"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

186 | novembre 2021

97888948401

I vestiti della principessa

Laura Dianti fra Tiziano e qualche xilografia

Lorenzo Gigante

English abstract

1 | Tiziano, Ritratto di Laura Dianti, olio su tela, 118×93 cm, Kreuzlingen, Kisters Collection (da Bentini 2004, 391).
2 | Aegidius Sadeler II, Ritratto di Laura Dianti, da Tiziano, incisione, 343×247 mm, London, British Museum.

Il giorno in cui Laura Dianti, alias Laura Boccacci, alias Laura Eustochia, alias Laura d’Este, si apprestava a posare davanti a Tiziano, non era un giorno qualunque nella sua vita. Non si trattava soltanto di avere a propria disposizione il pennello di uno dei ritrattisti più ambiti del tempo, che sarebbe stato conteso di lì a qualche anno dalla vanità di tutti i potenti, dal papa all’imperatore. Quello sconosciuto giorno, nel terzo decennio del Cinquecento, Laura compiva un passo fondamentale nella sua scalata sociale. Smessi ormai i panni di Laura Boccacci, il ritratto la eternava come Laura d’Este, accanto al suo amato Alfonso, di fatto principessa della casa regnante ferrarese (Fig. 1). Nemmeno un secolo dopo, tuttavia, quello stesso ritratto sarebbe stato usato come arma contro le ultime residue aspirazioni estensi su Ferrara. Nato o meno come ritratto ufficiale, come tale venne infatti giudicato, equiparato di fatto a un documento legale, per stabilire il ruolo sociale e politico della Dianti: principessa o amante, legittima sposa o concubina. Quasi immediatamente, alla corte imperiale, lo stesso dipinto finiva invece per rappresentare agli occhi degli spettatori tutt’altro, una esotica bellezza turca, ben lontana da ogni ufficialità. Ritrovata dopo secoli la sua identità, ricominciarono nuovamente le diatribe sul significato del ritratto: se dietro Laura vi fosse l’ombra della cortigiana, della compagna illegittima o della principessa. Lo stesso ritratto, il medesimo dipinto, eppure ogni volta un’immagine diversa. Una, nessuna o centomila Dianti: sono i molti occhi e i molti sguardi differenti che si sono posati nella sua storia sul dipinto che autorizzano, tacitamente, un’ulteriore lettura del ritratto, constatando l’ennesima sfumatura di un dipinto tanto complesso quanto il personaggio che ritrae.

Per comprendere quale funzione avesse il ritratto di Laura Dianti nella costruzione del suo ruolo sociale, è necessario ripercorrere brevemente la sua vita (per eventuali approfondimenti si rimanda a Marchesi 2015, 22-77, con ampia bibliografia). La sua data di nascita, probabilmente da porsi tra il 1505 e il 1509 (Marchesi 2015, 38), è sconosciuta. Le sue stesse origini sono avvolte dalle nebbie padane: non nacque infatti come Laura Dianti, ma fu Laura Boccacci, un cognome che in seguito dovette abbandonare per ragioni di opportunità di corte, vista la spiacevole omonimia con uno dei protagonisti di una congiura antiestense di pochi anni prima (Marchesi 2015, 28-32). Era ancora Laura Boccacci nella prima metà degli anni Venti, quando per lei, figlia di un “povero, et bassissimo artefice” (Giovio 1553, 200) dedito alla fabbricazione di berrette, la sorte sarebbe radicalmente cambiata. La sua condizione ci viene raccontata da una testimonianza di un secolo dopo, quella di Nicolò di Francesco Carrara, raccolta l’anno 1615 nell’ambito di una sorta di dossier relativo alle presunte nozze di Laura con il duca estense, documento conservato all’Archivio di Stato di Modena (ASMo) e recentemente reso noto da Andrea Marchesi:

Quanto al contenuto del capitolo lettomi, io dirò per verità quello che so, et è che veramente io ho conosciuto l’articolata Illustrissima et Eccellentissima Signora Laura Eustocchia Dianti d’Este mentre vivea, ch’era una matrona e Signora molto garbata e compita e mi ricordo d’aver sentito dir a meser Francesco mio padre e a meser Battista e meser Pasino miei zii, figlioli tutti del già meser Giovan Maria Carrara che la detta Signora Laura era una bellissima figlia quando era da marito e ch’era molto onesta e modesta e perché il padre de detta Signora Laura ch’era berettaro, cioè che facea fare de quelle berrette all’agucchia che anticamente si portavano di lana e si chiamavano berette di panno (e ne ho portate anch’io) stava per istanza e facea lavorare in una stanza a terreno sotto la casa medesima dell’abitazione del sudetto meser Giovan Maria mio avo paterno, la quale stanza il detto berrettaro la tenea ad affitto da Battista Fontana, et ivi insegnava a molte fanciulle il fare le dette berrette, perciò n’avevano il detto mio avo e padre e zii buona notizia (ASMo, CeS, b. 396, fascicolo 2046.VI/2, cc. 31-34, riportato e trascritto in Marchesi 2015, 36-37).

