"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

184 | settembre 2021

97888948401

Presentazione di: Aby Warburg. Fra antropologia e storia dell’arte. Saggi, conferenze, frammenti, Einaudi, Torino 2021

Maurizio Ghelardi

English abstract

Engramma presenta Aby Warburg. Fra antropologia e storia dell’arte. Saggi, conferenze, frammenti il secondo volume appena edito per i Millenni Einaudi, a cura di Maurizio Ghelardi, dopo il fortunato Aby Warburg, Astrologica. Saggi e appunti 1908-1929, apparso nel 2019. Anche per questo volume Ghelardi ha fatto una scelta di testi di Warburg, curandone la traduzione e il ricco apparato di immagini e note. Per gentile concessione dell’autore e dell’editore, pubblichiamo qui di seguito un estratto dall’introduzione, e l’Indice del volume.

Chi mi canterà il peana,
il canto del rendimento di grazie,
la lode del melo che fiorisce cosí tardi?
(A. Warburg)

A leggere la vastissima bibliografia critica – e spesso agiografica – su Aby Warburg, si ha l’impressione che la sua opera, edita e inedita, cosí spesso citata, ricordata e utilizzata, sia tuttora avvolta da una luce crepuscolare, da quella che Nietzsche avrebbe chiamato “una notte di alberi scuri”.

L’intento di questa silloge, che raccoglie saggi, frammenti, conferenze, è delineare un orizzonte piú nitido della sua ricerca, spesso cosí frammentaria, muovendo dagli interrogativi fondamentali che l’autore si è posto, e dalle funzioni che egli ha di volta in volta assegnato ai suoi scritti. È un tentativo – pur sempre parziale – di cogliere il senso e lo sviluppo del suo pensiero attraverso l’esercizio tipico e ‘violento’ dell’interprete e del traduttore, che si fonda su un lavoro storico e filologico, e che si prefigge di contribuire a corrodere immagini scontate o ricorrenti mitologie.

Detto altrimenti: si tratta di far emergere quella capacità di vedere in grande che un autore come Warburg richiede e pretende, visto che la sua riflessione è come una ragnatela che egli ha tessuto e tenacemente sviluppato e infittito nel corso della sua intera vita. Una ragnatela che si prefigge di indagare le modalità espressive che stanno a fondamento dell’orientamento umano e che sono oggettivate nei linguaggi, nei simboli, nei segni e nelle immagini. Perciò Warburg si era proposto di ampliare e amplificare la vita psicologica dell’uomo attraverso quel metodo che ha definito come psicostorico.

Ma forse è destino dei grandi pensieri non comprendere fino in fondo se stessi. E Warburg è andato appunto spesso ben oltre le intenzioni che si era prefisso. Ciò spiega – almeno in parte – perché la sua opera sia stata modificata da tutti i presenti che si sono accavallati, e che non hanno esitato a interpretare e a disancorare il suo lascito dal contesto in cui era maturato. Certo è che senza decodificare il suo particolarissimo linguaggio è arduo cogliere come la sua produzione scritta e la sua attività volta a fondare la celebre Biblioteca siano connesse, siano nel loro insieme simili a un macrotesto che deve essere ricostruito e collegato internamente. Per penetrare il senso dei testi warburghiani occorre dunque adeguarsi alla mobilità delle formulazioni, distinguere ciò che è essenziale dal contingente, individuare in divenire la sua opera.

Per questo si è deciso di non rispettare un ordine diacronico, ma di ordinare sincronicamente questa silloge attorno ad alcuni punti focali della sua riflessione.
In questa introduzione si è deciso di ripercorrere l’evoluzione della sua riflessione in stretto rapporto ai testi qui presentati, tralasciando di confrontarsi con l’immensa bibliografia [1]. D’altra parte, l’esegesi costituisce forse la piú coerente e fondata forma di storia. Non a caso Warburg la definisce “il nostro strumento”. “Si tratta fondamentalmente di un punto di partenza che muove da una singolarità positiva che trattiamo costruttivamente in quanto exegese more maiorum[2].

Warburg è tornato piú volte, ma mai in modo sistematico, sulla sua evoluzione intellettuale. Ne fanno fede un breve testo in forma di relazione al Kuratorium della Biblioteca del dicembre del 1927, e alcuni appunti stesi per introdurre, prima occasione dopo il suo ritorno dalla clinica di Kreuzlingen, la conferenza di Karl Reinhardt sulle Metamorfosi di Ovidio [3].

