"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

186 | novembre 2021

97888948401

Da spazio liminale a spazio estetico

La Porta dei Leoni di San Pietro a Bologna

Luca Capriotti

English abstract

Questo contributo verte sulla Porta dei Leoni che adornava e permetteva l’accesso nella Cattedrale di San Pietro a Bologna dal fianco destro, quello meridionale. L’obiettivo è di stabilire la tipologia scultorea del suo perduto Ciclo dei Mesi sulla base di una rilettura delle fonti storiografiche. Il contributo sarà dunque tripartito nel seguente modo: rilettura delle testimonianze che ci hanno riportato una sua descrizione; definizione dello status quaestionis in relazione agli interventi critici che ho reputato più significativi; esame sia dell’aspetto formale (per quel poco che possiamo ricostruirlo), sia della funzione dei Mesi e dei Segni dello Zodiaco.

1. Dal 1220 alla distruzione

La Porta dei Leoni fu realizzata secondo le fonti tra il 1220 e il 1223 nell’ambito dei lavori diretti da Maestro Ventura, ricordato nel 1217 come dominus laborerii sancti Petri (Testamento del notaio Orabona, 9 aprile 1217, Bologna, Archivio di Stato, Capitolo di San Pietro, 21/208, n. 20; per la datazione generale e una ricostruzione dell’opera cfr. Medica 2003).

1 | Pietro Fiorini, Pianta del corpo principale della Cattedrale di San Pietro a Bologna, 1582-1599 ca., disegno a penna acquerellato su carta, Roma, Archivio storico dell’Accademia di San Luca, n. 2499.

Il portale è documentato in pianta da Pietro Fiorini in un disegno datato tra 1582 e il 1599, che testimonia l’impianto planimetrico medievale (Roma, Archivio storico dell’Accademia di San Luca, n. 2499) (Fig. 1). Tuttavia, nel resoconto di Pellegrino Tibaldi, che si occupò a fine Cinquecento di ridefinire e armonizzare gli spazi interni ed esterni della cattedrale di San Pietro, si prefigurò il destino del sontuoso portale sull fianco destro dell’edificio: nonostante l’architetto ne rilevasse una certa bellezza, non mancò di notare sia il dislivello tra il piano stradale esterno e la quota del piano calpestabile interno, sia l’incongruenza con il ritmo delle colonne, delineando in tal modo la necessità di aprire un nuovo portale al centro del fianco meridionale.

Le operazioni di adeguamento architettonico della Cattedrale di Bologna ebbero inizio nell’aprile del 1599, interrompendosi nel 1605 a causa del crollo di alcune sezioni delle volte medievali, per poi riprendere seguendo le direttive progettuali di Floriano Ambrosini e Giovanni Ambrogio Magenta, che portarono allo smantellamento della struttura duecentesca tra il 1607 e il 1608. Le note manoscritte di Ambrosini e Magenta sulla pianta di San Pietro n. 6737, conservata al Gabinetto dei disegni e delle stampe degli Uffizi e databile circa al 1600, dettagliano gli elementi architettonici destinati alla demolizione, tra i quali è la Porta dei Leoni (Terra, Barton Thurber 2003, 205, 207-208, 215; in Medica, Battistini 2003, vedi anche la scheda a p. 312-314).

La Porta dei Leoni non è più ricostruibile sulla base dei resti scultorei superstiti – due leoni di marmo rosso oggi convertiti ad acquasantiera, una leonessa con cuccioli pure riutilizzata (con dubbi, come vedremo), e una colonna tortile sorretta da un telamone: ora posti in chiesa rispettivamente ai lati dell’ingresso principale, nell’area terminale dell’edificio, e nella sua prima cappella sinistra. A partire da questi pochi frammenti del portale, che saranno analizzati più avanti, è stato possibile dunque solo delineare un parziale assetto tettonico e, marginalmente, anche iconografico. 

Sull’antico aspetto del portale, un ruolo determinante è stato svolto dalle fonti storiografiche, testimonianze dirette redatte da Leandro Alberti, Pietro Lamo e Giorgio Vasari, che hanno consentito di promuovere delle ipotesi relative alla struttura dell’accesso laterale, sebbene su di esse pesi un grado di approssimazione considerevole. Nelle Historie di Bologna, scritte intorno al 1540, Alberti si sofferma in due occasioni sul complesso di San Pietro. Il primo accenno è nel Libro primo della deca prima:

Vedesi primieramente la Chiesa di San Pietro Apostolo molto antica, e secondo quelli Tempi celeberrima, oue è una Porta di marmo, molto marauegliosamente con gran spesa lauorata, detta la Porta de Lioni, per esserui posti due Lioni di marmo, che la maggior parte d’essa arteficiosamente sostentano con due huomini molto dispostamente sedendo. Nell’arco di cui, ueggionsi li celesti segni accomodati alli dodeci mesi dell’anno con molti altri nobili lauorieri, secondo quelli tempi, nel marmo intagliati (Alberti 1541-1543, deca 1, lib. 1, s.n.p).