Umile berrettaia, dunque, la sorte per lei cambiò repentinamente con l’arrivo di un cavaliere mascherato, come in una specie di strana favola. Prosegue infatti il racconto del teste:

e ho sentito narrar più e più volte da detti miei padre e zii come la sudetta Signora Laura avea avuta così buona fortuna di deventar moglie del duca Alfonso primo, dicendo che un anno in tempo di carnevale un tale detto il Coglia famigliare del Signor Duca Alfonso primo sudetto essendo passato in maschera per quella contrada si fermò dove erano le sudette fanciulle che lavoravano di berette, fra le quali era la signora Laura sopranominata, e che il detto Coglia la stimò tale che dovesse piacere al Signor Duca Alfonso, al quale ne diè poi informazione e gliela fece vedere e che detto Signor Duca se n’innamorò, essendo allora senza moglie e anche desideroso di guarire del mal francese, se pur l’avesse come si dubitava, nel qual caso si dicea ch’era esortato a procurare d’aver una vergine, e che un giorno il detto Signor Duca in maschera pur venne a detta stanza dove erano le dette figlie e la signora Laura, appresso la qual si pose a sedere con quella libertà che sogliono usar i maschi, et il Coglia avea parlato già a mio messere dicendogli che la Signora Laura sarebbe buona per il Signor Duca Alfonso e che se a lui fosse dato l’animo d’averla da suo padre, egli l’avrebbe tolta volentieri e mio messere gli rispose che era figlia da bene nata di buon padre e di buona madre oneste persone e ch’egli non gliene parlerebbe quando non volesse sposarla. Ma il Coglia diceva che parlerebbe col duca Alfonso si come fece onde il Signor Duca Alfonso venuto in maschera in casa di mio messere guidato dal detto Coglia parlò col detto mio messere esortandolo a fargli avere la detta Signora Laura da suo padre e rispondendogli mio messere l’istesso che aveva detto al Coglia, il duca replicò che non la volea sposare all’ora, ma che ben la sposerebbe. Onde mio messere fece chiamare in casa sua il padre della detta Signora Laura e prima di nominargli il Duca il ricercò di dar sua figliola a quel mascaro, a che rispose che quando sapesse chi fosse e che la volesse sposare, gliela darebbe e mio messere voltato al maschero, ch’era il signor duca Alfonso, gli disse tu senti maschera et allora il Signor Duca Alfonso alzatasi la maschera gli disse prometto di sposarla, ma non adesso. E il padre all’ora conosciutolo per il duca Alfonso disse quando Giovan Maria qui ne prometta che mia figlia sarà sposata da voi, vela darò e il Signor Duca gli tornò a replicare ti prometto di sposarla, ma non adesso e subito il Signor Duca volse che la detta figlia fosse condotta in casa nostra tanto che fosse vestita e accomodata, e se la fece poi condurre dove gli piacque e al padre fatto dar carta e calamaro fece un mandato di 3 mila scudi e mandò al banco de Zaninelli che glieli dessero e gli disse che lasciasse star di lavorare di berette, ch’egli gli darebbe il modo di vivere. (ASMo, CeS, b. 396, fascicolo 2046.VI/2, cc. 31-34, riportato e trascritto in Marchesi 2015, 36-37).

Considerato il fine della deposizione, non deve sorprendere l’insistenza verso la promessa matrimoniale del duca. Con l’estinzione del ramo legittimo di casa d’Este, il marchesato di Ferrara era tornato nei domini papali, attraverso la famosa devoluzione del 1598. Morto infatti l’anno prima senza figli maschi l’ultimo regnante Alfonso II, il rinnovo dell’investitura ottenuto da suo padre Ercole II per la sua sola linea legittima (con la sottintesa volontà di escludere proprio i fratellastri generati dalla Dianti) si interrompeva, sancendo la fine della successione dinastica ufficiale. Un evento drammatico mai del tutto digerito dagli Estensi, le cui ultime speranze di rivalersi di qualche diritto sulla città poggiavano sulla dimostrazione dell’avvenuto matrimonio tra il duca e la Dianti, con la conseguente legittimazione della loro stirpe. La storia tra la berrettaia e il duca infatti continuò e diede anche frutti, come racconta a distanza di qualche decennio Paolo Giovio:

Imperocché, oltre è i cinque figliuoli che egli aveva avuti di Lucrezia Borgia sua Donna, ne aveva ancor due altri maschi d’una sua amica chiamata Laura, la quale, poi che ruppe la continenza, che per essere egli molto robusto et atto al generare, gli era ancora nociva, et molesta, aveva egli impetrata et ottenuto vergine con buona grazia dal padre di quella, povero, et bassissimo artefice, a questo fine massimamente, che giudicava non esser cosa onesta, né sicura per lui macchiare con gli stupri et con adulterij le famiglie onorate de’ cittadini. Questa poi finalmente, come quella che per gli onesti costumi suoi, per la dignità della presenza et per esser molto generativa, corrispondeva maravigliosamente all’animo suo, tenne egli come sua Donna, et ebbene due figliuoli maschi, chiamati amendue da il suo nome Alfonsi (Giovio 1553, 199-200).

Matrimonio o meno, il legame tra il vigoroso duca fresco di vedovanza e la sua Laura catapultò quest’ultima tra i fasti della corte, con il nuovo appellativo di Laura Dianti o Laura Eustochia, “colei che colpisce nel segno” (Marchesi 2015, 29-30), ma soprattutto in quanto Laura d’Este, nuova principessa (o almeno facente funzione) della città e del talamo ducale.