In entrambi i casi l’autore sottolinea l’importanza che tra il 1888 e il 1890 avevano avuto per lui la lettura del testo di Darwin sull’espressione delle emozioni dell’uomo e negli animali (“Darwin l’espressione come ritorno nell’ambito del ricordo affettivo saturo”); il saggio di Nietzsche sulla Nascita della tragedia, che gli aveva mostrato come al fondo della cultura tragica si celasse un vigoroso avvicinamento patetico alla divinità; lo scritto di F. Th. Vischer sul Simbolo (1887) e quello di T. Carlyle, Sartus Resartus (1836). Oltre a ciò, come nel seminario del 1890 sul sarcofago romano con la vendetta di Medea, tenuto nell’ambito delle lezioni di A. Michaelis [4], avesse intuito in quale misura l’archeologia, lo studio dell’arte e la tradizione dei classici si intersecassero tra loro: “Da Darwin attraverso Filippino fino a Botticelli, grazie a Carlyle e a Vischer fino alle feste e agli Hopi, passando per i Tornabuoni e Ghirlandaio, di nuovo alla ninfa, e tramite Lorenzo il Magnifico a una filologia equilibratrice” [5]. Questa affermazione riecheggia l’immagine burckhardtiana dei ‘poeti-filologi’, che lo studioso basileese aveva colto come la caratteristica piú alta della cultura rinascimentale [6].

Warburg definisce “prima metamorfosi” queste sue prime esperienze di ricerca, le quali si erano coniugate fin dall’inizio a quell’ambito culturale tedesco “che cercava sia attraverso il protestantesimo luterano e l’elaborazione delle idee della Rivoluzione francese sia attraverso la scienza moderna una via che conducesse dal dogmatismo cattolico- medievale al libero sviluppo della personalità individuale” [7].

Con ciò egli rivela non solo l’impianto filologico-razionalistico della sua impostazione, che però non ha mai concepito in modo autoreferenziale, ma anche la polemica verso ogni forma di decadente estetismo. Come scrive Heise:

Mi ricordo la violenta grandine di insulti verso Gobineau […] Lo stupro pseudo-poetico della historia era sempre per Warburg un motivo per sguainare la spada. Mi mostrò il posto ove era stato collocato questo libro […] in un armadio da lui definito l’armadio dei veleni. Alla domanda del perché avesse dato una collocazione particolare a un simile veleno fece seguito una nuova tempesta: si dovrebbe tenere il diavolo presente per poterlo sempre citare e combattere con le proprie armi […] Oggi so perché in simili casi Warburg diventasse cosí violento: qualsiasi mia tendenza estetizzante doveva essere combattuta con tutti i mezzi [8].

Warburg ha in vario modo, e piú volte sottolineato come gli edonisti estetizzanti “si guadagnano a buon mercato” il consenso del pubblico degli amatori d’arte spiegando il mutamento delle forme in ragione della gradevolezza della linea decorativa: “Chi vuole può pure accontentarsi di una flora costituita da piante profumate e piú belle, ma è certo che da essa non si evince una fisiologia vegetale della circolazione della linfa: questa si rivela soltanto a chi è capace di indagare la vita nell’intreccio delle sue radici sotterranee” [9].

Emblematico appare in tal senso il distacco dal tema romantico dell’esilio degli dèi, secondo cui gli antichi dèi pagani, ridotti in miseria dal trionfo del cristianesimo, abiterebbero ancora sotto mentite spoglie i piú remoti luoghi della terra. Il tema dell’esilio degli dèi, introdotto da Heine per comprendere la genesi di una metamorfosi nell’ambito dell’arte e della cultura, assume in Warburg un senso anti-estetizzante e una coloritura antropologica e storica. Da qui muove la sua critica all’estetica romantica, di cui è esempio lo scambio di lettere con André Jolles a proposito della ninfa. Qui lo studioso olandese assume le vesti dell’esteta tardoromantico platonizzante che stempera il carattere critico nell’amore per l’opera d’arte. A questo atteggiamento Warburg contrappone il suo metodo filologico e storico-culturale, ricordando all’amico che le mura di Santa Maria Novella non sono una rovina romantica, e che la ninfa è uno spirito elementare – come dimostra Agostino di Duccio [10] –, una dea pagana in esilio, non tanto rinata quanto ‘sopravvissuta’, sebbene sotto mentite spoglie.