Successivamente torna sul portale nel Libro nono della Deca Prima, soffermandosi in modo più completo e descrittivo a elogiare l’opera, e in particolare a darne un’analisi delle masse architettoniche:

Anche fu drizzata la porta di detta chiesa, che anch’ella mira al mezzogiorno, nominata la porta de Lioni, per essere parte di essa sostenuta da due grandi Lioni di marmo, da Ventura eccellente statuario, secondo quella età. Certamente è quella molto artificiosa opera, Conciosia cosa che appareno nel primo prospetto due grandi Lioni (come dicemmo) di marmo rosso (cio è un per lato) sostentare le prime due colonne, sopra le quali è piantato uno arteficioso arco oltre cui uedensi due huomini a sedere, uno giouine, e l’altro uecchio molto barbuto, diuersameute cole spalle sostenendo una colonna per ciascuno, molto egregiamente condotte, perché quella ch’è sostenuta dal giouine ella è ritorta, e striata, e quell’altra dal uecchio contenuta da mezo in giu a quattro colonne ella è cavata, e parimente cosi il resto è condutto, essendo poi la parte di sopra con la parte di sotto congiunta con le sommità di quelle, contorte e cancellate, che in vero ella è cosa molta curiosa da considerare.

Sopra gli artificiosi capitelli de le dette colone fermarsi un arco di marmo intagliato di belli lauori. Per alquanto spatio poi insurgono alcune sottile colonne, poste sopra la base fermate nel pauimento. Finisce l’arco alle colonne principiato, che riposano sopra le spalle de due huomini, alle colonne sostentate dalli Lioni. Partito è detto Arco in dodici parti, denotando li dodici mesi dell’Anno, alla quali correspondeno li dodici segni celesti, et significano le due parti dell’anno, delle quali una crescie, e l’altra decrescie, secondo lo ascenso, e descenso del sole per il nostro Emispherio. […] Poi da amendue li lati della Porta uedensi quelle sottili colonne poste sopra le base nel pauimento fermate, con li accommodati capitelli ornate, sostenendo alcuni artificiosi Archi, nel mezzo delli quali, sopra la Porta appare la imagine di Christo nostro seruatore, hauendo alle destra la imagine di San Pietro con lo Sole sopra lo capo, e alla sinistra San Paulo con la Luna. […] Vi sono altre figure de animali sopra questo artificioso Edificio, delle quali io espettarò la interpretatione da piu curioso di me (Alberti 1541-1543, deca 1, lib. 9, s.n.p).

Giudizio altrettanto positivo è trasmesso dalla rapida descrizione del 1560 da Pietro Lamo:

salvo il Campanile ch’è architectura todesca e all’usire de la porta nominata deli lioni ui sono dua colone una torta avidide belisima e l’altra è agropata (Lamo [1844] 1996, 91).

Anche Vasari elogia il portale, ma prima di soffermarsi su di esso, effettua un excursus sull’attività di Marchionne, o Marchese. La critica moderna lo ha riconosciuto autore di alcuni apparati decorativi della pieve di Arezzo (del timpano incentrato sull’Assunzione della Vergine, e dell’Adorazione dei Magi in controfacciata, lastra originariamente appartenuta a un pergamo), e del bassorilievo rappresentante il santo eponimo e alcuni capitelli della presso la collegiata di San Quirico d’Orcia (Salmi 1928, 41; 46, nota 19; Tigler 2006, 190-192; Tigler 2007, 98 nota 47; Curzi 2010, 130, 136; Bernini 2014, 124-129). Vasari compie invece per estensione l’errore di attribuirgli anche il Ciclo dei Mesi dell’imbotte di Arezzo; e – per traslazione iconografica, e probabilmente per un motivo tecnico finora non identificato di cui dirò – di identificare gli apparati scultorei del portale di Bologna, incluso il Ciclo dei Mesi, come opera dello stesso:

Fece anco Marchionne, in que’ medesimi tempi, la porta del fianco di S. Piero di Bologna, che veramente fu opera in que’ tempi di grandissima fattura per i molti intagli che in essa si veggiono, come leoni tondi che sostengono colonne et uomini a uso di fa[c]chini et altri animali che reggono pesi, e nell’arco di sopra fece di tondo rilievo i dodici mesi con varie fantasie, et ad ogni mese il suo segno celeste: la quale opera dovette in que’ tempi essere tenuta maravigliosa (Vasari [1550, 1568] 1966-1987, Testo 2, 49-50).

