"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

186 | novembre 2021

97888948401

L’evidenza in questione

L’arte alla prova del gioco sociale

Francesco Trentini

English abstract

Partendo dal presupposto teorico che ogni certificazione scientifica è conseguenza dell’applicazione di un preciso paradigma, il presente studio, condotto dall’autore in parte in forma di metodica autoriflessione (Selbstreflexion) (Habermas 1968), intende discutere la categoria epistemologica di evidenza, presentando le possibilità euristiche derivanti dall’applicazione di un paradigma di matrice bourdieusiana alla ricerca storico-artistica. Dopo un breve inquadramento teorico, con l’ausilio del case study del Compianto sul Cristo morto di Cima da Conegliano già nella Chiesa dei Carmini di Venezia (oggi Museo Puskin, Mosca), si cercherà di mostrare in che modo l’applicazione del nuovo paradigma con i suoi concetti operativi di “campo”, “habitus”, “gestione del potere simbolico”, etc. arricchisca di nuove evidenze il discorso storico, come pure l’analisi iconografica e semiotica, facendo dell’opera d’arte un caso di elaborazione per via simbolica di questioni emergenti dal campo religioso.

1 | La chiesa di Santa Maria del Carmine a Venezia.

1. Evidenza e paradigma

Nella loro revisione critica dell’evidenza cartesiana, Rudolf Carnap (Carnap 1952) e Thomas Kuhn (Kuhn 1962), hanno efficacemente definito l’evidenza come una certezza basata su idee chiare e distinte intrinsecamente dipendente da un modello teorico di riferimento, il paradigma, formulato entro il dominio del razionale. In questa prospettiva qualsiasi dato d’osservazione, qualsiasi informazione, rientra sotto la categoria di evidenza solo in quanto evidenza-di-qualcosa entro un quadro d’ipotesi basato su un paradigma. C’è dunque un’inevitabile relatività nell’evidenza, che la distingue dalla mera fattualità come pure dalla nuda esperienza di qualcosa. Capiamo allora che per essere evidenza di qualcosa è necessario che il dato si ponga in relazione a una proposta esplicativa elaborata sulla base di un modello teorico e che, a dispetto delle nostre pretese di assolutezza, controparte imprescindibile dell’evidenza è la categoria di probabilità, a essa coessenziale (Hacking 2006).

Per poter disporre di un’evidenza (o, altrimenti detto, di una prova) è dunque imprescindibile disporre di un paradigma. Ma neppure il paradigma è assoluto. Esso è assunto inevitabilmente a priori ma sempre ad experimentum, fino a che, cioè, nel processo euristico non avviene qualcosa di incompatibile col paradigma stesso, tale da esigerne la revisione. Si tratta qui di una circolarità ermeneutica che ha nella scelta del paradigma un momento preliminare imprescindibile. L’obsolescenza del modello teorico per inadeguatezza evidente è solo un caso limite. Più normalmente, e particolarmente in tempi di considerevole frammentazione epistemologica, accade di trovarsi in situazioni di compresenza di paradigmi a confronto e dunque nella necessità di operare una scelta in funzione di scopi euristici predeterminati. Com’è noto spetta a Thomas Kuhn aver indagato a fondo questa dinamica indicando una via che, pur relativizzando i modelli teorici, si tiene alla dovuta distanza dalle secche dell’irrazionalismo, postulando invece una commensurabilità razionale tra paradigmi. Solo a questa condizione sarà possibile operare una scelta non arbitraria ma dotata di efficacia scientifica perché fondata su alcuni criteri di valutazione fondamentali quali l’accuratezza del paradigma, la sua coerenza, l’ampiezza di scopo, la semplicità e la produttività (Kuhn 1977).