D’altra parte Warburg non ha mai cessato di osservare e relazionare se stesso alle sue ricerche, attraverso un gioco continuo di rimandi. Di sé era solito dire che era “l’uomo fatto per creare un bel ricordo”. Come ebbe modo di scrivere Giorgio Pasquali nel 1930 che “l’uomo Warburg, il grande ricercatore Warburg, scompaia, scomparisse già da vivo, dietro l’istituzione da lui voluta, è conforme alle […] intenzioni […] di quest’uomo fisicamente piccolo, coi baffi color pepe e sale, e cogli occhi indicibilmente dolorosi” [11]. La Biblioteca, l’Istituto Warburg, erano e restano una ‘impresa’, ma anche una sorta di espansione del suo Io, la sua oggettivazione fisica e mentale.

Aby Warburg è stato uno studioso che si è collocato in una posizione quasi sempre ‘marginale’: per scelta, perché dedito alla costruzione della sua Biblioteca; ma anche perché si è posto intenzionalmente in una posizione eccentrica rispetto alle discipline accademiche. E proprio nella sua reiterata polemica verso i “guardiani dei confini” si annida il senso profondo della sua stratificata riflessione, simile a un pozzo scavato a cui si può accedere attraverso diverse gallerie: antropologia, arte, linguistica, psicologia, storia delle credenze e dei relativi riti. Non ultima la filosofia: Nietzsche, Kant, Cassirer, Giordano Bruno, la cui lettura lo aveva condotto nell’ultimo anno di vita a riorganizzare la Biblioteca rimpiazzando la sezione dedicata alle indagini sui francobolli e sulla letteratura olandese con testi sull’estasi, l’eros, l’Accademia platonica, il furor eroicus: “Il legame dell’uomo con l’arte” deve essere compreso anzitutto “come una realtà nella sua unitaria e radicata coesistenza interiore religioso-culturale e artistico-pratica” [12].

La questione di fondo a cui cerca di rispondere la presente introduzione, e che giustifica non solo la scelta di alcuni suoi scritti, ma anche la sua strutturazione, è: qual è lo scopo per cui egli ha speso tutte le sue energie? Ha ideato e realizzato la sua Biblioteca. Ma qual era l’intento conoscitivo che essa sottintendeva?

Warburg ha cercato di indagare aspetti e figure fondamentali dell’espressione e dell’esistenza umana, la ‘variabile’ che intercorre tra l’esperienza figurativa e il linguaggio parlato. Al centro ha posto la questione del linguaggio, in quanto prodotto della tensione tra vita ed espressione figurativa. D’altronde, egli ha sempre detestato coloro che nelle opere d’arte, ma anche nei testi, cercavano la purezza, la bella forma, ritenendo insufficiente qualsiasi definizione astratta, poiché anche l’arte è un prodotto ‘impuro’ in quanto funzionale alla vita.

Anche per questo motivo leggendo la sua opera si rischia di smarrire facilmente il filo conduttore del suo pensiero, ossia il rapporto tra vita e orientamento nel mondo, nonché il significato di quell’eredità dell’Antico che egli intende come declinazione storica di un problema costitutivo della percezione e dell’espressione umane. Da qui discende il suo rapporto ambivalente con Winckelmann: “La distinzione del classico e del progressivo è d’origine storica. Essa manca perciò alla maggior parte dei filologi. Col Winckelmann comincia anche in questo rispetto un’epoca interamente nuova. Egli ha ben visto l’enorme differenza, la natura tutta particolare dell’Antichità. Ma è rimasto senza seguito” [13].

Fritz Saxl è stato colui che per primo ha ricondotto la ricerca di Warburg allo studio della sopravvivenza dell’Antico. Ma Warburg non è stato certo il primo ad affrontare il problema. Tutti i periodi storici si sono confrontati con la ‘rinascita’, con la sopravvivenza dell’Antico, e neppure il Rinascimento ha esaurito tale questione. L’Antico resta dunque per Warburg una guida, un indicatore, non il problema fondamentale a cui va ricondotta la sua riflessione.