2. Per uno status quaestionis stilistico e tipologico

2-3 | Scultore campionese, Leoni convertiti in reggi-acquasantiera, 1220-1223 ca., sculture in marmo, Bologna, San Pietro (a destra e a sinistra dell’ingresso principale).

4 | Scultore campionese, Leonessa convertita in reggi-acquasantiera, terzo decennio del XIII secolo, scultura in marmo, Bologna, San Pietro (a sinistra dell’ingresso alle pertinenze della sagrestia).

5 | Scultore campionese, Telamone e colonna tortile, 1220-1223 ca., scultura in marmo, Bologna, San Pietro (prima cappella a sinistra).

A parte qualche fuggevole riferimento da parte di Pietro Toesca ([1927] 1965, 2, 802 nota 25), Igino B. Supino (1932, 7) e René Jullian (1945, 258-259), il primo completo confronto storiografico sulla Porta dei Leoni fu proposto da Antonio Manaresi, il quale collegò l’opera – documentata come coordinata da Maestro Ventura – con la Porta Regia del duomo di Modena (Manaresi 1911, 315). Servendosi dei frammenti appartenuti alla Porta bolognesi che erano stati identificati, e che pure oggi teniamo per fermi (Figg. 2-5), questo primo intervento critico ne propone anche una ricostruzione ipotetica: era caratterizzata dai due leoni in marmo rosso sui quali poggiavano due colonne allegate a due capitelli, e sopra di essi appoggiava l’arco a fortissimo aggetto; dietro ai leoni erano presenti due telamoni, che sostenevano anch’essi due colonne, una tortile e l’altra ofitica, terminanti con un capitello. La porta era decorata da colonne a fascio che racchiudevano l’apertura vera e propria, scandita da due piedritti con capitelli, su cui posava l’architrave al di sotto della lunetta, con al centro Cristo, alla sua destra San Pietro e il Sole, alla sua sinistra San Paolo con la Luna. A suggellare la maestosità del portale era la rappresentazione dei mesi e dei segni zodiacali inserita nell’imbotte, che Manaresi paragona appunto alla stessa struttura tutt’ora visibile nella Pieve di Arezzo. Lo studio si avvalse dell’abilità disegnativa di Giulio Barberi di cui presenta una ricostruzione grafica della Porta, tenendo conto del brano di Leandro Alberti, evitando dunque ipotesi ricostruttive precise sull’eventuale assetto superiore, in quanto non riportato dalla fonte.

Renzo Grandi sottolinea come il ritardo stilistico della città bolognese nel panorama del Duecento si conclude proprio con l’aggiornamento apportato dall’erezione della Porta dei Leoni, che ebbe come effetto di aggiornare la produzione scultorea locale, e di allinearla ad altri grandi centri, soprattutto a Modena. In particolare, confrontandola con la già menzionata Porta Regia del Duomo, Grandi evidenzia in questo contesto come innovazione di maggior pregio proprio l’imbotte dell’arco con il ciclo dei Mesi della cattedrale di San Pietro (Grandi 1987, 160-161). Giovanni Romano, nel catalogo della seminale mostra sul Duecento bolognese, riferisce la scultura della leonessa alla parte soprastante del portale, forse un’edicola, di cui però le fonti tacciono (Romano 2000, XVI). Nella stessa sede Stefano Tumidei afferma la scarsa probabilità di un legame della leonessa con la Porta dei Leoni a causa del formato ridotto, dello stato di conservazione più soddisfacente che nel caso dei due leoni maggiori (che fa pensare dunque a una collocazione interna), e di alcune discrepanze formali (Cat. Bologna 2000, nn. 33-34, Tumidei, con una datazione però molto avanzata).

Massimo Medica ipotizza una comunicazione triangolare definita dal tema dei Mesi, avviata a Parma con Antelami nel ciclo del Battistero, ripresa a Bologna e sviluppata a Ferrara nella porta smantellata del Duomo e ora frammentariamente presente al Museo della Cattedrale (Medica 2003, 136-137), in seguito ribadita anche da Romano (Romano 2007, 13-15). Nel 2007, Guido Tigler contestualizza i frammenti del portale bolognese nel quadro stilistico sviluppato dai campionesi sotto l’influsso della parabola artistica di Benedetto Antelami, e ripropone di includere la leonessa tra i sostegni stilofori del possibile piano superiore. Inoltre colloca i mesi nell’imbotte, ma si esprime con qualche dubbio sul disegno ricostruttivo di Barbieri, in cui le lastre mensili e quelle zodiacali occupavano l’intera larghezza. A prescindere dalle questioni di ingombro spaziale, Tigler asserisce che il perduto esemplare bolognese abbia ispirato la collocazione nell’imbotte dell’esempio ferrarese (Tigler 2007, 74-77); una posizione che resta ferma nel 2010 (Tigler 2010, 60).

