection of his own film Il Vangelo Secondo Matteo, a reflection on the image of the author and his work of art.

keywords | Pasolini; Word and image; calligrams; covers; sheet music; performance; cinema.

Per citare questo articolo/ To cite this article: Luca Scarlini, Pittografie del Verbo. Torsioni figurative della parola, torsioni verbali dell’immagine in Italia negli anni ‘60, “La Rivista di Engramma” n. 181, maggio 2021, pp. 19-31. | PDF dell’articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/.181.0019