Burckhardt, Nietzsche e Usener gli avevano mostrato l’erma bifronte dell’Antichità. Essa non era una fonte antiquaria, non aveva le caratteristiche di una rinascenza (Wiedergeburt), piuttosto di una sopravvivenza (Nachleben). L’Antico era un polo, un vettore. Non un fine in sé. L’evoluzione culturale non era ‘indivisibile’, ma uno strumento per svelare la duplice radice della cultura europea: “La vecchia fola stupida di popoli e di età che non sapevano che il dolore, non ha […] piú presa […] perché è figlia della vita, e sa che essa conosce l’ebrezza, la passione, sin la follia” [14]. Warburg aveva recepito da Nietzsche quali contrasti si celassero nell’anima antica, come cultura antica e spirito antico fossero una sintesi – provvisoria e fragile – di opposti che risultava da una polarizzazione di forze, e come tale dialettica rimandasse agli elementi costitutivi dell’espressione umana, a una concezione antropologica dell’arte.

A conclusione di queste pagine torneremo sul rapporto tra Warburg e Nietzsche, accomunati in vita dall’inattualità delle loro ricerche, ma anche dal loro essere sensori della crisi che aveva scosso la cultura tra la seconda metà del XIX secolo e gli inizi del XX secolo. Crisi che, innescata nell’ambito delle scienze naturali, aveva causato una devastazione ideologica e uno smarrimento da cui era di nuovo emerso un eterno problema: con quali mezzi l’uomo sconfigge il suo disorientamento nel mondo?

Questa profonda consapevolezza intellettuale e umana del passato ha costantemente angosciato Warburg, provocando continue insoddisfazioni, incertezze e ambivalenze esistenziali: “Talvolta, nella mia veste di storico della psiche, mi sembra, con un riflesso autobiografico, di voler rilevare nel mondo figurativo la schizofrenia dell’Occidente: la ninfa estatica (maniaca) da un lato e la divinità fluviale in lutto (depresso) dall’altro. Due poli tra i quali la persona sensibile cerca nella creazione il suo stile. Il vecchio gioco del contrasto: vita activa e vita contemplativa” [15]. Esempio emblematico – ancora inedito e finora mai analizzato – è il testo della sua mancata abilitazione, ove l’aggrovigliarsi di vita, ricerca, perenne insoddisfazione, si frastaglia a tal punto che le diverse versioni e le sofferte correzioni delle bozze a stampa – che alla fine non volle fossero pubblicate – rispecchiano non la cenere, bensí il duro carbone della sua riflessione [16].

Un simile atteggiamento ha prodotto in Warburg un arcipelago collegato da alcuni ponti, un insieme di isole separate spesso da ampie zone di mare. Questa asistematicità appare indissolubilmente connessa a una ricerca sugli aspetti consustanziali alla vita umana, che l’autore vede metabolizzati nelle immagini, ove persiste un nucleo che non si piega interamente a una analisi razionale, sia essa iconografica o meno, anche se le immagini declinano figure concettuali portatrici di un senso, una ‘antropologia’ dei vari stadi dell’immaginario e del comportamento collettivi. Esse non sono necessariamente riconducibili a un prototipo letterario o verbale, non illustrano di per sé o rispecchiano contenuti di altre sfere spirituali, benché siano collocate in un contesto temporale. Immagine e parola sono linguaggi, strumenti espressivi che hanno una stessa radice e che si influenzano reciprocamente e adempiono a una specifica funzione.

Warburg definisce il tentativo di delimitare il campo dell’osservazione visiva “simbolismo in quanto determinazione dell’estensione” (Umfangsbestimmung) [17]: “L’espressione originaria acquisita di un oggetto si scinde nella ripetizione soggettiva dell’impressione in quanto determinazione dell’estensione. A questa si aggiunge la designazione differenziata, una nuova espressione che esprime la particolare direzione motoria dell’oggetto. Si tratta di un processo che è reso possibile dalla ‘memoria’” [18]. Il simbolo è una sottile superficie di contatto che congiunge mondo esteriore, immagine sensibile e linguaggio, giacché risponde al bisogno umano di trovare sia un punto di contatto tra l’immagine e il suo senso interno, sia uno strumento per espandere la conoscenza oltre il perimetro dell’organismo umano.