Sono in seguito le ricerche di Sonja Testi a coinvolgere il portale: nel 2011 traccia un possibile percorso formativo di Maestro Ventura, conferendogli un contesto entro il quale avrebbe sviluppato la propria cifra stilistica, che si evidenzia soprattutto, a parere dell’autrice, nel telamone reggicolonna superstite. Ancora Testi nel 2012 delinea il ruolo svolto dalla Porta come fulcro simbolico per le vicende sociali e religiose della città, analizzando le fonti antiche e ottocentesche. Infine nel 2015 la studiosa torna sull’orizzonte visivo all’interno del quale sarebbe avvenuta la formazione di Maestro Ventura: la proposta ne lega infatti l’apprendistato alla bottega di Anselmo da Campione, e sottolinea nuovamente come possibile modello per la costruzione del portale bolognese la già più volte menzionata Porta Regia del duomo Modenese (Testi 2011; Testi 2012; Testi 2015). Ma oltre all’aspetto iconografico, secondo la studiosa la differenza sostanziale rispetto all’esempio di Modena sembra risiedere in una monumentalità maggiore della Porta dei Leoni, tanto da farle riprendere l’ipotesi della tipologia del portale sopraelevato, già avanzata come detto dalla critica, ma taciuta dalle fonti – soprattutto dal dettagliatissimo Alberti.

Ultimamente anche Tigler è tornato sull’ipotesi del protiro a due piani, rinvenendo nella chiesa di San Michele Arcangelo a Baragazza, nella provinica montana di Bologna presso Castiglione dei Pepoli, un altare di impostazione seicentesca proveniente da una chiesa sconsacrata di Bologna (che non è stata identificata), e composto ai lati da due colonne tortili di marmo rosso di Verona, che – su base materiale e stilistica – collega ai pezzi superstiti della Cattedrale Metropolitana di San Pietro e dunque riferisce appunto ai sostegni posteriori del supposto piano superiore della Porta dei Leoni (Tigler 2019).

Quello che in modo più oggettivo si ottiene dalla lettura dei resoconti è un’idea sostanzialmente precisa della tipologia a cui corrispondeva il portale, al di là dell’eventuale piano soprastante. Tuttavia, le comparazioni proposte dalla critica mi sembra che riescano a stabilire con un minimo margine di errore la categoria architettonica del portale bolognese, che credo dovesse conformarsi a quella ipotizzata a due livelli, sebbene in mancanza di qualsiasi menzione diretta e attendibile delle fonti e di sicuri pezzi superstiti. D’altronde, anche la provenienza della leonessa rimane tuttora una questione incerta, soprattutto a causa del diverso stato conservativo e della dimensione modesta, che mi lascia pensare a una sua esclusione dal sistema decorativo del portale e, semmai, a un’origine da rintracciare magari negli inserti ornamentali di un arredo interno (un pulpito, o piuttosto il pontile, come propone ora Massaccesi in accostamento funzionale ai due Angeli del Louvre e al Santo del Museo di Santo Stefano), di datazione forse poco seriore (i dubbi relativi alla collocazione della leonessa, già esposti da Manaresi 1911, 199, sono ripresi da Rivani 1963, 239 nota 20; Grandi 1982, 68-69; Grandi 1987, 160; Cat. Bologna 2000, n. 34, Tumidei; Medica 2003, 139-140; Testi 2011, 104-105; come detto, Tigler include l’animale, del cui eventuale gemello non si ha traccia, a supporto di una delle colonne anteriori del possibile secondo livello del portale: Tigler 2019, 22-24; per l’ultima proposta, relativa al pontile, cfr. Massaccesi 2019, 65-67).

3. Tipologia e percezione dei Mesi

Le fonti testimoniano dunque la presenza di un ciclo dei Mesi nell’arco. La toscanofilia di Vasari lo ha condotto ad assegnare le sculture mensili e zodiacali al suo concittadino Marchionne, avendo molto probabilmente riscontrato lui stesso un’analogia nel sistema a imbotte di Bologna e Arezzo, grazie a un’identità iconografica e a un dato tecnico, come abbiamo già accenato. Gli sviluppi della critica hanno respinto questa ascrizione, non rinunciando però – giustamente – a gettare un ponte tra il sistema architettonico del caso toscano con quello bolognese. Per la questione stilistica, i trend maggiormente seguiti hanno opposto da una parte un influsso antelamico e dall’altra un’adesione ai modi espressi dall’arte dei campionesi.