Al nuovo status doveva corrispondere un nuovo stile di vita, e il duca prontamente mise a disposizione alla fanciulla tutto il necessario: dal titolo nobiliare all’abitazione, dalle gioie alle vesti – doni confermati alla fanciulla attraverso un motu proprio del 1531, in cui si dà a lei piena proprietà su:

3 | Tiziano (copia da), Ritratto di Alfonso I d’Este, olio su tela, 127×98,4 cm, New York, Metropolitan Museum of Art.

[…] Diversi pezi de argento, zoglie, cose preciose e più e diversi altri beni mobili li quali se ritrovano presso de vui, e pensamo de prosegre (sic) in farvi simili e altri doni. Deliberamo occorere a li dubi che sopra ciò potesseno nascere. Per tanto per questa nostra quale sarà soprascritta di nostra propria mano e quale volemo habij forza de publico instromento e privilegio rendiamo testimonianza e dicemo, dichiaremo e volemo che tutti gli argenti, zoglie, cose preciose, veste e ogni bene mobile che se ritrovi presso di vui sii pur di che valor si voglia esser etiam notabile e notabilissimo sono vostri e ad vui pienamente spettano, e per nui vi sono stati irrevocabilmente donati e transferiti e dove sia necessario un'altra volta vi donamo e transferiamo e similmente tutto quello che per lo advenire vi sarà per nui o altri in nome nostro dato e che se ritrovarà presso di vui, o, in vostra podestà al tempo de la nostra morte sii pur di che preciosità, valore et estimazione voglia esser, etiam che se potesse dire non ad vostro ma ad nostro uso o per altra causa fatto […] (ASMo, CeS, b. 394, sottofascicolo 2046.I/5, Recapiti relativi a Laura Eustochia Dianti, citato e trascritto in Marchesi 2015, 40-41).

Posare davanti a Tiziano significava, a questo punto, eternare il nuovo status, tanto più considerato che il dipinto sembra nascere in coppia con il ritratto del consorte di fatto, il duca Alfonso I. Il suo ritratto, oggi perduto ma noto attraverso la copia del Metropolitan Museum of Art di New York (già ritenuta autografa, poi assegnata a un copista nordico o a Rubens: Wethey 1971, 93-94) lo presenta appoggiato a una bocca da fuoco come quelle che amava fabbricare, immagine delle sue passioni ma anche della sua potenza militare (e sessuale?) (Fig. 3). L’accostamento dei due ritratti (già presente nella descrizione che ne fa il Vasari: Vasari 1568, III, 809) porta a pensare l’effige di Laura Dianti come un ritratto ufficiale (Jenkins 1977 [1947], citato in Castelnuovo 2006, 31), benché, come giustamente nota Marchesi (Marchesi 2015, 59), esso travalichi le tre “categorie” di ritratti femminili tizianeschi: la prima dove la nobile apparirà “bella, devota, casta, ed elegante”, la seconda per “donne attraenti, amanti e cortigiane”, o il ritratto di fantasia, per “bellezze anonime, succintamente abbigliate, basate su un modello” (Fletcher 2006, 38). Un ritratto al limite, pur ponendosi comunque nell’alveo della coeva trattatistica sul ritratto “d’elite” cinquecentesco (Rogers 1988, 51, citato in Bestor 2003, 634-635).

Forse proprio per questa sua ambiguità, il ritratto di Laura Dianti, definito “opera stupenda” da Vasari, correttamente individuato come “ritratto della signora Laura […] poi moglie di quel duca” (Vasari 1568, III, 809), perse rapidamente la sua identità. Il nipote dell’effigiata, Cesare d’Este, ne fece dono diplomatico a Rodolfo II d’Asburgo, nella cui galleria praghese il dipinto divenne, negli inventari del 1599 e 1621 “Eine Türkin mit einem kleinem Mor [una Turca con un piccolo Moro]”. La fama del quadro, nel frattempo, era propagandata dall’incisione di Aegidius Sadeler (Fig. 2), e dalla menzione di Ridolfi (sia del dipinto che dell’incisione, con il curioso equivoco di citare un ritratto “in nero”: “Volle parimente il Duca esser ritratto con Madama la Duchessa, la qual fece Tiziano con rarissimi abbeglimenti in capo, di veli e di gemme, in veste di veluto nero con maniche trinciate, divisate da molti groppi; che con maestoso portamento teneva la manca mano appoggiata alle spalle d’un Paggetto Etiope, che si vede in istampa di rame da Egidio Sadeller, rarissimo in tale prattica”, Ridolfi 1648, 144). Sulla scia di tanta considerazione, iniziò poi per il ritratto il consueto pellegrinaggio delle opere d’arte attraverso alcune delle collezioni più celebri dell’epoca: dal 1648 nelle collezioni di Cristina di Svezia, con lei a Roma dal 1654, poi al cardinale Azzolini, al principe Odescalchi, che lo cederà a Filippo d’Orleans nel 1721, poi al banchiere Walkner dopo la rivoluzione, per finire, dopo altri passaggi in collezioni private, a sir Francis Cook che lo acquistò il 15 gennaio 1876 (Justi 1899, 188-189; Cook 1905, 449).