Nei testi, negli appunti, nei frammenti Warburg usa spesso neologismi che egli stesso crea, i cui etimi sono riconducibili ai piú svariati campi: tecnici, militari, medici, psicologici… Si tratta di termini spesso ibridi e forzati all’eccesso. I neologismi rimandano a una dimensione tacitata nella lingua, discendono da “selvatiche energie”, e il suo linguaggio sembra rompere talvolta le stesse regole sintattiche. Dal modo in cui le parole si inseriscono nel periodo sintattico, o grazie all’accento che su di esse viene posto, assumono un significato peculiare, quasi intraducibile in un’altra lingua. Si tratta non solo di un lessico, che è di volta in volta funzionale al problema che intende affrontare, ma soprattutto di un tentativo di creare una grammatica espressiva. Sono le sue domande a costringerlo ad adattare le espressioni ad ambiti di ricerca sempre nuovi, è il continuo mutamento degli strumenti linguistici a condurlo a osservazioni che non avrebbe potuto trasmettere altrimenti. Come ha scritto Gertrud Bing, in Warburg le “voci umane possono essere trasformate in discorso a partire da dei documenti non significativi” [19].

Esse parlano e sono state sempre e fino a un certo punto intelligibili, perché trasmesse dalla tradizione in immagini, conservate nelle pietre, nell’argilla, nel metallo, nelle gemme, nei colori… Nelle parole si condensa l’energia, cosí come essa è racchiusa anche nel gesto figurato. Le parole sono strumenti che devono essere sempre perfezionati e dilatati poiché la loro funzione estende, amplia la conoscenza. Relazionate, incastonate in una frase contribuiscono a trasmettere, a dare una forma al senso, all’espressività umana. Implementano il linguaggio, creando anche la distanza da una storia della cultura spesso concepita da altri suoi contemporanei in modo amebico, oppure come mera narrazione e non come un ambito che permette delle comparazioni. Perciò Warburg non ha mai separato archeologia e filologia, cogliendo nei testi e nei monumenti una similitudine funzionale, e ha concepito la vita umana in modo cinetico, come un flusso di energie, e l’arte come il prodotto organico e equilibrato che scaturisce da un processo vitale segnato dalla polarità tra ethos e pathos.

Di qui l’importanza che egli attribuisce al concetto di metamorfosi. L’uomo primitivo oppone alla metamorfosi del cosmo inanimato la sua metamorfosi, spostando in se stesso la causale trasformazione degli eventi. Per questo motivo a quella della pianta l’uomo primitivo oppone la sua personale metamorfosi ponendosi come il signore di questo processo di maturazione [20]. Sotto questa luce si spiega l’interesse di Warburg per la traduzione delle Metamorfosi di Ovidio, definita da Alfonso il Saggio “la teologia e la Bibbia del paganesimo”. Le Metamorfosi incarnano la trasformazione, ma anche la storia. La fortuna delle traduzioni moralizzate dimostra come gli errori dei copisti abbiano rappresentato altrettanti indizi che rispecchiano i periodi culturali dei paesi attraverso i quali erano stati trasmessi i testi prima che giungessero fino a noi. Le Metamorfosi non delineano una storia dell’umanità, bensí un processo dinamico, vorticoso e labirintico [21].

Anche le forme artistiche esprimono un processo di adattamento, una forma di equilibrio: creazione e godimento, trasformazione e forma appaiono stadi differenti di uno stesso ciclo organico. E la forma dell’opera d’arte è ricondotta a un processo di selezione e di combinazione simile alla lingua, a una sorta di grammatica generativa delle forme visive postulata per il linguaggio.

Se la questione fondamentale risiede dunque nel rapporto tra espressione e linguaggio, allora si può sostenere che l’opera di Warburg è ascrivibile alla crisi delle scienze europee, è un sensore di tale crisi. Almeno su questo punto, egli si distanzia dall’illuminismo, dal razionalismo di Cassirer e di Panofsky: i barbari non sono “ad portas”, ma sono già dentro la civiltà, in noi stessi, sono un fenomeno ricorrente nella storia umana, e il ‘demoniaco’ è un fenomeno destinato a riemergere sovente nel comportamento umano: “Sempre di nuovo bisogna strappare la greca Atene dalle mani di Alessandria” [22]. Ma allo stesso tempo comprendere perché Alessandria è consustanziale alla nostra civiltà.