Il riferimento alla presenza di un ciclo dei Mesi ha posto le premesse per collegare il caso bolognese con Arezzo e Ferrara (Figg. 6-7). A tal proposito Angelo Andreotti e Guido Tigler hanno proposto modelli di ricostruzione ideale per i mesi perduti del ciclo della città estense sulla base di quanto vediamo a Arezzo, che è servito anche per ipotizzare la collocazione all’interno del globale apparato iconografico a Ferrara del ‘Cavaliere’, riconosciuto come Maggio. Le due raffigurazioni di questo mese nei due cicli, che a differenza delle altre raffigurazioni sono entrambe scolpite a “tutto tondo”, e rifinite su entrambi i loro lati, pongono dei significativi quesiti riguardo la loro collocazione nell’imbotte. Come ha evidenziato Anna Maria Maetzke per il ciclo aretino, è probabile che il gruppo fosse stato spedito nella città toscana dal Nord senza prima aver progettato l’ingombro spaziale all’interno dell’imbotte, dando luogo a delle incongruenze: al punto che, ad esempio, il mese di Aprile quasi non si vede, essendo disposto nell’angolo interno dell’arco. Dal punto di vista costruttivo i mesi furono collocati in uno spazio predeterminato: situazione in parte analoga per Ferrara, dove i Mesi furono inseriti nella struttura del portale nicolesco (sul ciclo dei Mesi e dello Zodiaco nel portale laterale della cattedrale di Ferrara, anche in rapporto a Arezzo, cfr. le ipotesi di De Francovich 1952, 450-463; Andreotti 1987, 48, 64; Tigler 2007, 78-80; Masperi, Fabbri 2007; e soprattutto Tigler 2010, 60-64, 80 nota 32 per il commento delle fonti settecentesche relative; sul ciclo di Arezzo, cfr. poi almeno Maetzke 2002; infine, per la ricostruzione grafica dell’imbotte del portale nicolesco di Ferrara, cfr. Andreotti 1987, 100-101; per quanto riguarda il riferimento con il duomo di Modena, anche Hubert 2000, 14-15, cita questo edificio in rapporto a Bologna, ma stranamente lo fa rispetto non alla Porta Regia, ma al “protiro di Lanfranco” [cfr. anche le sue schede in Cat. Bologna 2000, nn. 5-7, 36-40]).

6 | Ambito del Maestro dei Mesi di Ferrara, Imbotte coi Mesi (che include il Maggio), 1235 ca., sculture policrome in pietra, Arezzo, Pieve di Santa Maria, portale.
7 | Maestro dei Mesi di Ferrara, Maggio, 1225-1230 ca., scultura in pietra, Ferrara, Museo della Cattedrale.

Tornando al caso specifico di Maggio, è interessante soffermarsi a notare come le due sculture sono scolpite in modo totalmente tridimensionale, e non presentano un piano di fondo, ovvero delle lastre che ne permettessero l’attacco alla parete dell’imbotte – come invece hanno gli altri Mesi, per quanto scolpiti a forte aggetto: il Maggio di Ferrara ha un aggancio sulla pedana che serviva per accogliere le ammorsature dell’arco, meccanismo che non si può riscontrare a Arezzo poiché i Mesi sono tutt’ora collocati nell’arco e durante i restauri non furono smontati, come mi ha confermato la restauratrice dell’epoca Agnese Parronchi.

La tipologia scultorea che prevede un modellato su tutti i lati stride per l’inutilità percettiva delle finiture sul lato nascosto, in una collocazione a ridosso di una parete, ma evidentemente poteva essere attivata. Sulla tendenza alla tridimensionalità, è opportuno riprendere la descrizione di Vasari, riguardante la tipologia tecnica a cui corrispondevano i mesi di Bologna, come farò tra breve qui di seguito.

Prima, però, dal punto di vista iconografico, vorrei riesaminare le poche righe dedicate a questo argomento. Cito nuovamente da Alberti: “Partito è detto Arco in dodici parti, denotando li dodici mesi dell’Anno, alla quali correspodeno li dodici segni celesti, et significano le due parti dell’anno, delle quali una crescie, e l’altra decrescie, secondo lo ascenso, e descenso del sole per il nostro Emispherio”. L’analisi proposta dall’erudito possiede gli stilemi retorici di un verbale cronachistico, ma non ci consegna un’istantanea riguardante l’iconografia e la modalità con cui i Mesi e i Segni zodiacali erano assemblati nell’imbotte. Vasari è addirittura più laconico: “nell’arco di sopra fece tondo rilievo i dodici mesi con varie fantasie, et ad ogni mese il suo segno celeste: la quale opera dovette in que’ tempi essere tenuta meravigliosa”.