È muovendo da quest’ordine di considerazioni che si è ritenuto di proporre in questa sede, con l’ausilio di uno specifico case study riferito alla Chiesa dei Carmini di Venezia, una serie di osservazioni riguardanti l’impatto, in termini di evidenza storiografica, derivante dall’applicazione alla ricerca storico-artistica di un paradigma di stampo socio-antropologico in sostituizione del più classico paradigma ispirato a principi di pragmatismo economico normalmente in uso nei Contextual Studies. La scelta si fonda sul riconoscimento della sociogenesi del fenomeno artistico, evento che si realizza necessariamente in riferimento a un campo antropologico entro cui viene alla luce e in cui viene fruito. Possiamo immaginare questo campo come una struttura d’interazione tra parti sociali che presiede all’appropriazione e gestione del potere simbolico di una società. Per questo motivo definiremo relazionale il paradigma sperimentale di stampo socio-antropologico, fondato sui concetti di “habitus e di “campo” secondo la definizione di Pierre Bourdieu (per la categoria di “habitus” si rinvia a Bourdieu 1967 e Bourdieu 1979, mentre per la teoria del “campo” si invita a considerare in particolare Bourdieu 1971. Si segnalano inoltre Boschetti 2010, Sapiro 2010 e Alciati 2013 per una valutazione storico-critica dei concetti di “habitus e “campo” in Bourdieu), e basato sull’idea di arte come evento implicato in un sistema di relazioni dinamiche tra uomini a vario titolo coinvolti nel gioco sociale in cui l’opera è scaturita.

2. Le dinamiche di campo: selezione dei dati e implicazioni interpretative

2 | Giovanni Battista Cima da Conegliano, Compianto sul Cristo morto con frate carmelitano, olio e tempera su tavola trasportato su tela, ex Venezia, Chiesa di Santa Maria del Carmine, 1501 ca., Mosca, Museo Puškin, inv. 2681.

Cardine del paradigma proposto sarà il concetto di “campo”, descritto da Pierre Bourdieu come un ambito di forze che s’impone con la sua necessità agli agenti che vi operano, e insieme campo di lotte al cui interno gli agenti si affrontano, con mezzi e fini differenziati a seconda della loro posizione nella struttura del campo di forze, contribuendo così a conservarne o a trasformarne la struttura” (Bourdieu 1995, 46-47).

Si tratta di un modello teorico che trova conferma nella sua stessa capacità di permettere una restituzione analitica del processo dialettico tra opus operatum e modus operandi, tra prodotti oggettivati e prodotti incorporati dalla pratica storica, tra strutture e habitus (Alciati 2013,§2,1-21). Posto al punto di convergenza tra oggettivismo strutturalista e soggettivismo, il concetto di campo orienta il ricercatore storico dell’arte nell’individuazione di fenomeni storico-sociali normalmente trascurati e consente una maggiore intelligenza dell’ambito socio-culturale entro cui l’oggetto artistico è venuto alla luce. Nello specifico, ai fini della presente riflessione ci si concentrerà sul campo religioso, che è l’ambito di rapporti “tra istanze in lotta per il mantenimento o la sovversione dell’ordine simbolico” (Bourdieu 2013, §4). Sul piano della selezione dei dati, l’accertamento delle dinamiche di campo implica preliminarmente il rilevamento documentale di tutti gli attori sociali e conseguentemente la ricostruzione dell’habitus, il corredo ideale e culturale che struttura gli individui fornendo loro “categorie di pensiero impensate che delimitano il pensabile e predeterminano il pensato” (Bourdieu 1991, 10). Questo rende possibile la ricostruzione dei diversi posizionamenti di singoli e gruppi umani all’interno del campo, osservando i rispettivi ruoli sociali nel loro reciproco definirsi e rinegoziarsi e le specifiche azioni compiute, con i loro presupposti e le loro finalità. Il lavoro di esplicitazione di tali dinamiche, come vedremo, non è arbitrario ma passa per il continuo processo di verifica e aggiornamento tra modello teorico, formulazione d’ipotesi, rilevamento di dati.

Per passare dal teorico al concreto ci serviremo di un esempio tratto dal progetto di ricerca “I Carmini e la Città” (Università Ca’ Foscari, Venezia – Institutum Carmelitanum, Roma), uno studio svolto nel biennio 2014-2015 e dedicato all’analisi integrata del fondo archivistico di Santa Maria del Carmine presso l’Archivio di Stato di Venezia, di alcuni fondi dell’Archivio Generalizio dell’Ordine Carmelitano nonché dei fondi antichi di diverse biblioteche italiane ed europee. Grazie a un accurato lavoro filologico è stato possibile riferire il Compianto sul Cristo morto di Cima da Conegliano (Fig. 1), un olio e tempera su tavola trasportato su tela nel 1859 e oggi conservato al Museo Puškin di Mosca (Markova 1994, 153-154), alla commissione di Anzolo Bendolo, figlio del compravendi pesce Servideo, e indicare una nuova datazione al 1501 circa (Trentini 2019b, 117-133).