Fu allora, mentre si trovava a Richmond, nel Surrey, che il quadro ritrovò appieno la sua identità, tornando a essere il ritratto originale, autografo, di Laura Dianti citato da Vasari (Cook 1905). Poco prima, a opera di Carl Justi (che supponeva già, pur senza spingersi fino all’identificazione precisa, che il ritratto Cook potesse essere l’autografo: Justi 1899, 189), era avvenuto anche il riconoscimento dell’opera con il ritratto citato dalla Camera Apostolica in un feroce contrattacco alle richieste di successione estensi su Ferrara: un ritratto che mostrava Laura come una donna “non in habito di Principessa come si vedono l'altre signore di Casa da Este ma più tosto in habito di donna lasciva” (Justi 1899, 185; Bestor 2003, 628). Parallelamente, così, si apriva un nuovo fronte di indagine: dall’identificazione di Laura alla rappresentazione di Laura, attraverso i diversi sguardi critici puntati sul ritratto tizianesco, in gran parte recentemente sistematizzati da Marchesi (Marchesi 2015, 59-70).

Già Crowe e Cavalcaselle potevano leggere nel dipinto il ritratto di una principessa, considerata l’esibizione di status e ricchezza, dal paggetto nero alle vesti e i nastri in seta, fino al diadema gemmato (Crowe, Cavalcaselle 1877, 154-158). Pure, ciò non impediva ad altri studiosi, anche in tempi recenti, di leggere alcuni dettagli del ritratto in maniera a volte contraddittoria, a volte bizzarra, a volte eversiva. È il caso di Lynne Lawner che, ad esempio, accenna fugacemente a una lettura del velo giallo che attraversa la figura come allusione a un torbido passato di Laura come cortigiana (Lawner 1988, 118), o della carica sensuale della Laura tizianesca, capace di rovesciare l’azzurro mariano della sua camora facendo del proprio eros virtù (Woods Marsden 2003, 64), o ancora dei presunti abiti turcheschi della principessa proposti da Elizabeth McGrath (McGrath 2002, 94, nota 76). Questa concessione a una moda definita dalla studiosa “Eastern or Turkish” è difesa anche da Allison Burgess Williams appellandosi a una quartina dell’edizione del 1536 dell’Orlando Furioso, in cui una “Barbara Turca” si accompagna a Laura (Burgess Williams 2005, 140). Come nota giustamente Marchesi, tuttavia, questa Barbara non è, con ogni probabilità, turca in senso di ottomana, quanto per via di patronimico, essendo nobildonna del casato dei Turchi di Correggio (Marchesi 2015, 62. Il legame tra il ritratto e la quartina di Ariosto è ripreso in maniera più sfumata in Engel 2019, 9).

Al netto di alcune interpretazioni che sfociano nell’aneddotica, facendo di Laura un personaggio da romanzo d’appendice ottocentesco, la varietà di visioni possibili intorno al ritratto della Dianti centra il punto sull’importanza del ritratto stesso, commissionato al più richiesto pittore dell’epoca. Un dispositivo che non poteva (e non doveva) essere una rappresentazione neutra, destinata unicamente a tramandare le fattezze dell’effigiata, quanto piuttosto a raffigurarne il rango, lo status e il ruolo sociale. Paradossalmente, proprio il ritratto tizianesco fini con l’essere così addotto dalla Camera Apostolica a prova del mancato matrimonio di Laura e Alfonso, e dunque della legittimità della loro stirpe e delle loro residue ambizioni su Ferrara (Justi 1899, 195; Bestor, 628-629). A Roma l’aspetto di Laura veniva letto, in maniera piuttosto tendenziosa, come quello di una “donna lasciva”, ignorandone il contesto, l’autore e il suo prestigio, così come l’associazione al ritratto del Duca, nonché lo sfarzo e i dettagli che pittore e committente misero in scena. Piuttosto, dunque, Laura come principessa estense, immagine di un potere conquistato accanto – e grazie – al suo Alfonso. L’esibizione di sfarzo e ricchezza è allora funzionale a essere immagine della corte stessa e del ruolo della Dianti in essa, moglie, amante o compagna che fosse, nonché madre dei figli del Duca. Ogni dettaglio ha, molto prosaicamente, il compito di concorrere a questa rappresentazione, avvalendosi il più delle volte di un doppio registro: la fedele rappresentazione di oggetti di arte suntuaria e il loro annesso corredo simbolico (quest’ultimo in gran parte sistematizzato in Marchesi 2015, 64-70). Non soltanto, dunque, parerghi alla raffigurazione della principessa estense.

Innanzitutto, il paggetto nero, forse il dettaglio che più ha attirato l’attenzione della critica, probabilmente il primo personaggio del genere a comparire, come comprimario, in un ritratto rinascimentale (Kaplan 1982, 12; Bestor 2003, 647-652; Engel 2019, 10-16). Personaggio verosimilmente reale della corte estense, che non diversamente da altre apprezzava e si circondava di queste comparse esotiche, ma allo stesso tempo potenziale riferimento al nome scelto dalla principessa, Eustochia, derivato da una seguace di san Girolamo destinataria di una lettera che fa riferimento agli etiopi come rappresentazione dell’umanità prima della redenzione, in attesa di passare dal colore scuro della pelle a un più apprezzato e metaforico candore (Bestor 2003, 655-659). Non solo metaforico, ma anche fisico: il piccolo servitore dalla pelle nera adempie infatti a un’ulteriore funzione, evidenziando il biancore della pelle della Dianti, tra le caratteristiche più necessarie e stimate in una bellezza dell’epoca, immagine e simbolo di un preteso candore virtuoso (Woods Marsden 2007, 59-61).