Tuttavia, il breve referto vasariano racchiude un’informazione determinante per stabilire la tipologia scultorea a cui apparteneva il Ciclo dei Mesi, “tondo rilievo”, a mio parere non ben definita nelle uniche menzioni specifiche operate dalla critica: “[…] tra le tante sculture che componevano il portale Vasari distingue i leoni e gli uomini a uso di facchini, scolpiti a tutto tondo, dai rilievi dell’imbotte, insinuando l’idea che a Bologna i Mesi fossero più probabilmente lastre scolpite che non figure fortemente aggettanti come a Parma o a Ferrara” (Testi 2012, 63); “[…] nell’imbotte trovava posto un ciclo dei Mesi abbinato a uno dei Segni Zodiacali che, secondo le parole di Vasari, doveva consistere in una serie di lastre scolpite” (Testi 2015, 59).

Sappiamo bene che per impiegare le parole di una fonte si rende necessario analizzare in dettaglio il lessico impiegato (per uno studio della polisemia linguistica nella raccolta biografica vasariana, cfr. almeno Barocchi 1981 e Carloni, Grasso 1994). L’espressione “tondo rilievo” indica esplicitamente per l’aretino una componente di aggetto molto forte, quasi un tutto tondo, come sembra deducibile in forma altamente dichiarativa nell’introduzione alla scultura:

et è a considerare che tutte le figure di qualunque sorte si siano, avendo ad essere di tondo rilievo e che girando intorno si abbino a vedere per ogni verso (Vasari [1550, 1568] 1966-1987, Testo 1 [1966], pp. 82-83).

Per Vasari una scultura a “tondo rilievo” corrisponde dunque a un’immagine modellata in forma pressoché tridimensionale, e comunque su tutti i lati (il cane di Ilaria del Carretto, per esempio), come del resto si evidenzia ulteriormente, in forma altamente esemplificativa in quanto dicotomica, in un passaggio dedicato alla vita di Alfonso Lombardi: laddove emergono nel giro di poche righe dello stesso passo da una parte i caratteri tipologici di un’immagine che sviluppa la propria iconografia a partire da un legame più stretto con il piano di fondo, e dall’altra una diversa e, appunto, quasi a tutto tondo:

Alla Madonna del Baracane fece il medesimo due Angeli di stucco, che tengono un padiglione di mezzo rilievo; et in San Giuseppo nella nave di mezzo fra un arco e l’altro fece di terra in alcuni tondi i dodici Apostoli dal mezzo in su di tondo rilievo (Vasari [1550, 1568] 1966-1987, Testo 4 [1976], pp. 408-409).

A mio modo di vedere, la notazione di Vasari permette di dimostrare correttamente la tipologia scultorea dei Mesi bolognesi, i quali, stando all’accezione che egli ci fornisce di questa categoria, dovevano essere del tutto simili agli altri conservati a Parma, Ferrara e Arezzo: fortemente in aggetto, caratterizzati da una netta propensione volumetrica, quasi come singole sculture separabili – come, davvero, nei casi citati del Maggio – dal contesto di appartenenza.

Passando dagli aspetti stilistico-formali e tecnici a quelli iconografici e funzionali della Porta, le fonti tardocinquecentesche non indugiano a lungo a descrivere i Mesi e i segni zodiacali, né trattano gli specifici usi, di accoglienza e introduzione come ‘soglia sacra’ rivolta prevalentemente ai pellegrini, della porta, tanto da testimoniare la discrasia creatasi tra l’immaginario di un uomo rinascimentale con quello di uno medievale, nel patente disinteresse verso il contenuto iconografico delle raffigurazioni, che diventano criptiche come le parole prodotte da una lingua morta: “Vi sono altre figure de animali sopra questo artificioso Edificio, delle quali io espettarò la interpretatione da piu curioso di me”. La precipitazione dell’espressione simbolica delle attività mensili e dei segni zodiacali verso un non-senso post-costituito dai sedimenti di una nuova cultura umanistica favorì certo l’approccio dell’intero manufatto solo da un punto di vista formale (per la ricostruzione del presunto “occhio originario”, vd. il metodo di Baxandall [1972] 1978). Quello che si evince dai resoconti del Cinquecento citati è inoltre una defunzionalizzazione della Porta, che si è trasformata in un bell’insieme di elementi architettonici e scultorei, il cui linguaggio medievale non era più in grado di riflettere le implicazioni di un cultura che abbraccia non solo un nuovo linguaggio artistico, ma soprattutto una nuova sensibilità religiosa. Un orizzonte nuovo dentro il quale l’attivazione sensoriale come spazio di accoglienza della Porta dei Leoni – come di tante strutture medievali di introduzione assieme fisica e catechetica – al luogo sacro si perde, dando luogo a una netta snaturalizzazione del proprio significato urbano che sono convinto abbia senz’altro contribuito in parte al suo stesso smantellamento.