L’identificazione si basa anzitutto sui dati di ragguaglio degli spostamenti subiti dall’opera all’interno della chiesa, andando a ritroso fino alla sua originaria collocazione sul perduto altare di Santa Maria dei Miracoli (poi altare della Pietà), nonché sulla documentazione relativa ai privati concessionari dell’altare tra la fine del XV secolo e l’inizio del secolo successivo. La datazione invece si fonda essenzialmente sulla registrazione di un pagamento a “Zuambatista depentor per la sua palla” (ASVe, S. Maria del Carmine, b. 16, fascicolo segnato “Bendulo”, 51v-52r) contenuta in un dossier relativo all’altare di destinazione dell’opera, che sappiamo essere stato assegnato nel febbraio 1484 al compravendi pesce Servideo Bendolo q. Vittore. La fonte lascia intuire un’edificazione rapida dell’altare, già in uso per le celebrazioni nell’aprile 1484, corredato entro il 1500 con un’immagine raffigurante il carmelitano sant’Angelo di Sicilia (ASVe, S. Maria del Carmine, b. 44, fascicolo XLII, n. 34), e fatto oggetto di una successiva riqualifica intorno al 1501 con la realizzazione della pala di Cima. La totale assenza di riferimenti alla scuola dei compravendi nel documento di allocazione dell’altare a Bendolo insieme al fatto che le fonti di inizio Seicento distinguono chiaramente l’altare della Pietà e quello dei Compravendi pesce (Sansovino, Stringa 1604, 184r e AGOCarm, Terminazioni A, 61r), nel frattempo riedificato in data 1548, smentiscono ogni possibile identificazione tra l’altare Bendolo e quello della confraternita (Come invece proposto da Cocchiara 2006, 200), ma soprattutto ci consegnano l’evidenza di una problematica prossimità nella chiesa dei Carmini tra l’altare privato e quello della confraternita cui Servideo apparteneva.

A fronte di questi elementi, il paradigma di matrice pragmatista porta a vedere nella commissione d’arte dei Bendolo un tipico caso d’investimento per l’anima. In questa prospettiva la pala di Cima, commissionata dopo il 1501 da Anzolo in memoria del padre morto entro il 26 febbraio 1499, si spiega come il compimento di una strategia iniziata con le messe in suffragio della madre Lena morta nel 1484, cui si aggiunsero qualche anno più tardi gli anniversari per il padre Vettor, morto nel 1489 (ASVe, S. Maria del Carmine, b. 16, fascicolo segnato “Bendulo”, 52r).

Uno studio di campo, invece, valutando tutto questo in relazione alle dinamiche sociali in atto nel campo religioso terrà conto anche dell’appartenenza dei Bendolo, e riconoscerà così nella loro scelta di dotarsi di un altare di famiglia un atto sociale compiuto in deroga agli schemi di comportamento previsti per un compravendi pesce ancorché facoltosi. Gli uomini del ceto mechanico risolvevano il problema dell’identità e del posizionamento sociale in termini di gruppo e corporazione nel sistema confraternale. I Bendolo, invece, affiancano il loro altare a quello della confraternita dei Compravendi, evidenziando una polarità tesa tra appartenenza di gruppo e identità di lignaggio, elaborando per via simbolica una transizione di habitus in atto nella famiglia proprio nel momento in cui è documentata a Venezia l’istituzionalizzazione statale della mobilità sociale dei cosiddetti popolari (Pezzolo 2007, 20-21).