Ancora, il vezzo di perle che adorna la complessa acconciatura di Laura. Sicuramente da considerarsi fra le “zoglie” e “cose preciose” donate dal duca, citate sia nei donativi che in altre fonti dell’epoca (Woods Marsden 2007, 58), ma anche oggetto dalla complessa stratificazione allegorica. Si va dall’associazione alla luna della perla, favorevole nelle circostanze del parto e auspicio di perfezione (Marchesi 2015, 65-66); alla forma del gioiello stesso, che ricorda la stella cometa concessa come divisa dal Duca alla Dianti, con tutto il corredo simbolico che ne consegue: richiami religiosi, o più specificamente mariani (la stella apparsa ai Magi, Maria Stella Maris, le raffigurazioni nelle icone bizantine: Bestor 2003, 659-661; Marchesi 2015, 66-67; Engel 2019, 22); o umanistici come quelli cantati anche dai poeti della corte estense (Marchesi 2015, 66-67). La poesia di corte, d’altra parte, aveva già cantato l’immagine della stella per altre amanti ducali nobilitate in modo analogo, come Stella dell’Assassino compagna di Borso d’Este (Bestor 2003, 665-666).

Poi i guanti, oggetto di moda e simbolo di lealtà, nonché armi di seduzione, capaci di alludere al candore della pelle sottostante in una sorta di promessa al riguardante (Bestor 2003, 668; Woods Marsden 2007, 63; Marchesi 2015, 67-68; sull’uso dei guanti nelle corti, Welch 2009, 260-262). Ancora, le mani decorate dagli anelli e la loro posizione, indice di confidenza verso il paggetto l’una, di aspirazioni di fecondità l’altra. Quest’ultima si ferma in una posizione rapportata da Marchesi al gesto, così frequente nei ritratti nuziali veneziani, indicato da Augusto Gentili come allusivo al taglio del cinto virginale, premessa/promessa al matrimonio (Gentili 1995, 97 e Gentili 2010, 21, citati in Marchesi 2015, 68-70). Gesto che, inoltre, sottolinea ulteriormente il legame con il ritratto dell’amato Alfonso, che lo ripete specularmente nella copia del Metropolitan (Castelnuovo 2006, 31).

Se pure la raffigurazione di Laura, dunque, è in tutto e per tutto quella di una ricca dama dell’epoca, non manca nel ritratto una certa qual aura di stranezza, di esotica curiosità, di malcelata sensualità, che forse permea più gli occhi degli spettatori moderni che quelli dei contemporanei, al di là del fazioso giudizio della Camera Apostolica. Già Justi percepiva nel ritratto un che di strano, che stacca decisamente quello della Dianti dai ritratti ben più compassati delle sue contemporanee (Justi 1899, 190), anche se ogni suo aspetto, in fondo, rientra nei codici del “decoro” del ritratto cinquecentesco (come puntualizzato da Jane Fair Bestor: Bestor 2003), o nell’esaltazione della virtù di Laura (secondo la lettura di Woods Marsden 2007).

Recentemente, invece, è ancora l’esotismo la chiave di lettura per l’interpretazione di Sabine Engel, in cui ogni dettaglio, letto alla luce dell’appropriazione di elementi orientali, in particolar modo turcheschi, concorre a formare l’immagine di una Dianti “eccentrica”, dove l’esotismo suggerisce origini lontane, diverse, per colei che non poteva effettivamente vantare una linea di sangue all’altezza delle altre principesse, estensi e non (Engel 2018, Engel 2019). Oltre all’ovvio accostamento con il paggetto di colore, anche il balzo o capigliara, acconciatura alla moda dell’epoca, può richiamare allora un turbante (Engel 2019, 22: eppure, nonostante oggi si consideri plausibile per il balzo una possibile origine orientale (Gnignera 2010, 26), già il Vecellio (Vecellio 1590, I, 96) riconosceva il balzo come acconciatura tipicamente italiana), il gioiello che lo decora ricorda gioielli analoghi che si apponevano sui copricapi turchi, i sorguç fabbricati anche a Venezia per l’esportazione (Engel 2019, 20-22), e persino il colore azzurro della veste, turchino, può suggerire una velata allusione all’oriente turco (Engel 2019, 19). Come già notava Marchesi, l’accostamento al turco non doveva tuttavia essere visto troppo di buon occhio nella Ferrara di quei tempi (Marchesi 2015, 61). Inoltre, se per Laura Dianti questi accostamenti significassero davvero l’associazione all’esotico al fine di riscattarne l’origine non del tutto rispettabile, ne deriverebbe l’implicita possibilità di applicare lo stesso metodo di lettura ad altri ritratti analoghi: donne che però non necessitavano certo dello stesso trattamento nobilitante della Dianti, dati i loro giusti natali: un esempio su tutti, quello del ritratto del Parmigianino, noto anch’esso non a caso come Schiava turca, ma presumibilmente raffigurante Veronica Gambara, citato dalla stessa Engel (Engel 2019, 16). Al netto dei problemi che questa lettura pone, risulta però di grande interesse la capacità dell’immagine della Dianti di adattarsi a differenti contesti e chiavi di lettura, come emerge dal vasto repertorio di travestimenti iconografici (e conseguentemente: semiotici) a cui il ritratto tizianesco può prestarsi nelle sue copie dipinte, puntualmente analizzati ancora dalla Engel: Laura come santa, Laura come eroina biblica, ma anche, in un rovesciamento paradossale, Laura come adultera peccatrice (Engel 2019, 25-28).