Per tutti questi complessi motivi la ricerca di Warburg ci pone continuamente di fronte a percorsi inediti, che talvolta ci conducono perfino in vicoli ciechi, poiché non si mira a una soluzione ma si persegue solo una diagnosi.

Questa silloge di scritti presuppone l’idea che l’intera opera edita e inedita di Warburg sia simile a un macrotesto composto di saggi, appunti, schemi, formulazioni continuamente rifatte, e in certi casi poi respinte, schemi, sinossi, notizie.

Note

[1] Per la bibliografia cfr. D. Wuttke, Aby M. Warburg-Bibliographie 1886 bis 1995, Baden-Baden 1998; la rivista “Engramma” (www.engramma.it) aggiorna periodicamente online la bibliografia su e di Warburg.
[2] Qui p. 715.
[3] Qui pp. 509-11.
[4] Cfr. WIA (Warburg Institute Archive) 35, in part. 35.2 (testo ms di 11 ff.; il seminario fu tenuto l’11 febbraio 1890).
[5] Qui p. 84.
[6] Cfr. J. Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia. Un tentativo di interpretazione (ed. or. 1860), a cura di M. Ghelardi, Torino 2006, p. 133; cfr. Id., Die Cultur der Renaissance in Italien, in Jacob Burckhardt Werke. Kritische Gesamtausgabe, vol. IV, a cura di M. Mangold, K. Hara e H. Numata, München-Basel 2018, p. 100.
[7] Qui pp. 5-6.
[8] C. G. Heise, Persönliche Erinnerungen an Aby Warburg, New York 1947, p. 9.
[9] Qui p. 202.
[10] Qui pp. 406 sgg.
[11]Cfr. G. Pasquali, Aby Warburg, in Id., Pagine stravaganti di un filologo, a cura di C. F. Russo, Firenze 1994, pp. 40, 53 (il ricordo di Warburg era apparso nel 1930 sulla rivista "Pegaso").
[12] Qui p. 10.
[13] Cfr. F. Schlegel, Frammenti critici e scritti di estetica, a cura di V. Santoli, Firenze 1937, p. 5.
[14] Cfr. Pasquali, Aby Warburg cit., p. 43.
[15] Cfr. A. Warburg, Tagebuch der Kulturwissenschaftlichen Bibliothek Warburg, a cura di K. Michels e C. Schoell-Glass, Berlin 2001, p. 429 (trad. it. parz. Diario romano, a cura di M. Ghelardi, Torino 2005, p. 91).
[16] Cfr. WIA 66.1.
[17] Cfr. A. Warburg, Symbolismus als Umfangsbestimmung, in Id., Werke in einem Band, a cura di M. Treml, S. Weigel e P. Ludwig, Frankfurt am Main 2010, pp. 615-27.
[18] Qui p. 75.
[19] Cfr. Vortrag von Frau Professor Dr. G. Bing anläßlich der feierlichen Austellung von Aby Warburgs Büste in der Hamburger Kunsthalle am 31. Oktober 1958, Hamburg 1958, pp. 9-32; trad. it. in “Rivista storica italiana”, 32 (1960), pp. 100-13, quindi in “Engramma”, 116 (2014); G. Bing, Introduzione, in A. Warburg, La rinascita del paganesimo antico, Firenze 1966, pp. 9-31; Fragments sur Aby Warburg, a cura di Ph. Despoix e M. Treml, Paris 2019; E. Gombrich nell’edizione tedesca della sua biografia intellettuale di Warburg ha aggiunto alcune osservazioni sul linguaggio dello studioso amburghese (Hamburg 2012, pp. 36-42).
[20] Qui p. 194.
[21] Cfr. qui p. 194; cfr. la mostra Urworte leidenschaftlicher Gebärdensprache, in A. Warburg, Bilderreihen und Austellungen, a cura di U. Fleckner e I. Woldt, Berlin 2012, pp. 73-97; Id., Der Bilderatlas Mnemosyne, a cura di M. Warnke, Berlin 2000, tav. 33 (trad. it. a cura di M. Ghelardi, Torino 2002); cfr. in ultimo il catalogo della mostra Bilderatlas Mnemosyne, a cura di R. Ohrt e A. Heil, Berlin 2020, pp. 72-73.
[22] Cfr. A. Warburg, Astrologica, a cura di M. Ghelardi, Torino 2019, p. 270.