L’ipotesi che ai Carmini fosse in atto una forma di cooptazione dagli strati bassi della società e la sperimentazione di nuove forme di partecipazione nella strutturazione dello spazio sacro è verificata dalla scoperta della creazione nella chiesa di un’area riservata ai popolari in mobilitazione, attraverso interventi cronologicamente e tipologicamente coerenti localizzati in controfacciata: a inizio Cinquecento la sezione occidentale era occupata dall’altare Bendolo (1484), a lato del portale maggiore, e da quello della Purificazione di Maria, in corrispondenza della navata destra, assegnato alla Scuola dei Compravendi pesce nel 1477 (ASVe, S. Maria del Carmine, b. 8, n. 31, c. 4v. È registrato come “primo altare alla dritta” quando ormai l’altare Bendolo era scomparso per fare spazio al monumento funebre di Jacopo Foscarini: Zanetti 1771, 131) mentre nella parte orientale, a lato del portale, stava l’altare San Giovanni Evangelista, fatto erigere dopo il febbraio 1486 su concessione dei frati per volontà del gastaldo della Scuola dei marangoni da nave Lazzaro Pilloto q. Bartolomeo come sede di sepoltura famigliare (ASVe, S. Maria del Carmine, b. 40, n. 147 [Testamento di Lazzaro Pilloto q. Bartolomeo, 13 febbraio 1486]. Il titolo dell’altare si ricava da un memoriale degli obblighi di culto e commemorazione ai Carmini, copia seicentesca di un originale che a giudicare dai nomi registrati fissava la situazione entro il 1540: ASVe, S. Maria del Carmine, b. 50, reg. n. 6, c. IV v) di fianco all’altare dell’Assunzione di Maria dove nel 1502 saranno dislocati i fustagneri tedeschi e i tessitori di pannilana tedeschi della Germania superiore, riuniti in un’unica nuova confraternita (ASVe, S. Maria del Carmine, b. 48, reg. 2, 54v-57r).

3 | Il gruppo della Vergine con il Cristo morto (dett. Fig. 1).

Altrettanto importante sarà valutare l’habitus dei frati carmelitani, i detentori del monopolio nella gestione del sacro, e come questo ha influito sulle strategie da essi attuate nella gestione delle dinamiche di campo. In generale negli anni di passaggio tra XV e XVI secolo l’Ordine carmelitano sta vivendo un processo di ristrutturazione identitaria gestito dai vertici e declinato nei termini di una decisa valorizzazione dei legami con le origini orientali, predliligendo un profilo eremitico ai tratti conventuali assunti dai frati tra la fine del XIII e il XIV secolo in seguito all’inserimento nei difficili equilibri della cristianità europea (Trentini 2019b, 71-96). Questa dinamica all’interno del campo religioso dei Carmini si sostanzia in un’eloquente serie d’interventi di riqualifica dell’assetto liturgico dei Carmini d’inizio Cinquecento, tra cui si segnalano per il forte potenziale identitario il progetto d’inserimento del culto di sant’Angelo di Sicilia (1500) presso l’altare di Santa Maria dei Miracoli, in accordo con le disposizioni del capitolo generale di Nîmes (1498) (Wessels 1912, 312); la liberazione degli altari identitari di sant’Alberto da Trapani e di Santa Maria della Speranza dalla presenza tedesca (1502) con la contestuale realizzazione della Madonna della Misericordia con i confratelli e le consorelle carmelitane di Lazzaro Bastiani (Mondini 1675, 60 e Trentini 2019b, 100-116); il coinvolgimento dei laici, in particolare Giovanni Da Mosto (1504) (ASVe, S. Maria del Carmine, b. 48, reg. 2, 37r-38r), nel rafforzamento del culto di Sant’Alberto secondo il già citato capitolo di Nîmes. Complementare a questi interventi, la messa a punto a cura di frate Giovanni Maria Poluzzi da Novellara e frate Giovanni Battista de’ Cathaneis di testi liturgici, storici e istituzionali che, stampati in particolare da Lucantonio Giunta tra il 1499 e il 1515, avrebbero dovuto sostenere la riforma dell’Ordine garantendo correttezza, uniformità e chiarezza sul piano identitario (Trentini 2019a).

Un supplemento d’evidenza è fornito dalla compresenza all’interno del convento dei Carmini in quello stesso giro di anni di una compagine di frati intellettuali capaci di convertire efficacemente il loro capitale culturale in forza propositiva entro il campo religioso. Tra questo i già citati Giovanni Battista de’ Cathaneis e Giovanni Maria Poluzzi da Novellara, Claudio e Alessandro da Venezia, figure di alto profilo istituzionale, rispettivamente provinciale veneto e anconetano nel 1492, Angelo Bellemo, responsabile dell’inserimento del culto di Angelo di Sicilia sull’altare di Santa Maria della Speranza, e ancora Pietro a Judaica e Pietro delle Forze, che troveremo coinvolti anche nei decenni immediatamente successivi nel movimento di rinnovamento carmelitano a Venezia guidato dal generale Nicolas Audet. Un pool di teologi organico ai vertici, che non stupisce ritrovare compatto alla regia dello spostamento degli artigiani tedeschi, un’azione forte negli equilibri di campo per una solenne riqualifica degli altari simbolo del gruppo carmelitano.