Così, di fatto, la raffigurazione orchestrata da Tiziano per Laura sembra in grado non solo di sopportare, ma piuttosto di supportare le più diverse interpretazioni, come un dispositivo caleidoscopico capace di racchiudere in sé le mille sfaccettature del personaggio. A questo punto, ogni nuovo sguardo a questo singolare congegno può restituire un nuovo significato possibile, ulteriore e inedito, che andrà a sovrapporsi e integrarsi alle precedenti letture, senza necessariamente negarle.

La nuova lente da sovrapporre al nostro occhio sarà un fondo poco più che inedito di materiali che, apparentemente, poco hanno a che fare con Tiziano e con la principessa estense, utili però ad aprire una nuova prospettiva sul ritratto tizianesco e sulle meditate scelte della committenza attorno a esso. La chiave per riprendere in mano il ritratto di Laura Dianti e la sua genesi si trova in una serie di documenti dell’Archivio di Stato di Ravenna, relativi ad alcune magistrature della Legazione di Romagna, in cui a rotazione i notai locali, negli anni intorno alla metà del Cinquecento, registravano quotidianamente l’attività della Cancelleria Civile nei Libri d’Atti (Casadio 2006, in particolare 332-336). L’aspetto più rilevante non si trova tuttavia nei documenti stessi o nel loro contenuto, quanto piuttosto nel contenitore: i vari fascicoli su cui i notai annotavano erano infatti rilegati con fogli di reimpiego, che riportano, in moltissimi casi, xilografie di carattere commerciale. Chi scrive sta attualmente lavorando su questo gruppo di immagini, salvatosi quasi per caso, già oggetto nel 2006 di una prima ricognizione a opera di Andrea Donati (Donati 2006). Se la funzione originaria è ancora da definire con certezza, almeno per talune immagini è sicura la relazione con alcune categorie di merci e con luoghi geografici. Mercanti diversi, tra cui tintori e berrettai, ma anche profumieri, si autorappresentano in queste xilografie attraverso immagini, simboli, scritte, adottando un vocabolario visivo che spazia da quello dell’araldica a quello, più complesso e sottile, del mondo delle imprese. All’interno di un universo di oltre 200 xilografie, ci si concentrerà qui soltanto su alcune di queste immagini, scelte tra quelle che dichiarano esplicitamente il loro luogo di origine e l’attività dei mercanti dietro a esse: la Ferrara estense, innanzitutto, e i suoi tintori e fabbricanti di berrette.

4 | Marca di anonimo fabbricante di berrette, xilografia, 242×245 mm (parte incisa), Ravenna, Archivio di Stato.

In alcune di queste xilografie, come già accennato, i mercanti scelgono di dichiarare le proprie attività produttive. Tra i più espliciti sotto questo aspetto sono le due categorie sopra citate, che in almeno un paio di casi adottano una strategia comunicativa di sorprendente audacia e modernità. Adottano infatti, o per meglio dire si impossessano, quasi rubano, imprese ben note all’immaginario visivo dell’epoca, sfruttandone la fama e piegandone il significato al proprio fine. Se l’impresa è costituita da una parte figurata e una scritta, le quali si compenetrano e si illuminano a vicenda definendo il significato dell’insieme, al fine di una dichiarazione di intenti o della rappresentazione di chi l’impresa adottava (Centanni 2020), in questi casi il gioco viene vòlto verso qualcosa che ha molto più in comune con l’odierna pubblicità che con l’immagine che una persona voleva dare al mondo di sé. La parte scritta diviene così un vero e proprio slogan in rima che esalta le qualità del prodotto citato, in una sorta di surreale “carosello” cinquecentesco.

È il caso, ad esempio, di un mercante anonimo, che adottando l’impresa di Carlo V delle colonne d’Ercole, sostituisce al motto “plus ultra”, l’andare oltre di erculea memoria, allusivo tanto all’ambizione del sovrano quanto al suo impero esteso oltre i confini mediterranei, un cartiglio che così recita: “BERETE FERARESE TINTE DE / GUADO ‧ FATE DE BONA FACIO[NE] / CHI LE PORTARA SE NE CONTETARA” (Donati 2006, 358, num. 7) (Fig.4). Se l’associazione all’impresa imperiale è ribadita e sottolineata anche dall’aquila bicipite coronata che campeggia tra le colonne, è chiaro che qui il significato originale è stravolto, alludendo piuttosto ad una qualità tale da essere degna dell’imperatore che all’essere effettivamente fornitori della casa imperiale.

5 | Marca di fabbricante di berrette AV, xilografia, 230×230 mm (parte incisa), Ravenna, Archivio di Stato.
6 | Marca di Gian Giacomo de’ Gombi, xilografia, 280×280 mm (parte incisa), Ravenna, Archivio di Stato.