Indice del volume

Introduzione di Maurizio Ghelardi

Da arsenale a laboratorio

Parte prima. L’uomo simbolico: fondamenti psicostorici e antropologici
Frammenti costitutivi per una teoria pragmatica dell’espressione
[Burckhardt e Nietzche]
Immagini dal territorio degli indiani Pueblo nell’America settentrionale
Ricordi di viaggio dal territorio degli indiani Pueblo nell’America settentrionale
Frammento

Parte seconda. Immagine e parola
1. Mnemosyne
Introduzione a Mnemosyne: l’Atlante delle immagini
[Mnemosyne: appunti (1927-29)]

2. La psicostoria: il tipo umano tra XV e XVI secolo
Le ultime volontà di Francesco Sassetti
Arte del ritratto e borghesia fiorentina.
Domenico Ghirlandaio in Santa Trinita. I ritratti di Lorenzo de’ Medici e dei suoi familiari
Appendice: i. Statue votive in cera, p. 310. – ii. Bartolomeo Cerretani, Storia fino all’anno 1513. Ritratto di Lorenzo de’ Medici, p. 313. – iii. Niccolò Valori, Vita di Lorenzo il Magnifico. Ritratto di Lorenzo de’ Medici, p. 314. – iv. Lettera di Angelo Poliziano a Piero de’ Medici, p. 315. – v. [Luca] Pulci e il compare della viola, p. 316.

Parte terza. L’eredità dell’Antico
1. Le formulazioni di pathos, l’immagine del movimento e il primo Rinascimento
La Nascita di Venere e la Primavera di Sandro Botticelli. Un’indagine sulle rappresentazioni dell’Antico nel primo Rinascimento italiano:
Indice, p. 323. – Premessa, p. 325. – Prima parte. La Nascita di Venere, p. 326. – Appendice. La Pallade scomparsa, p. 352. – Seconda parte. La Primavera, p. 357. – Terza parte. Le motivazioni esterne della composizione dei dipinti. Botticelli e Leonardo, p. 383.
Quattro tesi
Ninfa fiorentina [André Jolles e Aby Warburg]
La Cronaca illustrata di un orafo fiorentino
Aeronave e sommergibile nell’immaginazione medievale
I costumi teatrali per gli intermezzi del 1589. I disegni di Bernardo Buontalenti e il Libro di conti di Emilio de’ Cavalieri. Saggio storico-artistico
Appendice
Delle imprese amorose nelle piú antiche incisioni su rame fiorentine
Appendice: Lucrezia Donati e Lucrezia Ardinghelli

2. La metamorfosi
A proposito della conferenza di Karl Reinhardt sulle Metamorfosi di Ovidio
[Appendice]

3. La modernità
Il Déjeuner sur l’herbe di Manet. La funzione di modello delle divinità pagane elementari in rapporto all’evoluzione del moderno sentimento della natura

4. Arte nordica e arte italiana nel primo Rinascimento
Dürer e l’Antico italiano
Arte fiamminga e primo Rinascimento fiorentino. Studi
Scambi di civiltà artistica tra nord e sud nel xv secolo
Contadini boscaioli al lavoro su arazzi borgognoni

5. L’Antico romano: primo Rinascimento e manierismo
L’ingresso dello stile ideale anticheggiante nella pittura del primo Rinascimento
Appendice
L’Antico romano nella bottega di Ghirlandaio
Il metodo della scienza della cultura

English abstract

Engramma presents Aby Warburg.Fra antropologia e storia dell’arte. Saggi, conferenze, frammenti (2021), the second volume of the collection of Warburghian works edited by Maurizio Ghelardi for Einaudi, which follows the successful Astrologica, Saggi e appunti 1908-1929, already presented in number 171 of Engramma. The volume continues with the fundamental new Italian edition of a selection of Warburg's works, essential to define more clearly the horizon of meaning, still obscure to most, in which to place the Hamburg Historian of art art and culture.

keywords | Aby Warburg; Antropology; History of Art; History of Culture.

Per citare questo articolo / To cite this article: M. Ghelardi, Presentazione di: Aby Warburg. Fra antropologia e storia dell’arte. Saggi, conferenze, frammenti, Einaudi, Torino 2021, “La Rivista di Engramma” n. 184, settembre 2021, pp. 61-73 | PDF of the article 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2021.184.0009