Nella sinergia tra frati e popolari sottesa alla commissione Bendolo si esprimeva dunque l’habitus dei nuovi carmelitani, propensi a incorporare nel loro progetto settori sociali medi e bassi in accordo con la vocazione eremitico-profetica allentando (almeno temporaneamente) i legami con i vertici della società laica. Analoghe valenze identitarie avrebbero assunto le alleanze con il ceto cittadino mercantile presente ai Carmini nella forma di un vero e proprio network strutturato, fortemente coinvolto nella promozione di imprese dall’alto valore politico simbolico capaci di lasciare un’impronta sul lungo periodo. Movimenti capaci di marginalizzare la presenza non certo trascinante del patriziato minore, magari implicato nelle pratiche amministrative dei frati, come – ad esempio – il procuratore di chiesa Girolamo Bon q. Francesco, disposto a non farsi rimborsare il denaro anticipato per i frati nella gestione della contabilità di fabbrica per la facciata (Moretti, Savini Branca 1995, 9) ma restio a intestarsi efficaci interventi di rilievo politico o artistico. Egli, infatti rimase nell’incertezza tra forme di timido appoggio alle iniziative carmelitane quali la sepoltura all’altare di Sant’Alberto da parte di Giovanni da Mosto q. Nicolò, e strategie smaccatamente autocelebrative, come nel caso dell’investimento peraltro tardivo (1514) di Pietro Guoro sulla figura dello zio Luca Civran nella cappella di famiglia. Era questa un’impresa eccessiva nella sua autoreferenzialità, con la consueta celebrazione onomastica in altare – mediante la dispersa pala di San Luca di Benedetto Diana – e un monumento funebre con statua che Sansovino giudicò “di diversa forma dall’uso commune” (ASVe, Notarile, Testamenti, Atti Bogoticio, b. 101, n. 20 e Sansovino 1581, 94r).

3. Il dato documentale come indice

Oltre ad ampliare, come abbiamo visto, le strategie di ricognizione documentale, l’applicazione del paradigma relazionale ha evidenti conseguenze nell’uso stesso delle fonti. Va detto che la verificabilità delle ipotesi formulate sulla base del nuovo paradigma potrebbe sembrare compromessa da consistenti problemi di documentabilità diretta delle dinamiche di campo: un caso esemplare di “assenza di prove”. Ma si tratterebbe di una valutazione errata. Certo è un fatto inoppugnabile che la documentazionea disposizione dello storico dell’arte non ponga mai direttamente a tema il gioco sociale, dal momento che le testimonianze relative alle opere d’arte all’interno del campo religioso cristiano in età moderna nascono in funzione del controllo di altri aspetti, per lo più di rilevanza giuridica o economica. Tuttavia la possibilità di una ricognizione documentale intorno alle questioni sollevate dal paradigma relazionale sussiste e si basa sulla coesistenza nella fonte di una testualità letterale e di un’indicalità. Si tratta di riconoscere che le informazioni contenute in un documento da un lato assolvono a funzioni comunicative definite dalla natura diplomatica della fonte, dall’altro designano una realtà più complessa di ordine sociale, culturale, politica. Inoltre va tenuto in conto che il dinamismo sociale interno al campo religioso, con la sua complessa combinazione di stereotipi d’habitus e di arbitrio soggettivo dell’azione dei singoli soggetti, che abbiamo cercato di far emergere per via documentale è presentato da Pierre Bourdieu come un sistema di forze perfettamente incarnate nella società senza che i protagonisti siano in grado di riconoscerle ed enunciarle. Si tratta di un livello di realtà spesso disconosciuto o denegato dagli stessi attori in campo, e purtuttavia concretamente presente e rilevabile mediante i dispositivi concettuali e gli strumenti dell’indagine socio-storica.