Mira meno in alto, ma comunque a un immaginario visivo altrettanto celebre ed eloquente, un altro mercante di cui conosciamo soltanto le iniziali, AV, che sormontate da una croce costituiscono il suo marchio (Donati 2006, 359, num. 10) (Fig. 5). Questa volta, a essere “saccheggiata” è la marca tipografica dell’impresa editoriale veneziana dei Sessa, la gatta con in bocca il topo, sinonimo di qualità in campo librario (Svoljšak, Kocjan 2016; Zappella 1986, I, 188-189; II, figg. 586-604; sulle marche tipografiche v. Nuovo 2013, 143-194, soprattutto 149, nota 13 sulla fama del marchio dei Sessa). Al motto “Dissimilius infida societas” che si accompagna all’insegna della bottega veneziana si sostituisce, come nell’esempio precedente, lo slogan del mercante: “BERETE ‧ FINE ‧ ARETI ‧ DAME ‧ / EBONA ‧ FACIONE ‧ ECOLOR / FATO ‧ CON GRANDE ‧ RA / GIONE ‧ DA ‧ STAR ‧ IN ‧ LI / ALTRI ‧ SEMPER ‧ AL ‧ PALAGON”. Se il primo stato della matrice, reimpiegato in un fascicolo del 1555, non indica di quale “COLOR” si tratti, una modifica successiva della matrice, attestata dal 1556 in avanti, specifica, accanto al marchio, trattarsi di “TENTE D GVADO”. Di nuovo, la garanzia di qualità offerta dall’assonanza visiva con i Sessa si estende, implicitamente, alle berrette a rete ferraresi prodotte dall’anonimo AV.

Fra le merci dichiarate nelle xilografie, la tintura a base di guado sembra essere una tra le più trattate. È tintore anche Gian Giacomo de’ Gombi, ferrarese, protagonista di più di una xilografia del fondo ravennate (Donati 2006, 358-359). In alcune immagini sceglie di presentarsi semplicemente con il nome e il marchio, in un altro caso opta invece per una soluzione più raffinata, anche se non innovativa come i due casi sopra citati. Non adotta infatti uno slogan, ma al suo nome e alla sua merce, “TINTE DE GUADO”, associa l’immagine del pavone (Donati 2006, 358-359, num. 8) (Fig. 6). Da un lato, c’è l’ovvio accostamento al tema del colore e, dunque, alla tintura, ma dall’altro vi è anche un’altra, più sottile, allusione dovuta all’associazione al pavone come simbolo di eternità, per la presunta immarcescibilità delle sue carni (Réau 1983 [1955], I, 83). L’eternità simboleggiata dal pavone si estende allora anche alla tenuta delle tinte dei Gombi, e l’immagine, ragionevolmente insegna della sua bottega, diviene garanzia di qualità.

Al di là delle strategie comunicative che ogni mercante sceglie per sé e per la sua impresa (nella duplice accezione del termine), è interessante notare quali merci commerciassero, e dove avesse sede la loro attività. I casi sopra citati, che non esauriscono certo il ricco insieme ravennate, riguardano infatti fabbricanti di berrette e tintori di guado, il cui luogo di provenienza è, dichiaratamente, la città di Ferrara. Gli anni in cui queste stampe vengono reimpiegate coprono tutta la seconda metà del Cinquecento, ed è ragionevole supporre che il reimpiego non avvenisse a grande distanza temporale dalla produzione delle carte stesse. Sono ancora, in parte, gli stessi anni in cui la Dianti tiene corte in città, anche se qualche decennio è passato rispetto alla sua ascesa immortalata da Tiziano. Tuttavia, è facile immaginare che parecchie di queste attività economiche, benché magari operate da nomi e botteghe diverse, fossero presenti in città da tempo, avendo raggiunto nel frattempo quell’autocoscienza che gli permise di costruirsi un linguaggio visuale che richiamava quello in voga presso la corte estense (sull’uso delle imprese presso la corte di Ferrara: Di Pietro Lombardi 1997, Di Pietro Lombardi 2004 e soprattutto la recente e completa tesi di dottorato di Galvani 2009). E proprio alla corte estense, allora, si può tornare sulla traccia delle loro attività. O meglio, queste attività ci riconducono alla rappresentazione di sé stessa che dà uno specifico membro di quella corte, la stessa Laura Dianti.

L’Isatis tinctoria, nota comunemente come guado, contiene una sostanza dal forte potere colorante, l’indigotina (Cantoni 1855, I, 93-94; Lepetit 1905, 149), nota fin dall’antichità ma utilizzata prevalentemente in Europa a partire dal XIII secolo (Pastoreau 2008, 17-18 e 69-71). Il suo utilizzo generò immense fortune a produttori e commercianti per almeno quattro secoli, fino a quando lo sviluppo dei commerci non rese più economica l’importazione dell’indaco, altra pianta dalle note proprietà coloranti proveniente dall’Asia o dall’Africa, il cui potere tintorio è di gran lunga maggiore, così come la stabilità della tinta (Pastoreau 2008, 150-156). Nella Ferrara del Cinquecento, tuttavia, la tintura di guado godeva ancora di un notevole prestigio, come ribadiscono le xilografie ravennati (per la coltivazione del guado in Italia v. Borlandi 1950; per la vicina Romagna: Dal Pane 1932, 10-14; Bolognesi 2003, 145-148; Turchini 2003, 254 e 260). I mercanti propagandano infatti, assieme alla loro attività, la bellezza e la tenuta del colore ottenuto dal proprio guado: un blu azzurro esattamente come quello che indossa, orgogliosamente, Laura Dianti ritratta da Tiziano. Non solo dunque il blu simbolico, lieto e allegro, simbolo mariano, d’amore, o di “pensiero elevato” a seconda delle fonti (Woods-Marsden 2007, 57; Engel 2019, 20), ma anche un blu fisico, reale, prodotto delle industrie ferraresi del tempo.