Dal punto di vista antropologico, all’alba della modernità, il portale bolognese perde la propria funzione di zona liminale – concetto elaborato ed espresso dagli antropologi Turner negli anni Sessanta – dove il pellegrino sperimentava una condizione esistenziale di appartenenza a una comunitas. All’interno di questa fase, cioè, un gruppo di individui condivide uno status sociale de-gerarchizzato, a cui seguono dei riti iniziatici che investono sia l’apparato sensoriale che quello intellettuale (sul tema dello spazio liminale, cfr. Turner, Turner 1978, 2, 6-8, 34; per un compattamento dei contributi critici inerenti al concetto di liminalità, vd. Doležalová, Foletti 2019). In alcuni casi medievali, questa fase di passaggio può essere enfatizzata dalla presenza di apparati visivi sul destino ultimo dell’uomo, che marcano l’ingresso nell’edificio liturgico. Pattern iconografici escatologici riconoscibili e identificabili trasversalmente da tutti i pubblici cristiani nel Medioevo, e che spesso sono arricchiti appunto dalla presenza dei cicli dei Mesi e dello Zodiaco.

I Mesi evidenziano la pertinenza delle attività produttive dell’uomo al disegno divino, e costituiscono spesso nella scultura romanica l’unico segno dello scorrere del tempo in programmi iconografici dominati - come nel caso dei Giudizi Universali, delle Deesis, o delle altre teofanie con o senza presenza di santi (come Alberti descrive vi fosse sulla Porta dei Leoni di Bologna) - dalla conclusione, o dalla sospensione, del tempo stesso. Questi cicli rappresentano la vita e i lavori svolti dall’uomo nel confrontarsi con il mondo naturale (ad esempio la semina a Ottobre, la mietitura a Giugno), e ripartiscono le azioni a distanze temporali specifiche, vincolate dal cambio delle stagioni, a coprire i dodici mesi dell’anno (per una panoramica dei motivi iconografici dei timpani romanici, Gaborit 2010, 313-370; per una puntuale ricognizione della diffusione in Europa centrale dei cicli dei Mesi, nei secoli cruciali del cosiddetto tempo romanico, cfr. il corpus di Mane 1983; sempre sul tema delle iconografie alimentari, dalle quali è possibile promuovere ipotesi relative all’organizzazione del lavoro medievale, si veda, sempre della stessa autrice, Mane 1984; Mane 1990, 251-262; Mane 2015; mentre per una repertorializzazione dei calendari in territorio italiano, cfr. Fachechi, González Castiñeiras 2019; un recente esempio di approccio iconografico specificamente alimentare e produttivo ai cicli calendariali, nella fase cruciale del ‘tramonto del Medioevo’ è Lollini 2019).

Noi percepiamo gli intervalli del tempo, li confrontiamo tra loro, definiamo questi più lunghi, quelli più brevi, misuriamo addirittura quanto l’uno è più lungo o più breve di un altro. I tempi passati invece, ormai inesistenti, o i futuri, non ancora esistenti, chi può misurarli? Forse chi osasse dire di poter misurare l’inesistente. Insomma, il tempo può essere percepito e misurato al suo passare; passato, non può, perché non è (Agostino, Confessioni, 9, 16; 21).

8 | Giorgio Vasari, Allegoria della Giustizia, 1543, olio su tavola, Napoli, Museo nazionale di Capodimonte.

Solo attraverso questi intervalli, e dunque una seriazione di singoli elementi che funzionano come indici e possono divenire elementi culturali e visivi, il tempo, come ha espresso Agostino, diviene quantificabile e misurabile.

Il messaggio culturale contenuto nei cicli dei Mesi, in rotta rispetto all’atemporalità caratterizzante il soggetto principale del timpano bolognese, poteva dunque non interessare più un osservatore vissuto nel Cinquecento. Come esempio della mutazione del concetto di Tempo avvenuto nei secoli, e per congruità rispetto a quanto discutiamo, possiamo prendere, fra i tanti, proprio Vasari, e il suo utilizzo tanto del concetto del tempo quanto della sua rappresentazione nel noto dipinto l’Allegoria della Giustizia, realizzato nel 1543 per il cardinale Alessandro Farnese (Fig. 8). Se riprendiamo il celebre esame di Erwin Panofsky, la rappresentazione del Tempo nel dipinto di Vasari testimonierebbe una pseudomorfosi, vale a dire un utilizzo di figure esteticamente classiche imbevute di un significato assente nei modelli di origine. Tale asserzione è chiarita nella lettera scritta al cardinale Farnese, dove l’aretino descrive il programma iconografico, incentrato sul trionfo della Giustizia sui Vizi, rifacendosi a un’impostazione visiva ampiamente frequentata:

Li altri quattro vizi che mancano sono là, il Tradimento ed il Timore ascosogli dopo, e la Bugia e la Maldicenza insieme conculcati dalla Verità, che, sento presentata dal Tempo, padre di lei, dona le semplici colombe per tributo, e la Giustizia le premia d’una corona di quercia, fortezza del suo animo (lettera ad Alessandro Farnese, da Pieguidi 2009, p. 756 [Frey, Nachlaß, pp. 121-122])

Sullo sfondo in alto, dei putti stanno portando delle armi alla Giustizia, perno di tutta la composizione, che occupa il centro del dipinto, sul cui braccio destro poggia uno struzzo, simbolo di pazienza. La mano sinistra tiene una corona d’alloro che attende di essere poggiata sulla testa della Verità, che a sua volta tiene tra le mani due colombe (simbolo di innocenza). In questo complesso contesto, il Tempo, rappresentato come un vigoroso uomo di mezza età, sopra il cui capo è appoggiata una clessidra e delle ali, funge da mediatore nel presentare la Verità alla Giustizia, mentre sul fondo del dipinto stanziano – sconfitte – le personificazioni dei peccati (Corruzione, Ignoranza, Crudeltà, Tradimento, Paura, Falsità e Calunnia).

Come tutte le figure che compongono l’allegoria vasariana, anche il Tempo è personificato, e gli vengono conferiti sia degli attributi che ne dichiarano l’identità, che una funzione specifica: è una figura che intercede in favore della Giustizia (per un’indagine iconografica e stilistica del quadro di Vasari e sul commento della lettera, cfr. almeno Pierguidi 2009; in riferimento all’impostazione della tavola vasariana, per un confronto con la tradizione iconografica della vittoria delle Virtù sui Vizi, rimando al datato Katzenellenbogen 1939, 3-14; mentre l’indagine iconologica dedicata alla rappresentazione del Padre Tempo in epoca rinascimentale da cui tanti sono partiti è naturalmente Panofsky [1975, 1999] 2009, 89-134).

In questo momento ormai pienamente moderno, di pieno Cinquecento e del tutto parallelo quindi ai testi che abbiamo citato sulla Porta dei Leoni, il Tempo non emerge più tramite un frazionamento cronologico, che nel caso dei cicli medievali viene evocato attraverso le mansioni specifiche dell’uomo che variano da una fase all’altra dell’anno solare (e la reiterazione di questi cicli scema proprio al debutto della prima età moderna, con rare eccezioni quali vediamo nella pittura fiamminga, o nella produzione ‘bassa’ di manoscritti e stampati seriali di tipo calendariale), bensì esiste solo come concetto ipostatico, e dunque, come entità individualizzata che concorre a determinare il significato allegorico dell’intera scena (come, al debutto del XVI secolo, nel Venere, Cupido, Follia e Tempo di Bronzino alla National Gallery di Londra, tanto per fare un esempio). Dunque non deve stupire che dalle fonti analizzate vi sia l’assenza integrale di una descrizione iconografica dei Mesi: l’abitudine mentale tardorinascimentale e poi cinquecentesca rendeva l’intero ciclo medievale dissociato completamente dall’esperienza dell’epoca del fruitore contemporaneo, tanto da venire ignorato, e relegato al piano dell’apparenza estetica come mera curiosità decorativa.

4. Da spazio liminale a oggetto estetico

Attraverso lo studio delle cronache locali siamo a conoscenza che la Porta dei Leoni divenne presto un accesso assai frequentato, tanto da entrare a far parte degli itinerari processionali nel corso del XIV secolo, e usata come cornice monumentale per gli avvenimenti speciali, quali le cerimonie di laurea. Tuttavia lo scarto percettivo rispetto ai tempi in cui fu realizzata, e le esigenze di apportare un integrale ammodernamento alla Metropolitana di San Pietro sancirono il destino del pregevole manufatto “molto marauegliosamente con gran spesa lauorata”. Da spazio liminale si trasforma in spazio estetico. Un ridimensionamento concettuale, come sembrano provare le fonti analizzate, che condurrà il celebrato accesso di San Pietro a una rovinosa distruzione.

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English abstract

The so-called Lions’ Door in Saint Peter’s Cathedral in Bologna dated 1220-1223, but was dismantled and destroyed in the first years of XVII century; now only few of its elements are still visible inside the building. It included the representation of the twelve months, as in many other buildings of the same period; sources document that as early as middle 1500 these kind of subjects were no longer interesting, and had become distant from medieval religious and social vision, and from the sacred liminal function it had. This obviously contributed to the sad end of this important artistic artefact.

keywords | Lion’s door; Sculpture XIII century; Saint Peter Bologna; Liminal space.

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo / To cite this article: L. Capriotti, Da spazio liminale a spazio estetico. La porta dei Leoni di San Pietro a Bologna, “La Rivista di Engramma” n. 186, novembre 2021, pp. 49-71 | PDF 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2021.186.0008