In questa prospettiva, per fare un esempio, la nota clausola “per maggior gloria di Dio” riferita alle commissioni destinate allo spazio sacro non potrà essere assunta come effettiva motivazione dell’evento artistico nel campo religioso. Quest’ultimo è piuttosto l’esito di una complessa dinamica sociale non pienamente disponibile alla coscienza dei soggetti coinvolti. La consapevolezza che i dati riportati nei documenti, valgano anche come indici di fenomeni profondi e di dinamiche di campo consente dunque di valorizzare le fonti in modo nuovo. Così, per fare alcuni esempi, la documentazione relativa alla sepoltura con altare dei Bendolo oltre a evidenziare la pietà ed eventualmente lo status economico del committente certificherà il protagonismo ricercato e ottenuto all’interno delle dinamiche di campo, designando un processo di distinzione e insieme un atto di gestione partecipata del potere simbolico nella società. Analogamente, l’elenco dei frati presenti alla stipula del già citato contratto per il trasferimento delle scuole artigiane dei tedeschi anzichè essere letto soltanto come funzione legale a supporto della transazione, sarà valutato anche come indice dell’esercizio di controllo e di governo del simbolico nel campo religioso esercitato da parte carmelitana, come provato dalla significativa compresenza di uomini attivamente impegnati a vario titolo nella diffusione di un habitus carmelitano riformato.

Siamo abbastanza distanti dalla tendenza a circoscrivere il fenomeno ai soli aspetti esplicitamente enunciati dalle fonti, caratteristica del consueto paradigma dei Contextual Studies che a partire da modelli economici definisce il set di problemi normalmente avvertiti come propri della storia dell’arte quali l’individuazione della committenza e delle sue ragioni dichiarate, la definizione della professionalità del pittore, l’organizzazione del mercato, per fare solo alcuni esempi. Nello specifico dell’arte religiosa, il paradigma economico porta a riconoscere la realizzazione di nuovi altari e di nuove immagini per le chiese cristiane in età moderna come la risposta a una concezione implicitamente imprenditoriale del culto, funzionale a colmare eventuali insufficienze delle strutture rispetto al fabbisogno devozionale o a incoraggiare una tendenza all’espansione illimitata della vita religiosa. È questa, in definitiva, una forma di ricognizione della spiegazione dei fatti secondo categorie fornite dagli attori in campo, che però – avverte Bourdieu – molto spesso elaborano meri “fantasmi culturali” per dissimulare o disconoscere l’effettivo gioco sociale in atto. Riconosciute le caratteristiche del paradigma economico, e senza nulla togliere alla sua importanza nello studio delle strutture e degli apparati per la liturgia, quanto finora rilevato in merito al caso dei Carmini incoraggia e autorizza ad andare oltre il paradigma economico che in definitiva rimane descrittivo, anche nei casi più interessanti come quello magistralmente elaborato dai protagonisti del “liturgic turn”.

4. L’immagine in campo

4 | Il lenzuolo sul corpo nudo di san Giovanni evangelista (dett. Fig. 1).

Motivati a procedere su questa linea, s’impone allora di discutere in che modo l’immagine, con il suo portato figurativo e figurale, si posizioni entro il paradigma relazionale proposto in questa sede in virtù della sua capacità di produrre ipotesi più articolate sulla questione del fondamento sociale dell’arte. Ora le riflessioni di Bourdieu in materia di arte saranno di scarsa utilità perché limitate alla definizione sociale del campo estetico. Dovremo quindi rivolgerci agli studi semiotici, e in particolare a quanto da essi osservato riguardo alla determinazione circostanziale del senso di un testo, inteso come risposta complessa a problemi posti da circostanze concrete. Questo dispositivo concettuale, proprio perché teorizza l’incorporazione delle circostanze enunciative nel figurativo e figurale, è fondamentale per collegare la sfera del contenuto di un testo/immagine e quella del campo sociale e per noi è decisiva in funzione del superamento di ogni deriva metastorica in senso puramente estetico. Si tratterà dunque di ricondurre il testo visivo entro precise coordinate linguistiche storicamente determinate (nel caso di un’opera rinascimentale, a esempio, le caratteristiche di discronia, distopia, rispetto all’eventuale fonte narrativa di riferimento), e soprattutto d’individuare una rosa di problemi aperti e di questioni antropologiche fondamentali di cui l’immagine tende a farsi interprete.