La stessa Laura esibisce nel ritratto una ricchissima acconciatura, nota come capigliara, sorta di evoluzione del balzo, spesso in passato equivocata per un turbante (si pensi alla cosiddetta Schiava turca di Parmigianino, o alla stessa Dianti citata negli inventari imperiali secenteschi) (Gnignera 2010, 15-33 per il balzo, 51-55 per la capigliara). Elemento di gran moda introdotto da Isabella d’Este (Venturelli 2003, 105), si componeva di un intreccio di capelli e nastri, spesso contenuto da una rete in stoffe o filati preziosi. Non è affatto scontato che le berrete a reti pubblicizzate dai mercanti attraverso le loro xilografie facciano riferimento esattamente a questo, ma la genealogia della Dianti, quando ancora era Laura Boccacci, era legata a doppio filo a quel mondo, da cui provenivano lei stessa e il padre “berettaro, cioè che facea fare de quelle berrette all’agucchia che anticamente si portavano di lana e si chiamavano berette di panno” (ASMo, CeS, b. 396, fascicolo 2046.VI/2, cc. 31-34, trascritto e riportato in Marchesi 2015, 36-37): di nuovo, si intrecciano simbolo e realtà: i legami, politici sociali e familiari, segnati dall’acconciatura alla moda (Welch 2009, 243-260), e le contemporanee manifatture locali.

Ora, è improbabile che, all’apice del suo personale cursus honorum, Laura Dianti scegliesse di farsi ritrarre da Tiziano in relazione a quella che era la sua umile provenienza, tra tintori e berrettai, e non a caso le sue vesti richiamano piuttosto i donativi del principe che, come visto, comprendevano anche “zoglie, cose preciose, veste” (ASMo, CeS, b. 394, sottofascicolo 2046.I/5, Recapiti relativi a Laura Eustochia Dianti, citato e trascritto in Marchesi 2015, 40-41). Così come è possibile che la sua veste fosse tinta con il ben più prezioso indaco, anziché con il più comune guado (ma è curioso che per realizzarla nel dipinto sia stata utilizzata azzurrite, in luogo del più costoso blu oltremarino: Bestor 2003, 644, nota 56). Ciò che comunque conta è l’esibizione del lusso, lasciando magari spazio a una certa ambiguità: chi avesse voluto, poteva vedere una preziosa tintura importata, ma è decisamente tentante l’ipotesi di leggere nel ritratto di Laura - un ritratto ufficiale in veste di principessa estense in pectore, e dunque di signora di Ferrara di fatto - anche l’immagine, se non di quella stessa città, almeno del meglio della sua economia suntuaria. O quantomeno, senza dover per forza scomodare per lei un ruolo quasi da influencer ante litteram (che forse più si addice a un’altra estense, la cognata in pectore Isabella), vedere in lei anche una donna consapevole e contemporanea, vestita secondo i gusti e le possibilità dei suoi tempi e, soprattutto, dei suoi luoghi.

Si tratta di ipotesi non dimostrabili, che pure non hanno nessuna pretesa di sostituirsi a quanto già detto intorno al ritratto di Laura Dianti. Il ritratto, del resto, è un dispositivo complesso, che ben si presta (come d’altronde in generale l’opera d’arte) a molteplici interpretazioni, senza necessariamente cadere in contraddizione con sé stesso. Così, l’azzurro potrà essere una velata allusione alla purezza mariana, pur rappresentando il meglio dell’artigianato di lusso ferrarese, o il balzo legarla alla sua città, alle sue origini, ma anche alla sua nuova famiglia, raccogliendo l’eredità modaiola di un’altra estense come Isabella, sorella di Alfonso e marchesa di Mantova (sull’uso politico della moda e delle acconciature come esplicitazione di rapporti, alleanze e parentele v. Welch 2009, 256-260).

Non vi è, al momento, prova diretta di queste supposizioni. Prova che magari attende di essere ritrovata tra le carte relative alla Dianti conservate nell’Archivio Estense di Modena (gli inventari dei guardaroba, tuttavia, privilegiano spesso la biancheria alle testimonianze di abiti femminili, come nel caso degli inventari dei Gonzaga di Mantova: Ferrari 2011, 97). Il suo ritratto rappresenta in primis l’immagine di sé stessa e del suo status: Laura Dianti promuoveva innanzitutto il suo ruolo, così come i mercanti ferraresi promuovevano il loro. Ma l’intreccio delle loro rappresentazioni illumina una nuova sfaccettatura di quel gioiello rinascimentale che è il ritratto di Laura Dianti di Tiziano, impresa (e qui il termine calza a pennello, in ogni suo significato) della carriera di una donna, di una corte, di una città, di un mondo complesso quale è il Rinascimento.

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English abstract

The portrait of Laura Dianti painted by Titian has been the subject of different looks throughout its history, becoming from time to time the portrait of a concubine, a mistress, a wife, of an exotic beauty. The details of her clothing were interpreted accordingly, under the lens of decorum, virtue, exoticism. Thanks to some woodcuts linked to ferrarese manifacturers preserved in the State Archive of Ravenna, we can add a new reading of the painting, which shows a Laura Dianti dressed in the best productions of local manufacturers, some of which are intimately linked to her own history. Not so much Laura Dianti as an ante litteram influencer, but as a woman representing the fashion and the taste of her times and places.

keywords | Laura Dianti; Tiziano; Woodcut; Ferrara; Portrait; Guado; Berrette.

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo / To cite this article: L. Gigante, I vestiti della principessa. Laura Dianti fra Tiziano e qualche xilografia, “La Rivista di Engramma” n. 186, novembre 2021, pp. 85-107 | PDF 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2021.186.0012