Per chiarire questo punto, ritorniamo al nostro caso di studio e portiamo l’attenzione sulle caratteristiche iconografiche e figurali del Compianto sul Cristo morto di Cima da Conegliano. In generale il soggetto del Compianto seleziona il momento più intensamente patetico di tutta la narrazione evangelica e mette i pittori di fronte alla difficoltà di dare forma a un’immagine capace di associare in sé la più grande disperazione e insieme la più grande speranza. Nello specifico, l’immagine che Cima realizza per i Carmini elabora la possibilità di rivolgimenti totali: l’irreversibilità della morte, ribadita dal dettaglio gestuale del braccio cadente, è associata all’idea di generatività data dalla posizione del corpo di Gesù tra le gambe della Madre (Fig. 2): una polarità morte/vita che la teologia cristiana aveva condensato nell’idea della maternità di Maria pienamente realizzata sotto la croce, come pure nell’associazione Madre-Croce in cui quest’ultima da strumento di supplizio diviene l’equivalente di un grembo che trasferisce il Cristo alla vita nuova della resurrezione (Trentini 2019b, 140-145). Sulla base di queste considerazioni e della nostra ricostruzione delle dinamiche di campo, è possibile rilevare una significativa correlazione tra il livello profondo dell’immagine, centrato su una transizionalità di cui il tema funebre è solo la “lettera”, e la tensione al mutamento di habitus di Anzolo Bendolo in bilico tra appartenenza a una comunità e identità di lignaggio. E del resto un mutamento di habitus è in atto anche per il gruppo dei frati carmelitani, per i quali l’elaborazione in immagine della transizione assumeva il valore di un’elaborazione possibile dei problemi in campo.

Non mancano le evidenze di una propensione dell’immagine a porsi in relazione con le domande e i problemi ideali emergenti nel campo. I dati d’osservazione questa volta, però, vanno rilevati non già nell’eventuale documentazione testuale circostante all’immagine ma direttamente nel testo visivo opportunamente interrogato e vagliato nelle sue strutture oggettivabili. Va in questa direzione la figura di san Giovanni evangelista vestito solo di un ampio lenzuolo bianco-azzurro. Aiuta a sciogliere le eventuali incertezze di lettura derivanti dal cattivo stato di conservazione dell’opera, il ricorso alla medesima soluzione iconografica da parte di Cima da Conegliano anche in altre opere, quali l’Incredulità di San Tommaso (National Gallery, London) e la Crocifissione (Barber Institute, Birmingham) (Fig. 3). La formula sarebbe stata perfettamente intelligibile allo spettatore storico, in virtù di una tradizione patristica che individuava nel ragazzo nudo coperto solo di un lenzuolo menzionato in Mc 14,51-52 il giovane apostolo (Beda PL92, col. 279A; Gregorius Magnus PL75, col. 1068CD; Cfr. Trentini 2019b, 145-148), e sarebbe risultata particolarmente gradita ai fautori delle riforme spirituali di fine XV secolo dopo che Ludolfo di Sassonia aveva fatto di quella figura un’immagine di purezza spirituale (Ludolph von Saxen 1522, 327). Ma il dato visuale capace di fornire la più significativa evidenza a supporto della capacità elaborativa dell’immagine entro il campo religioso va riconosciuto nella donna piangente – Maria di Cleofa, sul piano narrativo – rappresentata a destra della croce (Fig. 4), posta in evidenza nel vuoto sapientemente costruito da Cima da Conegliano tra la figura di Maria e quella del frate carmelitano, in assenza d’attributi identificabile con Angelo di Sicilia per ragioni di continuità con la precedente pala e per coerenza con il culto del santo attivato presso l’altare. Colpisce il dettaglio enciclopedico del litam, turbante caratteristico delle popolazioni arabe nordafricane, descritto da Cima con precisione etnografca. Scelta estremamente significativa se si considera che a tenere banco nel triennio 1499-1501 – dunque a ridosso della pala in esame – lasciando traccia nella coeva cultura visiva veneziana, sono le aggressioni mamelucche a carico dei mercanti veneziani, gli stessi coinvolti nel gioco sociale in atto ai Carmini (Sanudo, II, coll. 1040-1042 e Sanudo, III, coll. 96, 1526. L’episodio è discusso in Trentini 2019b, 151-155). Inevitabile dunque che il dettaglio vada a evocare l’alterità ostile degli orientali già strutturata nella semiosfera storica di riferimento. Per contro, il pianto di questa figura sotto la croce, elemento patemico che acutamente Aby Warburg riconduceva a una superiorità della memoria orgiastica sull’ordine cristiano, al momento della realizzazione del dipinto di Cima ha già conosciuto una decisa assimilazione in seno alla Devotio moderna, estremo tentativo di sublimazione dell’ormai irreversibile emersione del sostrato patetico precristiano e archetipico. Dunque, la compresenza del pianto, via di santificazione par excellence, e dell’elemento di costume che nell’immaginario veneziano qualifica il carnefice contemporaneo del corpo di Cristo attuale cioè del popolo cristiano, fa di questa donna una manifestazione figurale della dinamica di metanoia. Nel riconoscimento della polarità di questa figura, sotto i nostri occhi avviene la conversione dell’Orientale. In forza del nostro paradigma relazionale, il dato visuale si qualifica come evidenza della funzione elaborativa assolta dall’immagine nei riguardi dei problemi sollevati dai frati nel campo religioso: si ritrova una corrispondenza con il tema della “conversione dell’infedele” che i carmelitani collegavano alla inaugurazione di “tempi nuovi”, una dimensione apocalittica di cui la riforma dell’Ordine avrebbe dovuto essere segno complementare (Trentini 2019b, 156-160).

5 | L’Orientale piangente (dett. Fig. 1).

Procedendo su questa base, è possibile fornire un’interpretazione storica dell’opera d’arte che, superando ogni pretesa di rispecchiamento deterministico di temi e contenuti predefiniti dal contesto, si presenta come momento fondamentale di elaborazione simbolica di “domande/problemi” emergenti nel campo sociale decisiva per la strutturazione di un mondo perché capace di renderlo figuralmente e concettualmente abitabile. Operando dall’interno del paradigma relazionale si può trovare dunque un punto di contatto tra la sfera storico-sociale e il contenuto dell’opera d’arte nella misura in cui il tipo di problemi emerge dalla dinamica di forze in campo: nel caso che abbiamo considerato è la questione della polarità morte/vita colta nella sua valenza di archetipo di transizione. Sul piano della ricerca, la conoscenza delle dinamiche in campo consente di precisare non solo i presupposti enciclopedici e culturali – la semiosfera – entro cui storicamente si è venuto a strutturare il testo visivo considerato, ma anche le domande di senso emergenti nel campo religioso di riferimento in rapporto alle quali è stata formulata la proposta enunciata nell’opera d’arte. Ancora una volta è in questione l’evidenza, da ricercarsi infine in una corresponsione critica tra l’immagine e il complesso di problemi emergenti dall’ambiente sociale, opportunamente verificata dal principio di pertinenza.

Riferimenti bibliografici
  • Abbreviazioni archivistiche
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  • ASVe: Archivio di Stato di Venezia
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English abstract


In times of epistemological fragmentation, an effort to clarify the conditions for a firm knowledge in Art History seems to be a necessary even if ambitious goal. According to an analytical definition of evidence as a quality attributed to observational data as they verify a paradigm-based hypothesis, this contribution focuses on the choice of a socio-anthropological theoretical model and its heuristic consequences. The case study of Cima da Conegliano’s Lamentation over the dead Christ with a carmelite monk, a painting now in the Puškin Museum in Moscow, is presented here as a test for applicating to art-history research a new paradigm based on the categories of ‘habitus’ and ‘social field’ by Pierre Bourdieu. A survey on the methodological challenges of the study of the ‘religious field’, the discovery of the indexicality of historical sources, the examination of the nexus between art and history, will provide the ground for an introduction to the specific structuring of evidence under a sociogenetic view of art.

keywords | Cima da Conegliano; Chiesa dei Carmini, Venezia; Bourdieu; Art and the Religious field; Sociogenetic investigation.

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo / To cite this article: F. Trentini, L'evidenza in questione. L'arte alla prova del gioco sociale, “La Rivista di Engramma” n. 186, novembre 2021, pp. 145-163 | PDF 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2021.186.0011